GIUdIT
Giuriste
d’Italia
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APPUNTI PER UN PROGRAMMA
L’associazione GIUdIT nasce innanzitutto dal desiderio di
costruire un luogo d’incontro tra donne giuriste: avvocate,
magistrate, universitarie, funzionarie della pubblica amministrazione ecc.
Tuttavia l’esigenza di un momento di scambio tra giuriste riconosce anche
la necessità che la discussione e il confronto non si chiudano nel
sapere giuridico, ma sappiano aprirsi al contributo di altre donne, non
giuriste e quindi non aderenti all’associazione, i cui percorsi
abbiano attraversato saperi e esperienze diverse: scienziate, storiche,
economiste, sociologhe, ecc., ed anche politiche e donne impegnate
nell’associazionismo, ecc. Queste donne saranno le interlocutrici
indispensabili del percorso di ricerca.
Ai
momenti di confronto interno e alle occasioni seminariali (è prevista la
creazione di un sito e di un gruppo di discussione) si affiancheranno anche
iniziative aperte e rivolte all’esterno, innanzitutto, ma non solo, alle
altre associazioni italiane e straniere di giuriste, o comunque
impegnate su tematiche concernenti la differenza sessuale e l’empowerment delle donne.
Un altro versante della attività associativa consisterà
nella promozione di autonome iniziative di ricerca e di formazione, da
finanziare attraverso l’accesso a fondi pubblici, europei e nazionali.
Mentre l’iscrizione è riservata alle donne giuriste, per
singole iniziative potranno essere formati gruppi di coordinamento scientifico
di cui potranno far parte, oltre non iscritte, e dunque donne non giuriste,
anche uomini. Le attività esterne, formative e di ricerca di GIUdIT
potranno essere aperte agli uomini. Siamo infatti consapevoli della necessità
di costruire percorsi di confronto e riflessione comune, a partire dal
riconoscimento delle differenze.
PERCORSI DI RICERCA
Il rapporto tra esperienza femminile e diritto è sempre stato
problematico, e caratterizzato dalla distanza. In un ordinamento di impronta
patriarcale, la soggettività femminile resta in larga misura un
imprevisto.
Tuttavia il diritto positivo non è un sistema monolitico. Tutti
gli ordinamenti giuridici, specie negli ultimi decenni, sono stati attraversati
da tensioni e modificazioni provenienti da grandi fattori di mutamento sociale,
tra cui anche quelli derivanti dalla soggettività femminile. Il
femminismo, e per quel che ci interessa il femminismo giuridico, nelle sue
diverse componenti, è stato un costante fattore di critica e
decostruzione degli assetti tradizionali della teoria giuridica.
Un percorso di ricerca all'interno del diritto richiede di analizzare
le contraddizioni che aprono la possibilità di ulteriori processi di
modifica. Le principali si sono aperte al livello di interpretazione dei testi.
Specie nelle materie che hanno più diretta incidenza sul
corpo–mente delle donne e sulle scelte relative alla vita personale,
laddove cioè l’impatto della norma sulla soggettività
femminile è più immediato, si è registrato un ruolo attivo
e creativo della giurisprudenza, mentre la produzione legislativa ha subito una
grave battuta d’arresto a causa della difficoltà di riuscire a
trovare punti di mediazione condivisi.
In particolare nel nostro paese, dove si pone anche il problema di una difficile convivenza tra principio di laicità e pretese egemoniche della chiesa cattolica, le questioni sulle quali la soggettività femminile provoca un aspro conflitto di senso – come la riproduzione - sono apparse indecidibili secondo i paradigmi di norme che, formalmente generali e astratte, sono state progettate e formulate a misura di un soggetto nelle cui caratteristiche le donne non possono riconoscersi. Per questa ragione la potenzialità dialettica della soggettività femminile è sempre più affidata alla giurisprudenza.
Senza voler avallare una sorta di opposizione concettuale e politica
tra legge e giurisprudenza, e senza voler ignorare le tensioni che ciò
può creare con la cultura garantista, è necessario esplorare
tutte le possibilità di un approccio creativo all’interpretazione.
Oggi, la distanza tra l’esperienza femminile e il diritto può
essere rimessa a tema, può essere talvolta rimodulata o perfino rimessa
radicalmente in discussione attraverso la produzione di diritto che si compie
con l’interpretazione.
In proposito occorre tuttavia segnalare una persistente
difficoltà della giurisprudenza di misurarsi con l’approccio e le
tematiche della differenza sessuale in alcuni campi, ad esempio in materia di
discriminazione, ovvero laddove è più forte il conflitto con il
simbolico maschile, ad esempio in materia di violenza sessuale nel rapporto tra
coniugi. Va dunque sviluppato un lavoro di promozione culturale e di formazione
tra le operatrici e gli operatori del diritto. A questo scopo, una particolare
attenzione va prestata anche alla letteratura giuridica, che resta tuttora
assai poco attraversata da analisi segnate dall’ottica di genere. La
prospettiva, in questo senso, è quella di valorizzare il ruolo di
'sensibilizzazione' che la dottrina può svolgere con riguardo alle
tematiche di genere, tanto nelle aule universitarie quanto nell'orientare le scelte del legislatore e
delle stesse corti.
Al livello internazionale, sia pure con grande ritardo, si è
avviato un processo di positivizzazione delle situazioni giuridiche che
riguardano il corpo–mente delle donne, e di integrazione dei diritti
delle donne nel sistema dei diritti umani. Ne è un esempio la previsione
dello stupro, della gravidanza forzata, della prostituzione coatta e del
traffico di persone nello statuto della Corte penale internazionale. Anche in
questo caso, tuttavia, il grado di aderenza della normazione
all’esperienza drammatica delle donne coinvolte nelle situazioni di
conflitto passa necessariamente attraverso l’interpretazione dello
Statuto della Corte.
L’approccio creativo all’interpretazione, a sua volta, per
non degenerare in arbitrio, deve individuare dei criteri di autolimitazione.
L’interpretazione deve essere orientata a principi, che oggi vanno
desunti dalla lettura combinata della Costituzione e degli strumenti
internazionali. Ma questa operazione richiede a sua volta una rilettura dei
principi, e dunque un percorso di riflessione/revisione di orientamenti
interpretativi consolidati.
Il rapporto uguaglianza/differenza, la costruzione teorica
dell’autodeterminazione, la ricostruzione del catalogo dei diritti e
delle libertà fondamentali alla luce dell’esperienza femminile, le
questioni relative alle relazioni personali e familiari, all’orientamento
sessuale e all’identità di genere, alla presenza delle donne nelle
istituzioni rappresentative, sono altrettanti esempi della necessità e
della attualità di una rilettura degli stessi principi costituzionali
che devono orientare l’interpretazione, in campi altamente problematici
dal punto di vista della soggettività femminile. Oggi si richiede un
passo ulteriore. La critica alle strutture del diritto che il femminismo
giuridico ha altrove efficacemente condotto, alle dicotomie pubblico/privato,
corpo/mente, maschile/femminile, famiglia/mercato deve oggi condurre a
riconsiderare non solo le questioni più direttamente collegate con la
corporeità e l’esperienza femminile, già individuate come
cruciali dalla critica femminista del diritto. Anche le materie apparentemente più
lontane e tradizionalmente considerate neutre, come il diritto dei contratti,
vanno oggi rivisitate secondo quella chiave di lettura.
Lungo questi percorsi di
ricerca GIUdIT intende costituire un luogo di riflessione e di scambio di
esperienze, che consentano a tutte noi, impegnate in professioni giuridiche, di
confrontare, valutare, ed eventualmente massimizzare i risultati di
orientamenti interpretativi che riteniamo particolarmente significativi, sia
che essi derivino dalla pratica giudiziaria o dalla ricerca scientifica. Un
punto di partenza potrebbero essere le questioni che oggi si presentano come
problematiche e discusse nell’ambito del femminismo giuridico in campo
internazionale.
In generale si tratta di tornare a mettere a tema alcuni interrogativi
di fondo, anche a partire da ricerche e studi su argomenti particolari. In
primo luogo la teoria dei diritti. L’approccio femminista è stato
storicamente assai critico nei confronti della teoria dei diritti come percorso
di mera inclusione, secondo una logica inevitabilmente omologante. Tuttavia
è forse venuto il tempo di rimettere a tema questa problematica, ed
eventualmente di rivisitarla. La domanda da porsi nuovamente, oggi, è se
un approccio universalistico sia ancora necessariamente una proiezione del neutro maschile, ovvero
se l’universalismo possa essere riconsiderato alla luce di una doppia
operazione critica: la valorizzazione delle differenze e della libertà
di scelta individuale, di modo che ciascuno/a possa scegliere e coltivare il
proprio modo di essere (Nussbaum). In questo senso il diritto, e i diritti,
assumerebbero la funzione di garanzia esterna dei percorsi individuali di
costruzione dell’identità.
Lungo questo percorso di rivisitazione, occorre tenere conto di alcuni
dati ed elementi di riflessione. L’approccio di genere comincia ad essere
preso in considerazione e ad essere integrato in un processo di
positivizzazione dei diritti delle donne nel quadro dei diritti umani. Oltre
allo Statuto della Corte penale internazionale, vanno citati il Protocollo alla
Convenzione contro le discriminazioni (CEDAW) e il Protocollo sul traffico di
persone, in particolare donne e minori, aperto alla firma a Palermo insieme
alla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale).
La valorizzazione dell'approccio critico al diritto rende possibili
percorsi di autodefinizione giuridica dell’identità, alla luce dei
quali sia il catalogo dei diritti sia il contenuto dei singoli diritti possono
essere rivisitati alla luce dell’esperienza femminile (v. sentenze in
materia di riproduzione assistita; ricorsi e azioni previsti dagli strumenti
internazionali e dalla legislazione nazionale in materia di discriminazioni).
La teoria dei diritti comincia a presentare risvolti inediti alla luce
del dialogo interculturale. Il linguaggio dei diritti potrebbe costituire un
codice comune a culture che hanno pochi elementi di condivisione; inoltre
consentirebbe di individuare i criteri per definire le soglie oltre le quali il
rispetto per le differenze culturali deve cedere all’affermazione di
diritti individuali. Tuttavia, affinchè questa operazione non ricada
nella pura e semplice riproposizione di un universalismo giuridico insensibile
alle differenze, occorre riconsiderare la teoria e la pratica dei diritti alla
luce di una concezione non assimilazionista del dialogo interculturale.
Il problema di fondo su cui tornare a interrogarsi riguarda la
soggettività giuridica. Il soggetto di diritto è un concetto
storicamente segnato dall’idea di un soggetto astratto, che dovrebbe
riassumere la molteplicità delle individualità umane, ma che in
realtà è costruito sulle caratteristiche dell’individuo
appartenente al gruppo sociale dominante: maschio, adulto, di razza bianca,
possidente.
La nozione di capacità giuridica, complementare alla
soggettività come astratta titolarità di diritti, a sua volta
presuppone l’idea di un individuo razionale, capace di rivendicare e
azionare i propri diritti. Anche questo concetto non ha nulla di universale, ma
rispecchia gli assetti di potere all’interno della società.
Il discorso è destinato a complicarsi quando entra in gioco la
soggettività femminile, e soprattutto quando entra in gioco il corpo
femminile. Viene rimessa in discussione l’idea di una soggetto neutro e
astratto, ed emerge invece una soggettività differenziata, storicamente
situata, in relazione con altre e con altri. Vengono rimesse in discussione
tutte le dicotomie proprie della cultura occidentale: corpo-mente,
natura-cultura, razionale-irrazionale.
L’interrogativo che molte vanno ponendosi è se la
categoria di soggettività giuridica debba essere radicalmente rimessa in
discussione. La domanda, che rimanda alla questione dell’universalismo
giuridico, è se un approccio fondato sulla differenza richieda di
fuoriuscire dal paradigma dell’uguaglianza o se il paradigma egualitario
consenta, attraverso un approccio critico, di enucleare e valorizzare le
differenze, così come di includere un concetto che accomuna tutti gli
orientamenti del femminismo, cioè l’idea di un’individualità
in relazione.
LUOGHI DI CONOSCENZA
Il corpo
La tematica della corporeità negli ultimi anni fa
“esplodere” le nozioni di soggettività giuridica e lo stesso
paradigma dell’uguaglianza, su molti versanti. Inoltre diventa il fulcro
di molte questioni di bioetica. Il corpo esce dalla
“naturalità” e diventa oggetto di manipolazione. Diventa
sempre più evidente che occorre costruire una nuova idea di corpo e una
nuova idea di soggettività.
Tra le molte questioni che riguardano la corporeità, cruciale
resta quella dell’autodeterminazione. Nonostante i tentativi di
“incistarlo” nella legge sull’aborto, il principio di
autodeterminazione ha avuto una grande capacità espansiva, investendo
l’intero campo del diritto alla salute. Nel campo della bioetica il
principio di autodeterminazione designa oggi il potere di assumere liberamente
e consapevolmente tutte le decisioni essenziali per la propria vita. In questo
senso si parla di autodeterminazione in relazione alla scelta della terapia, o
alle decisioni di fine vita.
In tutto il campo della bioetica il principio di autodeterminazione
resta assai contrastato. Ma ancora più contrastato è il concetto
di autodeterminazione riproduttiva, inteso come riconoscimento di una speciale
posizione della donna in relazione alle scelte procreative. Le normative
sull’aborto, che in tutto il mondo si sono andate formando negli anni
’70, e che riconoscono l’autodeterminazione seppure in forme
diverse, vengono periodicamente rimesse in discussione. Si tende a negare
l’autodeterminazione in materia di riproduzione assistita, o
radicalmente, come è avvenuto in Italia nel corso del dibattito
parlamentare, ovvero in relazione ad alcune applicazioni più
problematiche (fecondazione post mortem, maternità surrogata, decisioni sugli embrioni
soprannumerari).
In materia di autodeterminazione, è possibile individuare tre
possibili percorsi di ricerca. L’autodeterminazione riproduttiva richiede
ancora di trovare una sistematizzazione teorica. Talvolta viene ricondotta al
principio di libertà personale (Ferrajoli), o al catalogo
“aperto” ex art. 2 della Costituzione, o al principio di
laicità dello Stato. In secondo luogo vanno individuate le forme di un
attacco strisciante che, senza mettere formalmente in discussione il principio,
colpisce di volta in volta l’effettività
dell’autodeterminazione, o atttraverso restrizioni nelle politiche
sociali (v. esperienza USA), ovvero attraverso la distorsione in senso
dissuasivo delle forme di counseling previste in varie forme da tutte le legislazioni,
ovvero ancora attraverso l’ambigua e confusa previsione di elargizione di
assegni in chiave antiabortista. Terzo, si potrebbero indagare i risvolti
dell’autodeterminazione in relazione alla riproduzione assistita, specie
con riferimento alle fattispecie che più direttamente ripropongono il
tema del bilanciamento di interessi. Una delle questioni che vanno indagate, a
questo proposito, è come superare l’impostazione, propria del
linguaggio dei diritti, che rappresenta la madre e il figlio come soggettività
oppositive.
Le relazioni personali e familiari
La famiglia è stata l’ambito nel quale si sono
storicamente affermati gli assiomi del possesso del corpo femminile da parte
del maschio adulto della famiglia, del ruolo subordinato della donna, del
paradigma dell’eterosessualità come unico modello valido di
rapporto di coppia e genitoriale. La famiglia è stata anche
l’unico luogo in cui l’ordinamento giuridico ha riconosciuto un
qualche diritto di cittadinanza agli aspetti emotivi, relazionali, emozionali
delle relazioni personali. Ma l’operazione è stata mediata
attraverso la costruzione della famiglia come ambito del tutto separato dalle
regole generali del diritto privato.
Nel nostro Paese legiferare sul diritto di famiglia si è
rivelato impossibile negli ultimi anni. In questo campo si gioca un importante
conflitto di senso, attorno al paradigma sociale e giuridico della coppia
eterosessuale. La chiesa cattolica continua a identificare e a difendere
strenuamente il modello unico della famiglia fondata sul matrimonio, anche
attraverso aperte ingerenze nella discussione politica e parlamentare. Ma anche
le forze politiche laiche, per esempio a proposito di riproduzione assistita,
si sono attestate sull’individuazione della coppia genitoriale eterosessuale
come sola possibile variante al modello matrimoniale.
La pluralità delle relazioni personali fondamentali e delle
forme familiari è un orizzonte di senso che richiede molti
approfondimenti. Una volta superata la concezione tradizionale della famiglia
come ambito sottratto al diritto, in quanto al suo interno vigeva la regola
patriarcale del potere del capofamiglia, occorre ancora lavorare per costruire
un’idea di normazione che possa sfuggire sia al rischio di un intervento
pervasivo e sostanzialmente autoritario del diritto nella sfera personale, sia
al rischio opposto di una normazione subalterna all’idea della famiglia
come parte di un mercato globale sostanzialmente sottratto alla regolazione
giuridica.
Lavori e responsabilità
Negli ultimi dieci anni è diventato sempre più evidente
che uno dei grandi fattori di mutamento sociale nel nostro paese è
l’ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro. Le donne sono
state storicamente penalizzate dal modello breadwinner, full time e per tutta la vita che non presentava alcun
margine per adeguare e calibrare le responsabilità e i carichi
lavorativi in relazione alle diverse fasi della vita e al variare delle
responsabilità familiari. In questa fase sono state le donne ad usufruire
in misura rilevante di alcuni strumenti di flessibilizzazione del mercato del
lavoro, che hanno consentito di rompere le rigidità che ne ostacolavano
l’accesso al lavoro, e ad utilizzare in larga misura le nuove forme
contrattuali, che hanno indubbiamente favorito l’aumento
dell’occupazione femminile.
Tuttavia si pone oggi il problema di costruire un nuovo e diverso
sistema di tutele, che non solo elimini le difficoltà per le donne di
accedere a tutti i posti di lavoro e rispecchi la pienezza delle
capacità professionali femminili, ma renda possibile e non penalizzante
la flessibilità dei moduli e tempi di lavoro, nonché il passaggio
tra diversi lavori e diversi regimi di orario, aumentando i margini di
autodeterminazione di donne e uomini circa le diverse forme di flessibilità
in rapporto alle esigenze della vita personale, attraverso forme appropriate di
negoziazione. Va inoltre promossa una riflessione sull’attuale sistema di
Welfare State e sulle innovazioni in corso, anche in termini di rapporto tra ordinamento
comunitario, nazionale e locale.
Un secondo possibile percorso di ricerca riguarda la
“conciliazione”, tra responsabilità professionali e
familiari. A partire da una riflessione sui congedi parentali e sulla normativa
in materia di maternità, si dovrebbe ripensare un modello di
condivisione delle responsabilità tra donne e uomini che tuttavia non si
identifichi con l’idea paritaria dell’intercambiabilità dei
ruoli genitoriali.
Inoltre si potrebbero indagare le implicazioni del lavoro di cura
svolto per il mercato, nel senso che, ad esempio, destinatarie di azioni
positive con specifica finalizzazione, potrebbero essere non solo le donne, ma
tutte le persone che svolgono lavoro di cura.
La politica
Il femminismo ha criticato e messo definitivamente in discussione la
separazione/gerarchizzazione tra pubblico e privato. Il femminismo culturale
(Gilligan) ha al suo interno un filone giuridico, che tenta di costruire una
teoria della giustizia a partire da valori propri delle donne, maturati in
un’esperienza femminile che ha le sue radici nella sfera privata (West).
Altri orientamenti del femminismo costruiscono una teoria della politica e
della giustizia a partire dall’opposizione di potere tra i due sessi
(McKinnon). In questa impostazione l’identità sociale delle donne
ha la sua origine nell’oppressione dell’uomo sulla donna.
Di qui occorre ripartire per porsi un interrogativo: come la presenza
di massa delle donne nella sfera pubblica cambia, anche teoricamente, lo
scenario del rapporto tra pubblico e privato? L’identità femminile
non può essere più considerata né come un dato
ontologicamente determinato, né come un prodotto storico del dominio
patriarcale, ma piuttosto come un processo di costruzione dell’identità
personale.
Dal punto di vista giuridico occorre approfondire il ruolo del diritto
nella costruzione sociale della soggettività. L’identità
personale, che il diritto contribuisce a rappresentare come un dato immutabile,
e a sua volta a cristallizzare e fissare (Minow) è invece sempre di
più un processo di negoziazione che si svolge nella sfera pubblica. Il
discorso sulla politica potrebbe essere impostato, da questo punto di vista,
come progetto sulle condizioni materiali e simboliche di questa negoziazione.
Partendo da qui si dovrebbero affrontare anche questioni come quelle
relative alla sfera della rappresentanza. GIUdIT intende affrontare una
riflessione fondata sull’idea che nell’attuale sistema il
“chi” rappresenta è altrettanto importante del “cosa”
rappresenta. La riflessione dunque mira ad approfondire il senso di una riforma
del sistema elettorale, i criteri – parità nell’accesso,
riequilibrio nella componente di genere – e le tecniche eventualmente
utilizzabili. Naturalmente la discussione terrà conto di tutte le
opinioni in campo, sia in materia di introduzione di sistemi improntati alla
promozione di un maggior numero di donne nelle assemblee elettive, sia in
relazione alla scarsa propensione delle donne alla partecipazione alle
competizioni elettorali, e alle ragioni dello scarso successo che le donne
spesso incontrano nell’affermarsi sul versante elettorale, sia con
riferimento alla critica del modo concreto in cui spesso viene agita le
presenza femminile, nelle sedi politiche e istituzionali, in un logica di
subalternità a modelli consolidati di far politica.
Differenza sessuale e differenze culturali
La convivenza di gruppi di diversa provenienza è un fatto
relativamente nuovo nel nostro paese, che si trova largamente impreparato ad
affrontarlo. La riflessione delle donne immigrate ci danno una chiave di
lettura di alcuni nodi del rapporto complesso tra appartenenza di gruppo,
differenza di genere, soggettività individuale.
Nel dibattito internazionale è stata recentemente sostenuta
l’esistenza di un rischio derivante dal multiculturalismo. Il rischio
starebbe nel fatto che i risultati ottenuti dalle donne in occidente, in
termini di riconoscimento ed effettività dei diritti, potrebbero essere
rimessi in discussione, o comunque subire una battuta d’arresto in dipendenza
dello sviluppo del dialogo interculturale e della legittimazione di pratiche
delle comunità di immigrazione che codificano il ruolo subalterno delle
donne (Moller Okin).
Questa posizione appare segnata da una sorta di approccio eurocentrico,
che nella specie porta a identificare le sole comunità di immigrazione
come culture patriarcali. Al contrario, vanno analizzati i complessi rapporti
tra diversi modelli, tra cui quello occidentale, tutti segnati sia pure in
varie forme sia dall’impronta patriarcale sia dalla crisi storica del
patriarcato. Le donne si trovano spesso a un difficile crocevia tra diverse
culture e diversi snodi critici di quelle culture, e costituiscono spesso un
elemento dinamico e dialettico del dialogo interculturale.
In questa ottica di genere, il multiculturalismo non può
significare acritica legittimazione di qualunque aspetto delle identità
collettive, compresa quella autoctona, e del resto non può significare
universalismo come omologazione al modello occidentale e indifferenza rispetto
alle diverse appartenenze culturali, se non altro perché entrambi gli
approcci finiscono col negare la soggettività femminile individuale.
In questo campo il diritto è chiamato al compito difficilissimo
di trovare di volta in volta i punti di equilibrio, sempre mobili, che
consentano di impostare correttamente nella scena pubblica il confronto di
convinzioni etiche, culturali, religiose, secondo una concezione nuova e
più ricca dello stesso principio di laicità. Occorre evitare che
il diritto contribuisca a fissare le identità collettive e così
ad impedirne lo sviluppo; a tale scopo è indispensabile garantire che
nel confronto pubblico possano esprimersi anche le differenze individuali, non
interamente riconducibili alle identità di gruppo. In questo senso occorre
ripensare tutta la strumentazione giuridica volta alla garanzia del principio
di non discriminazione e ripensare la stessa questione cruciale del razzismo.
La prospettiva potrebbe essere quella di costruire e rendere effettivo
un sistema di azioni in giudizio tali da consentire alle singole e ai singoli
di evidenziare il nucleo essenziale della propria identità culturale,
nel momento stesso in cui esse/essi fanno valere la natura discriminatoria del
comportamento illecito. In tal modo si aprirebbe la strada alla valorizzazione
dell’interpretazione come momento di riconoscimento
dell’autodeterminazione anche nel campo delle costruzione
dell’identità individuale, al crocevia tra diverse appartenenze.
Si potrebbero poi approfondire, anche con ricerche mirate, una serie di
problematiche e prospettive di riforma inerenti alle condizioni di vita e di
lavoro delle donne immigrate, tra cui le condizioni di acquisto e di
trasmissione della cittadinanza, le condizioni di ingresso e di soggiorno in
una prospettiva di genere, con particolare riferimento all’autonomia dei
diritti di soggiorno e al rapporto con i figli in caso di crisi familiare, la
valorizzazione delle risorse legate alle competenze femminili, tenendo conto
anche della diversità delle culture di provenienza, la violenza contro
le donne immigrate.
La violenza contro le donne
Il “taglio” culturale comune all’esperienza di molte
di noi, che peraltro sta alla base anche delle più interessanti
esperienze dei centri antiviolenza, è la fuoriuscita del discorso sulla
violenza dall’orizzonte di senso della vittimizzazione e la
valorizzazione dell’empowerment.
Dal punto di vista teorico ciò significa negare validità
al paradigma della violenza come cifra simbolica dell’oppressione
sessuale e perciò dell’intera esperienza femminile. Dal punto di
vista giuridico questa prospettiva presenta interessanti implicazioni: in primo
luogo, la critica degli strumenti di contrasto alla violenza che in nome della
tutela celano la pretesa di normare – e di normalizzare – la
sessualità femminile. Per contro, va studiata una qualità degli
strumenti giuridici di contrasto che valorizzino la libertà di
autodeterminarsi delle donne che hanno subito violenza, soprattutto con
riferimento a un circuito integrato, in cui possano interagire la repressione
giudiziaria, le attività di supporto e di assistenza legale finalizzate
allo svolgimento di un ruolo attivo della donna nel processo civile e penale,
gli istituti delle riparazioni e del risarcimento del danno, i meccanismi di
risoluzione extra-giudiziaria, soprattutto in relazione ad alcune forme di
molestia sessuale. Questo approccio potrebbe essere approfondito e sviluppato,
anche con ricerche ad hoc,
con riferimento all’applicazione della legislazione recente in materia di
violenza sessuale, abusi sui minori, tratta e violenza domestica.
In secondo luogo, andrebbe approfondito uno dei persistenti punti di
criticità della risposta giudiziaria alla violenza, che riguarda la
violenza intrafamiliare, poiché di fatto la stessa violenza sessuale
continua ad essere talvolta misconosciuta, e comunque a ricevere un trattamento
penale blando quando è commessa nell’ambito del matrimonio o
nell’ambito di una relazione personale preesistente.
Un altro punto di criticità da approfondire è l’intersezione
tra il problema della violenza contro le donne e il multiculturalismo, in
relazione a fenomeni gravi come le mutilazioni genitali, i matrimoni forzati o
la tratta. Il problema delle donne che si trovano in luoghi di intersezione
culturale va sempre tenuto presente quando a subire violenza è una donna
immigrata. Poiché l’approccio è quello di favorire la
riappropriazione del percorso di vita da parte dell’interessata, occorre
studiare strategie volte a garantire alla donna che ha subito violenza il
riconoscimento della sua identità culturale, e al contempo favorire
l’acquisizione di strumenti che rendano possibile il dialogo con la
cultura del paese ricevente.
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Organi sociali
Presidente
dott. Maria Grazia Giammarinaro
(giammarinaro@mclink.it)
Vicepresidenti
prof. Tamar Pitch
(tpitch@pronet.it)
prof. avv. Maria Virgilio
(millivirgilio@virgilio.it)
Consiglio direttivo
dott. Delia Cardia – Procura di Roma
avv. Carmen Currò – Foro di Messina
dott. Nunzia D’Elia – Procura di Roma
dott. Maria Grazia Giammarinaro – Tribunale di Roma
prof. Letizia Gianformaggio – Università di Ferrara
prof. Donata Gottardi – Università di Verona
prof. Maria Rosaria Marella – Università di Perugia
dott. Gabriella Muscolo – Tribunale di Roma
dott. Donatella Pavone –
Tribunale di Roma
avv. Marcella Pirrone – Foro di Bolzano
prof. Tamar Pitch – Università di Camerino
prof. Stefania Scarponi – Università di Trento
prof. avv. Maria Virgilio – Università di Bologna
STATUTO
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Articolo 1. Denominazione dell’associazione.
Con la denominazione “GIUdIT – Giuriste d’Italia -
ONLUS” è costituita in Roma una associazione senza fini di lucro
(Associazione).
Essa potrà esplicare la propria attività sull'intero
territorio nazionale.
Con delibera del Consiglio direttivo possono essere istituite diverse
sedi operative.
L'Associazione ha durata indeterminata.
Articolo 2. Finalità della associazione
L’associazione ha lo scopo di promuovere, secondo un’ottica
di genere, studi, ricerche, formazione, attività di promozione sociale
su tematiche giuridiche concernenti la differenza sessuale, il rapporto tra
differenza sessuale, uguaglianza formale e sostanziale, differenze culturali;
soggettività giuridica e diritti; empowerment delle donne; diritto e politica;
libertà e autodeterminazione in materia di sessualità,
riproduzione, salute, usi del corpo, orientamento sessuale e identità di
genere; relazioni personali e familiari; violenza contro donne e minori; lavoro
produttivo e riproduttivo; conciliazione e redistribuzione delle
responsabilità familiari e professionali.
L’assemblea delle socie può individuare altri temi di
studio, di ricerca e di iniziativa non specificatamente previsti dal presente
articolo.
Articolo 3. Attività
dell’Associazione.
1. Per il
perseguimento dello scopo sociale l’Associazione:
promuove e organizza ricerche, corsi, seminari, incontri, convegni e pubblicazioni;
organizza e sviluppa il proprio patrimonio documentario e librario in
strutture di biblioteca e archivio, anche tramite l’applicazione delle
nuove tecnologie;
istituisce nelle discipline oggetto delle proprie ricerche borse di
studio e premi a favore di giovani studiose italiane e straniere;
compie ogni altra attività direttamente connessa con quelle in
precedenza menzionate.
L'Associazione, pur non avendo fini di lucro, può svolgere
attività commerciale, anche offrendo servizi a non associati,
purchè tale attività sia strumentale e connessa al raggiungimento
degli scopi sociali: in tal caso gli eventuali utili, al netto delle imposte
previste dalle vigenti normative fiscali, vengono investiti al fine di
migliorare l'efficienza e la qualità nello svolgimento delle
attività istituzionali dell'Associazione.
Articolo 4. Le socie
Il numero delle socie è illimitato.
Possono far parte dell’Associazione le donne che esercitano una
professione giuridica, o un lavoro che richiede una preparazione giuridica,
ovvero che possiedono una competenza giuridica, anche su argomenti specifici, e
che si riconoscono nelle finalità dell’Associazione.
Per essere ammesse a far parte dell’Associazione è
necessario essere presentate da due socie e sottoporre la domanda di iscrizione
al Consiglio direttivo, che può rifiutare l’iscrizione per difetto
dei requisiti previsti dal comma 2.
Le socie hanno diritto di essere informate sulle attività della
Associazione, e a partecipare all’assemblea con diritto di voto, secondo
le disposizioni del presente statuto.
6. Le socie cessano di far parte della Associazione:
per dimissioni;
per esclusione deliberata dal consiglio direttivo in caso di gravi
violazioni di norme di legge o di obblighi statutari o per il venir meno dei
requisiti per l’iscrizione.
Articolo 5. Organi
della associazione.
1. Sono organi
dell’associazione:
l’assemblea delle socie;
il consiglio direttivo;
la presidente e due vicepresidenti;
la segretaria;
il collegio delle revisore dei conti.
2. Gli organi diversi
dall’assemblea durano in carica due anni e possono essere rieletti.
Articolo 6. L’assemblea
delle socie.
L’assemblea si riunisce almeno una volta l’anno ed è
convocata dalla presidente, su deliberazione del consiglio direttivo, con avviso inviato alle socie almeno 20
giorni prima dell’adunanza, senza formalità e anche via e-mail.
L’assemblea
discute le linee generali e di ricerca dell’attività
dell’Associazione;
approva il bilancio, il rendiconto e le relazioni del consiglio
direttivo e del collegio delle revisore dei conti;
elegge il consiglio direttivo;
delibera le modificazioni dello statuto;
delibera su ogni altro argomento posto all’ordine del giorno;
nomina, se lo ritiene opportuno, il collegio delle revisore.
Se non diversamente stabilito dal presente statuto le deliberazioni
sono adottate a maggioranza semplice e scrutinio palese. E’ ammesso il
voto per delega. Ogni socia non può essere portatrice di più di
cinque deleghe.
Articolo 7. Il consiglio direttivo.
Il consiglio direttivo è eletto dall’assemblea.
Il numero delle componenti è stabilito dall’assemblea in
misura non inferiore a sette. Ogni socia può esprimere un numero di
preferenze pari al numero delle componenti da eleggere. Sono elette le
candidate che ottengono almeno due terzi dei voti espressi.
Possono essere elette componenti del consiglio direttivo le socie che
hanno costituito l’Associazione e le socie iscritte da almeno un anno.
Tuttavia, limitatamente ai primi due anni di attività
dell’Associazione, un terzo del consiglio direttivo può essere
composto anche da socie che non hanno costituito l’Associazione e da
socie iscritte da meno di un anno, che sono elette con le stesse
modalità previste dal comma 2.
Il Consiglio direttivo:
elegge al suo interno la presidente e due vicepresidenti;
delibera sulla eventuale nomina di una segretaria;
elabora gli indirizzi per l’attuazione delle linee generali e di
ricerca dell’Associazione;
cura l’esecuzione delle delibere dell’assemblea e la
gestione delle attività e
delle iniziative dell’associazione;
delibera su tutti gli atti e contratti inerenti alle attività e
alla gestione sociale;
su proposta della presidente, stabilisce le quote associative e
predispone il bilancio e il rendiconto da sottoporre all’assemblea;
formula e sottopone annualmente all’Assemblea una relazione
generale sull’attività svolta;
delibera sull’ammissione e sull’esclusione delle socie;
delibera su ogni altra questione non riservata dallo statuto ad altri
organi.
Il Consiglio direttivo può nominare una presidente onoraria
dell’Associazione.
Per l’attuazione di singole iniziative il consiglio direttivo
può nominare gruppi di coordinamento scientifico, di cui possono fare
parte anche non iscritte/i all’Associazione.
Articolo 8. La presidente
La presidente e le due vicepresidenti sono elette dal consiglio
direttivo, tra le sue componenti, a maggioranza assoluta e scrutinio segreto.
La presidente esercita i poteri di firma e ha la rappresentanza legale
dell’Associazione nei rapporti con i terzi e in giudizio.
Le vicepresidenti sostituiscono la presidente in tutti i casi di
assenza o impedimento di quest’ultima.
La presidente convoca e presiede l’assemblea e il consiglio
direttivo. Cura l’attuazione delle deliberazioni degli organi sociali e
sovrintende alla attività della associazione.
Articolo 9. La segretaria.
La segretaria può essere nominata dal consiglio direttivo,
qualora quest’ultimo ne ravvisi la necessità, a maggioranza
assoluta e scrutinio segreto.
La segretaria svolge compiti di organizzazione e coordinamento delle
attività dell’Associazione; su specifica delega della presidente
svolge funzioni di rappresentanza e ha la firma dell’Associazione per
determinati atti o categorie di atti.
Su mandato della presidente o del consiglio direttivo, la segretaria
provvede alla regolare tenuta delle scritture contabili
dell’Associazione.
Articolo 10. Il
collegio delle revisore dei conti.
Il collegio delle revisore dei conti, che può essere nominato a
discrezione dell'assemblea, è composto da tre componenti nominate
dall'assemblea.
Il collegio delle revisore provvede al controllo della gestione
contabile, accerta la regolare tenuta delle scritture contabili e la fondatezza
delle valutazioni patrimoniali, esprime il suo parere sul bilancio e sul
rendiconto comunicandolo all’assemblea. Effettua verifiche di cassa.
Articolo 11. Patrimonio
e proventi
Le entrate dell’Associazione sono costituite:
dalle quote sociali annuali;
dal reddito del
patrimonio;
dai contributi, elargizioni, lasciti, donazioni da parte di soggetti
pubblici e privati;
dagli introiti derivanti da attività istituzionali.
Il patrimonio dell’Associazione è costituito dai
contributi delle associate e dai beni eventualmente pervenuti all'Associazione
a qualsiasi titolo.
Le socie che per qualsiasi causa cessano di far parte
dell’Associazione non hanno alcun diritto sul patrimonio.
E’ fatto divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e
avanzi di gestione, nonché fondi o riserve durante la vita
dell’Associazione, salvo diversi obblighi di legge.
Gli utili e gli avanzi di gestione dovranno essere impiegati
esclusivamente per la realizzazione delle attività istituzionali e di
quelle ad esse direttamente connesse.
In caso di scioglimento per qualsiasi causa dell’Associazione il
patrimonio sarà devoluto ad altre organizzazioni non lucrative di
utilità sociale o a fini di pubblica utilità individuate con
deliberazione dell’assemblea, sentito l’organismo di controllo di
cui all’art. 3, comma 190, della legge 23 dicembre 1996 n. 662, salva
diversa destinazione imposta dalla legge.
Ogni anno viene redatto un bilancio e un rendiconto. L’esercizio
finanziario coincide con l’anno solare.
Articolo 12. Modificazioni dello Statuto
1. Le modificazioni del presente statuto sono approvate dall’assemblea
delle socie a maggioranza dei due terzi dei voti espressi.
Versamento
quota associativa 2002
Banca
Nazionale del lavoro – Ag 42 – Piazzale Clodio 24
C/c
n. 2971 ABI 01005 CAB 03242
intestato
GIUDIT- Giuriste d’Italia - ONLUS
Socie
ordinarie EURO 77,47
Socie
giovani (studentesse, neolaureate, praticanti) EURO 36,15