LA COMUNITA’ SBILANCIATA

Diritto della cittadinanza e politiche migratorie

nella storia italiana post-unitaria[1]

 

di Ferruccio Pastore

(Centro Studi di Politica Internazionale – CeSPI)

 

- Giugno 2002 -

 

 

 

 

1. Diritto della cittadinanza e politiche migratorie: un intreccio trascurato

 

L’Italia non è certo l’unico caso di paese di forte emigrazione trasformatosi in meta di flussi migratori rilevanti. Agli albori del loro sviluppo industriale, diversi paesi dell’Europa occidentale e settentrionale conobbero questa parabola. Oggi, una simile transizione migratoria è in corso in vaste aree del mondo e, con particolare evidenza, in quelle periferie immediate dell’Occidente (dal Messico all’Europa orientale), che beneficiano più direttamente dei processi di regionalizzazione economica. Ma il caso italiano ha una sua specificità, legata alla drammaticità con cui la transizione migratoria vi si è compiuta, sia per effetto della straordinaria importanza quantitativa dell’emigrazione tra l’ultimo quarto del XIX e il terzo del XX secolo, sia a causa della rapidità con cui l’inversione del saldo migratorio si è verificata, a partire da quel periodo[2]. La trasformazione in paese di immigrazione ha posto una serie di difficili sfide al paese nel suo complesso, mettendo radicalmente alla prova la sua capacità di interpretare il cambiamento, di adattarvisi e di governarlo.

La prima di queste sfide è stata naturalmente quella di dotarsi di norme giuridiche e politiche specifiche in materia di immigrazione e di asilo. La modernizzazione italiana in questo campo è stata oggetto di diversi studi, che hanno messo via via in evidenza i progressi compiuti, unitamente alle profonde lacune strutturali che persistono[3]. Assai meno considerato, è stato l’impatto della transizione migratoria italiana su un altro ambito politico-giuridico, che pur avendo stretti legami con la politica migratoria (concepita come policy field bifronte, che comprende le politiche in materia di immigrazione e di emigrazione) se ne distingue nettamente, sia sul piano concettuale sia su quello empirico. Mi riferisco al diritto e alla politica della cittadinanza.

In una prospettiva storica, la tendenza ad introdurre legislazioni dettagliate in materia di cittadinanza[4], manifestatasi progressivamente negli Stati europei a partire dalla fine del XVIII secolo, si spiega prevalentemente con due ordini di ragioni, tra loro connessi. Da un lato, premono esigenze di carattere simbolico e pratico, inerenti al processo di nation building (riconducibili, specialmente, all’introduzione generalizzata della coscrizione obbligatoria); dall’altro lato, sulla «codificazione» della cittadinanza incidono profondamente le necessità particolari collegate alla regolamentazione dei massicci movimenti di popolazione che interessano numerosi Stati europei dalla metà del secolo scorso. Fin dalla sua nascita, cioè, il diritto della cittadinanza è caratterizzato da una stretta interrelazione con la disciplina giuridica dei movimenti migratori, sia di quelli che fuoriescono dai confini dello Stato, sia di quelli che vi fanno ingresso: a fronte di flussi migratori quantitativamente importanti e non meramente stagionali, il diritto della cittadinanza si configura - a seconda delle situazioni nazionali e delle epoche - come un fondamentale strumento per il mantenimento, lo scioglimento o la ricostruzione dei legami pratici e simbolici con chi emigra e come uno strumento altrettanto importante di inclusione o, viceversa, di discriminazione ed esclusione di chi si è stabilito nel territorio dello stato in qualità di immigrato.

L’interazione tra diritto della cittadinanza e politica migratoria è stata particolarmente intensa nel caso dell’Italia, nel corso del XX secolo[5]. L’imponente emigrazione italiana - quella transoceanica in particolare - iniziata nella seconda metà del XIX secolo e durata fino agli anni Settanta di quello successivo, ha agito come una determinante fondamentale delle scelte legislative in materia di cittadinanza, in occasione di entrambe le riforme di portata generale effettuate in questo secolo (a distanza di ottant’anni l’una dall’altra: nel 1912 e nel 1992). Quanto all’immigrazione da paesi stranieri, fenomeno sociale statisticamente rilevante in Italia solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, i suoi riflessi sul diritto della cittadinanza sono stati, sino ad oggi, limitati, ma estremamente significativi.

Nelle pagine che seguono, si intende offrire una veloce panoramica sull’evoluzione del diritto italiano della cittadinanza, nelle sue relazioni con i movimenti migratori che hanno interessato l’Italia in questo secolo e con le politiche relative. Ci si dedicherà, dapprima, all’esame delle principali modifiche legislative e di policy collegate ad obiettivi di politica dell’emigrazione o comunque rivolte alle comunità emigrate e di origine italiana residenti all’estero (parr. 2 e 3); si passerà, poi, a descrivere le evoluzioni più recenti, motivate (anche se spesso in forma implicita) dalla crescita sensibile del fenomeno dell’immigrazione straniera (par. 4).

Dalla panoramica storica che segue, scaturisce l’immagine di un paese la cui rappresentazione giuridica della comunità politica, definita come l’insieme dei titolari di pieni diritti politici, oltreché civili e sociali, si discosta significativamente dalla comunità «reale», sociologicamente ed economicamente intesa. Per un verso, infatti, il diritto e le prassi italiane configurano la cittadinanza - in misura paradossalmente crescente, se si guarda alla longue durée - come un vincolo tenace ancorché di consistenza limitata, che si tramanda ad libitum, salvo rinunce esplicite e formali. Per un altro verso, la cittadinanza italiana si profila come un bene amministrato con parsimonia estrema nei confronti dei nuovi venuti, ossia di quei migranti che ormai da decenni contribuiscono alla crescita economica e al rinnovamento sociale e culturale della Repubblica. Ne risulta l’immagine di una «comunità sbilanciata», in cui la sfasatura storica tra la realtà dei processi migratori e la politica della cittadinanza rischia di tradursi in un fattore strutturale di fragilità civile e di instabilità politica.

2. La cittadinanza degli emigranti: un vincolo debole, ma persistente

 

Nell’arco di un secolo - tra il 1876, anno in cui ha inizio ufficialmente la rilevazione del movimento migratorio italiano con l’estero, e il 1976, anno in cui il saldo migratorio nazionale si assesta intorno allo zero e in cui si può ritenere finita «l’emigrazione italiana di tipo tradizionale, come esodo di massa e sfollamento della manodopera eccedente»[6] - sono espatriati dall’Italia quasi 26 milioni di persone[7]. Solo un terzo (ma si tratta di una stima inevitabilmente approssimativa) di tale immensa ondata umana ha fatto stabilmente ritorno, a distanza di qualche mese o di decenni, in patria.

Una quota consistente di questo secolare flusso - che in alcuni anni ha toccato picchi impressionanti (il maggiore si registra nel 1913, con 872.598 espatri, equivalenti a un tasso migratorio del 2,4% annuo sull’insieme della popolazione nazionale) - si è indirizzata verso Stati bisognosi non solo di forza lavoro straniera (come nel caso della Svizzera e della Repubblica federale tedesca), ma anche di incrementi sostanziosi della popolazione stabile. Per soddisfare questo bisogno di popolamento, i principali Stati extra-europei di immigrazione italiana (e in Europa, in forme più moderate, la Francia[8]) hanno sviluppato politiche finalizzate a un inserimento rapido e completo delle collettività immigrate - tra cui, appunto, quella italiana - nella comunità nazionale. In questo quadro, il diritto della cittadinanza ha operato, in alcuni tra i più importanti Paesi di immigrazione, come un fondamentale strumento di inclusione, sia attraverso un’applicazione senza remore dello jus soli, sia attraverso un uso disinvolto, e talvolta spregiudicato, della naturalizzazione.

La classe politica dell’Italia unita ha mantenuto, con relativa continuità[9], un atteggiamento complessivamente favorevole (anche se, perlopiù, passivo[10]) di fronte all’emigrazione, percepita come fattore di crescita economica e di allentamento della tensione sociale. Ma, nonostante il generale favore per l’emigrazione, le classi dirigenti italiane, sia in periodo monarchico sia in età repubblicana, hanno generalmente contrapposto alle politiche della cittadinanza intensamente “inclusive” di alcuni Stati di immigrazione, una concezione “forte” della cittadinanza italiana, come vincolo capace di resistere in situazione di emigrazione, anche lungo l’arco di più generazioni. Si è così venuta determinando, specialmente nei rapporti con i grandi bacini migratori americani (Argentina, Brasile, Stati Uniti), una permanente situazione di tensione potenziale, alimentata dalla continua moltiplicazione dei conflitti positivi di cittadinanza, per effetto di una fondamentale divergenza di impostazione tra i sistemi giuridici coinvolti[11].

La prima significativa manifestazione di questa tensione tra ordinamenti coincide con la «Grande Naturalizzazione», sancita solennemente dalla Costituzione brasiliana del 1891 (art. 69), la quale dispone che tutti gli stranieri che si trovavano all’interno del Paese alla data del 15 novembre 1889, giorno di proclamazione della Repubblica, diventino automaticamente cittadini brasiliani, a meno che non dichiarino, entro sei mesi, la loro volontà di conservare la cittadinanza d’origine[12]. L’Italia, colpita - non solo sul terreno simbolico della sovranità[13] - dalla naturalizzazione automatica brasiliana, reagisce tentando di dare vita a un fronte diplomatico comune con altri Paesi interessati (Portogallo, Spagna, Austria-Ungheria); ma i risultati sono modesti: il potere della distanza geografica, l’ignoranza dei braccianti delle fazendas, le intimidazioni effettuate dalle autorità locali e la sostanziale indifferenza delle élites immigrate urbane, le più avvantaggiate dal «contratto di cittadinanza» offerto dal nuovo governo repubblicano, fanno sì che la «Grande Naturalizzazione» consegua sostanzialmente i suoi obiettivi[14].

L’esito negativo della controversia con il Brasile fa risaltare l’efficacia della strategia adottata nella stessa occasione da altri Stati europei di emigrazione (tra cui la Germania) i quali, senza ingaggiare battaglie diplomatiche dall’esito incerto, avevano risposto alla mossa unilaterale dello Stato sudamericano facendo leva sul proprio diritto interno della cittadinanza, in particolare ampliando le possibilità di recupero della cittadinanza da parte dei discendenti, divenuti stranieri, di cittadini emigrati.

Con il volgere del secolo, la necessità di conformare la disciplina giuridica della cittadinanza alle esigenze particolari di un Paese di forte emigrazione diventa via via più evidente. Dopo alcune modifiche legislative parziali[15], si afferma progressivamente un’orientamento favorevole alla riforma complessiva della normativa in materia di cittadinanza contenuta nel Codice civile del 1865. Una netta richiesta in questo senso viene anche dai rappresentanti degli «Italiani residenti all’estero» i quali, convenuti a Roma per il loro 1° Congresso, nell’ottobre del 1908, approvano il seguente ordine del giorno:

Il Congresso degli Italiani all’estero riconosce la necessità di una legge organica che regoli al più presto l’istituto della cittadinanza, non bastando i ritocchi apportati sin qui da leggi speciali al relativo titolo oramai invecchiato del libro I del Codice civile del Regno; e formula fin d’ora il voto che vengano adottate facilitazioni al riacquisto della cittadinanza.

La discussione approda in Parlamento nel febbraio del 1910, con un disegno di legge presentato dal ministro della giustizia dell’epoca, Vittorio Scialoja. I problemi che si pongono ai parlamentari del Regno, che iniziano l’esame del progetto nel giugno 1911, sono numerosi e complessi; dal punto di vista circoscritto di questo studio, tuttavia, il nodo politico della riforma è individuato con chiarezza nelle parole del deputato Grippo, pronunciate nella seduta del 4 giugno 1912:

Noi ci troviamo in una situazione contraddittoria, perché mentre diciamo che bisogna facilitare agli Italiani che risiedono negli Stati specialmente dell’America del Sud, la partecipazione alla vita politica ed alla vita amministrativa, dall’altra parte vogliamo mantenere il sentimento di italianità, vogliamo cercare di non perdere questa grande massa di italiani che vanno nell’America del Sud[16].

Per un verso, cioè, preme la richiesta che sale dalle maggiori comunità emigrate di potersi integrare pienamente e senza intralci, anche mediante la naturalizzazione, nella società di arrivo; per un altro verso, incide sulle scelte dei legislatori l’esigenza di non troncare ogni legame con alcuni milioni di emigranti e di loro discendenti (nei dibattiti dell’epoca si parla di circa sei milioni di persone), che rappresentano una fonte di ricchezza attuale (attraverso le rimesse) e un potenziale fattore di rilevanza internazionale, per uno Stato nazionale ancora giovane e fragile e per una società ancora economicamente assai arretrata. Il compromesso tra queste opposte esigenze, che infine si sostanzia nel testo della legge 13 giugno 1912, n. 555, è imperniato su due principi fondamentali:

I) la cittadinanza italiana, trasmessa jure sanguinis, si perde solo per atto volontario. Viene abbandonata l’impostazione rigida del Codice civile del 1865, secondo cui «la cittadinanza si perde [...] da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero» (art. 11) e viene introdotto un principio più elastico, in base al quale:

Salve speciali disposizioni da stipulare con trattati internazionali, il cittadino italiano nato e residente in uno Stato estero, dal quale sia ritenuto proprio cittadino per nascita, conserva la cittadinanza italiana, ma, divenuto maggiorenne o emancipato, può rinunziarvi (art. 7);

questa norma è completata dalla previsione che:

Perde la cittadinanza:

1° chi spontaneamente acquista una cittadinanza straniera e stabilisce o ha stabilito all’estero la propria residenza;

2° chi, avendo acquistata senza concorso di volontà propria una cittadinanza straniera, dichiari di rinunziare alla cittadinanza italiana, e stabilisca o abbia stabilito all’estero la propria residenza [...] (art. 8).

II) la cittadinanza italiana perduta in seguito all’acquisto spontaneo di una cittadinanza straniera viene riacquistata in caso di rimpatrio, «dopo due anni di residenza nel Regno» (art. 9, punto 3, legge 555/1912). Il riacquisto della cittadinanza perduta, che era subordinato a una «permissione speciale del governo» in base al vecchio codice civile (art. 13, punto 1, Codice civ. 1865), viene reso automatico, salva la possibilità del governo di opporsi entro un tempo limitato, «per ragioni gravi e su conforme parere del Consiglio di Stato» (art. 9, comma 2, legge 555/1912).

Pur senza imboccare apertamente la via del riconoscimento della doppia cittadinanza[17], insomma, l’Italia liberale affronta il culmine dell’esodo migratorio utilizzando lo strumento della cittadinanza con una certa disinvoltura. Da un lato, a costo di moltiplicare i conflitti positivi di cittadinanza con gli Stati di immigrazione, si ribadisce la natura estremamente persistente di un vincolo di cittadinanza prevalentemente ereditario, respingendo le isolate proposte di introdurre nella legge un’ipotesi di perdita della cittadinanza per «rinunzia tacita», dopo un certo numero di anni di residenza ininterrotta all’estero[18]. Dall’altro lato, si persiste in una linea politica di oggettivo depotenziamento della cittadinanza: il legame di appartenenza, affermato fortemente sul piano formale e simbolico, non viene poi reso concreto, attraverso comportamenti conseguenti delle diverse amministrazioni statali sul terreno sociale, culturale, giuridico (con riferimento, per esempio, al conflitto - che sorge spesso nei rapporti fra sistemi nazionali di diritto internazionale privato - tra la lex patriae del Paese di emigrazione e la lex fori del Paese di immigrazione) o persino militare[19]. E’ questa incongruenza fondamentale che fonda giudizi storici severi sulla legge 555/1912, come quello formulato retrospettivamente da un illustre giurista:

il legislatore del 1912 si è troppo ispirato a una tendenza missionaria e protettrice che non si confà ad un legislatore particolare; come pure ha ecceduto nel consentire la conservazione e il recupero della cittadinanza italiana, sì da farne assai spesso una cittadinanza «di riserva», che non corrisponde in alcun modo alla vita reale dei soggetti[20].

Tuttavia, il compromesso messo a punto dal legislatore del 1912, per quanto (anzi, forse, proprio in quanto) discutibile sotto il profilo del rigore politico e concettuale, è destinato a durare, sopravvivendo al fascismo ed alla successiva instaurazione di una democrazia costituzionale. Anche all’interno dell’Assemblea Costituente, infatti, la discussione in tema di cittadinanza si concentra su un aspetto che oggi può parere marginale - ma che all’epoca risultava decisivo, per segnare il distacco dal periodo fascista[21] - quale il divieto della privazione della cittadinanza «per motivi politici» (art. 22 Cost.)[22]. I redattori della Costituzione repubblicana evitano di spingersi oltre sul terreno della disciplina giuridica della cittadinanza, ritenendo evidentemente che la legislazione vigente fosse ancora sostanzialmente adeguata al nuovo quadro politico e istituzionale e che eventuali modifiche di dettaglio fossero, comunque, di competenza del legislatore ordinario.

Ma, in seguito, contrariamente alle palesi aspettative di alcuni membri dell’Assemblea Costituente, il legislatore repubblicano ordinario rimane a lungo inerte in materia di cittadinanza. Pertanto, anche per effetto della ripresa dell’emigrazione transoceanica nel secondo dopoguerra, si viene progressivamente rafforzando l’esigenza di affrontare i problemi pratici generati dalla moltiplicazione dei conflitti di cittadinanza tra l’Italia, fedele allo jus sanguinis, e la maggior parte dei Paesi di destinazione (quelli americani, in particolare), rigidamente ancorati al principio dello jus soli.

Soluzioni parziali vengono messe a punto, sul piano bilaterale, per i problemi specifici legati al cumulo degli obblighi militari dei doppi cittadini[23]; ma, l’unico trattato che affronta alla radice il problema della doppia cittadinanza degli emigranti è quello concluso con l’Argentina, a Buenos Aires, il 29 ottobre 1971 (reso esecutivo in Italia con legge 18 maggio 1973, n. 282). Modellato fedelmente sul testo dell’accordo tra Argentina e Spagna del 14 aprile 1969[24], il trattato italo-argentino rappresenta un tentativo, rimasto isolato nell’esperienza italiana, di esplorare una via intermedia fra l’accettazione del conflitto aperto tra cittadinanze e il riconoscimento pieno della doppia cittadinanza. L’intesa si basa, infatti, sulla possibilità del cumulo delle due cittadinanze, abbinata però ad una sorta di mise en sommeil della cittadinanza del Paese dove il soggetto non risiede attualmente:

I cittadini italiani e argentini per nascita potranno acquisire rispettivamente la cittadinanza argentina e italiana, alle condizioni e nella forma prevista dalla legislazione in vigore in ciascuna delle Parti contraenti, conservando la loro precedente cittadinanza con sospensione dell’esercizio dei diritti inerenti a quest’ultima (art. 1).

L’esercizio dei diritti e la soggezione ai doveri collegati alla cittadinanza è governato dal criterio della residenza, tanto che:

Il trasferimento di residenza nel Paese di origine da parte delle persone che si avvalgono dei benefici del presente accordo implicherà, automaticamente, la reviviscenza di tutti i diritti e doveri inerenti alla loro precedente cittadinanza [...] (art. 4, comma 1).

Il trattato di cittadinanza con l’Argentina è stato accolto con forti perplessità dalla dottrina giuridica italiana, la quale ne ha dapprima denunciato la presunta incostituzionalità[25], per poi ricredersi, in nome però di una discutibile interpretazione, che riferisce l’accordo ai doppi cittadini per nascita e non - come sembrano invece imporre la lettera e lo spirito del testo - alla situazione di chi acquisti successivamente la cittadinanza dell’altro Stato[26]. Contributi successivi al dibattito hanno corretto l’interpretazione dell’accordo, rimanendo però ancorati a una visione dogmatica, che - sulla base di una concezione «monolitica» della cittadinanza - considera priva di senso la nozione di una cittadinanza «sospesa» e forza la lettera del testo, riducendolo a una disciplina speciale della perdita e del riacquisto della cittadinanza[27]. Soltanto assai recentemente, si è assistito a una rivalutazione dell’accordo del 1971, il quale,

pur con molte lacune e imperfezioni [...] rappresenta [...] un esempio della possibilità di eliminare i più gravi effetti distorsivi del fenomeno della doppia cittadinanza, anche con riguardo alla sfera dei diritti politici, non già tentando di eliminare alla radice il fenomeno, ma attribuendo, ai fini dell’individuazione dello stato in cui i relativi diritti vanno esercitati, eguale rilevanza alla libera scelta individuale e all’elemento materiale (la residenza) che, accanto alla cittadinanza, testimonia dell’esistenza di un collegamento effettivo tra il soggetto ed uno dei paesi di cui è cittadino[28].

Da un punto di vista non strettamente giuridico, tuttavia, ciò che importa sottolineare è che il trattato italo-argentino ha avuto un impatto limitato sulla vita della comunità italiana emigrata, per effetto sia dell’esclusione della fattispecie più frequente (la doppia cittadinanza acquisita alla nascita, per l’azione congiunta dello jus sanguinis italiano e dello jus soli argentino), sia del ritardo nell’adozione di un regolamento di esecuzione. Oggi, in ogni caso, l’accordo ha di fatto perso ogni rilevanza pratica, in seguito alla riforma della legge sulla cittadinanza (legge 5 febbraio 1992, n. 91), che - come vedremo tra breve - ha aperto la strada al riconoscimento della doppia cittadinanza per tutti gli italiani emigrati all’estero e per i loro discendenti, a prescindere da quale sia lo Stato straniero di residenza.

 

 

2. La legge 91/1992 e i suoi «effetti collaterali»

 

La lunga attesa di una riforma organica della legislazione in materia di cittadinanza - costellata di numerose iniziative legislative fallite[29] - si conclude, finalmente, all’inizio del 1992. Le determinanti fondamentali della legge n. 91 del 1992 sono essenzialmente due: per un verso, ha un peso decisivo l’esigenza di portare a compimento il processo di adeguamento della disciplina legislativa al principio costituzionale di eguaglianza all’interno della famiglia, avviato con le note sentenze della Corte costituzionale del 1975 e del 1983 (vd. nota 5); per un altro verso, la riforma del 1992 è profondamente influenzata, nei tempi e nei modi, dalla volontà politica di trasmettere un forte segnale di attenzione alle richieste espresse dalle comunità italiane (o di origine italiana) residenti all’estero[30]. Come dichiara apertamente la relazione introduttiva al disegno di legge originario, infatti,

in un’epoca in cui i flussi migratori si sono assai considerevolmente ridotti e le comunità all’estero si vanno ormai stabilizzando ed integrando nelle rispettive società locali [...] Appare [...] nell’interesse della comunità nazionale - oltre a rispondere ad una viva aspettativa delle comunità italiane all’estero - rendere possibile, per chi lo desidera, il mantenimento del legame giuridico, ma anche culturale e sentimentale, costituito dalla cittadinanza[31].

Mosso da queste esigenze, il Parlamento italiano, al termine di un iter tanto lungo quanto poco approfondito, vara infine la legge 91/1992, «con una certa fretta allo scadere della X legislatura, quasi a guisa di “leggina” pre-elettorale»[32]. Il provvedimento, dal punto di vista che qui ci interessa, è caratterizzato da un favore spiccato nei confronti degli italiani emigrati all’estero e dei loro discendenti, a cui corrisponde - come vedremo meglio nel prossimo paragrafo - un’ostilità altrettanto netta, sebbene appena accennata nel dibattito parlamentare, nei confronti delle ragioni e dei bisogni degli stranieri immigrati in Italia.

Per quanto riguarda in particolare la condizione delle comunità emigrate, dunque, la legge del 1992 conferma, ed anzi rafforza, le scelte di fondo fatte nel 1912, imperniate su una concezione della cittadinanza come legame persistente, che si tramanda e non si estingue (salvo casi eccezionali: p.e. accettazione di un impiego pubblico da parte di uno Stato straniero con cui vige lo stato di guerra), se non per libera ed espressa scelta individuale. Peraltro, la tensione che questa concezione tendeva a generare nei rapporti con Paesi di immigrazione aventi una «ideologia della cittadinanza» fortemente inclusiva viene attenuata decisamente, mediante la scelta a favore della doppia cittadinanza. Il vecchio dogma dell’unicità della cittadinanza viene, infatti, superato (anche se la portata del superamento, come vedremo nel prossimo paragrafo, è controversa) con la norma dell’articolo 11:

Il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o stabilisca la residenza all’estero.

Oltre a rafforzare la «persistenza» della cittadinanza italiana, introducendo la possibilità di conservarla in caso di naturalizzazione all’estero, la legge n. 91 moltiplica le opportunità per l’acquisto o il riacquisto della cittadinanza da parte degli emigrati e dei loro discendenti. In particolare:

i) viene confermata la possibilità dell’acquisto della cittadinanza italiana «per opzione»[33] per lo straniero discendente in linea retta fino al secondo grado da cittadini italiani, a condizione che «al raggiungimento della maggiore età, risied[a] legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiar[i], entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana» (art.4, comma 1, lett. c));

ii) viene istituito un «canale privilegiato» per la naturalizzazione, dopo soli tre anni di residenza, per il discendente in linea retta fino al secondo grado da cittadini italiani (art. 9, comma 1, lett.a));

iii) viene facilitato il riacquisto della cittadinanza italiana, per chi «dichiara di volerla riacquistare ed ha stabilito o stabilisce, entro un anno dalla dichiarazione, la residenza nel territorio della Repubblica», nonché, addirittura in forma automatica, per chi abbia stabilito da un anno la propria residenza nel territorio della Repubblica, «salvo espressa rinuncia entro lo stesso termine» (art. 13, comma 1, lett. c) e d));

iv) viene prevista, infine, la temporanea possibilità, per coloro che avevano perduto la cittadinanza italiana nella vigenza della legge 555/1912 per una serie di ragioni specifiche (tra cui, in particolare, la naturalizzazione all’estero) di riacquistarla mediante una semplice dichiarazione da effettuare entro due anni dall’entrata in vigore della stessa legge n. 91 (art. 17)[34].

Manca una rilevazione ad hoc del numero complessivo di ex-cittadini e discendenti di cittadini che, dal 1992 ad oggi, hanno riacquistato od acquistato ex novo la cittadinanza italiana in base alle nuove norme. Si può affermare, tuttavia, che - dopo un’ondata iniziale piuttosto ingente di riacquisizioni di cittadinanza a titolo straordinario basate sulla norma richiamata sopra al punto iv)[35] - per gran parte degli anni Novanta si trattò di quantitativi relativamente limitati. Ciò dipese, almeno in parte, dalla fortuita coincidenza dell’entrata in vigore della legge con un periodo di crescita economica sostenuta e di stabilità politica nei maggiori paesi latino-americani di immigrazione italiana, che conteneva gli stimoli ad utilizzare le nuove norme come «trampolino» per l’emigrazione di ritorno verso l’Italia. Negli ultimi anni, tuttavia, la pressione migratoria «di ritorno» dall’America Latina si è accentuata, per effetto del sensibile deterioramento delle condizioni socio-economiche generali in alcuni di tali paesi[36]. Nel caso dell’Argentina il fenomeno risulta particolarmente evidente: secondo fonti ufficiose, nel solo 2000 sarebbero stati rilasciati 12.000 passaporti a cittadini argentini a cui è stata riconosciuta la titolarità della cittadinanza italiana; nel 2001, le richieste presentate a tal fine sarebbero diventate addirittura 33.143; a causa delle persistenti carenze di organico, i tempi di attesa connessi a questo tipo di pratica sono ormai di alcuni anni.

A fianco di tale effetto imprevisto (e indesiderato) delle nuove norme introdotte dalla legge del 1992, che potrebbe diventare esplosivo nel caso in cui la crisi argentina non si attenuasse significativamente in tempi brevi[37], vi è un altro effetto collaterale «perverso» della riforma che – sebbene rilevante sul piano del costume, più che su quello quantitativo – merita di essere ricordato. Ci riferiamo a una crescente tendenza a beneficiare delle norme in materia di riacquisizione della cittadinanza da parte di atleti di origine italiana, al fine di consentirne l’ingaggio da parte di società sportive italiane[38]. In alcuni casi, come in quello dei calciatori, questa prassi – che ha lo scopo dichiarato di eludere le norme che fissano una quota massima per l’acquisto di giocatori stranieri da parte di ciascuna squadra[39] – è degenerata in pratiche fraudolente di varia natura ed entità (dalla invenzione di «falsi nonni» italiani alla falsificazione integrale di passaporti). Ne è nato, nel corso del 2001, uno scandalo di vaste proporzioni, che ha dato origine a una serie di procedimenti penali e disciplinari. Sebbene alcuni processi siano ancora in corso, la vicenda si può ora considerare sostanzialmente conclusa, grazie a una sorta di patto tacito tra società calcistiche e organismi dirigenti, che ha consentito di archiviare l’imbarazzante affaire con poche, lievi sentenze di condanna e senza eccessivo pregiudizio al fiorente business del calcio italiano.

A conclusione di questa prima parte della nostra analisi, si può constatare che, al termine di un’evoluzione secolare, la cittadinanza italiana continua a configurarsi, nei confronti degli italiani che emigrano, come un vincolo estremamente tenace, che si estingue ormai quasi soltanto per la libera scelta del soggetto. Bisogna, altresì, constatare che questo vincolo, per quanto formalmente resistente, si è caratterizzato a lungo – anche da un punto di vista comparativo - come dotato di scarsa consistenza sostanziale. Fino a un’epoca recentissima, infatti, i cittadini italiani residenti fuori dai confini nazionali hanno sofferto di gravi limitazioni pratiche dei loro diritti politici, in assenza di una normativa che regolasse il voto dall’estero e disciplinasse il diritto di elettorato passivo di questa categoria, folta sebbene ancora non definitivamente circoscritta[40]. E’ solo il 20 dicembre 2001 che, dopo oltre mezzo secolo di dibattiti e quarant’anni di tentativi abortiti[41], il Senato ha approvato definitivamente – al termine di un rapido esame e con una larghissima maggioranza bipartisan - la legge 27 dicembre 2001, n. 459, recante «Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero». Questo provvedimento porta a compimento un processo di riforma avviato con l’approvazione delle leggi costituzionali 1/2000 e 1/2001, che hanno modificato gli articoli 48, 56 e 57 della Costituzione, istituendo un’apposita «circoscrizione Estero», in cui gli italiani residenti all’estero, a partire dalla prossima consultazione elettorale, dovrebbero essere in grado di eleggere i loro rappresentanti presso il Senato (6 senatori) e la Camera (12 deputati).

La legge 459/2001 segna indubbiamente una svolta nella politica della cittadinanza applicata dall’Italia nei confronti delle comunità originate dall’emigrazione. Fino ad oggi, infatti, la persistenza illimitata del vincolo di appartenenza nazionale attraverso le generazioni – fatti salvi, beninteso, i casi di rinuncia esplicita – aveva conseguenze assai limitate, perlomeno fino al momento di un eventuale ritorno in pianta stabile in Italia. Per effetto della legge in questione, invece, tale cittadinanza ereditata non si configura più come un legame solo virtuale, ma si eleva a vincolo politico attuale con la comunità di origine, poiché implica un diritto-dovere di partecipazione attraverso il voto.

Non è questa la sede per esaminare nei dettagli il contenuto e le implicazioni di tale riforma, per la cui attuazione pratica rimangono ancora da superare ostacoli serissimi di ordine costituzionale[42], diplomatico e operativo. E’ importante però, ai fini del nostro discorso, sottolineare la grave discrepanza che sussiste tra l’importanza del cambiamento innescato e il grado di approfondimento che lo ha preceduto[43]. Ancora una volta, insomma, il delicato raccordo tra politica della cittadinanza e politica (in senso lato) migratoria è stato affrontato in chiave strumentale e con eccessiva leggerezza. L’anacronismo e la problematicità della situazione che ne deriva sono evidenziate assai bene, seppure indirettamente, dagli argomenti con cui, nel 1993, il ministro marocchino incaricato «per la Comunità Marocchina all’Estero» illustrava le ragioni che spingevano il paese maghrebino a sopprimere, a partire dalle elezioni politiche di quello stesso anno, la quota riservata di rappresentanza diretta degli emigrati nel Parlamento nazionale:

I cinque seggi per i rappresentanti dei marocchini residenti all’estero sono stati soppressi. Le liste elettorali erano difficili da stabilire. Una volta eletto, il deputato rientrava nel paese di residenza e tagliava i ponti con i suoi elettori. Finiva che il deputato incaricato di rappresentare i marocchini residenti in diversi paesi di accoglienza era noto in uno solo di questi. In nessun paese del mondo i residenti all’estero sono rappresentati direttamente alla Camera dei deputati[44]. Un Consiglio superiore, competente per la condizione dei residenti all’estero, è in corso di costituzione[45].

 

 

3. La cittadinanza degli immigrati: un percorso ostruito

 

Negli anni della ricostruzione post-bellica e, più tardi, del boom industriale, la parte economicamente più vitale dell’Italia poté fare a meno di importare manodopera dall’estero, come fecero, invece, in diversa misura, tutti i Paesi dell’Europa centro-settentrionale. A causa dei suoi forti squilibri sociali ed economici interni, infatti, la penisola disponeva, all’interno dei propri confini, dei bacini di manodopera necessari a sostenerne la crescita. La grande migrazione interna dal Mezzogiorno verso le città del «triangolo industriale» svolse storicamente il ruolo che, in Francia, in Germania o nel Regno Unito, fu invece ricoperto dalle grandi correnti d’immigrazione lavorativa extra-europea, perlopiù incardinate su vecchi legami coloniali.

Fu solo nel corso degli anni Settanta che l’Italia, con leggero anticipo sugli altri Paesi dell’Europa mediterranea, cominciò a delinearsi come una meta significativa di flussi migratori provenienti da altri continenti. Le cause di questa trasformazione epocale sono molteplici ed hanno a che fare - su piani diversi ma intrecciati - con l’intensificazione dei push factors in alcune aree geografiche contigue; con l’adozione, a partire dal 1973, di misure restrittive da parte dei Paesi europei di vecchia immigrazione; con i cambiamenti profondi del mercato del lavoro e dell’organizzazione sociale, avviati in Italia in quegli anni[46]. Ma ciò che è particolarmente importante sottolineare qui è che, quando l’immigrazione straniera comincia ad interessare l’Italia, essa non è sorretta da una domanda di manodopera esplicita ed aggregata, proveniente dal mondo imprenditoriale, né da una politica migratoria attiva, come era stato altrove in Europa, fino ad allora. Si tratta, cioè, di un’immigrazione che, sebbene in larga parte funzionale ad un sistema economico bisognoso di lavoro flessibile e poco costoso, non ottiene riconoscimenti ufficiali della sua funzione positiva. A questo paradosso, si aggiunge il pesante vincolo - prima soltanto politico, poi (specialmente con la nascita del «sistema Schengen») anche giuridico - rappresentato dalla collocazione dell’Italia in ambito europeo, che le impone una rapida armonizzazione agli standard restrittivi che prevalgono sul continente[47].

In queste circostanze, il diritto e la politica dell’immigrazione in Italia si sviluppano sotto l’impulso di esigenze contrastanti, assumendo, di conseguenza, un andamento discontinuo e non sempre coerente. Per un verso, attraverso una serie di interventi legislativi di ampia portata (legge 943/1986; legge 39/1990; legge 40/1998), inframmezzati da alcuni provvedimenti di rilievo più circoscritto (si veda, in particolare, la legge 388/1993, di autorizzazione alla ratifica degli accordi di Schengen), il Paese si dota di una legislazione rigorosa in materia di ingresso e di soggiorno[48]. Ma, per un altro verso, sopravvive a lungo (perlomeno fino all’adozione della legge 40/1998) un atteggiamento oggettivamente «tollerante» nei confronti della presenza irregolare e clandestina, che si manifesta attraverso una disciplina lacunosa e poco efficace dell’espulsione, oltre che con ripetuti provvedimenti di regolarizzazione[49]. Queste incongruenze normative, aggravate da un’attenzione a lungo insufficiente sul piano amministrativo, hanno fatto sì che una crescita sostanziosa della presenza straniera regolare[50] sia coesistita con un ampio bacino di immigrazione irregolare, che ha mostrato la tendenza ad allargarsi nuovamente, dopo ogni regolarizzazione.

Le difficoltà incontrate dai poteri pubblici nel porre sotto controllo i flussi migratori hanno contribuito a far prevalere – con eccezioni circoscritte nel tempo e nello spazio - un atteggiamento complessivo di scarso impegno sul versante delle politiche di integrazione. Infatti, nonostante le ripetute e spesso enfatiche dichiarazioni di intenti di stampo «integrazionista» che hanno caratterizzato in particolare alcune fasi (dal dibattito parlamentare sulla legge 39/1990 a gran parte dell’esperienza di governo del Centrosinistra), nella pratica ha dominato a lungo la logica discutibile in base alla quale, per scongiurare un temuto «effetto di richiamo», il conseguimento di una piena efficacia delle politiche di controllo veniva posto come precondizione necessaria per potere, in un secondo tempo, avviare una seria politica di integrazione. Questo atteggiamento di scarso realismo non si è manifestato soltanto sul terreno della politica migratoria in senso stretto e nella disciplina della condizione giuridica dello straniero, ma si è riflettuto anche sul diritto della cittadinanza. La legge 91/1992, infatti - che abbiamo visto (supra, par. 2) essere ispirata da uno spiccato favore nei confronti dell’emigrazione italiana - è, al contempo, espressione di una «tendenza contraria ad una rapida assimilazione degli stranieri»[51].

L’impronta restrittiva si riscontra in diverse parti della legge che, nel loro insieme, compongono una vera e propria «diga» alla piena integrazione giuridica degli stranieri residenti in Italia. Meritano di essere segnalati qui, in particolare, due profili in relazione ai quali si registra una maggiore chiusura rispetto alla legislazione precedente[52]. Innnanzitutto, viene riformata in profondità la disciplina dell’acquisto della cittadinanza «per beneficio di legge»[53] da parte dei nati in Italia da cittadini stranieri: mentre l’articolo 3 della legge 555/1912 considerava sufficiente, a questo fine, che il nato in Italia risiedesse sul territorio nazionale al compimento della maggiore età (che, all’epoca, si conseguiva a 21 anni) e dichiarasse di eleggere la cittadinanza italiana entro l’anno successivo, la legge del 1992 ha introdotto condizioni assai più restrittive:

Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data (art. 4, comma 2).

Come si vede, il requisito della residenza legale e ininterrotta, se interpretato rigidamente, rischia di escludere dal beneficio un numero considerevole di giovani, nati in Italia e privi di legami diretti con il Paese d’origine dei genitori, i quali però, per esempio, abbiano ottenuto un regolare titolo di soggiorno (o siano stati registrati sul titolo di soggiorno di uno dei genitori) solo in epoca successiva alla nascita, per effetto di un provvedimento di regolarizzazione.

La seconda novità introdotta dalla legge del 1992, su cui occorre soffermarsi, riguarda la disciplina della naturalizzazione (art. 9). Il legislatore italiano, infatti, adottando un approccio dotato di una certa originalità nel panorama europeo, ha istituito una sorta di dettagliata gerarchia tra diverse categorie di stranieri, fissando per ciascuna di esse un periodo di residenza legale diverso, come condizione necessaria per poter presentare istanza di naturalizzazione[54]. Così, il periodo di “anticamera” necessario per poter aspirare alla cittadinanza è stabilito equivalente a tre anni per lo «straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica»; è invece di quattro anni per il «cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee»; sale a cinque anni per lo «straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano», per lo «straniero che ha prestato servizio [...] alle dipendenze dello Stato»[55] e per l’apolide; diventa, infine, di ben dieci anni, nel caso del semplice «straniero» (nel senso di cittadino di Stato non membro delle Comunità europee)[56]. Per quest’ultima categoria di non-cittadini - che comprende, ovviamente, la quasi totalità degli immigrati, ma che il relatore del provvedimento al Senato, il senatore democristiano Mazzola, definiva miopemente «ipotesi residuale»[57] - il tempo di residenza necessario per poter chiedere la naturalizzazione risulta raddoppiato rispetto alla legislazione previgente.

Ciò che sorprende, a distanza di qualche anno, è la pressoché totale assenza di dibattito che - nelle sedi politiche e parlamentari, ma anche all’interno della società civile - accompagnò la svolta restrittiva del legislatore in materia di cittadinanza degli immigrati. La fretta determinata dalla fine imminente della legislatura[58], combinata a una disattenzione di fondo - derivante da un grave ritardo culturale - comune a tutte le maggiori forze politiche, generarono un’oggettiva convergenza di interessi tra partiti apertamente contrari a una politica della cittadinanza inclusiva e partiti in linea di principio più favorevoli, ma non intenzionati a dare battaglia sul punto. Emblematiche del realismo di basso profilo con cui la sinistra politica affrontò la questione sono le parole pronunciate, a nome del Partito democratico della sinistra (PDS), dalla deputata Silvia Barbieri, in una delle ultime sedute dedicate dal Parlamento alla legge:

Certo, ci rendiamo conto del fatto che stiamo intervenendo su di una materia in relazione alla quale potrebbero essere aperte altre questioni (mi riferisco, per esempio, al termine di dieci anni previsto per gli extracomunitari), tuttavia siamo convinti che non vi siano attualmente le condizioni per avviare questo tipo di discussione[59].

Il consenso, assai ampio, seppur non entusiastico, che si raccolse intorno al testo della legge si espresse, infine, in un’approvazione definitiva all’unanimità (28 voti favorevoli su 28 presenti) da parte della Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, nella seduta del 14 gennaio 1992.

Le scelte restrittive compiute dal Parlamento hanno avuto riflessi significativi sull’andamento delle naturalizzazioni concesse su base annua: mentre, dal 1994 al 1995, le attribuzioni discrezionali di cittadinanza a residenti stranieri avevano compiuto un balzo, passando da 599 a 1.040 unità, nel 1996, quando gli effetti della riforma cominciano a farsi sentire[60], si registra una lieve flessione (907 naturalizzazioni), che risulta confermata nei due anni successivi; è solo dal 1999 che si registra una inversione di tendenza, che probabilmente si spiega in parte con il fatto che, a partire da quell’anno, sono venuti maturando i dieci anni di residenza necessari ai fini della naturalizzazione ordinaria per i circa 230.000 stranieri regolarizzati in base alla legge 39/1990.

 

Anno

1989

1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

Matrimonio

3705

4.666

4.191

3.870

5.962

6.014

6.376

6.108

8.319

10.930

9.613

8.159

Natu-ralizz.

520

559

350

538

582

599

1.040

907

918

1.106

1.724

1.435

(Fonte: ISTAT, Ministero dell’Interno)[61].

 

Il numero – che comunque rimane estremamente esiguo - delle naturalizzazioni concorre a spiegare il livello relativamente elevato di acquisizioni di cittadinanza per matrimonio, su cui peraltro sembra incidere – in misura difficile da determinare – anche il fenomeno dei matrimoni fittizi[62]. In altri termini, si può ritenere che gli ostacoli di ordine normativo e amministrativo che si frappongono alla naturalizzazione ordinaria inducano una parte dei potenziali aventi diritto a privilegiare in ogni caso la via dell’acquisizione per matrimonio.

nAlla luce di questi dati, l’Italia risulta oggi - tra i principali Stati di immigrazione membri dell’OCSE – uno di quelli con il più basso tasso di acquisizione di cittadinanza su base annua (0,9%, pari al rapporto tra il numero totale delle acquisizioni di cittadinanza e l’insieme della popolazione straniera regolarmente presente), con le sole eccezioni del Lussemburgo (0,4%) e del Portogallo (0,5%); questi valori ci collocano a una distanza abissale dagli Stati più “inclusivi”, quali i Paesi Bassi (9,4%) e la Norvegia (4,8%)[63]. La stessa Germania, abitualmente additata quale esempio di un diritto della cittadinanza poco liberale, ha concesso nel 1999 la cittadinanza a 248.200 stranieri, pari al 3,4% della popolazione straniera regolarmente soggiornante. Inoltre, il fatto che persino in un paese di immigrazione più recente dell’Italia, quale la Spagna, il tasso di acquisizione della cittadinanza nel 1999 sia stato del 2,3% (pari a 16.400 casi) consente di interpretare la chiusura italiana in questo campo come il risultato di un preciso orientamento politico e amministrativo[64].

Le cifre richiamate dimostrano anche che l’atteggiamento di chiusura strutturale dell’ordinamento italiano nei confronti dell’accesso alla cittadinanza degli stranieri extra-comunitari residenti stabilmente nel paese non è sostanzialmente mutato negli anni di governo del Centrosinistra (1996-2001). In una prima fase, l’esecutivo guidato da Romano Prodi aveva affrontato il problema dei diritti politici degli stranieri stabilmente presenti sul territorio nazionale, proponendosi di collegare una nuova forma di “cittadinanza locale” al particolare status di denizenship derivante dalla titolarità della “carta di soggiorno” istituita con la legge 40/1998. Nella versione originaria del disegno di legge che diede origine alla legge nota come «Napolitano-Turco», infatti, per lo straniero titolare di carta di soggiorno era previsto il diritto di partecipare alla vita pubblica locale mediante «l’elettorato attivo e passivo nel comune di residenza» in base alle norme che già regolano lo stesso diritto per i cittadini europei[65]. Ma su questo punto, nel corso del dibattito parlamentare, affiorarono forti resistenze politiche - anche all’interno della stessa maggioranza - accompagnate da perplessità di ordine costituzionale. Per evitare ritardi ulteriori nell’approvazione definitiva della nuova legge sull’immigrazione - resa urgente dalla volontà di entrare al più presto, a pieno titolo, nello «spazio Schengen» - e per salvare la coesione della propria maggioranza parlamentare, il Governo decise di accontentarsi di una dichiarazione di principio inserita nel testo della legge (legge 40/1998, art. 7, 4° comma, lett. d), rinviando la effettiva concessione del diritto di voto a livello locale a una futura modifica costituzionale[66].

Ma divenne presto evidente che ben difficilmente una riforma costituzionale di tale impegno avrebbe potuto vedere la luce nel corso della legislatura. Con quello che può essere letto come un cambiamento di strategia, il governo incaricò allora (settembre 1998) la «Commissione per le politiche di integrazione», organo consultivo istituito dalla stessa legge n. 40 e operante presso il Dipartimento per gli affari sociali della Presidenza del Consiglio dei ministri, di condurre un’indagine per valutare l’opportunità di una riforma del diritto della cittadinanza e di formulare eventuali proposte in merito. Siccome la via della concessione del diritto di voto a livello locale agli stranieri stabilmente insediati era apparso politicamente impercorribile, la coalizione maggioritaria decise di esplorare la via di un allargamento dei confini della cittadinanza. In un importante convegno tenutosi a Roma il 22 febbraio 1999, la Commissione presentò i frutti del suo lavoro, indicando con notevole dettaglio alcune «piste» di riforma[67]: a) creare condizioni più favorevoli di accesso alla cittadinanza per i minorenni «nati o formati» in Italia, per esempio mediante l’introduzione del cosiddetto doppio jus soli e la riduzione del periodo di residenza legale continuativa necessaria ai nati in Italia per acquisire la cittadinanza italiana al compimento della maggiore età; b) ridurre le «difficoltà per le naturalizzazioni», sia attraverso una riduzione dei tempi di residenza necessari per legge al fine di poter presentare la domanda (da 10 a 5, o tutt’al più 7 anni) sia mediante la semplificazione delle procedure e la riduzione dei tempi di attesa; c) ingaggiare una lotta più decisa contro i matrimoni di comodo, rendendo più difficile l’acquisizione della cittadinanza per matrimonio; d) ammettere pienamente la doppia cittadinanza, abolendo il decreto ministeriale che la proibisce espressamente dal 1994 (vd. nota 52).

Ma, nonostante il convinto sostegno alla riforma espresso inizialmente dai titolari dei due dicasteri direttamente interessati (Rosa Russo Jervolino, ministro dell’Interno, e Livia Turco, ministro per la Solidarietà sociale), non si pervenne a un disegno di legge nel corso della XIII legislatura. Anche su questo terreno, come su altri assai più dibattuti, lo slancio riformista del Centrosinistra italiano si esaurì di fronte all’incalzare delle emergenze e delle preoccupazioni elettorali.

Solo in seguito alla sconfitta elettorale del 13 maggio 2001, il progetto politico di una riforma che liberalizzi il diritto italiano della cittadinanza è stato ripreso dal principale partito di opposizione, con la presentazione di un progetto di legge che si propone, in particolare, di «rendere più flessibile il sistema per l’acquisto della cittadinanza iure soli, nella consapevolezza dei mutamenti intervenuti nell’ultimo decennio, sia nella legislazione in materia di immigrazione, sia in riferimento alle condizioni sociali che rendono necessario il perseguimento di efficaci politiche di integrazione degli stranieri»[68].

Nessuna riforma, tuttavia, si profila concretamente all’orizzonte, poiché né il governo in carica né la corrispondente maggioranza parlamentare sembrano intenzionati a «toccare» la disciplina della cittadinanza in vigore. Si può anzi ritenere che le modifiche della legge 40/1998 in materia di immigrazione, attualmente in corso di approvazione da parte del Parlamento[69], riducano ulteriormente le opportunità di accesso alla cittadinanza italiana per i cittadini extracomunitari immigrati e per i loro discendenti. In particolare, è prevedibile che misure quali la riduzione della durata massima dei permessi di soggiorno dopo il primo rinnovo (art. 5 del disegno di legge citato), l’allungamento del periodo di soggiorno regolare necessario per poter richiedere la carta di soggiorno (art. 9) o la riduzione del «periodo di tolleranza» di una situazione di disoccupazione ai fini della conservazione di un valido titolo di soggiorno (art. 18, comma 11) rendano più difficile maturare il periodo di residenza necessario ai fini della naturalizzazione o – per i figli dei lavoratori stranieri nati in Italia – mantenere quello status di residente legale «senza interruzioni» fino alla maggiore età richiesto dalla legge 91/1992 ai fini dell’acquisizione della cittadinanza italiana.

Nella misura in cui la condizione amministrativa dello straniero regolare viene resa più instabile e precaria, l’accesso alla cittadinanza diventa un miraggio sempre più incerto e lontano. Ciò - per un paese che circostanze geografiche, economiche e demografiche destinano ad essere, nei decenni a venire, meta di flussi migratori crescenti – rappresenta un problema grave e strutturale. Solo un diritto e una politica della cittadinanza più flessibili e inclusivi, infatti, ci possono preservare dal diventare una comunità politica sempre più «sbilanciata». Una comunità in cui milioni di individui che non hanno mai visitato questo paese sono inseriti nel circuito democratico, mentre centinaia di migliaia di altri, che in questo paese vivono da anni, lavorando e pagando le tasse, ne sono esclusi.

 


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[1] Questo saggio è una vesione rivista e aggiornata di F. Pastore, Nationality Law and International Migration: The Italian Case, in R. Hansen – P. Weil, a cura di, «Towards a European Nationality. Citizenship, Immigration and Nationality Law in the EU», Palgrave, Basingstoke, 2001.

[2] Sulla transizione migratoria italiana, vd. tra gli altri, Pugliese, 1996; Bonifazi, 1998.

[3] Non è ancora stata scritta una storia organica della politica italiana in materia di immigrazione. Tra i testi utili ai fini di una ricostruzione d’insieme, vd. Granaglia e Magnaghi, 1996; Nascimbene, 1997; Pastore, 1998; Sciortino, 2000; F. Pastore, 2000a; Pastore, 2000b; Zincone, 2000; Bolaffi, 2001; Pastore, 2001a; Zincone, 2001; Zincone, 2002. Si vedano anche i capitoli dedicati agli sviluppi politici e legislativi nei rapporti sulle migrazioni pubblicati annualmente a cura della Fondazione Cariplo per le Iniziative e lo Studio della Multietnicità-ISMU (Franco Angeli, Milano).

[4] Nel linguaggio giuridico italiano, fin dal primo Codice civile dello stato unitario (1865), il termine «cittadinanza» è usato in un significato corrispondente al francese «nationalité» ed all’anglo-americano «nationality». Si parla, perciò, tecnicamente, di «diritto della cittadinanza», di «modi di acquisto» e di «perdita della cittadinanza», di «doppia cittadinanza» e così via. Il termine «nazionalità» e il correlato concetto di «nazione» sono, invece, usati prevalentemente nel campo delle scienze sociali, per designare una forma, storicamente determinata, di appartenenza etnica o culturale che, nel presente momento storico, non assume generalmente rilevanza autonoma dal punto di vista normativo; ma, per un esame dettagliato dei casi eccezionali in cui l’appartenenza nazionale in quanto tale (a prescindere, cioè, dalla cittadinanza) assume rilevanza sul piano giuridico, vd. Crisafulli e Nocilla, 1977, in part. p. 805 ss..

[5] Sottolineare l’importanza dei fenomeni migratori come fattore evolutivo del diritto italiano della cittadinanza non deve portarci a dimenticare il peso di altre determinanti sociali, culturali e politiche delle trasformazioni di questa branca del diritto. In particolare, va messo in evidenza il profondo impatto che ha avuto in questo campo il valore dell’uguaglianza tra uomo e donna all’interno della famiglia, affermatosi progressivamente all’interno della società italiana nel secondo dopoguerra ed elevato a principio normativo di rango costituzionale dalla Costituzione repubblicana (1948). Con un certo ritardo rispetto ai principali paesi europei, e grazie al fondamentale ruolo di impulso svolto dalla Corte costituzionale (vedi, in particolare, le sentenze 16 aprile 1975, n.87 e 9 febbraio 1983, n.30), il principio di parità ha, infatti, determinato profonde modificazioni nella disciplina legislativa della cittadinanza (vedi, soprattutto, la legge 19 maggio 1975, n.151, e la legge 21 aprile 1983, n.123). Si è così pervenuti al pieno superamento del dogma ottocentesco della unità politica della famiglia (unicità della cittadinanza al suo interno) ed alla piena equiparazione della donna all’uomo, sia con riferimento all’incidenza del matrimonio sulla cittadinanza dei coniugi, sia con riferimento alla capacità di trasmettere la cittadinanza stessa ai figli.

[6] CSER 1988, p.7. In realtà, come è stato osservato recentemente, «più che di esaurimento tout court del ruolo di paese d’emigrazione, sembrerebbe più corretto parlare di trasformazione delle funzioni, delle caratteristiche e delle dimensioni della nostra emigrazione e di un suo progressivo adeguamento alle modificazioni strutturali che, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, hanno radicalmente trasformato la società italiana» (Bonifazi, 1998, p. 73). Per un’analisi dei flussi in uscita dall’Italia negli ultimi anni, vd. il capitolo dedicato a «Movimento migratorio dall’Italia con l’estero» in Caritas di Roma, 1997, p. 42 ss.. Vd. anche Guarneri, 2001.

[7] Favero e Tassello, 1978, cfr. in part. p.11.

[8] Vd., da ultimo, Weil, 2002.

[9] Un’eccezione di grande rilievo è tuttavia rappresentata dalla politica migratoria restrittiva adottata, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, dal regime fascista (in proposito, vd., da ultimo, Ostuni, 2001, pp. 309-319). Questa svolta, espressione di una più generale svolta politica di impronta autarchica ed imperialistica, è bene espressa nel passo seguente, tratto da una circolare, firmata Mussolini, indirizzata il 3 giugno 1927 dalla Direzione Generale Italiani all'Estero ai prefetti delle città italiane: «...non basta difendere la salute della razza, incoraggiare l'aumento delle nascite, diminuire le morti, se si permette che attraverso l'esodo degli elementi più forti e più produttivi venga indebolita quantitativamente e qualitativamente la compagine della Nazione. [...] Per ogni emigrante che esce per sempre dall'Italia, in compenso di poco oro che giunge dall'estero, il Paese perde: economicamente, tutto ciò che ha speso per nutrirlo, educarlo, per metterlo in grado di produrre; militarmente, un soldato; demograficamente, un elemento giovane e forte, che feconderà terre straniere e darà figli a Paesi stranieri. Richiamo i prefetti del Regno ad una rigida sorveglianza su tutti gli organismi esistenti nelle loro giurisdizioni, aventi comunque attinenza con l'emigrazione. E pertanto le Regie Questure dovranno esercitare la massima severità e parsimonia nel rilascio di passaporti per emigranti».

[10] «...la politica emigratoria italiana si venne definendo come oggetto di comportamenti politici trasformistici, inclini a privilegiare la via amministrativa a quella legislativa e tutto sommato ad assumere posizioni attendiste. Rispetto a un fenomeno largamente spontaneo e in ogni caso “autonomo” nei confronti dei pubblici poteri, si restò il più delle volte alla finestra» (Sori, 1979, p.255). Anche Sacchetti (1978, p.262) sottolinea il «disimpegno [dello Stato italiano] di fronte all’integrazione degli emigrati», che di fatto ha «finito per scongiurare il rientro degli emigrati e per favorire, o almeno lasciare che avvenisse, la loro integrazione nei Paesi di accoglimento».

[11] Soltanto nei confronti di alcuni Stati minori dell’America centrale e meridionale ebbe successo lo sforzo diplomatico compiuto dall’Italia, per frenare la moltiplicazione dei doppi cittadini de facto. I trattati stipulati con Costarica (6 maggio 1873; reso esecutivo con regio decreto 23 aprile 1875) e con la Bolivia (18 ottobre 1890; reso esecutivo con legge 27 marzo 1901 e rinnovato con scambi di note successivi) obbligarono infatti detti Stati, in linea generale fedeli al principio dello jus soli in materia di diritto della cittadinanza, a introdurre deroghe specifiche per i figli degli emigranti italiani ed a considerare quindi italiani anch’essi, in assenza di una loro espressa opzione per la cittadinanza locale.

[12] Sulla «Grande Naturalizzazione», vd. Rosoli, 1986. Vd., anche, Lahalle, 1990.

[13] Rosoli (1986, p.71) fa notare, per esempio, che «un statut imposé de citoyen du pays de résidence pouvait compromettre gravement les droits des héritiers directs restés dans le pays d'origine».

[14] Con i decreti 15 maggio 1890, n. 396 e 13 giugno 1890, nn. 479 e 490, il governo brasiliano fa alcune concessioni (proroga dei termini per la dichiarazione di rifiuto della naturalizzazione; semplificazione delle procedure; specificazione che l’iscrizione automatica nelle liste elettorali non comporta necessariamente l’aquisto della cittadinanza), che però non influiscono sostanzialmente sull’attuazione della riforma.

[15] Articoli 35-36, legge 31 gennaio 1901 n.23 «concernente disposizioni sull’emigrazione»; legge 17 maggio 1906 n.217, «relativa alle norme per la concessione della cittadinanza italiana». Tra le disposizioni contenute nella legge del 1901, assume un notevole rilievo pratico ai fini del tema affrontato qui - anche se non influisce direttamente sui modi di acquisto e di perdita della cittadinanza - la norma che dispensa provvisoriamente dal servizio militare obbligatorio il cittadino italiano nato e residente in paesi extra-europei (salvo la Turchia e i paesi dell’Africa mediterranea) o là emigrato prima di aver compiuto il sedicesimo anno. La dispensa provvisoria diventa definitiva al compimento del trentaduesimo anno. Viene così meno uno dei fattori-chiave che incentivavano, di fatto, gli emigrati e i loro figli a «tagliare i ponti» mediante la rinuncia alla cittadinanza italiana e la naturalizzazione.

[16] Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXIII, 1a sessione, Discussioni, 1a tornata del 4 giugno 1912, p. 20322.

[17] Contestando la diversa, ma isolata, opinione di alcuni parlamentari (vd. in part. l’intervento del senatore Garofalo, Atti Parlamentari, Senato del Regno, Legislatura XXIII, 1a sessione, Discussioni, tornata del 19 giugno 1911, p.5751 ss.), il presentatore del disegno di legge originario, Scialoja, afferma inequivocabilmente: “Non vi è pertanto in questo progetto di legge, ed è suo vanto, alcuna traccia di quell’ibrido concetto della doppia cittadinanza” (ibidem, p.5768).

[18] Vd. l’intervento del senatore Fiore (ibidem, in part. p.5757).

[19] E’ significativo che, alla vigilia della Ia Guerra mondiale, non si registri un incremento significativo dei rimpatri di cittadini italiani emigrati, per obbedire alla chiamata alle armi (il dato vale esclusivamente per i rimpatri da paesi extra-europei, in quanto il dato statistico sui rimpatri da altri paesi europei è rilevato solo a partire dal 1921). E’ evidente che, anche in quella circostanza eccezionale, il vincolo di appartenenza rimase sostanzialmente inoperativo.

[20] Quadri, 1959, p.323.

[21] Il regime fascista aveva utilizzato la privazione ex lege della cittadinanza come strumento di repressione politica, essenzialmente in due direzioni: contro i dissidenti rifugiati all’estero («... la cittadinanza si perde dal cittadino, che commette o concorra a commettere all’estero un fatto, diretto a turbare l’ordine pubblico del Regno, o da cui possa derivare danno agli interessi italiani o diminuzione del buon nome o del prestigio dell’Italia, anche se il fatto non costituisce reato», art. unico, legge 31 gennaio 1926, n. 108; vd. anche legge 25 novembre 1926, n. 2008 recante provvedimenti per la difesa dello Stato) e contro i cittadini definiti «di razza ebraica» («Le concessioni di cittadinanza italiana comunque fatte a stranieri ebrei posteriormente al 1° gennaio 1919 s’intendono ad ogni effetto revocate», art. 3, regio decreto-legge 7 settembre 1938, n. 1381; la stessa disposizione fu ripetuta in un più ampio provvedimento successivo: regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, recante provvedimenti per la difesa della razza italiana, art. 23). Le revoche delle concessioni di cittadinanza in questione vennero dichiarate nulle, con conseguente reintegrazione delle persone colpite nella cittadinanza italiana, con il regio decreto-legge 20 gennaio 1944, n. 26 (art. 2).

[22] In seno all’Assemblea costituente (Ia Sottocommissione, 21 settembre 1946), l’unica voce espressamente favorevole a una più ampia «costituzionalizzazione» della disciplina della cittadinanza è quella del cattolico democratico Aldo Moro, il quale si dichiara «non contrario all’idea che la nostra Costituzione contenga principi in ordine alla cittadinanza e dia un lume preciso sulla legge stessa che tratterà della cittadinanza» (Segretariato Generale della Camera dei Deputati, 1971, p. 398).

[23] Cfr. Giuliano, 1965, p. 329 ss.; Clerici, 1977, p. 679 ss..

[24] Per il testo e un’ampia analisi di questo accordo, vd. Boggiano, 1973, in part. p. 45 ss..

[25] Mazziotti, 1972, p. 241 ss..

[26] Biscottini, 1973, p. 83 ss..

[27] Treves, 1975, p. 294 ss.; Morelli, 1977, p. 152 ss..

[28] Cuniberti, 1997, pp. 510-511.

[29] Il primo disegno di legge, di iniziativa governativa, per la riforma organica della legge n. 555 del 1912 venne presentato il lontano 7 marzo 1930.

[30] L’auspicio di una sostanziale riforma della legge 555/1912, unitamente alla rivendicazione di una legge per consentire l’esercizio del diritto di voto in Italia ai cittadini italiani residenti all’estero, era emerso come una delle richieste fondamentali rivolte allo Stato italiano dai rappresentanti delle comunità emigrate, riuniti a Roma nel 1988, in occasione della «Seconda Conferenza nazionale dell’emigrazione»; cfr. Ministero degli affari esteri, 1990, in part. vd. la relazione conclusiva sull’attività della Quinta Commissione («Italiani all’estero - Cittadini in Italia»), svolta dal senatore Mario Fioret (p. 336 ss.). E’ opportuno ricordare che l’iter parlamentare della legge 91/1992 venne avviato il 13 dicembre 1988, con la presentazione di un disegno di legge da parte del Ministro degli affari esteri, il democristiano Giulio Andreotti, che poche settimane prima aveva presieduto la Conferenza nazionale dell’emigrazione.

[31] Atti parlamentari, X legislatura, Senato della Repubblica, Disegno di legge N.1460, Nuove norme sulla cittadinanza, p.2.

[32] Clerici, 1993, p. 4.

[33] Questa è la terminologia usata da Stefania Bariatti, 1996, p.26 ss.; di acquisto della cittadinanza «per beneficio di legge o elezione» parla, invece, Clerici, 1993, p.323 ss..

[34] Termine prorogato in seguito fino al 31 dicembre 1997.

[35] Tra il 1992 e il 1994, le riacquisizioni di cittadinanza basate su tale disposizione sono state 132.775 (di cui 97.400 riguardanti individui residenti nelle Americhe); nel triennio successivo (1995-1997), tale numero si è ridotto a 30.981, di cui 25.600 provenienti dal continente americano (cfr. Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Dossier di documentazione presentato in occasione del convegno “Riformare la legge sulla cittadinanza”, Roma, 22 febbraio 1999).

[36] In un’appendice al Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, a norma dell’art. 3 della legge 6 marzo 1998,n.40, approvato dal Consiglio dei ministri il 15 marzo 2001, la tendenza in questione era messa in evidenza con toni preoccupati: «E' stato registrato particolarmente da alcune nostre Ambasciate in Paesi dell'America Latina (Argentina, Brasile) un crescente interesse da parte di cittadini di origine italiana a trasferirsi in Italia motivato dalla elevata disoccupazione e dalla crisi economica che caratterizzano questi Paesi e che spingono molte persone ad individuare strade e sbocchi alternativi che contemplano anche l'ipotesi di cercare lavoro in Europa. […] Si tratta per lo più di cittadini di origine italiana che hanno acquisito per naturalizzazione la cittadinanza del paese ospitante ma che possono ottenere, e in molti casi hanno già ottenuta, la ricostruzione (sic) della cittadinanza italiana. Sono quindi nella maggior parte in possesso della doppia cittadinanza e sono attratti appunto dalle nuove possibilità che il mercato del lavoro nazionale e di altri Paesi dell'UE sembra poter offrire. Naturalmente essi si avvarrebbero della cittadinanza italiana che consente la piena libertà di circolazione in ambito UE».

[37] Secondo stime approssimative, le persone di origine italiana residenti fuori dai confini nazionali sarebbero circa 60 milioni, di cui circa un quinto si troverebbe in Argentina.

[38] L’applicazione strumentale del diritto della cittadinanza in campo sportivo non è certo un’esclusiva italiana (cfr. per es. F. Potet, “Le recours aux sportifs naturalisés se multiplie avant les JO”, Le Monde, 22 agosto 2000, p. 21. Ciò che è più specifico dell’Italia, invece, è il rischio elevato di frodi generato, come vedremo, da una normativa particolarmente generosa in materia di «recupero» della cittadinanza da parte dei discendenti di cittadini italiani.

[39] Art. 40, comma 7, Norme organizzative interne della Federazione Italiana Gioco Calcio.

[40] Esistono tuttora due archivi distinti e autonomi degli italiani residenti all’estero. All’Anagrafe consolare, gestita dalle rappresentanze del Ministero degli affari esteri, risultano attualmente iscritti 3.990.295 individui (http://www.esteri.it/polestera/italstra/index.htm, consultato il 5 marzo 2002); I registri dell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, istituita nel 1988 e gestita con criteri diversi dal Ministero dell’interno, invece, comprendono 2.843.857 nominativi (http://cedweb.mininterno.it:8089/frame_stat.htm, consultato il 9 marzo 2002). La legge 459/2001 dispone che il Governo proceda all’unificazione dei due archivi al fine di predisporre le liste elettorali; l’operazione è tuttavia ancora in corso: il via definitivo alle operazioni di rilevazione è stato dato dal Parlamento nel maggio 2002 (cfr. “Italiani all’estero, al via l’aggiornamento delle liste”, Il Sole-24 Ore, 10 maggio 2002, p. 11).

[41] Il tema dell’esercizio del diritto di voto da parte dei cittadini residenti all’estero - che era «oltre che non attuale, improponibile» in un sistema elettorale fondato su principi censitari (F. Lanchester, Il voto degli italiani all’estero: un esercizio difficile, in Lanchester, 1988, p.10) - affiorò in concomitanza con l’estensione su base universale (prima solo maschile, poi anche femminile) del suffragio. Successivamente, l’Assemblea costituente affrontò la questione, ma respinse la proposta di introdurre nel testo costituzionale una garanzia esplicita dell’esercizio del diritto di voto da parte del cittadino residente all’estero (vd. la discussione svoltasi nelle sedute del 20-21-23 maggio 1947, in Segretariato generale della Camera dei deputati, 1970, p.1791 ss..

[42] Per una reazione a caldo su questo aspetto, vd. M. Luciani, “Nell’urna di Dakar. Il pasticcio del voto degli italiani all’estero”, La Stampa, 21 novembre 2001.

[43] Si leggano, in proposito, le durissime parole scritte da Enrico Grosso:

«La stragrande maggioranza delle forze politiche, infatti, per sincera convinzione o più spesso per un incomprensibile calcolo di utilità o per l’ancor più incomprensibile paura di subire un appannamento della propria immagine, si era da tempo schierata acriticamente a favore dell’introduzione del voto all’estero, non importa come organizzato e non importa come disciplinato» (Grosso, 2002; ivi anche contributi di segno diverso). Dello stesso Autore, si vedano anche 2000 e 2001.

[44] Questa affermazione va parzialmente corretta: a parte il caso italiano di cui ci stiamo occupando, l’ordinamento portoghese contempla, infatti, una rappresentanza diretta degli elettori residenti fuori dal territorio nazionale (due deputati per ciascuna delle due circoscrizioni elettorali). Nel caso francese, invece, la rappresentanza è indiretta: i 12 senatori rappresentanti dei francesi all’estero sono eletti indirettamente da un collegio composto dai membri del Conseil Supérieur des Français hors de France, assemblea rappresentativa dei cittadini residenti fuori dal territorio nazionale. Cfr. Camera dei Deputati, 2000.

[45] Intervista al ministro Rafiq El Haddaoui, in Jeune Afrique, 9 settembre 1993.

[46] Per un inquadramento sintetico del fenomeno dell’immigrazione nella storia italiana recente, vd. Pugliese,  1996, p. 933 ss..

[47] Cfr. Pastore, 1999.

[48] Sul processo di formazione del diritto italiano in materia di immigrazione, si vedano i testi citati alla nota 3.

[49] Nel 1982, ca. 5.000 stranieri vennero regolarizzati in applicazione di una circolare del Ministro del lavoro; circa 116.000 persone ottennero un permesso di soggiorno per effetto della legge 943/1986; i regolarizzati furono poi circa 230.000 nel 1990 (legge 39/1990), mentre nel 1995-1996 (decreto-legge 489/1995 e successive reiterazioni) si ebbero circa 256.000 domande di regolarizzazione, in larghissima parte accolte. Nel corso dell’ultima procedura di regolarizzazione, avviata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 ottobre 1998, sono state presentate 250.966 istanze, di cui, all’inizio del 2001, 214.421 risultavano accolte e oltre 34.000 ancora in fase di accertamento (cfr. Caritas, 2001, p. 152). Il disegno di legge di iniziativa governativa (primo firmatario: Silvio Berlusconi) per la “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo” approvato dalla Camera dei deputati il 4 giugno 2002 e ora all’esame (in seconda lettura) del Senato (Atto Senato N.795-B) prevede una nuova procedura di regolarizzazione limitata a lavoratori domestici e a personale adibito a «attività di assistenza a componenti della famiglia affetti da patologie o handicap che ne limitano l’autosufficienza» (art. 33, rubricato «Dichiarazione di emersione»). Va inoltre tenuto conto del fatto che, contestualmente alla approvazione del disegno di legge citato, la Camera dei deputati – su sollecitazione di alcune componenti della maggioranza di governo – ha approvato un ordine del giorno con cui impegna il governo ad effettuare una ulteriore regolarizzazione  che «dia soluzione alla posizione degli extracomunitari già presenti irregolarmente nel territorio italiano ma che prestano lavoro subordinato» (Ordine del giorno n° 9/2454/33). Si profila insomma all’orizzonte una doppia regolarizzazione di difficile gestione e dall’impatto numerico e sociale difficile da prevedere.

[50] Nell’arco di vent’anni, si è passati dalle ca. 272.000 presenze del 1980, ai 1.388.153 permessi di soggiorno rilasciati a cittadini stranieri risultanti in corso di validità alla fine del 2000; l’esperienza passata insegna tuttavia che quest’ultima cifra deve essere incrementata di circa 20%, al fine di ricomprendere i permessi validi ma non ancora registrati e gli stranieri minorenni iscritti sui permessi di soggiorno dei genitori; la presenza regolare complessiva a fine 2000, stimata dalla Caritas di Roma sulla base di un calcolo di questo tipo, ammonterebbe quindi a 1.687.000 individui (Caritas, 2001, p. 115). Al principio di giugno 2002, i dati ufficiali relativi all’anno 2001 non sono ancora pubblicamente disponibili.

[51] Sono le parole di Roberta Clerici (1993, p. 328), la quale definisce, altresì, «curiosi» i «toni enfatici con i quali alcuni esponenti del governo hanno individuato nelle disposizioni in esame un segno di cambiamento verso una società multietnica, multirazziale, multiculturale» (ibidem). Di «intento protettivo al quale è ispirata la nuova normativa, ostile ad una rapida assimilazione» della popolazione immigrata, parla anche Enrico Grosso (1992, p. 342).

[52] Oltre a quelli elencati nel testo, vi sono anche altri aspetti della normativa del 1992 che incidono negativamente sulle concrete opportunità di acquisto della cittadinanza italiana da parte di stranieri immigrati. Si veda, in particolare, la severa disciplina delle cause che precludono l’acquisto della cittadinanza in seguito a matrimonio (art. 6).

[53] Nella terminologia dominante in seno alla dottrina giuridica, si indica con questa locuzione una modalità di attribuzione della cittadinanza che si fonda su una manifestazione di volontà da parte dello straniero, ma che esclude, a differenza della naturalizzazione, qualsiasi valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione.

[54] La procedura è disciplinata dal Regolamento di attuazione della legge 91/1992 (Decreto del Presidente della Repubblica, 12 ottobre 1993 n. 572, successivamente modificato con Decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 1994, n. 362).

[55] In questo caso particolare, in realtà, ciò che conta non è il periodo di residenza, ma il periodo di servizio, che può essere prestato anche all’estero.

[56] Questo prolungamento del periodo di residenza necessario ai fini di poter chiedere la naturalizzazione va nel senso opposto alla tendenza prevalente nei paesi dell’Europa occidentale di più lunga tradizione immigratoria (con l’eccezione dell’Austria, che ha mantenuto nel corso degli anni ’90 un atteggiamento piuttosto restrittivo). Va detto, tuttavia, che una tendenza analoga a quella prevalsa in Italia si è manifestata, negli stessi anni, in altri paesi dell’Europa meridionale di recente immigrazione (Grecia e Portogallo; non invece in Spagna), i quali hanno innalzato il «periodo di attesa» a dieci anni, rispettivamente nel 1993 e nel 1994. Per un tentativo di interpretazione di queste tendenze divergenti in ambito europeo, vd. Hansen e Weil, 2001. Lo stesso tema è affrontato, con riferimento a uno specifico caso nazionale, da Vink, 2001.

[57] Atti parlamentari, X legislatura, Senato della Repubblica, Disegni di legge e relazioni - Documenti, Relazione sui disegni di legge n.1460 e n.1850-A, p. 8.

[58] Le elezioni politiche si sarebbero tenute il seguente 5 aprile 1992.

[59] Atti parlamentari, X legislatura, Camera dei deputati, I Commissione, Resoconto stenografico, seduta del 9 gennaio 1992, p. 5.

[60] Il ritardo rispetto all’approvazione della legge è dovuto in parte alla tardiva emanazione del regolamento di esecuzione, in parte alla lunga durata dei procedimenti amministrativi per l’esame delle istanze di naturalizzazione.

[61] Esistono alcune discrepanze, di rilevanza marginale, tra i dati forniti a diverse riprese e in diverse occasioni dai servizi competenti del Ministero dell’Interno.

[62] Menghetti, 1998, p. 4.

[63] Vd. tabella A.1.6. (Acquisition of nationality in selected OECD countries) in SOPEMI, 2001, p. 283. I valori riportati nel testo sono riferiti all’anno 1999, con l’eccezione del dato del Lussemburgo, riferito al 1998.

[64] L’orientamento restrittivo dell’apparato amministrativo italiano in materia di naturalizzazione si manifesta, oltre che in un utilizzo particolarmente rigoroso, ma legittimo, del potere discrezionale nell’esame delle istanze, anche in alcune prassi decisionali di dubbia legittimità. Si segnala, in particolare, l’uso - inizialmente affermatosi sulla base di una circolare del 1936, avallato dal Consiglio di Stato con sentenza 28 ottobre 1958, n. 19 e infine imposto con decreto del ministro dell’Interno (emanato il 22 novembre 1994, a firma dell’allora sottosegretario Gasparri, esponente di Alleanza nazionale) - di richiedere allo straniero che presenta istanza di naturalizzazione un «certificato di svincolo», ovvero la prova della rinuncia alla cittadinanza precedente. Questa prassi è stata oggetto di dure critiche da parte della dottrina per varie ragioni: innanzitutto, perché contrasta con lo spirito (se non con la lettera) della legge 91/1992, contenente una decisa apertura alla doppia cittadinanza (art. 11); inoltre «perché si traduce di fatto in un rischio di apolidia e in un mezzo per scoraggiare, in modo più o meno occulto, la naturalizzazione» (Cuniberti, 1997, p. 501, nota 110).

[65] Art. 1, 5° comma, decreto legislativo 12 aprile 1996, n. 197.

[66] Per la formalizzazione di questa decisione governativa, in seno alla I Commissione permanente della Camera dei deputati, vd. il resoconto delle sedute del 24 e 25 settembre 1997, in Camera dei deputati, Servizio Studi, XIII legislatura, Dossier Provvedimento n. 373/2, Disciplina dell’immigrazione e condizione dello straniero. Lavori preparatori della L. 6 marzo 1998, n. 40, Parte seconda, p. 640 ss..

[67] Si veda la relazione della Presidente della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati: Zincone, 1999.

[68] Atti Parlamentari, Camera dei deputati, XIV Legislatura, Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Turco, Violante, Montecchi, Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante norme sulla cittadinanza, N. 1463, presentata il 1° agosto 2001; la citazione è contenuta a pag. 2 della Relazione introduttiva.

[69] Il disegno a firma del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e di altri diciassette ministri del suo esecutivo, intitolato «Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo», approvato dalla Camera dei deputati il 4 giugno 2002, si trova attualmente all’esame del Senato per una seconda lettura (Atto Senato N. 795-B).