LA COMUNITA’ SBILANCIATA
di Ferruccio Pastore
(Centro Studi di Politica
Internazionale – CeSPI)
- Giugno 2002 -
L’Italia non è certo l’unico
caso di paese di forte emigrazione trasformatosi in meta di flussi migratori
rilevanti. Agli albori del loro sviluppo industriale, diversi paesi
dell’Europa occidentale e settentrionale conobbero questa parabola. Oggi,
una simile transizione migratoria è in corso in vaste aree del mondo e, con
particolare evidenza, in quelle periferie immediate dell’Occidente (dal
Messico all’Europa orientale), che beneficiano più direttamente
dei processi di regionalizzazione economica. Ma il caso italiano ha una sua
specificità, legata alla drammaticità con cui la transizione
migratoria vi si è compiuta, sia per effetto della straordinaria
importanza quantitativa dell’emigrazione tra l’ultimo quarto del
XIX e il terzo del XX secolo, sia a causa della rapidità con cui
l’inversione del saldo migratorio si è verificata, a partire da
quel periodo[2]. La trasformazione in
paese di immigrazione ha posto una serie di difficili sfide al paese nel suo
complesso, mettendo radicalmente alla prova la sua capacità di
interpretare il cambiamento, di adattarvisi e di governarlo.
La prima di queste sfide è stata
naturalmente quella di dotarsi di norme giuridiche e politiche specifiche in
materia di immigrazione e di asilo. La modernizzazione italiana in questo campo
è stata oggetto di diversi studi, che hanno messo via via in evidenza i
progressi compiuti, unitamente alle profonde lacune strutturali che persistono[3]. Assai meno considerato,
è stato l’impatto della transizione migratoria italiana su un
altro ambito politico-giuridico, che pur avendo stretti legami con la politica
migratoria (concepita come policy field bifronte, che comprende le
politiche in materia di immigrazione e di emigrazione) se ne distingue
nettamente, sia sul piano concettuale sia su quello empirico. Mi riferisco al
diritto e alla politica della cittadinanza.
In una prospettiva storica, la tendenza ad
introdurre legislazioni dettagliate in materia di cittadinanza[4], manifestatasi
progressivamente negli Stati europei a partire dalla fine del XVIII secolo, si
spiega prevalentemente con due ordini di ragioni, tra loro connessi. Da un
lato, premono esigenze di carattere simbolico e pratico, inerenti al processo
di nation building (riconducibili, specialmente, all’introduzione
generalizzata della coscrizione obbligatoria); dall’altro lato, sulla
«codificazione» della cittadinanza incidono profondamente le
necessità particolari collegate alla regolamentazione dei massicci
movimenti di popolazione che interessano numerosi Stati europei dalla
metà del secolo scorso. Fin dalla sua nascita, cioè, il diritto
della cittadinanza è caratterizzato da una stretta interrelazione con la
disciplina giuridica dei movimenti migratori, sia di quelli che fuoriescono dai
confini dello Stato, sia di quelli che vi fanno ingresso: a fronte di flussi
migratori quantitativamente importanti e non meramente stagionali, il diritto
della cittadinanza si configura - a seconda delle situazioni nazionali e delle
epoche - come un fondamentale strumento per il mantenimento, lo scioglimento o
la ricostruzione dei legami pratici e simbolici con chi emigra e come uno
strumento altrettanto importante di inclusione o, viceversa, di discriminazione
ed esclusione di chi si è stabilito nel territorio dello stato in qualità
di immigrato.
L’interazione tra diritto della cittadinanza
e politica migratoria è stata particolarmente intensa nel caso
dell’Italia, nel corso del XX secolo[5]. L’imponente
emigrazione italiana - quella transoceanica in particolare - iniziata nella seconda
metà del XIX secolo e durata fino agli anni Settanta di quello
successivo, ha agito come una determinante fondamentale delle scelte
legislative in materia di cittadinanza, in occasione di entrambe le riforme di
portata generale effettuate in questo secolo (a distanza di ottant’anni
l’una dall’altra: nel 1912 e nel 1992). Quanto
all’immigrazione da paesi stranieri, fenomeno sociale statisticamente
rilevante in Italia solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta,
i suoi riflessi sul diritto della cittadinanza sono stati, sino ad oggi,
limitati, ma estremamente significativi.
Nelle pagine che seguono, si intende offrire una
veloce panoramica sull’evoluzione del diritto italiano della
cittadinanza, nelle sue relazioni con i movimenti migratori che hanno
interessato l’Italia in questo secolo e con le politiche relative. Ci si
dedicherà, dapprima, all’esame delle principali modifiche
legislative e di policy collegate ad obiettivi di politica
dell’emigrazione o comunque rivolte alle comunità emigrate e di
origine italiana residenti all’estero (parr. 2 e 3); si passerà,
poi, a descrivere le evoluzioni più recenti, motivate (anche se spesso
in forma implicita) dalla crescita sensibile del fenomeno
dell’immigrazione straniera (par. 4).
Dalla panoramica storica che segue, scaturisce
l’immagine di un paese la cui rappresentazione giuridica della
comunità politica, definita come l’insieme dei titolari di pieni
diritti politici, oltreché civili e sociali, si discosta significativamente
dalla comunità «reale», sociologicamente ed economicamente
intesa. Per un verso, infatti, il diritto e le prassi italiane configurano la
cittadinanza - in misura paradossalmente crescente, se si guarda alla longue
durée - come un vincolo tenace ancorché di consistenza limitata, che si
tramanda ad libitum, salvo rinunce esplicite e formali. Per un altro verso,
la cittadinanza italiana si profila come un bene amministrato con parsimonia
estrema nei confronti dei nuovi venuti, ossia di quei migranti che ormai da
decenni contribuiscono alla crescita economica e al rinnovamento sociale e
culturale della Repubblica. Ne risulta l’immagine di una
«comunità sbilanciata», in cui la sfasatura storica tra la
realtà dei processi migratori e la politica della cittadinanza rischia
di tradursi in un fattore strutturale di fragilità civile e di
instabilità politica.
Nell’arco di un secolo - tra il 1876, anno
in cui ha inizio ufficialmente la rilevazione del movimento migratorio italiano
con l’estero, e il 1976, anno in cui il saldo migratorio nazionale si
assesta intorno allo zero e in cui si può ritenere finita
«l’emigrazione italiana di tipo tradizionale, come esodo di massa e
sfollamento della manodopera eccedente»[6] - sono espatriati
dall’Italia quasi 26 milioni di persone[7]. Solo un terzo (ma si
tratta di una stima inevitabilmente approssimativa) di tale immensa ondata
umana ha fatto stabilmente ritorno, a distanza di qualche mese o di decenni, in
patria.
Una quota consistente di questo secolare flusso -
che in alcuni anni ha toccato picchi impressionanti (il maggiore si registra
nel 1913, con 872.598 espatri, equivalenti a un tasso migratorio del 2,4% annuo
sull’insieme della popolazione nazionale) - si è indirizzata verso
Stati bisognosi non solo di forza lavoro straniera (come nel caso della
Svizzera e della Repubblica federale tedesca), ma anche di incrementi
sostanziosi della popolazione stabile. Per soddisfare questo bisogno di
popolamento, i principali Stati extra-europei di immigrazione italiana (e in
Europa, in forme più moderate, la Francia[8]) hanno sviluppato
politiche finalizzate a un inserimento rapido e completo delle
collettività immigrate - tra cui, appunto, quella italiana - nella
comunità nazionale. In questo quadro, il diritto della cittadinanza ha
operato, in alcuni tra i più importanti Paesi di immigrazione, come un
fondamentale strumento di inclusione, sia attraverso un’applicazione
senza remore dello jus soli, sia attraverso un uso disinvolto, e talvolta spregiudicato,
della naturalizzazione.
La classe politica dell’Italia unita ha
mantenuto, con relativa continuità[9], un atteggiamento
complessivamente favorevole (anche se, perlopiù, passivo[10]) di fronte
all’emigrazione, percepita come fattore di crescita economica e di
allentamento della tensione sociale. Ma, nonostante il generale favore per
l’emigrazione, le classi dirigenti italiane, sia in periodo monarchico
sia in età repubblicana, hanno generalmente contrapposto alle politiche
della cittadinanza intensamente “inclusive” di alcuni Stati di
immigrazione, una concezione “forte” della cittadinanza italiana,
come vincolo capace di resistere in situazione di emigrazione, anche lungo
l’arco di più generazioni. Si è così venuta
determinando, specialmente nei rapporti con i grandi bacini migratori americani
(Argentina, Brasile, Stati Uniti), una permanente situazione di tensione
potenziale, alimentata dalla continua moltiplicazione dei conflitti positivi di
cittadinanza, per effetto di una fondamentale divergenza di impostazione tra i
sistemi giuridici coinvolti[11].
La prima significativa manifestazione di questa
tensione tra ordinamenti coincide con la «Grande Naturalizzazione»,
sancita solennemente dalla Costituzione brasiliana del 1891 (art. 69), la quale
dispone che tutti gli stranieri che si trovavano all’interno del Paese
alla data del 15 novembre 1889, giorno di proclamazione della Repubblica,
diventino automaticamente cittadini brasiliani, a meno che non dichiarino,
entro sei mesi, la loro volontà di conservare la cittadinanza
d’origine[12]. L’Italia, colpita
- non solo sul terreno simbolico della sovranità[13] - dalla naturalizzazione
automatica brasiliana, reagisce tentando di dare vita a un fronte diplomatico
comune con altri Paesi interessati (Portogallo, Spagna, Austria-Ungheria); ma i
risultati sono modesti: il potere della distanza geografica, l’ignoranza
dei braccianti delle fazendas, le intimidazioni effettuate dalle autorità
locali e la sostanziale indifferenza delle élites immigrate urbane, le
più avvantaggiate dal «contratto di cittadinanza» offerto
dal nuovo governo repubblicano, fanno sì che la «Grande
Naturalizzazione» consegua sostanzialmente i suoi obiettivi[14].
L’esito negativo della controversia con il
Brasile fa risaltare l’efficacia della strategia adottata nella stessa
occasione da altri Stati europei di emigrazione (tra cui la Germania) i quali,
senza ingaggiare battaglie diplomatiche dall’esito incerto, avevano
risposto alla mossa unilaterale dello Stato sudamericano facendo leva sul
proprio diritto interno della cittadinanza, in particolare ampliando le
possibilità di recupero della cittadinanza da parte dei discendenti,
divenuti stranieri, di cittadini emigrati.
Con il volgere del secolo, la necessità di
conformare la disciplina giuridica della cittadinanza alle esigenze particolari
di un Paese di forte emigrazione diventa via via più evidente. Dopo
alcune modifiche legislative parziali[15], si afferma
progressivamente un’orientamento favorevole alla riforma complessiva
della normativa in materia di cittadinanza contenuta nel Codice civile del
1865. Una netta richiesta in questo senso viene anche dai rappresentanti degli
«Italiani residenti all’estero» i quali, convenuti a Roma per
il loro 1° Congresso, nell’ottobre del 1908, approvano il seguente
ordine del giorno:
Il Congresso degli
Italiani all’estero riconosce la necessità di una legge organica
che regoli al più presto l’istituto della cittadinanza, non
bastando i ritocchi apportati sin qui da leggi speciali al relativo titolo
oramai invecchiato del libro I del Codice civile del Regno; e formula fin
d’ora il voto che vengano adottate facilitazioni al riacquisto della
cittadinanza.
La discussione approda in Parlamento nel febbraio del 1910, con un disegno di legge presentato dal ministro della giustizia dell’epoca, Vittorio Scialoja. I problemi che si pongono ai parlamentari del Regno, che iniziano l’esame del progetto nel giugno 1911, sono numerosi e complessi; dal punto di vista circoscritto di questo studio, tuttavia, il nodo politico della riforma è individuato con chiarezza nelle parole del deputato Grippo, pronunciate nella seduta del 4 giugno 1912:
Noi ci troviamo in una
situazione contraddittoria, perché mentre diciamo che bisogna facilitare
agli Italiani che risiedono negli Stati specialmente dell’America del
Sud, la partecipazione alla vita politica ed alla vita amministrativa,
dall’altra parte vogliamo mantenere il sentimento di italianità,
vogliamo cercare di non perdere questa grande massa di italiani che vanno
nell’America del Sud[16].
Per un verso, cioè, preme la richiesta che sale dalle maggiori comunità emigrate di potersi integrare pienamente e senza intralci, anche mediante la naturalizzazione, nella società di arrivo; per un altro verso, incide sulle scelte dei legislatori l’esigenza di non troncare ogni legame con alcuni milioni di emigranti e di loro discendenti (nei dibattiti dell’epoca si parla di circa sei milioni di persone), che rappresentano una fonte di ricchezza attuale (attraverso le rimesse) e un potenziale fattore di rilevanza internazionale, per uno Stato nazionale ancora giovane e fragile e per una società ancora economicamente assai arretrata. Il compromesso tra queste opposte esigenze, che infine si sostanzia nel testo della legge 13 giugno 1912, n. 555, è imperniato su due principi fondamentali:
I) la cittadinanza italiana, trasmessa jure
sanguinis, si perde solo per atto volontario. Viene abbandonata l’impostazione
rigida del Codice civile del 1865, secondo cui «la cittadinanza si perde
[...] da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero» (art.
11) e viene introdotto un principio più elastico, in base al quale:
Salve
speciali disposizioni da stipulare con trattati internazionali, il cittadino
italiano nato e residente in uno Stato estero, dal quale sia ritenuto proprio
cittadino per nascita, conserva la cittadinanza italiana, ma, divenuto
maggiorenne o emancipato, può rinunziarvi (art. 7);
questa norma è completata dalla previsione
che:
Perde la cittadinanza:
1° chi spontaneamente
acquista una cittadinanza straniera e stabilisce o ha stabilito
all’estero la propria residenza;
2°
chi, avendo acquistata senza concorso di volontà propria una
cittadinanza straniera, dichiari di rinunziare alla cittadinanza italiana, e
stabilisca o abbia stabilito all’estero la propria residenza [...] (art.
8).
II) la cittadinanza italiana perduta in seguito
all’acquisto spontaneo di una cittadinanza straniera viene riacquistata
in caso di rimpatrio, «dopo due anni di residenza nel Regno» (art.
9, punto 3, legge 555/1912). Il riacquisto della cittadinanza perduta, che era
subordinato a una «permissione speciale del governo» in base al
vecchio codice civile (art. 13, punto 1, Codice civ. 1865), viene reso
automatico, salva la possibilità del governo di opporsi entro un tempo
limitato, «per ragioni gravi e su conforme parere del Consiglio di
Stato» (art. 9, comma 2, legge 555/1912).
Pur senza imboccare apertamente la via del
riconoscimento della doppia cittadinanza[17], insomma, l’Italia
liberale affronta il culmine dell’esodo migratorio utilizzando lo
strumento della cittadinanza con una certa disinvoltura. Da un lato, a costo di
moltiplicare i conflitti positivi di cittadinanza con gli Stati di
immigrazione, si ribadisce la natura estremamente persistente di un vincolo di
cittadinanza prevalentemente ereditario, respingendo le isolate proposte di
introdurre nella legge un’ipotesi di perdita della cittadinanza per
«rinunzia tacita», dopo un certo numero di anni di residenza
ininterrotta all’estero[18]. Dall’altro lato,
si persiste in una linea politica di oggettivo depotenziamento della
cittadinanza: il legame di appartenenza, affermato fortemente sul piano formale e
simbolico, non viene poi reso concreto, attraverso comportamenti conseguenti
delle diverse amministrazioni statali sul terreno sociale, culturale, giuridico
(con riferimento, per esempio, al conflitto - che sorge spesso nei rapporti fra
sistemi nazionali di diritto internazionale privato - tra la lex patriae del Paese di emigrazione
e la lex fori del Paese di immigrazione) o persino militare[19]. E’ questa
incongruenza fondamentale che fonda giudizi storici severi sulla legge
555/1912, come quello formulato retrospettivamente da un illustre giurista:
il legislatore del 1912
si è troppo ispirato a una tendenza missionaria e protettrice che non si
confà ad un legislatore particolare; come pure ha ecceduto nel
consentire la conservazione e il recupero della cittadinanza italiana,
sì da farne assai spesso una cittadinanza «di riserva», che
non corrisponde in alcun modo alla vita reale dei soggetti[20].
Tuttavia, il compromesso messo a punto dal
legislatore del 1912, per quanto (anzi, forse, proprio in quanto) discutibile
sotto il profilo del rigore politico e concettuale, è destinato a
durare, sopravvivendo al fascismo ed alla successiva instaurazione di una
democrazia costituzionale. Anche all’interno dell’Assemblea
Costituente, infatti, la discussione in tema di cittadinanza si concentra su un
aspetto che oggi può parere marginale - ma che all’epoca risultava
decisivo, per segnare il distacco dal periodo fascista[21] - quale il divieto della
privazione della cittadinanza «per motivi politici» (art. 22 Cost.)[22]. I redattori della
Costituzione repubblicana evitano di spingersi oltre sul terreno della
disciplina giuridica della cittadinanza, ritenendo evidentemente che la
legislazione vigente fosse ancora sostanzialmente adeguata al nuovo quadro
politico e istituzionale e che eventuali modifiche di dettaglio fossero,
comunque, di competenza del legislatore ordinario.
Ma, in seguito, contrariamente alle palesi
aspettative di alcuni membri dell’Assemblea Costituente, il legislatore
repubblicano ordinario rimane a lungo inerte in materia di cittadinanza.
Pertanto, anche per effetto della ripresa dell’emigrazione transoceanica
nel secondo dopoguerra, si viene progressivamente rafforzando l’esigenza
di affrontare i problemi pratici generati dalla moltiplicazione dei conflitti
di cittadinanza tra l’Italia, fedele allo jus sanguinis, e la maggior parte dei
Paesi di destinazione (quelli americani, in particolare), rigidamente ancorati
al principio dello jus soli.
Soluzioni parziali vengono messe a punto, sul
piano bilaterale, per i problemi specifici legati al cumulo degli obblighi
militari dei doppi cittadini[23]; ma, l’unico
trattato che affronta alla radice il problema della doppia cittadinanza degli
emigranti è quello concluso con l’Argentina, a Buenos Aires, il 29
ottobre 1971 (reso esecutivo in Italia con legge 18 maggio 1973, n. 282).
Modellato fedelmente sul testo dell’accordo tra Argentina e Spagna del 14
aprile 1969[24], il trattato
italo-argentino rappresenta un tentativo, rimasto isolato nell’esperienza
italiana, di esplorare una via intermedia fra l’accettazione del
conflitto aperto tra cittadinanze e il riconoscimento pieno della doppia
cittadinanza. L’intesa si basa, infatti, sulla possibilità del
cumulo delle due cittadinanze, abbinata però ad una sorta di mise en
sommeil
della cittadinanza del Paese dove il soggetto non risiede attualmente:
I
cittadini italiani e argentini per nascita potranno acquisire rispettivamente
la cittadinanza argentina e italiana, alle condizioni e nella forma prevista
dalla legislazione in vigore in ciascuna delle Parti contraenti, conservando la
loro precedente cittadinanza con sospensione dell’esercizio dei diritti
inerenti a quest’ultima (art. 1).
L’esercizio dei diritti e la soggezione ai
doveri collegati alla cittadinanza è governato dal criterio della
residenza, tanto che:
Il
trasferimento di residenza nel Paese di origine da parte delle persone che si
avvalgono dei benefici del presente accordo implicherà, automaticamente,
la reviviscenza di tutti i diritti e doveri inerenti alla loro precedente
cittadinanza [...] (art. 4, comma 1).
Il trattato di cittadinanza con l’Argentina
è stato accolto con forti perplessità dalla dottrina giuridica
italiana, la quale ne ha dapprima denunciato la presunta
incostituzionalità[25], per poi ricredersi, in
nome però di una discutibile interpretazione, che riferisce
l’accordo ai doppi cittadini per nascita e non - come sembrano invece
imporre la lettera e lo spirito del testo - alla situazione di chi acquisti
successivamente la cittadinanza dell’altro Stato[26]. Contributi successivi
al dibattito hanno corretto l’interpretazione dell’accordo,
rimanendo però ancorati a una visione dogmatica, che - sulla base di una
concezione «monolitica» della cittadinanza - considera priva di
senso la nozione di una cittadinanza «sospesa» e forza la lettera
del testo, riducendolo a una disciplina speciale della perdita e del riacquisto
della cittadinanza[27]. Soltanto assai recentemente,
si è assistito a una rivalutazione dell’accordo del 1971, il
quale,
pur con molte lacune e
imperfezioni [...] rappresenta [...] un esempio della possibilità di
eliminare i più gravi effetti distorsivi del fenomeno della doppia
cittadinanza, anche con riguardo alla sfera dei diritti politici, non
già tentando di eliminare alla radice il fenomeno, ma attribuendo, ai
fini dell’individuazione dello stato in cui i relativi diritti vanno
esercitati, eguale rilevanza alla libera scelta individuale e all’elemento
materiale (la residenza) che, accanto alla cittadinanza, testimonia
dell’esistenza di un collegamento effettivo tra il soggetto ed uno dei
paesi di cui è cittadino[28].
Da un punto di vista non strettamente giuridico,
tuttavia, ciò che importa sottolineare è che il trattato
italo-argentino ha avuto un impatto limitato sulla vita della comunità
italiana emigrata, per effetto sia dell’esclusione della fattispecie
più frequente (la doppia cittadinanza acquisita alla nascita, per
l’azione congiunta dello jus sanguinis italiano e dello jus soli argentino), sia del
ritardo nell’adozione di un regolamento di esecuzione. Oggi, in ogni
caso, l’accordo ha di fatto perso ogni rilevanza pratica, in seguito alla
riforma della legge sulla cittadinanza (legge 5 febbraio 1992, n. 91), che -
come vedremo tra breve - ha aperto la strada al riconoscimento della doppia
cittadinanza per tutti gli italiani emigrati all’estero e per i loro
discendenti, a prescindere da quale sia lo Stato straniero di residenza.
2. La legge 91/1992 e i suoi «effetti
collaterali»
La lunga attesa di una riforma organica della
legislazione in materia di cittadinanza - costellata di numerose iniziative
legislative fallite[29] - si conclude,
finalmente, all’inizio del 1992. Le determinanti fondamentali della legge
n. 91 del 1992 sono essenzialmente due: per un verso, ha un peso decisivo
l’esigenza di portare a compimento il processo di adeguamento della
disciplina legislativa al principio costituzionale di eguaglianza
all’interno della famiglia, avviato con le note sentenze della Corte
costituzionale del 1975 e del 1983 (vd. nota 5); per un altro verso, la riforma
del 1992 è profondamente influenzata, nei tempi e nei modi, dalla
volontà politica di trasmettere un forte segnale di attenzione alle richieste
espresse dalle comunità italiane (o di origine italiana) residenti
all’estero[30]. Come dichiara
apertamente la relazione introduttiva al disegno di legge originario, infatti,
in un’epoca in cui
i flussi migratori si sono assai considerevolmente ridotti e le comunità
all’estero si vanno ormai stabilizzando ed integrando nelle rispettive
società locali [...] Appare [...] nell’interesse della
comunità nazionale - oltre a rispondere ad una viva aspettativa delle
comunità italiane all’estero - rendere possibile, per chi lo
desidera, il mantenimento del legame giuridico, ma anche culturale e
sentimentale, costituito dalla cittadinanza[31].
Mosso da queste esigenze, il Parlamento italiano,
al termine di un iter tanto lungo quanto poco approfondito, vara infine la
legge 91/1992, «con una certa fretta allo scadere della X legislatura,
quasi a guisa di “leggina” pre-elettorale»[32]. Il provvedimento, dal
punto di vista che qui ci interessa, è caratterizzato da un favore
spiccato nei confronti degli italiani emigrati all’estero e dei loro
discendenti, a cui corrisponde - come vedremo meglio nel prossimo paragrafo -
un’ostilità altrettanto netta, sebbene appena accennata nel
dibattito parlamentare, nei confronti delle ragioni e dei bisogni degli stranieri
immigrati in Italia.
Per quanto riguarda in particolare la condizione
delle comunità emigrate, dunque, la legge del 1992 conferma, ed anzi
rafforza, le scelte di fondo fatte nel 1912, imperniate su una concezione della
cittadinanza come legame persistente, che si tramanda e non si estingue (salvo
casi eccezionali: p.e. accettazione di un impiego pubblico da parte di uno
Stato straniero con cui vige lo stato di guerra), se non per libera ed espressa
scelta individuale. Peraltro, la tensione che questa concezione tendeva a generare
nei rapporti con Paesi di immigrazione aventi una «ideologia della
cittadinanza» fortemente inclusiva viene attenuata decisamente, mediante
la scelta a favore della doppia cittadinanza. Il vecchio dogma
dell’unicità della cittadinanza viene, infatti, superato (anche se
la portata del superamento, come vedremo nel prossimo paragrafo, è
controversa) con la norma dell’articolo 11:
Il
cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera
conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o
stabilisca la residenza all’estero.
Oltre a rafforzare la «persistenza»
della cittadinanza italiana, introducendo la possibilità di conservarla
in caso di naturalizzazione all’estero, la legge n. 91 moltiplica le
opportunità per l’acquisto o il riacquisto della cittadinanza da
parte degli emigrati e dei loro discendenti. In particolare:
i) viene confermata la possibilità
dell’acquisto della cittadinanza italiana «per opzione»[33] per lo straniero
discendente in linea retta fino al secondo grado da cittadini italiani, a
condizione che «al raggiungimento della maggiore età, risied[a]
legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiar[i],
entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza
italiana» (art.4, comma 1, lett. c));
ii) viene istituito un «canale
privilegiato» per la naturalizzazione, dopo soli tre anni di residenza,
per il discendente in linea retta fino al secondo grado da cittadini italiani
(art. 9, comma 1, lett.a));
iii) viene facilitato il riacquisto della
cittadinanza italiana, per chi «dichiara di volerla riacquistare ed ha
stabilito o stabilisce, entro un anno dalla dichiarazione, la residenza nel
territorio della Repubblica», nonché, addirittura in forma
automatica, per chi abbia stabilito da un anno la propria residenza nel
territorio della Repubblica, «salvo espressa rinuncia entro lo stesso
termine» (art. 13, comma 1, lett. c) e d));
iv) viene prevista, infine, la temporanea
possibilità, per coloro che avevano perduto la cittadinanza italiana
nella vigenza della legge 555/1912 per una serie di ragioni specifiche (tra
cui, in particolare, la naturalizzazione all’estero) di riacquistarla
mediante una semplice dichiarazione da effettuare entro due anni
dall’entrata in vigore della stessa legge n. 91 (art. 17)[34].
Manca una rilevazione ad hoc del numero complessivo
di ex-cittadini e discendenti di cittadini che, dal 1992 ad oggi, hanno
riacquistato od acquistato ex novo la cittadinanza italiana in base alle nuove
norme. Si può affermare, tuttavia, che - dopo un’ondata iniziale
piuttosto ingente di riacquisizioni di cittadinanza a titolo straordinario
basate sulla norma richiamata sopra al punto iv)[35] - per gran parte degli
anni Novanta si trattò di quantitativi relativamente limitati.
Ciò dipese, almeno in parte, dalla fortuita coincidenza
dell’entrata in vigore della legge con un periodo di crescita economica
sostenuta e di stabilità politica nei maggiori paesi latino-americani di
immigrazione italiana, che conteneva gli stimoli ad utilizzare le nuove norme
come «trampolino» per l’emigrazione di ritorno verso
l’Italia. Negli ultimi anni, tuttavia, la pressione migratoria «di
ritorno» dall’America Latina si è accentuata, per effetto
del sensibile deterioramento delle condizioni socio-economiche generali in
alcuni di tali paesi[36]. Nel caso
dell’Argentina il fenomeno risulta particolarmente evidente: secondo
fonti ufficiose, nel solo 2000 sarebbero stati rilasciati 12.000 passaporti a
cittadini argentini a cui è stata riconosciuta la titolarità della
cittadinanza italiana; nel 2001, le richieste presentate a tal fine sarebbero
diventate addirittura 33.143; a causa delle persistenti carenze di organico, i
tempi di attesa connessi a questo tipo di pratica sono ormai di alcuni anni.
A fianco di tale effetto imprevisto (e indesiderato) delle nuove norme introdotte dalla legge del 1992, che potrebbe diventare esplosivo nel caso in cui la crisi argentina non si attenuasse significativamente in tempi brevi[37], vi è un altro effetto collaterale «perverso» della riforma che – sebbene rilevante sul piano del costume, più che su quello quantitativo – merita di essere ricordato. Ci riferiamo a una crescente tendenza a beneficiare delle norme in materia di riacquisizione della cittadinanza da parte di atleti di origine italiana, al fine di consentirne l’ingaggio da parte di società sportive italiane[38]. In alcuni casi, come in quello dei calciatori, questa prassi – che ha lo scopo dichiarato di eludere le norme che fissano una quota massima per l’acquisto di giocatori stranieri da parte di ciascuna squadra[39] – è degenerata in pratiche fraudolente di varia natura ed entità (dalla invenzione di «falsi nonni» italiani alla falsificazione integrale di passaporti). Ne è nato, nel corso del 2001, uno scandalo di vaste proporzioni, che ha dato origine a una serie di procedimenti penali e disciplinari. Sebbene alcuni processi siano ancora in corso, la vicenda si può ora considerare sostanzialmente conclusa, grazie a una sorta di patto tacito tra società calcistiche e organismi dirigenti, che ha consentito di archiviare l’imbarazzante affaire con poche, lievi sentenze di condanna e senza eccessivo pregiudizio al fiorente business del calcio italiano.
A conclusione di questa prima parte della nostra
analisi, si può constatare che, al termine di un’evoluzione
secolare, la cittadinanza italiana continua a configurarsi, nei confronti degli
italiani che emigrano, come un vincolo estremamente tenace, che si estingue
ormai quasi soltanto per la libera scelta del soggetto. Bisogna, altresì,
constatare che questo vincolo, per quanto formalmente resistente, si è
caratterizzato a lungo – anche da un punto di vista comparativo - come
dotato di scarsa consistenza sostanziale. Fino a un’epoca
recentissima, infatti, i cittadini italiani residenti fuori dai confini
nazionali hanno sofferto di gravi limitazioni pratiche dei loro diritti
politici, in assenza di una normativa che regolasse il voto dall’estero e
disciplinasse il diritto di elettorato passivo di questa categoria, folta
sebbene ancora non definitivamente circoscritta[40]. E’ solo il 20
dicembre 2001 che, dopo oltre mezzo secolo di dibattiti e quarant’anni di
tentativi abortiti[41], il Senato ha approvato
definitivamente – al termine di un rapido esame e con una larghissima
maggioranza bipartisan - la legge 27 dicembre 2001, n. 459, recante
«Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani
residenti all’estero». Questo provvedimento porta a compimento un
processo di riforma avviato con l’approvazione delle leggi costituzionali
1/2000 e 1/2001, che hanno modificato gli articoli 48, 56 e 57 della
Costituzione, istituendo un’apposita «circoscrizione Estero»,
in cui gli italiani residenti all’estero, a partire dalla prossima
consultazione elettorale, dovrebbero essere in grado di eleggere i loro
rappresentanti presso il Senato (6 senatori) e la Camera (12 deputati).
La legge 459/2001 segna
indubbiamente una svolta nella politica della cittadinanza applicata
dall’Italia nei confronti delle comunità originate
dall’emigrazione. Fino ad oggi, infatti, la persistenza illimitata del
vincolo di appartenenza nazionale attraverso le generazioni – fatti
salvi, beninteso, i casi di rinuncia esplicita – aveva conseguenze assai
limitate, perlomeno fino al momento di un eventuale ritorno in pianta stabile
in Italia. Per effetto della legge in questione, invece, tale cittadinanza
ereditata non si configura più come un legame solo virtuale, ma si eleva
a vincolo politico attuale con la comunità di origine, poiché
implica un diritto-dovere di partecipazione attraverso il voto.
Non è questa la sede per
esaminare nei dettagli il contenuto e le implicazioni di tale riforma, per la
cui attuazione pratica rimangono ancora da superare ostacoli serissimi di
ordine costituzionale[42], diplomatico e
operativo. E’ importante però, ai fini del nostro discorso,
sottolineare la grave discrepanza che sussiste tra l’importanza del
cambiamento innescato e il grado di approfondimento che lo ha preceduto[43]. Ancora una volta,
insomma, il delicato raccordo tra politica della cittadinanza e politica (in
senso lato) migratoria è stato affrontato in chiave strumentale e con
eccessiva leggerezza. L’anacronismo e la problematicità della
situazione che ne deriva sono evidenziate assai bene, seppure indirettamente,
dagli argomenti con cui, nel 1993, il ministro marocchino incaricato «per
la Comunità Marocchina all’Estero» illustrava le ragioni che
spingevano il paese maghrebino a sopprimere, a partire dalle elezioni politiche
di quello stesso anno, la quota riservata di rappresentanza diretta degli
emigrati nel Parlamento nazionale:
I cinque
seggi per i rappresentanti dei marocchini residenti all’estero sono stati
soppressi. Le liste elettorali erano difficili da stabilire. Una volta eletto,
il deputato rientrava nel paese di residenza e tagliava i ponti con i suoi
elettori. Finiva che il deputato incaricato di rappresentare i marocchini
residenti in diversi paesi di accoglienza era noto in uno solo di questi. In
nessun paese del mondo i residenti all’estero sono rappresentati direttamente
alla Camera dei deputati[44]. Un Consiglio superiore, competente per
la condizione dei residenti all’estero, è in corso di costituzione[45].
3. La cittadinanza degli
immigrati: un percorso ostruito
Negli anni della ricostruzione post-bellica e,
più tardi, del boom industriale, la parte economicamente più vitale
dell’Italia poté fare a meno di importare manodopera
dall’estero, come fecero, invece, in diversa misura, tutti i Paesi
dell’Europa centro-settentrionale. A causa dei suoi forti squilibri
sociali ed economici interni, infatti, la penisola disponeva, all’interno
dei propri confini, dei bacini di manodopera necessari a sostenerne la
crescita. La grande migrazione interna dal Mezzogiorno verso le città
del «triangolo industriale» svolse storicamente il ruolo che, in
Francia, in Germania o nel Regno Unito, fu invece ricoperto dalle grandi
correnti d’immigrazione lavorativa extra-europea, perlopiù
incardinate su vecchi legami coloniali.
Fu solo nel corso degli anni Settanta che
l’Italia, con leggero anticipo sugli altri Paesi dell’Europa
mediterranea, cominciò a delinearsi come una meta significativa di
flussi migratori provenienti da altri continenti. Le cause di questa
trasformazione epocale sono molteplici ed hanno a che fare - su piani diversi ma
intrecciati - con l’intensificazione dei push factors in alcune aree
geografiche contigue; con l’adozione, a partire dal 1973, di misure
restrittive da parte dei Paesi europei di vecchia immigrazione; con i
cambiamenti profondi del mercato del lavoro e dell’organizzazione
sociale, avviati in Italia in quegli anni[46]. Ma ciò che
è particolarmente importante sottolineare qui è che, quando
l’immigrazione straniera comincia ad interessare l’Italia, essa non
è sorretta da una domanda di manodopera esplicita ed aggregata, proveniente
dal mondo imprenditoriale, né da una politica migratoria attiva, come
era stato altrove in Europa, fino ad allora. Si tratta, cioè, di
un’immigrazione che, sebbene in larga parte funzionale ad un sistema
economico bisognoso di lavoro flessibile e poco costoso, non ottiene
riconoscimenti ufficiali della sua funzione positiva. A questo paradosso, si
aggiunge il pesante vincolo - prima soltanto politico, poi (specialmente con la
nascita del «sistema Schengen») anche giuridico - rappresentato
dalla collocazione dell’Italia in ambito europeo, che le impone una
rapida armonizzazione agli standard restrittivi che prevalgono sul
continente[47].
In queste circostanze, il diritto e la politica
dell’immigrazione in Italia si sviluppano sotto l’impulso di
esigenze contrastanti, assumendo, di conseguenza, un andamento discontinuo e
non sempre coerente. Per un verso, attraverso una serie di interventi
legislativi di ampia portata (legge 943/1986; legge 39/1990; legge 40/1998),
inframmezzati da alcuni provvedimenti di rilievo più circoscritto (si
veda, in particolare, la legge 388/1993, di autorizzazione alla ratifica degli
accordi di Schengen), il Paese si dota di una legislazione rigorosa in materia
di ingresso e di soggiorno[48]. Ma, per un altro verso,
sopravvive a lungo (perlomeno fino all’adozione della legge 40/1998) un
atteggiamento oggettivamente «tollerante» nei confronti della
presenza irregolare e clandestina, che si manifesta attraverso una disciplina
lacunosa e poco efficace dell’espulsione, oltre che con ripetuti
provvedimenti di regolarizzazione[49]. Queste incongruenze
normative, aggravate da un’attenzione a lungo insufficiente sul piano
amministrativo, hanno fatto sì che una crescita sostanziosa della
presenza straniera regolare[50] sia coesistita con un
ampio bacino di immigrazione irregolare, che ha mostrato la tendenza ad
allargarsi nuovamente, dopo ogni regolarizzazione.
Le difficoltà incontrate dai poteri
pubblici nel porre sotto controllo i flussi migratori hanno contribuito a far
prevalere – con eccezioni circoscritte nel tempo e nello spazio - un
atteggiamento complessivo di scarso impegno sul versante delle politiche di
integrazione. Infatti, nonostante le ripetute e spesso enfatiche dichiarazioni
di intenti di stampo «integrazionista» che hanno caratterizzato in
particolare alcune fasi (dal dibattito parlamentare sulla legge 39/1990 a gran
parte dell’esperienza di governo del Centrosinistra), nella pratica ha
dominato a lungo la logica discutibile in base alla quale, per scongiurare un
temuto «effetto di richiamo», il conseguimento di una piena
efficacia delle politiche di controllo veniva posto come precondizione
necessaria per potere, in un secondo tempo, avviare una seria politica di
integrazione. Questo atteggiamento di scarso realismo non si è manifestato
soltanto sul terreno della politica migratoria in senso stretto e nella
disciplina della condizione giuridica dello straniero, ma si è
riflettuto anche sul diritto della cittadinanza. La legge 91/1992, infatti -
che abbiamo visto (supra, par. 2) essere ispirata da uno spiccato favore nei
confronti dell’emigrazione italiana - è, al contempo, espressione
di una «tendenza contraria ad una rapida assimilazione degli
stranieri»[51].
L’impronta restrittiva si riscontra in
diverse parti della legge che, nel loro insieme, compongono una vera e propria
«diga» alla piena integrazione giuridica degli stranieri residenti
in Italia. Meritano di essere segnalati qui, in particolare, due profili in
relazione ai quali si registra una maggiore chiusura rispetto alla legislazione
precedente[52]. Innnanzitutto, viene
riformata in profondità la disciplina dell’acquisto della
cittadinanza «per beneficio di legge»[53] da parte dei nati in
Italia da cittadini stranieri: mentre l’articolo 3 della legge 555/1912
considerava sufficiente, a questo fine, che il nato in Italia risiedesse sul
territorio nazionale al compimento della maggiore età (che,
all’epoca, si conseguiva a 21 anni) e dichiarasse di eleggere la
cittadinanza italiana entro l’anno successivo, la legge del 1992 ha
introdotto condizioni assai più restrittive:
Lo
straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni
fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara
di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data
(art. 4, comma 2).
Come si vede, il requisito della residenza legale
e ininterrotta, se interpretato rigidamente, rischia di escludere dal beneficio
un numero considerevole di giovani, nati in Italia e privi di legami diretti
con il Paese d’origine dei genitori, i quali però, per esempio,
abbiano ottenuto un regolare titolo di soggiorno (o siano stati registrati sul
titolo di soggiorno di uno dei genitori) solo in epoca successiva alla nascita,
per effetto di un provvedimento di regolarizzazione.
La seconda novità introdotta dalla legge
del 1992, su cui occorre soffermarsi, riguarda la disciplina della
naturalizzazione (art. 9). Il legislatore italiano, infatti, adottando un
approccio dotato di una certa originalità nel panorama europeo, ha
istituito una sorta di dettagliata gerarchia tra diverse categorie di
stranieri, fissando per ciascuna di esse un periodo di residenza legale
diverso, come condizione necessaria per poter presentare istanza di
naturalizzazione[54]. Così, il periodo
di “anticamera” necessario per poter aspirare alla cittadinanza
è stabilito equivalente a tre anni per lo «straniero del
quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo
grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio
della Repubblica»; è invece di quattro anni per il «cittadino
di uno Stato membro delle Comunità europee»; sale a cinque anni per lo «straniero
maggiorenne adottato da cittadino italiano», per lo «straniero che
ha prestato servizio [...] alle dipendenze dello Stato»[55] e per l’apolide;
diventa, infine, di ben dieci anni, nel caso del semplice «straniero»
(nel senso di cittadino di Stato non membro delle Comunità europee)[56]. Per quest’ultima
categoria di non-cittadini - che comprende, ovviamente, la quasi
totalità degli immigrati, ma che il relatore del provvedimento al
Senato, il senatore democristiano Mazzola, definiva miopemente «ipotesi
residuale»[57] - il tempo di residenza
necessario per poter chiedere la naturalizzazione risulta raddoppiato rispetto
alla legislazione previgente.
Ciò che sorprende, a distanza di qualche
anno, è la pressoché totale assenza di dibattito che - nelle sedi
politiche e parlamentari, ma anche all’interno della società
civile - accompagnò la svolta restrittiva del legislatore in materia di
cittadinanza degli immigrati. La fretta determinata dalla fine imminente della
legislatura[58], combinata a una
disattenzione di fondo - derivante da un grave ritardo culturale - comune a
tutte le maggiori forze politiche, generarono un’oggettiva convergenza di
interessi tra partiti apertamente contrari a una politica della cittadinanza
inclusiva e partiti in linea di principio più favorevoli, ma non
intenzionati a dare battaglia sul punto. Emblematiche del realismo di basso
profilo con cui la sinistra politica affrontò la questione sono le
parole pronunciate, a nome del Partito democratico della sinistra (PDS), dalla
deputata Silvia Barbieri, in una delle ultime sedute dedicate dal Parlamento
alla legge:
Certo, ci rendiamo conto
del fatto che stiamo intervenendo su di una materia in relazione alla quale
potrebbero essere aperte altre questioni (mi riferisco, per esempio, al termine
di dieci anni previsto per gli extracomunitari), tuttavia siamo convinti che
non vi siano attualmente le condizioni per avviare questo tipo di discussione[59].
Il consenso, assai ampio, seppur non entusiastico,
che si raccolse intorno al testo della legge si espresse, infine, in
un’approvazione definitiva all’unanimità (28 voti favorevoli
su 28 presenti) da parte della Commissione Affari costituzionali della Camera
dei deputati, nella seduta del 14 gennaio 1992.
Le scelte restrittive compiute dal Parlamento
hanno avuto riflessi significativi sull’andamento delle naturalizzazioni
concesse su base annua: mentre, dal 1994 al 1995, le attribuzioni discrezionali
di cittadinanza a residenti stranieri avevano compiuto un balzo, passando da
599 a 1.040 unità, nel 1996, quando gli effetti della riforma cominciano
a farsi sentire[60], si registra una lieve
flessione (907 naturalizzazioni), che risulta confermata nei due anni
successivi; è solo dal 1999 che si registra una inversione di tendenza,
che probabilmente si spiega in parte con il fatto che, a partire da
quell’anno, sono venuti maturando i dieci anni di residenza necessari ai
fini della naturalizzazione ordinaria per i circa 230.000 stranieri
regolarizzati in base alla legge 39/1990.
Anno |
1989 |
1990 |
1991 |
1992 |
1993 |
1994 |
1995 |
1996 |
1997 |
1998 |
1999 |
2000 |
Matrimonio |
3705 |
4.666 |
4.191 |
3.870 |
5.962 |
6.014 |
6.376 |
6.108 |
8.319 |
10.930 |
9.613 |
8.159 |
Natu-ralizz. |
520 |
559 |
350 |
538 |
582 |
599 |
1.040 |
907 |
918 |
1.106 |
1.724 |
1.435 |
(Fonte: ISTAT, Ministero dell’Interno)[61].
Il numero – che comunque rimane estremamente
esiguo - delle naturalizzazioni concorre a spiegare il livello relativamente
elevato di acquisizioni di cittadinanza per matrimonio, su cui peraltro sembra
incidere – in misura difficile da determinare – anche il fenomeno
dei matrimoni fittizi[62]. In altri termini, si
può ritenere che gli ostacoli di ordine normativo e amministrativo che
si frappongono alla naturalizzazione ordinaria inducano una parte dei
potenziali aventi diritto a privilegiare in ogni caso la via
dell’acquisizione per matrimonio.
nAlla luce di questi dati, l’Italia risulta
oggi - tra i principali Stati di immigrazione membri dell’OCSE –
uno di quelli con il più basso tasso di acquisizione di cittadinanza su
base annua (0,9%, pari al rapporto tra il numero totale delle acquisizioni di
cittadinanza e l’insieme della popolazione straniera regolarmente
presente), con le sole eccezioni del Lussemburgo (0,4%) e del Portogallo
(0,5%); questi valori ci collocano a una distanza abissale dagli Stati
più “inclusivi”, quali i Paesi Bassi (9,4%) e la Norvegia
(4,8%)[63]. La stessa Germania,
abitualmente additata quale esempio di un diritto della cittadinanza poco
liberale, ha concesso nel 1999 la cittadinanza a 248.200 stranieri, pari al
3,4% della popolazione straniera regolarmente soggiornante. Inoltre, il fatto
che persino in un paese di immigrazione più recente dell’Italia,
quale la Spagna, il tasso di acquisizione della cittadinanza nel 1999 sia stato
del 2,3% (pari a 16.400 casi) consente di interpretare la chiusura italiana in
questo campo come il risultato di un preciso orientamento politico e
amministrativo[64].
Le cifre richiamate dimostrano anche che
l’atteggiamento di chiusura strutturale dell’ordinamento italiano
nei confronti dell’accesso alla cittadinanza degli stranieri
extra-comunitari residenti stabilmente nel paese non è sostanzialmente
mutato negli anni di governo del Centrosinistra (1996-2001). In una prima fase,
l’esecutivo guidato da Romano Prodi aveva affrontato il problema dei
diritti politici degli stranieri stabilmente presenti sul territorio nazionale,
proponendosi di collegare una nuova forma di “cittadinanza locale”
al particolare status di denizenship derivante dalla
titolarità della “carta di soggiorno” istituita con la legge
40/1998. Nella versione originaria del disegno di legge che diede origine alla
legge nota come «Napolitano-Turco», infatti, per lo straniero titolare
di carta di soggiorno era previsto il diritto di partecipare alla vita pubblica
locale mediante «l’elettorato attivo e passivo nel comune di
residenza» in base alle norme che già regolano lo stesso diritto
per i cittadini europei[65]. Ma su questo punto, nel
corso del dibattito parlamentare, affiorarono forti resistenze politiche -
anche all’interno della stessa maggioranza - accompagnate da
perplessità di ordine costituzionale. Per evitare ritardi ulteriori
nell’approvazione definitiva della nuova legge sull’immigrazione -
resa urgente dalla volontà di entrare al più presto, a pieno
titolo, nello «spazio Schengen» - e per salvare la coesione della
propria maggioranza parlamentare, il Governo decise di accontentarsi di una
dichiarazione di principio inserita nel testo della legge (legge 40/1998, art.
7, 4° comma, lett. d), rinviando la effettiva concessione del diritto di
voto a livello locale a una futura modifica costituzionale[66].
Ma divenne presto evidente che ben difficilmente
una riforma costituzionale di tale impegno avrebbe potuto vedere la luce nel
corso della legislatura. Con quello che può essere letto come un
cambiamento di strategia, il governo incaricò allora (settembre 1998) la
«Commissione per le politiche di integrazione», organo consultivo
istituito dalla stessa legge n. 40 e operante presso il Dipartimento per gli
affari sociali della Presidenza del Consiglio dei ministri, di condurre
un’indagine per valutare l’opportunità di una riforma del
diritto della cittadinanza e di formulare eventuali proposte in merito. Siccome
la via della concessione del diritto di voto a livello locale agli stranieri
stabilmente insediati era apparso politicamente impercorribile, la coalizione
maggioritaria decise di esplorare la via di un allargamento dei confini della
cittadinanza. In un importante convegno tenutosi a Roma il 22 febbraio 1999, la
Commissione presentò i frutti del suo lavoro, indicando con notevole
dettaglio alcune «piste» di riforma[67]: a) creare condizioni
più favorevoli di accesso alla cittadinanza per i minorenni «nati
o formati» in Italia, per esempio mediante l’introduzione del
cosiddetto doppio jus soli e la riduzione del periodo di residenza legale
continuativa necessaria ai nati in Italia per acquisire la cittadinanza
italiana al compimento della maggiore età; b) ridurre le
«difficoltà per le naturalizzazioni», sia attraverso una
riduzione dei tempi di residenza necessari per legge al fine di poter
presentare la domanda (da 10 a 5, o tutt’al più 7 anni) sia
mediante la semplificazione delle procedure e la riduzione dei tempi di attesa;
c) ingaggiare una lotta più decisa contro i matrimoni di comodo,
rendendo più difficile l’acquisizione della cittadinanza per
matrimonio; d) ammettere pienamente la doppia cittadinanza, abolendo il decreto
ministeriale che la proibisce espressamente dal 1994 (vd. nota 52).
Ma, nonostante il convinto sostegno alla riforma
espresso inizialmente dai titolari dei due dicasteri direttamente interessati
(Rosa Russo Jervolino, ministro dell’Interno, e Livia Turco, ministro per
la Solidarietà sociale), non si pervenne a un disegno di legge nel corso
della XIII legislatura. Anche su questo terreno, come su altri assai più
dibattuti, lo slancio riformista del Centrosinistra italiano si esaurì
di fronte all’incalzare delle emergenze e delle preoccupazioni
elettorali.
Solo in seguito alla sconfitta elettorale del 13
maggio 2001, il progetto politico di una riforma che liberalizzi il diritto
italiano della cittadinanza è stato ripreso dal principale partito di
opposizione, con la presentazione di un progetto di legge che si propone, in
particolare, di «rendere più flessibile il sistema per
l’acquisto della cittadinanza iure soli, nella consapevolezza dei
mutamenti intervenuti nell’ultimo decennio, sia nella legislazione in
materia di immigrazione, sia in riferimento alle condizioni sociali che rendono
necessario il perseguimento di efficaci politiche di integrazione degli
stranieri»[68].
Nessuna riforma, tuttavia, si profila
concretamente all’orizzonte, poiché né il governo in carica
né la corrispondente maggioranza parlamentare sembrano intenzionati a
«toccare» la disciplina della cittadinanza in vigore. Si può
anzi ritenere che le modifiche della legge 40/1998 in materia di immigrazione,
attualmente in corso di approvazione da parte del Parlamento[69], riducano ulteriormente
le opportunità di accesso alla cittadinanza italiana per i cittadini
extracomunitari immigrati e per i loro discendenti. In particolare, è
prevedibile che misure quali la riduzione della durata massima dei permessi di
soggiorno dopo il primo rinnovo (art. 5 del disegno di legge citato),
l’allungamento del periodo di soggiorno regolare necessario per poter
richiedere la carta di soggiorno (art. 9) o la riduzione del «periodo di
tolleranza» di una situazione di disoccupazione ai fini della conservazione
di un valido titolo di soggiorno (art. 18, comma 11) rendano più
difficile maturare il periodo di residenza necessario ai fini della
naturalizzazione o – per i figli dei lavoratori stranieri nati in Italia
– mantenere quello status di residente legale «senza
interruzioni» fino alla maggiore età richiesto dalla legge 91/1992
ai fini dell’acquisizione della cittadinanza italiana.
Nella misura in cui la condizione amministrativa
dello straniero regolare viene resa più instabile e precaria,
l’accesso alla cittadinanza diventa un miraggio sempre più incerto
e lontano. Ciò - per un paese che circostanze geografiche, economiche e
demografiche destinano ad essere, nei decenni a venire, meta di flussi
migratori crescenti – rappresenta un problema grave e strutturale. Solo
un diritto e una politica della cittadinanza più flessibili e inclusivi,
infatti, ci possono preservare dal diventare una comunità politica
sempre più «sbilanciata». Una comunità in cui milioni
di individui che non hanno mai visitato questo paese sono inseriti nel circuito
democratico, mentre centinaia di migliaia di altri, che in questo paese vivono
da anni, lavorando e pagando le tasse, ne sono esclusi.
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[1] Questo saggio è una vesione rivista e aggiornata di F. Pastore, Nationality Law and International Migration: The Italian Case, in R. Hansen – P. Weil, a cura di, «Towards a European Nationality. Citizenship, Immigration and Nationality Law in the EU», Palgrave, Basingstoke, 2001.
[2] Sulla transizione migratoria italiana,
vd. tra gli altri, Pugliese, 1996; Bonifazi, 1998.
[3] Non è ancora stata scritta una
storia organica della politica italiana in materia di immigrazione. Tra i testi
utili ai fini di una ricostruzione d’insieme, vd. Granaglia e Magnaghi,
1996; Nascimbene, 1997; Pastore, 1998; Sciortino, 2000; F. Pastore, 2000a;
Pastore, 2000b; Zincone, 2000; Bolaffi, 2001; Pastore, 2001a; Zincone, 2001;
Zincone, 2002. Si vedano anche i capitoli dedicati agli sviluppi politici e
legislativi nei rapporti sulle migrazioni pubblicati annualmente a cura della
Fondazione Cariplo per le Iniziative e lo Studio della
Multietnicità-ISMU (Franco Angeli, Milano).
[4] Nel linguaggio giuridico italiano, fin
dal primo Codice civile dello stato unitario (1865), il termine
«cittadinanza» è usato in un significato corrispondente al
francese «nationalité» ed all’anglo-americano
«nationality». Si parla, perciò, tecnicamente, di «diritto
della cittadinanza», di «modi di acquisto» e di
«perdita della cittadinanza», di «doppia cittadinanza»
e così via. Il termine «nazionalità» e il correlato
concetto di «nazione» sono, invece, usati prevalentemente nel campo
delle scienze sociali, per designare una forma, storicamente determinata, di
appartenenza etnica o culturale che, nel presente momento storico, non assume
generalmente rilevanza autonoma dal punto di vista normativo; ma, per un esame
dettagliato dei casi eccezionali in cui l’appartenenza nazionale in
quanto tale (a
prescindere, cioè, dalla cittadinanza) assume rilevanza sul piano
giuridico, vd. Crisafulli e Nocilla, 1977, in part. p. 805 ss..
[5] Sottolineare l’importanza dei
fenomeni migratori come fattore evolutivo del diritto italiano della
cittadinanza non deve portarci a dimenticare il peso di altre determinanti
sociali, culturali e politiche delle trasformazioni di questa branca del
diritto. In particolare, va messo in evidenza il profondo impatto che ha avuto
in questo campo il valore dell’uguaglianza tra uomo e donna
all’interno della famiglia, affermatosi progressivamente
all’interno della società italiana nel secondo dopoguerra ed
elevato a principio normativo di rango costituzionale dalla Costituzione
repubblicana (1948). Con un certo ritardo rispetto ai principali paesi europei,
e grazie al fondamentale ruolo di impulso svolto dalla Corte costituzionale
(vedi, in particolare, le sentenze 16 aprile 1975, n.87 e 9 febbraio 1983,
n.30), il principio di parità ha, infatti, determinato profonde
modificazioni nella disciplina legislativa della cittadinanza (vedi,
soprattutto, la legge 19 maggio 1975, n.151, e la legge 21 aprile 1983, n.123).
Si è così pervenuti al pieno superamento del dogma ottocentesco
della unità politica della famiglia (unicità della cittadinanza al suo
interno) ed alla piena equiparazione della donna all’uomo, sia con
riferimento all’incidenza del matrimonio sulla cittadinanza dei coniugi,
sia con riferimento alla capacità di trasmettere la cittadinanza stessa
ai figli.
[6] CSER 1988, p.7. In realtà, come
è stato osservato recentemente, «più che di esaurimento tout
court del ruolo di paese
d’emigrazione, sembrerebbe più corretto parlare di trasformazione
delle funzioni, delle caratteristiche e delle dimensioni della nostra
emigrazione e di un suo progressivo adeguamento alle modificazioni strutturali
che, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, hanno radicalmente
trasformato la società italiana» (Bonifazi, 1998, p. 73). Per
un’analisi dei flussi in uscita dall’Italia negli ultimi anni, vd.
il capitolo dedicato a «Movimento migratorio dall’Italia con
l’estero» in Caritas di Roma, 1997, p. 42 ss.. Vd. anche Guarneri,
2001.
[7] Favero e Tassello, 1978, cfr. in part.
p.11.
[8] Vd., da ultimo, Weil, 2002.
[9] Un’eccezione di grande rilievo
è tuttavia rappresentata dalla politica migratoria restrittiva adottata,
a partire dalla seconda metà degli anni Venti, dal regime fascista (in
proposito, vd., da ultimo, Ostuni, 2001, pp. 309-319). Questa svolta,
espressione di una più generale svolta politica di impronta autarchica
ed imperialistica, è bene espressa nel passo seguente, tratto da una
circolare, firmata Mussolini, indirizzata
il 3 giugno 1927 dalla Direzione Generale Italiani all'Estero ai prefetti delle città italiane: «...non basta difendere la salute della razza,
incoraggiare l'aumento delle nascite, diminuire le morti, se si permette che
attraverso l'esodo degli elementi più forti e più produttivi
venga indebolita quantitativamente e qualitativamente la compagine della
Nazione. [...] Per ogni emigrante che esce per sempre dall'Italia, in compenso
di poco oro che giunge dall'estero, il Paese perde: economicamente, tutto
ciò che ha speso per nutrirlo, educarlo, per metterlo in grado di
produrre; militarmente, un soldato; demograficamente, un elemento giovane e
forte, che feconderà terre straniere e darà figli a Paesi
stranieri. Richiamo i prefetti del Regno ad una rigida sorveglianza su tutti
gli organismi esistenti nelle loro giurisdizioni, aventi comunque attinenza con
l'emigrazione. E pertanto le Regie Questure dovranno esercitare la massima
severità e parsimonia nel rilascio di passaporti per emigranti».
[10] «...la
politica emigratoria italiana si venne definendo come oggetto di comportamenti
politici trasformistici, inclini a privilegiare la via amministrativa a quella
legislativa e tutto sommato ad assumere posizioni attendiste. Rispetto a un
fenomeno largamente spontaneo e in ogni caso “autonomo” nei
confronti dei pubblici poteri, si restò il più delle volte alla
finestra» (Sori, 1979, p.255).
Anche Sacchetti (1978, p.262) sottolinea il «disimpegno [dello
Stato italiano] di fronte all’integrazione degli emigrati», che di
fatto ha «finito per scongiurare il rientro degli emigrati e per
favorire, o almeno lasciare che avvenisse, la loro integrazione nei Paesi di
accoglimento».
[11] Soltanto nei confronti di alcuni Stati
minori dell’America centrale e meridionale ebbe successo lo sforzo
diplomatico compiuto dall’Italia, per frenare la moltiplicazione dei
doppi cittadini de facto. I trattati stipulati con Costarica (6 maggio 1873; reso esecutivo con
regio decreto 23 aprile 1875) e con la Bolivia (18 ottobre 1890; reso esecutivo
con legge 27 marzo 1901 e rinnovato con scambi di note successivi) obbligarono
infatti detti Stati, in linea generale fedeli al principio dello jus soli in materia di diritto della cittadinanza,
a introdurre deroghe specifiche per i figli degli emigranti italiani ed a
considerare quindi italiani anch’essi, in assenza di una loro espressa
opzione per la cittadinanza locale.
[12] Sulla «Grande
Naturalizzazione», vd. Rosoli, 1986. Vd., anche, Lahalle, 1990.
[13] Rosoli (1986, p.71) fa notare, per
esempio, che «un statut imposé
de citoyen du pays de résidence pouvait compromettre gravement les
droits des héritiers directs restés dans le pays d'origine».
[14] Con i decreti 15 maggio 1890, n. 396 e 13
giugno 1890, nn. 479 e 490, il governo brasiliano fa alcune concessioni
(proroga dei termini per la dichiarazione di rifiuto della naturalizzazione;
semplificazione delle procedure; specificazione che l’iscrizione
automatica nelle liste elettorali non comporta necessariamente l’aquisto
della cittadinanza), che però non influiscono sostanzialmente
sull’attuazione della riforma.
[15] Articoli 35-36, legge 31 gennaio 1901
n.23 «concernente disposizioni sull’emigrazione»; legge 17
maggio 1906 n.217, «relativa alle norme per la concessione della
cittadinanza italiana». Tra le disposizioni contenute nella legge del
1901, assume un notevole rilievo pratico ai fini del tema affrontato qui -
anche se non influisce direttamente sui modi di acquisto e di perdita della
cittadinanza - la norma che dispensa provvisoriamente dal servizio militare
obbligatorio il cittadino italiano nato e residente in paesi extra-europei
(salvo la Turchia e i paesi dell’Africa mediterranea) o là
emigrato prima di aver compiuto il sedicesimo anno. La dispensa provvisoria
diventa definitiva al compimento del trentaduesimo anno. Viene così meno
uno dei fattori-chiave che incentivavano, di fatto, gli emigrati e i loro figli
a «tagliare i ponti» mediante la rinuncia alla cittadinanza italiana
e la naturalizzazione.
[16] Atti Parlamentari, Camera dei Deputati,
Legislatura XXIII, 1a sessione, Discussioni, 1a tornata
del 4 giugno 1912, p. 20322.
[17] Contestando la diversa, ma isolata,
opinione di alcuni parlamentari (vd. in part. l’intervento del senatore
Garofalo, Atti Parlamentari, Senato del Regno, Legislatura XXIII, 1a
sessione, Discussioni, tornata del 19 giugno 1911, p.5751 ss.), il presentatore
del disegno di legge originario, Scialoja, afferma inequivocabilmente:
“Non vi è pertanto in questo progetto di legge, ed è suo
vanto, alcuna traccia di quell’ibrido concetto della doppia
cittadinanza” (ibidem, p.5768).
[18] Vd. l’intervento del senatore Fiore
(ibidem, in part.
p.5757).
[19] E’ significativo che, alla vigilia
della Ia Guerra mondiale, non si registri un incremento
significativo dei rimpatri di cittadini italiani emigrati, per obbedire alla
chiamata alle armi (il dato vale esclusivamente per i rimpatri da paesi
extra-europei, in quanto il dato statistico sui rimpatri da altri paesi europei
è rilevato solo a partire dal 1921). E’ evidente che, anche in
quella circostanza eccezionale, il vincolo di appartenenza rimase
sostanzialmente inoperativo.
[20] Quadri, 1959, p.323.
[21] Il regime fascista aveva utilizzato la
privazione ex lege
della cittadinanza come strumento di repressione politica, essenzialmente in
due direzioni: contro i dissidenti rifugiati all’estero («... la cittadinanza si perde dal
cittadino, che commette o concorra a commettere all’estero un fatto,
diretto a turbare l’ordine pubblico del Regno, o da cui possa derivare
danno agli interessi italiani o diminuzione del buon nome o del prestigio
dell’Italia, anche se il fatto non costituisce reato», art. unico,
legge 31 gennaio 1926, n. 108; vd. anche legge 25 novembre 1926, n. 2008
recante provvedimenti per la difesa dello Stato) e contro i cittadini
definiti «di
razza ebraica»
(«Le concessioni di cittadinanza italiana comunque fatte a stranieri
ebrei posteriormente al 1° gennaio 1919 s’intendono ad ogni effetto
revocate», art. 3, regio decreto-legge 7 settembre 1938, n. 1381; la
stessa disposizione fu ripetuta in un più ampio provvedimento
successivo: regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, recante
provvedimenti per la difesa della razza italiana, art. 23). Le revoche delle concessioni
di cittadinanza in questione vennero dichiarate nulle, con conseguente
reintegrazione delle persone colpite nella cittadinanza italiana, con il regio
decreto-legge 20 gennaio 1944, n. 26 (art. 2).
[22] In seno all’Assemblea costituente
(Ia Sottocommissione, 21 settembre 1946), l’unica voce
espressamente favorevole a una più ampia
«costituzionalizzazione» della disciplina della cittadinanza
è quella del cattolico democratico Aldo Moro, il quale si dichiara
«non contrario all’idea che la nostra Costituzione contenga
principi in ordine alla cittadinanza e dia un lume preciso sulla legge stessa
che tratterà della cittadinanza» (Segretariato Generale della
Camera dei Deputati, 1971, p. 398).
[23] Cfr. Giuliano, 1965, p. 329 ss.; Clerici,
1977, p. 679 ss..
[24] Per il testo e un’ampia analisi di
questo accordo, vd. Boggiano, 1973, in part. p. 45 ss..
[25] Mazziotti, 1972, p. 241 ss..
[26] Biscottini, 1973, p. 83 ss..
[27] Treves, 1975, p. 294 ss.; Morelli, 1977, p. 152 ss..
[28] Cuniberti, 1997, pp. 510-511.
[29] Il primo disegno di legge, di iniziativa
governativa, per la riforma organica della legge n. 555 del 1912 venne
presentato il lontano 7 marzo 1930.
[30] L’auspicio di una sostanziale
riforma della legge 555/1912, unitamente alla rivendicazione di una legge per
consentire l’esercizio del diritto di voto in Italia ai cittadini
italiani residenti all’estero, era emerso come una delle richieste
fondamentali rivolte allo Stato italiano dai rappresentanti delle
comunità emigrate, riuniti a Roma nel 1988, in occasione della «Seconda
Conferenza nazionale dell’emigrazione»; cfr. Ministero degli affari
esteri, 1990, in part. vd. la relazione conclusiva sull’attività
della Quinta Commissione («Italiani all’estero - Cittadini in
Italia»), svolta dal senatore Mario Fioret (p. 336 ss.). E’
opportuno ricordare che l’iter parlamentare della legge 91/1992 venne avviato il
13 dicembre 1988, con la presentazione di un disegno di legge da parte del
Ministro degli affari esteri, il democristiano Giulio Andreotti, che poche
settimane prima aveva presieduto la Conferenza nazionale
dell’emigrazione.
[31] Atti parlamentari, X legislatura, Senato
della Repubblica, Disegno di legge N.1460, Nuove norme sulla cittadinanza, p.2.
[32] Clerici, 1993, p. 4.
[33] Questa è la terminologia usata da
Stefania Bariatti, 1996, p.26 ss.; di acquisto della cittadinanza «per
beneficio di legge o elezione» parla, invece, Clerici, 1993, p.323 ss..
[34] Termine prorogato in seguito fino al 31
dicembre 1997.
[35] Tra il 1992 e il 1994, le riacquisizioni
di cittadinanza basate su tale disposizione sono state 132.775 (di cui 97.400
riguardanti individui residenti nelle Americhe); nel triennio successivo
(1995-1997), tale numero si è ridotto a 30.981, di cui 25.600
provenienti dal continente americano (cfr. Commissione per le politiche di integrazione
degli immigrati, Dossier di documentazione presentato in occasione del convegno “Riformare la
legge sulla cittadinanza”, Roma, 22 febbraio 1999).
[36] In un’appendice al Documento
programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri
nel territorio dello Stato, a norma dell’art. 3 della legge 6 marzo
1998,n.40, approvato dal
Consiglio dei ministri il 15 marzo 2001, la tendenza in questione era messa in
evidenza con toni preoccupati: «E' stato registrato particolarmente da
alcune nostre Ambasciate in Paesi dell'America Latina (Argentina, Brasile) un
crescente interesse da parte di cittadini di origine italiana a trasferirsi in
Italia motivato dalla elevata disoccupazione e dalla crisi economica che
caratterizzano questi Paesi e che spingono molte persone ad individuare strade
e sbocchi alternativi che contemplano anche l'ipotesi di cercare lavoro in
Europa. […] Si tratta per lo più di cittadini di origine italiana
che hanno acquisito per naturalizzazione la cittadinanza del paese ospitante ma
che possono ottenere, e in molti casi hanno già ottenuta, la
ricostruzione (sic) della
cittadinanza italiana. Sono quindi nella maggior parte in possesso della doppia
cittadinanza e sono attratti appunto dalle nuove possibilità che il
mercato del lavoro nazionale e di altri Paesi dell'UE sembra poter offrire.
Naturalmente essi si avvarrebbero della cittadinanza italiana che consente la
piena libertà di circolazione in ambito UE».
[37] Secondo stime approssimative, le persone
di origine italiana residenti fuori dai confini nazionali sarebbero circa 60
milioni, di cui circa un quinto si troverebbe in Argentina.
[38] L’applicazione strumentale del
diritto della cittadinanza in campo sportivo non è certo
un’esclusiva italiana (cfr. per es. F. Potet, “Le recours aux sportifs
naturalisés se multiplie avant les JO”, Le Monde, 22 agosto 2000, p. 21. Ciò che
è più specifico dell’Italia, invece, è il rischio
elevato di frodi generato, come vedremo, da una normativa particolarmente
generosa in materia di «recupero» della cittadinanza da parte dei
discendenti di cittadini italiani.
[39] Art. 40, comma 7, Norme organizzative
interne della Federazione Italiana Gioco Calcio.
[40] Esistono tuttora due archivi distinti e
autonomi degli italiani residenti all’estero. All’Anagrafe
consolare, gestita dalle rappresentanze del Ministero degli affari esteri,
risultano attualmente iscritti 3.990.295 individui (http://www.esteri.it/polestera/italstra/index.htm, consultato il 5 marzo 2002); I registri
dell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, istituita nel
1988 e gestita con criteri diversi dal Ministero dell’interno, invece,
comprendono 2.843.857 nominativi (http://cedweb.mininterno.it:8089/frame_stat.htm, consultato il 9 marzo 2002). La legge
459/2001 dispone che il Governo proceda all’unificazione dei due archivi
al fine di predisporre le liste elettorali; l’operazione è
tuttavia ancora in corso: il via definitivo alle operazioni di rilevazione
è stato dato dal Parlamento nel maggio 2002 (cfr. “Italiani
all’estero, al via l’aggiornamento delle liste”, Il
Sole-24 Ore, 10 maggio
2002, p. 11).
[41] Il tema dell’esercizio del diritto
di voto da parte dei cittadini residenti all’estero - che era
«oltre che non attuale, improponibile» in un sistema elettorale
fondato su principi censitari (F. Lanchester, Il voto degli italiani
all’estero: un esercizio difficile, in Lanchester, 1988, p.10) - affiorò in
concomitanza con l’estensione su base universale (prima solo maschile,
poi anche femminile) del suffragio. Successivamente, l’Assemblea
costituente affrontò la questione, ma respinse la proposta di introdurre
nel testo costituzionale una garanzia esplicita dell’esercizio del diritto
di voto da parte del cittadino residente all’estero (vd. la discussione
svoltasi nelle sedute del 20-21-23 maggio 1947, in Segretariato generale della
Camera dei deputati, 1970, p.1791 ss..
[42] Per una reazione a caldo su questo
aspetto, vd. M. Luciani, “Nell’urna di Dakar. Il pasticcio del voto
degli italiani all’estero”, La Stampa, 21 novembre 2001.
[43] Si leggano, in proposito, le durissime
parole scritte da Enrico Grosso:
«La stragrande maggioranza delle
forze politiche, infatti, per sincera convinzione o più spesso per un
incomprensibile calcolo di utilità o per l’ancor più
incomprensibile paura di subire un appannamento della propria immagine, si era
da tempo schierata acriticamente a favore dell’introduzione del voto
all’estero, non importa come organizzato e non importa come
disciplinato» (Grosso, 2002; ivi anche contributi di segno diverso).
Dello stesso Autore, si vedano anche 2000 e 2001.
[44] Questa affermazione va parzialmente
corretta: a parte il caso italiano di cui ci stiamo occupando, l’ordinamento
portoghese contempla, infatti, una rappresentanza diretta degli elettori
residenti fuori dal territorio nazionale (due deputati per ciascuna delle due
circoscrizioni elettorali). Nel caso francese, invece, la rappresentanza
è indiretta: i 12 senatori rappresentanti dei francesi all’estero
sono eletti indirettamente da un collegio composto dai membri del Conseil
Supérieur des Français hors de France, assemblea rappresentativa dei cittadini
residenti fuori dal territorio nazionale. Cfr. Camera dei Deputati, 2000.
[45] Intervista al ministro Rafiq El Haddaoui,
in Jeune Afrique, 9
settembre 1993.
[46] Per un inquadramento sintetico del
fenomeno dell’immigrazione nella storia italiana recente, vd.
Pugliese, 1996, p. 933 ss..
[47] Cfr. Pastore, 1999.
[48] Sul processo di formazione del diritto
italiano in materia di immigrazione, si vedano i testi citati alla nota 3.
[49] Nel 1982, ca. 5.000 stranieri vennero
regolarizzati in applicazione di una circolare del Ministro del lavoro; circa
116.000 persone ottennero un permesso di soggiorno per effetto della legge
943/1986; i regolarizzati furono poi circa 230.000 nel 1990 (legge 39/1990),
mentre nel 1995-1996 (decreto-legge 489/1995 e successive reiterazioni) si
ebbero circa 256.000 domande di regolarizzazione, in larghissima parte accolte.
Nel corso dell’ultima procedura di regolarizzazione, avviata con decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 ottobre 1998, sono state
presentate 250.966 istanze, di cui, all’inizio del 2001, 214.421
risultavano accolte e oltre 34.000 ancora in fase di accertamento (cfr.
Caritas, 2001, p. 152). Il disegno di legge di iniziativa governativa (primo
firmatario: Silvio Berlusconi) per la “Modifica alla normativa in materia
di immigrazione e di asilo” approvato dalla Camera dei deputati il 4
giugno 2002 e ora all’esame (in seconda lettura) del Senato (Atto Senato
N.795-B) prevede una nuova procedura di regolarizzazione limitata a lavoratori
domestici e a personale adibito a «attività di assistenza a
componenti della famiglia affetti da patologie o handicap che ne limitano
l’autosufficienza» (art. 33, rubricato «Dichiarazione di
emersione»). Va inoltre tenuto conto del fatto che, contestualmente alla
approvazione del disegno di legge citato, la Camera dei deputati – su
sollecitazione di alcune componenti della maggioranza di governo – ha
approvato un ordine del giorno con cui impegna il governo ad effettuare una
ulteriore regolarizzazione che
«dia soluzione alla posizione degli extracomunitari già presenti
irregolarmente nel territorio italiano ma che prestano lavoro
subordinato» (Ordine del giorno n° 9/2454/33). Si profila insomma
all’orizzonte una doppia regolarizzazione di difficile gestione e
dall’impatto numerico e sociale difficile da prevedere.
[50] Nell’arco di vent’anni, si
è passati dalle ca. 272.000 presenze del 1980, ai 1.388.153 permessi di
soggiorno rilasciati a cittadini stranieri risultanti in corso di
validità alla fine del 2000; l’esperienza passata insegna tuttavia
che quest’ultima cifra deve essere incrementata di circa 20%, al fine di
ricomprendere i permessi validi ma non ancora registrati e gli stranieri
minorenni iscritti sui permessi di soggiorno dei genitori; la presenza regolare
complessiva a fine 2000, stimata dalla Caritas di Roma sulla base di un calcolo
di questo tipo, ammonterebbe quindi a 1.687.000 individui (Caritas, 2001, p.
115). Al principio di giugno 2002, i dati ufficiali relativi all’anno
2001 non sono ancora pubblicamente disponibili.
[51] Sono le parole di Roberta Clerici (1993,
p. 328), la quale definisce, altresì, «curiosi» i
«toni enfatici con i quali alcuni esponenti del governo hanno individuato
nelle disposizioni in esame un segno di cambiamento verso una società
multietnica, multirazziale, multiculturale» (ibidem). Di «intento protettivo al quale
è ispirata la nuova normativa, ostile ad una rapida assimilazione»
della popolazione immigrata, parla anche Enrico Grosso (1992, p. 342).
[52] Oltre a quelli elencati nel testo, vi
sono anche altri aspetti della normativa del 1992 che incidono negativamente
sulle concrete opportunità di acquisto della cittadinanza italiana da
parte di stranieri immigrati. Si veda, in particolare, la severa disciplina
delle cause che precludono l’acquisto della cittadinanza in seguito a
matrimonio (art. 6).
[53] Nella terminologia dominante in seno alla
dottrina giuridica, si indica con questa locuzione una modalità di
attribuzione della cittadinanza che si fonda su una manifestazione di
volontà da parte dello straniero, ma che esclude, a differenza della
naturalizzazione, qualsiasi valutazione discrezionale da parte della pubblica
amministrazione.
[54] La procedura è disciplinata dal
Regolamento di attuazione della legge 91/1992 (Decreto del Presidente della
Repubblica, 12 ottobre 1993 n. 572, successivamente modificato con Decreto del
Presidente della Repubblica 12 aprile 1994, n. 362).
[55] In questo caso particolare, in
realtà, ciò che conta non è il periodo di residenza, ma il
periodo di servizio, che può essere prestato anche all’estero.
[56] Questo prolungamento del periodo di
residenza necessario ai fini di poter chiedere la naturalizzazione va nel senso
opposto alla tendenza prevalente nei paesi dell’Europa occidentale di
più lunga tradizione immigratoria (con l’eccezione
dell’Austria, che ha mantenuto nel corso degli anni ’90 un
atteggiamento piuttosto restrittivo). Va detto, tuttavia, che una tendenza
analoga a quella prevalsa in Italia si è manifestata, negli stessi anni,
in altri paesi dell’Europa meridionale di recente immigrazione (Grecia e
Portogallo; non invece in Spagna), i quali hanno innalzato il «periodo di
attesa» a dieci anni, rispettivamente nel 1993 e nel 1994. Per un
tentativo di interpretazione di queste tendenze divergenti in ambito europeo,
vd. Hansen e Weil, 2001. Lo stesso tema è affrontato, con riferimento a
uno specifico caso nazionale, da Vink, 2001.
[57] Atti parlamentari, X legislatura, Senato
della Repubblica, Disegni di legge e relazioni - Documenti, Relazione sui
disegni di legge n.1460 e n.1850-A, p. 8.
[58] Le elezioni politiche si sarebbero tenute
il seguente 5 aprile 1992.
[59] Atti parlamentari, X legislatura, Camera
dei deputati, I Commissione, Resoconto stenografico, seduta del 9 gennaio 1992,
p. 5.
[60] Il ritardo rispetto
all’approvazione della legge è dovuto in parte alla tardiva
emanazione del regolamento di esecuzione, in parte alla lunga durata dei
procedimenti amministrativi per l’esame delle istanze di
naturalizzazione.
[61] Esistono alcune discrepanze, di rilevanza
marginale, tra i dati forniti a diverse riprese e in diverse occasioni dai
servizi competenti del Ministero dell’Interno.
[62] Menghetti, 1998, p. 4.
[63] Vd. tabella A.1.6. (Acquisition of nationality in selected OECD countries) in SOPEMI,
2001, p. 283. I valori
riportati nel testo sono riferiti all’anno 1999, con l’eccezione
del dato del Lussemburgo, riferito al 1998.
[64] L’orientamento restrittivo
dell’apparato amministrativo italiano in materia di naturalizzazione si
manifesta, oltre che in un utilizzo particolarmente rigoroso, ma legittimo, del
potere discrezionale nell’esame delle istanze, anche in alcune prassi
decisionali di dubbia legittimità. Si segnala, in particolare,
l’uso - inizialmente affermatosi sulla base di una circolare del 1936,
avallato dal Consiglio di Stato con sentenza 28 ottobre 1958, n. 19 e infine
imposto con decreto del ministro dell’Interno (emanato il 22 novembre
1994, a firma dell’allora sottosegretario Gasparri, esponente di Alleanza
nazionale) - di richiedere allo straniero che presenta istanza di
naturalizzazione un «certificato di svincolo», ovvero la prova della
rinuncia alla cittadinanza precedente. Questa prassi è stata oggetto di
dure critiche da parte della dottrina per varie ragioni: innanzitutto,
perché contrasta con lo spirito (se non con la lettera) della legge
91/1992, contenente una decisa apertura alla doppia cittadinanza (art. 11);
inoltre «perché si traduce di fatto in un rischio di apolidia e in
un mezzo per scoraggiare, in modo più o meno occulto, la
naturalizzazione» (Cuniberti, 1997, p. 501, nota 110).
[65] Art. 1, 5° comma, decreto legislativo
12 aprile 1996, n. 197.
[66] Per la formalizzazione di questa
decisione governativa, in seno alla I Commissione permanente della Camera dei
deputati, vd. il resoconto delle sedute del 24 e 25 settembre 1997, in Camera
dei deputati, Servizio Studi, XIII legislatura, Dossier Provvedimento n. 373/2,
Disciplina dell’immigrazione e condizione dello straniero. Lavori
preparatori della L. 6 marzo 1998, n. 40, Parte seconda, p. 640 ss..
[67] Si veda la relazione della Presidente
della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati: Zincone,
1999.
[68] Atti Parlamentari, Camera dei deputati,
XIV Legislatura, Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Turco,
Violante, Montecchi, Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante
norme sulla cittadinanza,
N. 1463, presentata il 1° agosto 2001; la citazione è contenuta a
pag. 2 della Relazione introduttiva.
[69] Il disegno a firma del Presidente del
Consiglio, Silvio Berlusconi, e di altri diciassette ministri del suo
esecutivo, intitolato «Modifica alla normativa in materia di immigrazione
e di asilo», approvato dalla Camera dei deputati il 4 giugno 2002, si
trova attualmente all’esame del Senato per una seconda lettura (Atto
Senato N. 795-B).