Dell’immigrazione,
in questi giorni, si possono fare due cose: uno dei temi di scontro tra i poli,
o un tema su cui sparigliare la politica italiana. Nel primo caso la si mette
assieme a giustizia, scuola e lavoro, e ci si conta: si scopre – a
sinistra – di essere minoranza. Nel secondo, la si affronta
separatamente, e si cercano convergenze trasversali su proposte elementari, che
non richiedano, per essere accettate, comunanza di visione etica o di
linguaggio. Ma e’ possibile, su un fenomeno cosi’ carico di
tensioni, elaborare proposte del genere? E’ possibile, secondo me.
C’e’ infatti un’interpretazione molto semplice di quelle
tensioni, che non richiede un ricorso a categorie controverse quali la
giustizia e la solidarieta’. Provo a esporla.
I movimenti
migratori sono legati a due principali cause: desiderio di migliorare la
condizione economica e desiderio di fuggire dalla persecuzione; le si separa,
convenzionalmente, parlando di immigrati propriamente detti e di richiedenti
asilo. Il flusso di questi ultimi e’, di per se’, di modeste
dimensioni e sarebbe, in condizioni normali, accolto senza ostilita’. Il
flusso di immigrati, molto piu’ imponente, si ingorga invece, in Italia
come negli altri paesi europei, nell’imbuto di norme che vorrebbero
preservare gli Stati dall’ammissione di spiantati. La piu’ classica
di queste norme e’ quella che condiziona l’ingresso di un
lavoratore all’esistenza previa di un contratto di lavoro. La mancanza di
realismo di questa norma, che non tiene conto di come nessun rapporto di lavoro
possa nascere se prima datore di lavoro e lavoratore non si sono incontrati sul
posto, induce ingressi e soggiorni illegali. Questo allarma le societa’
di arrivo, dato che facilmente cio’ che e’ illegale viene temuto
come criminale. Si elaborano allora norme via via piu’ restrittive, per
ingressi legali ancora piu’ ardui e per espulsioni piu’ efficaci.
Le prime provocano – ovviamente - un ulteriore incremento dei flussi
illegali. Le altre inducono i migranti intercettati in posizione illegale a
ripararsi sotto l’ombrello di una richiesta di asilo. Gli Stati tendono
allora a rendere piu’ restrittive anche le disposizioni sull’asilo,
introducendo una presunzione di mala fede in capo al richiedente, cui
corrispondono esami piu’ sommari delle domande e ridotte
possibilita’ di ricorso giurisdizionale (con rischio di rimpatrio,
drammatico, di veri perseguitati).
Di fronte a
tutto questo, si puo’ tentare di curare le ferite dopo che sono state
inferte. Sono esempi (lodevoli) di questo approccio le pressioni contro la
detenzione amministrativa di immigrati e richiedenti asilo, quelle per ottenere
provvedimenti di sanatoria, quelle per un’applicazione meno fiscale dei
criteri per i rinnovi dei permessi di soggiorno. Ma e’ impresa ardua: chiusa
una ferita se ne apre un’altra, senza sosta. C’e’
un’altra strada, pero’, e consiste nello sciogliere il nodo
principale: la mancanza di realismo nel criterio di ingresso per lavoro. Ed
e’ su questo che si puo’ trovare un accordo vasto nella societa’:
non solo immigrati e ONG appassionate di diritti, ma anche famiglie e
imprenditori – ne’ troppo insensibili, ne’ troppo solidali, e
proprio per questo maggioritari nel paese.
Come
sciogliere il nodo? Cercando di mettersi nei panni di quelle famiglie e di
quegli imprenditori: cosa chiedono veramente riguardo all’immigrazione?
Che ci sia, ma che sia “sicura”, cioe’ conosciuta, alla luce
del sole, e che non rappresenti un onere incontrollato per la
collettivita’. Bisogna allora muoversi verso un criterio di ingresso che,
buttando a mare contratti preesistenti e burocrazia varia, garantisca invece la
visibilita’ del migrante e la sua capacita’ di bastare a se stesso.
Questo puo’ essere realizzato - per entrare nel dibattito odierno sulla
normativa - prevedendo una cosa molto semplice: al permesso di soggiorno (di
lunga durata) per lavoro possa accedere anche lo straniero che sia entrato per
un soggiorno breve - per turismo, per intenderci; allo stesso tempo, fatti
salvi i controlli su fedine penali e simili, non si richieda, allo straniero
che voglia entrare per turismo, altro requisito che il possesso di un
passaporto valido e dei mezzi per il proprio sostentamento per tutto il (breve)
periodo per cui chiede di soggiornare. Credo che il turista-migrante, liberato
dalle incombenze insormontabili di leggi irrazionali, sarebbe, per la gioia,
disposto a depositare, a maggior tutela di una societa’ timorosa, la
fotocopia del passaporto, un biglietto aperto per l’eventuale ritorno in
patria e le proprie impronte digitali. Io, almeno, se fossi in lui, lo sarei
senza alcuna esitazione. E se, scaduti – diciamo – i tre mesi di
soggiorno per turismo, non ha trovato un'occupazione stabile e chiede
pero’ di restare ugualmente, che si fa? Se ha maturato, nel frattempo, mezzi
ulteriori che gli consentano di mantenersi, lo si autorizzi per altri tre mesi,
con ulteriore chance di stabilizzazione. Altrimenti torni a casa, come un normalissimo
turista. E se si guarda bene dal chiederlo, e si imbosca, invece? Alla prima intercettazione
lo si espelle, a sue spese: impronte, passaporto e biglietto sono li’
pronti.
Tutto questo somiglierebbe molto a come l’immigrazione ha funzionato, in Italia, negli ultimi quindici anni: lavoratori che entrano con le proprie forze, si mantengono con lavori precari, poi incontrano sul posto un datore di lavoro interessato ad assumerli e stabilizzano il proprio soggiorno. Con una rilevantissima differenza, a vantaggio del modello che prospetto: ingresso, soggiorno e rapporti di lavoro potrebbero essere legali fin dall’inizio, senza dover passare attraverso clandestinita’, sfruttamento, concorrenza sleale con i lavoratori italiani, sanatorie. Potrebbero andare in soffitta le presuntuose programmazioni dei flussi e le code davanti alle direzioni del lavoro e alle questure. Potrebbe anche andare in soffitta - e questa volta senza danno, perche’ riassorbita dai nuovi criteri per l’ingresso - la sponsorizzazione, che oggi consente la ricerca di lavoro sul posto a pochi fortunati. Ma andrebbero in soffitta anche gli scafisti, i centri di permanenza temporanea e le espulsioni di temibilissime colf. Chiederebbero asilo solo i rifugiati veri e si potrebbe evitare di prolungare la loro persecuzione con detenzioni, procedure sommarie e ricorsi non sospensivi. Alla caccia di criminali e terroristi potremmo allora dedicare quei poliziotti che oggi giacciono sotto montagne di regolarizzazioni, accertamenti di reddito, nulla-osta provvisori e amenita’ del genere. Senza dover levare le scorte ai magistrati.