“Il tempo dell’integrazione”: Dossier Statistico Immigrazione 2001

 

Relazione di Franco Pittau

 

 

            Il “Dossier” 2001 è molto ricco di spunti di riflessione e non si può presumere di riassumerne il contenuto in pochi minuti. Conviene fermarsi a pochi spunti, riportando una serie di dati e quindi vedendo il loro collegamento con il recente disegno di legge sull’immigrazione.

La Caritas équipe sinceramente la capacità di decidere con adeguatezza in materia di immigrazione dipenda unicamente o prevalentemente dai dati statistici; tuttavia, quando questi non si conoscono o vengono interpretati male, è grande il rischio di sbagliare.

Vediamo insieme se il riferimento alle statistiche ci può essere d’aiuto nell’attuale fase migratoria.

           

 

La tonalità dell’immigrazione oggi: il tempo dell’integraione

            Gli utilizzatori del “Dossier” e specialmente i giornalisti sono soliti chiedere quale è la tonalità prevalente del nuovo anno. Per rispondere a questa domanda bisogna concentrarsi sull’essenziale. E’ quanto cercherò di fare, iniziando però con qualche pennellata sulla situazione migratoria attuale in Italia.

            Questi sono i dati rilevati all’inizio del 2001:

un ragguardevole numero di 1388.000 persone registrati e 1.688.000 effettivamente soggiornanti tenuto conto anche dei minori;

un aumento contenuto rispetto allo scorso anno (11%),  per effetto dei nuovi venuti (155.000 tra lavoratori, familiari e venuti ad altro titolo) e dei regolarizzati;

un’incidenza di quasi il 3% sulla popolazione residente, a fronte di una media europea del 3%;

una collocazione stabile tra i grandi paesi europei di immigrazione insieme a Germania, Francia, Gran Bretagna e Svizzera;

una diffusione degli immigrati in tutto il paese, anche se con una maggiore concentrazione nel Nord (55%) e nei comuni capoluogo (47%);

una composizione molto variegata di gruppi nazionali  (europei 40%, africani 28%, asiatici 20%, americani 12%);

la copresenza di molte fedi, con la religione cristiana (48%) che viene prima di quella musulmana (37%) e delle religioni orientali (7%);

una forte tendenza all’inserimento stabile, a partire dall’ormai consistente numero dei minori (278.000) ;

un crescente fabbisogno del mercato lavorativo italiano (per gli immigrati sono stati creati in un anno 110.000 nuovi posti di lavoro).

            Preso atto di queste tendenze, quale è dunque la tonalità prevalente dell’immigrazione oggi in Italia? E’ la sua connotazione come dimensione strutturale della nostra società, perché è entrata in simbiosi con la società e con il mondo del lavoro. Questa evoluzione si riassume nel motto “Il tempo dell’integrazione”.

            Questa tonalità è assolutamente nuova? Rispondo: sì e no. Non è un aspetto nuovo in quanto gli indici di questo processo sono andati diventando sempre più forti a partire dalla seconda metà degli anni ’90. Rispondo invece che si tratta di un fatto nuovo perché il radicamento dell’immigrazione stenta ad essere assunto da tutti gli italiani, che continuano a restare divisi tra accettazione e rifiuto.

            Aggiungo che anche l’Italia costituisce sbocco per i flussi irregolari, tutto sommato abbastanza controllato tenuto conto di quanto avviene in altri paesi,  a partire degli Stati Uniti paese dove si trovano 11 milioni di persone senza autorizzazione. Non esistono stime ufficiali per l’Italia: gli autori più prudenti parlano di 200/300 mila persone. Si tratta di un problema serio, che non accredita né l’idea di un paese impenetrabile né quella di un paese colabrodo e che non fanno venir meno l’attenzione maggioritaria che va dedicata agli immigrati regolari,.

Infine una parola sui rifugiati. L’enorme sforzo, che talvolta pensiamo di fare, si scioglie d’incanto di fronte all’eloquenza delle cifre: nel 2000 nell’Unione Europea sono state presentate 495.000 richieste d’asilo, delle quali solo 16.000 in Italia (una quota pari ad appena il 3%): sotto questo aspetto siamo un paese tutt’altro che accogliente.

 

 

In prevalenza lavoratori, ma non solo forza lavoro

            Gli 840.000 immigrati autorizzati a lavorare in Italia costituiscono il 3,6% della forza lavoro italiana (23,5 milioni di unità). Tra i lavoratori immigrati ( uno ogni 17 residenti) la disponibilità allo spostamento da un comune all’altro è tre volte più alta rispetto a quanto avviene tra gli italiani. C’è grande bisogno delle loro prestazioni, visto che nell’arco di un anno sono state effettuate  512.000 assunzioni a fronte di 410.000 licenziamenti (410.000). I dati dimostrano due cose: ogni 10 nuovi assunti 1 è immigrato, con una incidenza superiore alla loro incidenza sulle forze lavoro; il saldo tra assunzioni e licenziamenti è positivo, perché evidenzia 110.000 nuovi posti di lavoro; i posti di lavoro; non esiste se non in minima parte il posto stabile e però, passando da un lavoro all’altro, c’è una continuità frammentata nell’occupazione. Un altro dato è consolante: tra gli immigrati, secondo i dati desunti dai permessi di soggiorno, i disoccupati sono meno di 91.000, e cioè 1 su 10, all’incirca lo stesso livello che si riscontra tra gli italiani e, per giunta, con una prevalente incidenza di quanti si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro (sia che stessero già in Italia o che siano venuti direttamente dall’estero come è avvenuto per 58.000 persone). E’ anche molto alto il livello di sindacalizzazione (223.000 iscritti), mentre ì meno soddisfacente  il numero degli immigrati che lavorano in nero (tra i 350.000 e i 400.000 iscritti), anomalia questa tipicamente italiana.

Questi sono i numeri dello scenario lavorativo, rispetto al quale il disegno di legge del Governo contiene sostanziali innovazioni. Da una parte si propone che l’ingresso e la permanenza del cittadino  straniero siano più strettamente legati alla sua attività lavorativa tramite il “contratto di soggiorno”, che verrà sottoscritto prioritariamente con quelli che avranno seguito corsi di formazione professionale organizzati dall’Italia all’estero. Dall’altra si propone di sopprimere, sia le liste di prenotazione dei candidati all’immigrazione in Italia, gestite nei paesi convenzionati (esperienza questa già avviata) e negli altri paesi (possibilità finora solo prevista), sia la possibilità di venire in Italia garantiti ma non a spese dello Stato in forza di una prestazione di garanzia di cittadini italiani, di parenti o conoscenti.

            Il “contratto di soggiorno” è in qualche modo simile, anche se più restrittivo, alla chiamata nominativa prevista dalla legge 943/1986. Ora dall’entrata in vigore di tale legge fino alla legge 40 del 1998 si sono rese necessarie quattro regolarizzazioni, che hanno interessato quasi un milione di immigrati, per ripescare con un provvedimento straordinario quelli che i meccanismi di ingresso troppo ristretti condannavano alla irregolarità.

            E’ la riflessione sui dati statistici, protrattasi per 12 anni, che porta ad evidenziare questi aspetti:

-       la chiamata nominativa ha funzionato per i lavori qualificati, in parte per i lavoratori stagionali e in buona misura per i lavori di manovalanza nelle grandi aziende;

-       la venuta sotto garanzia, attuata per la prima volta nel 2000, ha permesso di dare uno sbocco legale alla predisposizione che hanno gli immigrati, in Italia e in tutti i paesi del mondo, a far venire parenti e amici;

-       la venuta sotto autosponsorizzazione alla ricerca del posto di lavoro è stata concepita come una via valida per contrastare il monopolio degli scafisti per l’accesso in Italia e ha tenuto conto del fatto che tutte le famiglie e tanti piccoli imprenditori sono disposti ad assumere solo dopo aver conosciuto i lavoratori interessati.

-       Le liste di prenotazioni, iniziate a sperimentare con l’Albania e con la Tunisia, hanno iniziato a dare risultati soddisfacenti.

A questo punto vengono naturali delle domande.

            Dal punto di vista statistico: sopprimere questi meccanismi, introdotti appena da qualche anno, non rischierà di creare nuovi ingorghi? Sarà sufficiente per evitare questo rischio l’inasprimento delle misure repressive?

Dal punto di vista societario: la precarizzazione del lavoratore immigrato è funzionale oppure scarsamente rispondente ai bisogni di un mercato che libera gli spazi per mancanza di italiani? Il ristretto tempo di sei mesi per cercare un lavoro non espone a un ricatto dei datori di lavoro e a una rigidità non rispondente alla pratica italiana di evasione contributiva?

 

Per arrivare all’integrazione bisogna volerla

            Il radicamento dell’immigrazione in Italia non è solo di ordine quantitativo. Possiamo ora completare sotto l’aspetto qualitativo le statistiche riportate in precedenza.

            Innanzi tutto bisogna ricordare che i motivi prevalenti di soggiorno sono già di per sé l’indice della stabilità dell’insediamento: è presente per lavoro il 61% dei soggiornanti e per famiglia il 25%. Si tratta sempre di persone mediamente più giovani rispetto agli italiani e anche molto sane,  ma la maggioranze non è più costituita da celibi e nubili. A prevalere sono le persone sposate (676.000) e però appena un quarto di esse ha la prole con sè e spesso non ha neppure il coniuge vicino. A proposito dei ricongiungimento familiari viene da precisare che il problema non è tanto di impedire i pochi casi di venuta dei genitori a carico o di qualche parente portatore di handicap, bensì di facilitare molto di più la venuta di coniugi e figli. In considerazione dei figli che nascono in Italia (25.000) e di quelli che vengono dall’estero i minori sono aumentati (278.000) come anche quelli iscritti a scuola (140.000): ormai non si tratta più di persone sole ma sempre più di famiglie. L’Italia si può considerare a pieno titolo un paese multiculturale con una ricchezza di ben 180 lingue immigrate.

            Vi sono anche aspetti che indicano un processo di inserimento più difficoltoso. I matrimoni misti sono 13.000, ma ancora pochi in proporzione a tanto avviene negli altri paesi; i 9.500 casi di cittadinanza rappresentano, rispetto alla media europea, un tasso tre volte inferiore; l’associazionismo ha subito uno stop dai primi anni ’90; la ricerca di una casa riserva il più delle volte amare sorprese; nel 2000 un atto di violenza contro gli immigrati è stato commesso ogni 25 ore.

Per avere l’integrazione, bisogna volerla: paradossalmente a creare difficoltà sulla via dell’integrazione possono essere proprio gli italiani. Riportando il discorso al disegno di legge governativo, esso sembra interessato a una riedizione del “lavoratore ospite” che è stata lasciata cadere anche in  Germania ha lasciato cadere.

Tra gli elementi di precarizzazione del testo proposto si possono citare: il pagamento da parte del datore di lavoro delle spese di rimpatrio (che tra l’altro in precedenza era stato assolto in forma contributiva e quindi meno onerosa), le restrizioni nella durata del permesso, la previsione di sei anni di residenza prima della concessione della carta di soggiorno, le già citate restrizioni nei ricongiungimenti, l’assoluta mancanza di previsioni che potenzino o introducano misure di inserimento dei nuovi cittadini. Il progetto del governo appare sbilanciato verso la repressione dell’immigrazione clandestina senza una debita attenzione agli aspetti connessi all’integrazione degli immigrati.

In conclusione, alla luce dei dati statistici, possiamo chiedere a noi stessi se ci ispiriamo a criteri di chiusura perché l’immigrato è in prevalenza un criminale o un possibile delinquente. In effetti si è pronunciato in tal senso il 72% degli intervistati nell’ambito di un’indagine condotta dall’Osservatorio europeo contro il razzismo. Nel “Dossier”, dove si trovano non poche pagine dedicate al rapporto tra immigrazione e criminalità, da anni non seguiamo gli “studiosi del misurino”, quelli che sono intenti a stabilire –per lo più secondo criteri non scientifici- quanto gli immigrati siano, per l’appunto, più delinquenti degli italiani: nel “Dossier” di quest’anno dimostriamo che il tasso di detenzione degli immigrati regolari è più basso degli italiani, ma, cosa più importante di questo dettaglio, cerchiamo di portare il lettore a una riflessione seria su concetti impegnativi quali sono la delinquenza, la prevenzione e la repressione.

            In una indagine da noi citata della Commissione Nazionale per l’Integrazione risulta che gli immigrati, per quanto si vedano male inquadrati dagli italiani, ritengono che gli italiani possano essere solidali con loro. E’ un’apertura di fiducia, che merita di essere raccolta e per riuscirci, alle misure repressive deve fare da adeguato contrappeso l’offerta di diritti.

            Cosa si può auspicare, in conclusione, cercando di far tesoro della lezione dei numeri? Si può fare riferimento alle indicazioni della Commissione Europea che, dopo un lungo periodo di disattenzione, imperniato sulla parola d’ordine “immigrazione a crescita zero”, ha dato l’avvio a un periodo di ripensamento imperniato su queste piste: partenariato con i paesi di origine; integrazione ed equo trattamento, prevedendo l’attribuzione di una cittadinanza civile ispirata alla “carta dei diritti” di Nizza, al fine di garantire la coesione sociale; gestione dei flussi, inizialmente temporanei ma da rendere a carattere stabile, secondo un’ottica globale e sotto un coordinamento comunitario e una serie di competenze nazionali. E’ un buon riferimento anche per il legislatore italiano.