L’immigrazione Kurda come banco di prova

per la politica migratoria europea

 

Ferruccio Pastore (CeSPI)

 

Appunti per una relazione al convegno su:

“I Kurdi in Europa: dal diritto d’asilo ai diritti sociali”

 

Roma, 29 novembre 2002

 

 

 

 

1. La questione kurda rappresenta indubbiamente un nodo fondamentale del problema dell’asilo in Europa.

Nel decennio 1992-2001, turchi e iracheni – in massima parte appartenenti alle minoranze kurde dei due paesi – hanno rappresentato rispettivamente il secondo e il terzo gruppo nazionale tra i richiedenti asilo nell’insieme dei paesi industrializzati (Annuario ACNUR 2001).

Questa percentuale è ulteriormente cresciuta nel corso degli ultimi anni, durante i quali i due gruppi suddetti hanno rappresentato stabilmente intorno al 15% del totale dei richiedenti asilo nei paesi più sviluppati.

E la percentuale cresce ancora se, invece di considerare le domande di asilo si considera il numero d coloro che sono stati autorizzati a rimanere, con status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra, oppure a titolo di protezione sussidiaria.

Questa stessa percentuale cresce ancora di più, se guardiamo all’Italia, dove nel 2001 le persone in provenienza dall’Iraq e dalla Turchia hanno rappresentato in assoluto le prime nazionalità tra i richiedenti asilo, rispettivamente con 1.985 e 1.690 domande, su un totale di 9.620 domande presentate.

 

 

2. L’esito del processo di comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione ed asilo è dunque suscettibile di incidere profondamente sulla gestione concreta dell’esodo kurdo in Europa occidentale.

D’altra parte, è ovvio che la questione kurda è in mano all’Europa in un senso molto più ampio e generale. Nel senso che il futuro della questione kurda è strettamente legato al futuro del processo di allargamento dell’Unione europea, al futuro della PESC, al futuro delle relazioni tra Europa e Stati Uniti e così via.

Su questi aspetti non mi soffermo ora, anche se spero che ci sarà tempo e modo di affrontarli nel dibattito.

 

 

3. In questi pochi minuti, vorrei invece mettere a fuoco tre nodi problematici, relativi al modo in cui l’Europa affronta l’emigrazione kurda, la quale peraltro rappresenta l’unico punto di contatto diretto tra le società europee e la questione kurda, altrimenti percepita come piuttosto remota.

I tre nodi problematici sono i seguenti:

 

a) la definizione di rifugiato o, più precisamente, la predefinizione di chi può essere un rifugiato.

In occasione dell’ultimo Consiglio dei ministri dell’Interno e della Giustizia europei (quello di metà novembre; il Consiglio di dicembre si chiude proprio oggi), gli Stati membri hanno approvato una dichiarazione con cui si impegnano a trattare le domande d’asilo provenienti dai paesi candidati, a partire dalla firma del trattato di adesione, come manifestamente infondate (salvo prova contraria, in casi particolari).

Già su questo orientamento si potrebbe discutere a lungo.

Ma c’è di più: l’Austria e il Regno Unito hanno infatti sottoposto, al Consiglio GAI che si sta svolgendo in queste stesse ore a Bruxelles, un progetto di dichiarazione che designerebbe tutti i paesi candidati e tutti quelli appartenenti all’Area Europea di Libero Scambio come paesi terzi sicuri, da cui in linea di massima non si accettano rifugiati.

Questo porterebbe, evidentemente, ad escludere la possibilità stessa di riconoscere come rifugiati i kurdi di Turchia.

Sembra che la maggioranza degli Stati membri sia ostile a questa impostazione, ma il fatto stesso che se ne parli – e che due paesi importanti siano schierati apertamente in questo senso – è un segnale significativo.

 

b) Il secondo nodo problematico a cui vorrei accennare brevemente è quello dei criteri di individuazione dello Stato membro responsabile per l’esame di una domanda di asilo.

Oggi, come sapete, questi criteri sono dettati dalla Convenzione di Dublino del 1990, che ha sostituito con piccole variazioni le norme in materia contenute nella Convenzione di Schengen.

Sapete anche che il principio chiave è che la responsabilità grava sul paese che ha consentito l’ingresso non autorizzato sul territorio dell’Unione europea.

L’applicazione di questo criterio porta a una distribuzione diseguale della responsabilità per l’esame delle domande d’asilo, che grava sproporzionatamente sui paesi di frontiera, come l’Italia e la Grecia nel caso delle migrazioni irregolari dal Medio Oriente.

Per questa ragione, diversi paesi - tra cui appunto l’Italia - hanno messo in discussione la Convenzione, chiedendone una revisione. Nel frattempo, la Convenzione di Dublino è quasi paralizzata nel suo funzionamento quotidiano, con pochissime riammissioni effettivamente compiute.

Il punto di vista italiano è che la maggioranza dei movimenti secondari, cioè di coloro che chiedono (o non chiedono) asilo in Italia, ma poi proseguono verso la Germania, verso la Svezia o verso la Danimarca, non ha come causa principale lo status più vantaggioso del richiedente asilo in quei paesi, bensì la presenza in quei paesi di forti comunità immigrate che fungono da poli di attrazione.

Su queste basi, l’Italia e la Grecia chiedono che si aggiungano altri parametri per individuare lo Stato responsabile, primo fra tutti la possibilità di provare un periodo di soggiorno irregolare nel paese stesso.

In altri termini, se il migrante X è sbarcato sulle coste siciliane, ma poi è arrivato in qualche modo in Germania e lì è vissuto per – supponiamo – più di sei mesi, o più di un anno, allora la responsabilità per l’esame della sua domanda d’asilo si trasferisce dall’Italia alla Germania.

Dico tutto questo perché una quota difficile da determinare, ma sicuramente molto significativa dei movimenti secondari dall’Europa mediterranea all’Europa continentale, dall’Italia alla Germania in particolare, è sicuramente rappresentata da migranti/richiedenti asilo kurdi, le cui comunità in Germania rappresentano– come sapete tutti molto bene – dei potenti magneti migratori.

Quindi la revisione della Convenzione di Dublino ha implicazioni dirette e profonde per il modo in cui la migrazione kurda verrà gestita dai paesi dell’Unione.

 

c) Terza ed ultima considerazione, relativa a un ultimo nodo problematico insito nell’approccio europeo all’emigrazione kurda. Mi riferisco al problema delle modalità di accesso fisico allo spazio di asilo, ossia al territorio dell’Unione europea.

Sappiamo ormai molto bene che in un gran numero di casi, se non nella maggioranza dei casi, l’unica via di accesso al territorio UE è quella offerta dalle organizzazioni criminali dedite al traffico di persone.

Sappiamo questo, anche se - per la verità – sappiamo ancora molto poco, troppo poco, della struttura di questo mercato criminale, della composizione delle organizzazioni e dei rapporti tra esse, dell’intreccio di collusioni e corruzione che sta intorno al traffico, del ruolo degli stessi network kurdi nel sistema del traffico. Ma non è di questo che parliamo oggi.

Quello che volevo ancora dire, prima di concludere, è che il problema dell’accesso fisico al territorio dell’Unione è una questione politica ed etica fondamentale. Un’Europa che affidi l’efficacia del suo sistema di protezione dei diritti umani all’efficienza dei network di trafficanti non è un’Europa moralmente degna e politicamente credibile.

La Commissione europea, rendendosi ben conto di questo, ha recentemente commissionato due studi:

-       uno sulla possibilità di sviluppare a livello europeo un sistema cosiddetto di off-shore asylum applications, del tipo di quello che gli Stati Uniti gestiscono nella Turchia orientale con l’ausilio dell’ACNUR;

-       un altro studio promosso dalla Commissione europea riguarda la fattibilità di un programma europeo di resettlement di rifugiati riconosciuti, da paesi terzi verso il territorio dell’Unione.

Ovviamente entrambi questi studi toccano argomenti di estrema, vitale rilevanza per la gestione della emigrazione kurda da parte dell’Unione europea. Nel contempo, entrambi questi studi sollevano problemi enormi:

- problemi di ordine politico: soluzioni di questo tipo presuppongono infatti un livello di coesione e incisività nella politica estera europea, che oggi manca drammaticamente;

- ma anche problemi di ordine finanziario, perché un sistema di screening o di asylum adjudication in loco, oppure un sistema di resettlement europeo implicherebbero forme e metodi di burden sharing, principi condivisi e immediatamente operativi di solidarietà tra Stati membri, che purtroppo non esistono ancora.

E proprio su questi nodi specifici si gioca il futuro dell’approccio europeo alla emigrazione kurda, ma anche – più in generale – il futuro della politica migratoria europea.