Chiara Favilli - L’istituzione di un organismo per la promozione delle pari opportunità prevista dalla normativa comunitaria - in corso di pubblicazione in Il Diritto dell’Unione Europea, 2002, n. 1

 

Il 29 giugno 2000 il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la direttiva 2000/43 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (GUCE 18 luglio 2000, n. 180, pp. 22-26), dando così seguito all’art. 13 del Trattato CE, introdotto dal Trattato di Amsterdam. Tra le varie misure contenute nella direttiva vi è quella disposta dal capo III relativo agli “Organismi per la promozione della parità di trattamento”, il cui art. 13 recita: “Gli stati membri stabiliscono che siano istituiti uno o più organismi per la promozione della parità di trattamento di tutte le persone senza discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica. Tali organismi fanno eventualmente parte di agenzie incaricate, a livello nazionale, della difesa dei diritti umani o della salvaguardia dei diritti individuali. 2. … tra le competenze di tali organismi rientrano: l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni …; lo svolgimento di inchieste indipendenti ….; la pubblicazione di relazioni indipendenti …”.

Il testo originario della proposta di direttiva, elaborato dalla Commissione, definiva espressamente l’organismo come indipendente. In fase di negoziazione tale termine è stato soppresso soprattutto per le preoccupazioni in merito alle implicazioni finanziarie sollevate da alcune delegazioni. Con una soluzione pragmatica si è allora optato per omettere tale attributo sottolineando che ciò che è essenziale è che l’organismo sia in grado di svolgere le funzioni ad esso attribuite in modo indipendente, lasciando quindi al legislatore nazionale il compito di stabilire come questo possa essere garantito (A. Tyson, The Negotiation of the European Community Directive on Racial Discrimination, in European Journal of Migration and Law, 2001, pp. 199-229). Se si considera che, in base all’art. 3 della direttiva, l’organismo in oggetto può svolgere inchieste indipendenti rivolte sia al settore pubblico sia al settore privato, risulta chiaro come la garanzia dell’indipendenza sia un requisito necessario anche se solamente implicito. In questo senso dispone anche l’art. 8bis della proposta di modifica della direttiva 76/207 sulla parità di trattamento tra uomini e donne, richiedendo l’istituzione di “un organismo indipendente per l’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne” (proposta modificata COM (2001) 321 del 7 giugno 2001, in GUCE C 270 E, 25 settembre 2001, pp. 9-21).

L’istituzione di organismi di questo tipo è prevista in alcuni documenti internazionali che li qualificano come indipendenti. Così la General policy recommendation n. 2 “Specialised bodies to combat racism, xenophobia, antisemitism and intolerance at national level” adottata dalla European Commission against Racism and Intolerance del Consiglio d’Europa e richiamata espressamente dalle conclusioni generali della conferenza europea contro il razzismo tenutasi a Strasburgo il 13 ottobre 2000, “All different all equal, from principle to practice”. Tale raccomandazione indica i principi che gli Stati devono rispettare nell’istituzione degli organismi in oggetto. Tra questi vi è il principio n. 5, “Independence and accountability”, secondo il quale gli organismi “should function without interference from the State and with all guarantees necessary for their independence including the freedom to appoint their own staff, to manage their resources as they think fit and to express their views publicly”. Analogamente le stesse conclusioni generali della conferenza di Strasburgo dichiarano, al par. 21, che “the European Conference underlies the essential contribution of independent specialised bodies at national, regional or local levels”.

Anche il programma d’azione approvato dalla Conferenza delle Nazioni Unite di Durban prevede, al par. 90, che gli Stati debbano “establish, strengthen, review and reinforce the effectiveness of independent national human rights institutions, particularly on issues of racism, racial discrimination, xenophobia and related intolerance richiamando i Principles relating to the status of national institutions for the promotion and protection of human rights”, i cosiddetti principi di Parigi, annessi alla risoluzione dell’Assemblea generale n. 48/134 del 20 dicembre 1993.

Poiché in Italia non esiste alcun organismo equiparabile a quello richiesto dall’art. 13 della direttiva, l’adeguamento del nostro ordinamento comporta o l’istituzione di un nuovo ente o l’attribuzione ad enti già esistenti di competenze aggiuntive (J.A. Goldston, Nuove prospettive in tema di discriminazione razziale: considerazioni a partire dalla direttiva 2000/43, in Diritto, Immigrazione, Cittadinanza, 2001, 2, p. 19). Il legislatore ha compiuto la scelta con la legge comunitaria del 2001 (approvata dal Parlamento il 20 febbraio 2002), il cui art. 29 riguarda l’attuazione della direttiva 2000/43. In particolare il comma 1, lett. i), prevede l’istituzione “nell’anno 2003 presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri di un ufficio di controllo e garanzia della parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti di garanzia, diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio o da un Ministro da lui delegato […]”. Questa scelta non pare però conforme alla direttiva.

Il legislatore ha interpretato le parole “organismo”, “body” o “institution” come equivalenti ad “ufficio”. Il problema non è tanto il termine quanto ciò che questo implica rispetto al requisito dell’indipendenza. Le caratteristiche indicate nell’art. 29 della legge comunitaria sono, infatti, tali da individuare un ufficio strettamente integrato nella struttura governativa la cui direzione è rimessa ad un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio o da un Ministro da lui delegato. Ora è vero che, se guardiamo agli analoghi organismi presenti in altri Paesi, europei ed extraeuropei, la nomina dei membri degli organismi compete in ultima analisi ai Governi. Ma occorre rilevare che si tratta in genere di commissioni collegiali. Ciò garantisce un certo pluralismo e, soprattutto, permette la partecipazione di soggetti appartenenti ai gruppi potenzialmente discriminati ed alle organizzazioni che lavorano in difesa di tali gruppi. La legge comunitaria, invece, configura una struttura analoga a quella degli altri uffici ministeriali e con un solo responsabile, anch’egli di nomina ministeriale. La relazione tecnica al disegno di legge comunitaria conferma questa interpretazione. L’onere finanziario annuo previsto, di 2.035.357 Euro è, infatti, giustificato per buona parte da spese di personale, ipotizzando l’ufficio composto, compreso il responsabile, da 41 unità, di cui 40 dipendenti tra funzionari e dirigenti. Non pare esservi alcuno spazio per soggetti rappresentanti le “vittime”, mutuando il linguaggio della dichiarazione della conferenza di Durban, né per le organizzazioni operanti in loro favore. A conferma vi è l’art. 29, comma 1, lett. i), che dispone che l’ufficio “possa avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato nonché di esperti e consulenti”. Si deve notare, invece, che l’art. 12 della direttiva espressamente richiede agli Stati membri di incoraggiare "il dialogo con le competenti organizzazioni non governative [...] che hanno un interesse legittimo a contribuire alla lotta contro la discriminazione fondata sulla razza e l’origine etnica". Una scelta diversa da quella compiuta dal legislatore avrebbe potuto, quindi, rendere più agevole l’instaurazione del dialogo con la società civile che, tra l’altro, sarebbe stato auspicabile fosse già iniziato a partire dall’attuazione stessa della direttiva e proprio dall’istituzione dell’organismo per la promozione delle pari opportunità. Tale dialogo, infatti, avrebbe potuto offrire un contributo prezioso verso l’identificazione delle modalità di attuazione della direttiva maggiormente adeguate rispetto agli scopi da perseguire.

La scelta di costituire un ufficio presso il Dipartimento per le pari opportunità è probabilmente dipesa anche dalla circostanza che la direttiva parli di “organismo per la promozione delle pari opportunità” sebbene il Dipartimento si sia occupato, sino ad oggi, solo di discriminazione di genere e l’istituendo ufficio debba occuparsi invece solo di discriminazione per motivi di razza e di origine etnica. Negli ultimi anni questa materia è stata di competenza del Dipartimento affari sociali della Presidenza del Consiglio, ora Ministero del lavoro e degli affari sociali, attraverso la Commissione per l’integrazione prevista dall’art. 46 del t.u. n. 286/1998 concernente la disciplina dell’immigrazione e della condizione dello straniero (S.O. GU n. 191 del 18 agosto 1998). Parte della normativa contro la discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, è, infatti, contenuta proprio nel t.u. n. 286/98, il cui art. 44, comma 12, inoltre, prevede l’istituzione da parte delle Regioni di centri di osservazione, informazione e assistenza legale per stranieri vittime delle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Norma ad oggi rimasta, in concreto, inattuata.

Non stupisce, quindi, che nel corso dell’iter di approvazione della legge comunitaria, la Camera dei Deputati abbia approvato un emendamento volto ad attribuire la competenza proprio alla Commissione per le politiche di integrazione dello straniero. Se da una parte questa scelta avrebbe consentito la partecipazione delle “vittime”, dall’altra si sarebbe rafforzata la concezione, prevalente in Italia, che tende a far coincidere immigrazione e discriminazione che, invece, in Paesi storicamente d’immigrazione, rappresentano due ambiti e concetti chiaramente separati. La scelta ha, comunque, avuto vita breve dato che nel corso dell’esame al Senato, con l’approvazione di un emendamento del Governo, è stata ripristinata la competenza in capo all’ufficio presso il Dipartimento delle pari opportunità, assecondando, come risulta dagli atti parlamentari, un accordo intervenuto tra le amministrazioni interessate (Commissione Politiche dell’Unione europea, Camera dei Deputati, mercoledì 30 gennaio 2002, p. 167).

Sebbene la creazione dell’ufficio delineato dall’art. 29, lett. i), della legge comunitaria susciti seri dubbi rispetto al requisito dell’indipendenza, occorre sottolineare che l’attribuzione ad un unico organismo delle funzioni di promozione delle pari opportunità comprendente, oltre alla lotta alla discriminazione per motivi di razza od origine etnica, anche il genere, presenta alcuni aspetti positivi. Altri Stati hanno preferito questo tipo di organismi che, anzi, hanno una competenza estesa anche ad altri motivi di discriminazione quali la religione, l’orientamento sessuale, l’età e l’handicap; si pensi alla Equality Authority in Irlanda, l’Equality Commission for Nothern Ireland o all’analoga commissione nei Paesi Bassi. La stessa direttiva ha previsto espressamente la possibilità di attribuire le funzioni di promozione delle pari opportunità ad un’agenzia incaricata del rispetto dei diritti umani. Anche l’art. 13 Trattato CE induce ad adottare un approccio orizzontale nella lotta alla discriminazione, approccio che, infatti, costituisce il perno centrale del programma d’azione di lotta contro le discriminazioni 2001-2006 (GUCE L, 303, del 2 dicembre 2002, pp. 23-28). Inoltre, la costituzione di un organismo unico per la promozione delle pari opportunità sarebbe rilevante in ordine al recepimento della direttiva 2000/78 del 27 novembre 2000 (GUCE L, 303, 2 dicembre 2000, pp. 16-22), anche questa emanata in attuazione dell’art. 13 Trattato CE e relativa alla discriminazione per motivi di età, religione o convinzioni politiche, orientamento sessuale e handicap, anche se, in questo caso, la creazione di un organismo non sia contemplata fra le disposizioni della direttiva. È vero che la stessa Unione ha creato l’Osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia, quale agenzia esterna ed indipendente, optando quindi per la creazione di un ente specializzato (Regolamento n. 1035/97/CE, in GUCE, L, 151, del 10/07/1997, pp.1-7). Ma proprio a questo riguardo vi è un dibattito in corso sull’opportunità di creare un'unica agenzia europea di tutela dei diritti umani eventualmente anche trasformando lo stesso Osservatorio di Vienna (European University Institute, Leading by example: a Human Rights Agenda for the European Unione for the Year 2000, Firenze, 1998, p. 7 e pp. 89-96).

Pur in mancanza di un’indicazione univoca in tal senso e considerando che spesso le scelte sono determinate più da ragioni economiche che dall’adeguatezza dello strumento individuato, sarebbe stato ragionevole se, in sede di attuazione della direttiva 2000/43, si fosse istituita un’unica agenzia indipendente, contribuendo, così, anche ad attenuare gli inconvenienti che l’attuale distribuzione di competenze è, con molta probabilità, destinata a procurare (C. McCruden, Regulating Discrimination: Advice to a Legislator on Problems Regarding the Enforcement of Anti-Discrimination Law and Strategies to Overcome them, in T. Lonen, P.R. Rodrigues, ed., Non-Discrimination Law: Comparative Perspectives, The Hague, 1999, pp. 295-312).