LA TRISTE STORIA DI BROZI EDMIR

 

 

   Brozi Edmir è un giovane albanese di ventun anni. Nel 2000 giungeva clandestinamente in Italia, come tanti altri suoi connazionali in cerca di lavoro: nel suo paese non aveva più opportunità, il padre era stato fucilato perché “disfattista” dal regime di Ramiz Alia dieci anni prima e i suoi parenti erano a poco a poco tutti partiti.

   Appena varcato il confine, il 25 ottobre 2000, veniva intercettato dalla Questura di Udine ed espulso in via amministrativa perché clandestino.

   I fogli di carta che gli avevano dato erano scritti in italiano, ma Edmir non capiva l’italiano e nemmeno lo sapeva leggere.

   Una sintesi del decreto di espulsione era tradotto in inglese: deportation order, c’era scritto, ma lui l’inglese non l’aveva studiato.

   Edmir perse quei fogli, rimase in Italia, si trasferì a Torino, lavorò sodo per guadagnarsi il pane in attesa di una possibilità di regolarizzazione.

   Trovò una impresa di pulizie disposta ad assumerlo che presentò alla Questura di Torino una richiesta di nulla osta all’ingresso sul territorio nazionale per lavoro subordinato, anche la Direzione Provinciale del Lavoro aveva autorizzato la sua assunzione.

   Senonché, dalla consultazione dell’archivio centrale elettronico saltò fuori che “il signor Brozi Edmir risulta essere stato espulso dall’Italia con il decreto di espulsione CAT. A11/00/P.S. in data 25.11.2000 ... pertanto lo stesso è inammissibile nei paesi dello spazio unificato Shengen”.

   Edmir ricorda, capisce che quel foglio ormai perduto cui non aveva dato importanza, o meglio, di cui non aveva capito il contenuto era una espulsione che non gli consentiva alcuna vita regolare nella fortezza Europa.

   Da questa presa di coscienza nasce la decisione di rivolgersi ad un avvocato e di provare a cancellare quell’espulsione.

   Una via d’uscita forse c’è: dal luglio scorso una importante sentenza della Cassazione ha deciso che: “... poiché la legge richiede che il provvedimento di espulsione sia portato a conoscenza dell’interessato con modalità che ne garantiscano in concreto la conoscibilità, la sua mancata traduzione nella lingua del suo paese di origine o in altra lingua da lui conosciuta, lede il diritto di difesa ...”.

   Questa sentenza ha fino ad ora consentito a molti altri stranieri, nelle stesse condizioni di Edmir, di vedere annullate vecchie espulsioni amministrative per mancata traduzione del decreto espulsivo nella lingua conosciuto dallo straniero.

   Edmir decide di fare ricorso.

   Il 20 febbraio si presenta al Tribunale di Udine.

   Davanti alla porta del giudice ci sono un avvocato di Udine, Edmir e un’altra persona che però non è l’interprete di albanese, è un ispettore di polizia.

   Inizia l’udienza e il giudice, seduta stante, dichiara inammissibile il ricorso perché non è stato allegato il decreto di espulsione: ma Edmir non poteva allegarlo perché l’aveva perso chissà dove.

   “...Il ricorso si appalesa di per sé inammissibile non essendo data al giudice la possibilità di verifica alcuna ...” ma nel ricorso erano indicati gli estremi del decreto di espulsione e il giudice poteva benissimo ordinare alla Prefettura, presente in persona di un ispettore di polizia, di esibirlo!

   E ancora “... appare quantomeno strano che nell’arco di due anni il ricorrente non si sia curato di capire la portata ed il contenuto ...” ma se non l’aveva più!

   Attenzione: “... né abbia avuto modo di farselo tradurre ...” sic! Ma la legge non dice che devono tradurglielo??

 

EPILOGO

 

   L’udienza è finita, il giudice esce a prendere il caffè, i poliziotti prendono Edmir e, seduta stante, lo portano all’aeroporto di Bologna per il rimpatrio immediato.

   Edmir è distrutto, non vuole partire, non ha nulla con sé, in Albania c’è solo più un vecchio zio. I poliziotti imbarcano gli albanesi, Edmir si sdraia per terra, oppone l’ultima, strenua resistenza passiva. I poliziotti lo sollevano di peso, lo caricano sull’aereo a forza, il portellone si chiude.

 

   Appartengo a quella minoranza di persone che ritengono che i provvedimenti dei giudici vadano censurati con i rimedi previsti dalla legge, appelli e  ricorsi. E questo sarà presto fatto.

   Ma quando si scambiano le aule di giustizia per caserme di polizia, allora vuol dire che qualcosa non funziona più, quando una persona entra in un Tribunale per chiedere giustizia e viene rispedita direttamente al suo paese, allora vuol dire che i diritti delle persone non contano più nulla.

   E allora il significato politico di questa microstoria è un chiaro avviso dal sapore intimidatorio: non osate chiedere giustizia. Il che è l’esatto contrario di un faticoso percorso che in molti stiamo facendo quotidianamente con i nostri amici stranieri. Emersione dalla clandestinità è educazione alla legalità, premessa necessaria per una reale integrazione.

 

 

Guido Savio