T.A.R. Emilia Romagna, sez. I, ordinanza n. 50 del 23 maggio 2002,
sull’incostituzionalità del diniego di permesso di soggiorno per
i minori
REPUBBLICA ITALIANA N. 43/2002 Reg.Ric.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO PER L’EMILIA-ROMAGNA N. 50 Reg.Ord.
SEZIONE I Anno 2002
composto dai signori:
Dott. Bartolomeo Perricone Presidente
Dott. Giorgio Calderoni Consigliere rel.est.
Dott. Alberto Pasi Consigliere
ha pronunciato la seguente
O R D I N A N Z A
sul ricorso n. 43
del 2002 proposto da Gallani Jani, rappresentato e difeso dall’Avv.
Nazzarena Zorzella e presso quest’ultima elettivamente domiciliato in
Bologna, via della Zecca, 1;
contro
il Questore di Bologna ed il Ministero dell’Interno, rappresentati e
difesi ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato in Bologna, presso i
cui uffici in via Guido Reni n. 4 sono domiciliati;
per l'annullamento
del provvedimento 29 novembre 2001 cat.A12/017/STR, notificato in data 14
dicembre 2001, di rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di
soggiorno e contestuale conversione da “minore età” a
“lavoro”; nonché della Circolare Ministero Interno 10
aprile 2001 n. 300/2001/2081/A/12.229.28/1^ div.;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore il Cons. Giorgio Calderoni;
Uditi alla pubblica udienza del 9 maggio 2002 l’Avv. N. Zorzella e
l’Avv. dello Stato L. Mariani;
Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O
I. Il ricorrente,
cittadino albanese nato nel 1983, espone di essere giunto in Italia nel
settembre 2000 e di aver ottenuto, dalla Questura di Bologna, un permesso di
soggiorno “per affidamento – art. 31/32 D. Lgs. 286/98”, a
seguito della nomina del cognato quale proprio tutore, disposta il 16
novembre 2000 dal Giudice tutelare di Bologna.
In prossimità della scadenza (6.12.2001) di detto permesso, il
ricorrente - che nel frattempo aveva reperito regolare attività
lavorativa come apprendista ed era divenuto maggiorenne - ne chiedeva il rinnovo,
con conversione del motivo da “affidamento” a
“lavoro”.
Con il provvedimento in epigrafe la Questura rigettava l’istanza,
motivando “che la trasformazione in lavoro è consentita, al
raggiungimento della maggiore età, solo qualora il permesso di soggiorno
per affidamento sia stato disposto ai sensi della legge n. 184/83”.
Contro tale determinazione, vengono dedotte, mediante il presente ricorso, le
censure di violazione degli articoli 4, 5, 28, 31 e 32 del D. Lgs. n.
286/1998; eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di
istruttoria e di motivazione; inopportunità; incompetenza.
Il ricorrente lamenta che il decreto questorile escluda la possibilità
di rilasciare il permesso di soggiorno per motivi di lavoro al “minore
affidato in forza di provvedimento del Giudice tutelare” e sostiene
che:
- il T.U. n. 286/98 avrebbe già equiparato (cfr. art. 29, comma 2) la
condizione del minore adottato, affidato o sottoposto a tutela, in
conformità alla Convenzione di New York 20.11.1989, ratificata con
legge 176/1991;
- la finalità principale dell’insieme di norme specificamente
dettate dallo stesso T.U. (art. 31, commi 1 e 2; art. 32) sarebbe quella di
garantire al minore un sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico, il che non
consentirebbe di effettuare distinzioni, a seconda che il minore stesso sia
stato affidato ad una famiglia dai Servizi sociali o dal Tribunale dei
minorenni o dal Giudice tutelare;
- ad assumere prevalente rilievo sarebbe il “superiore interesse del
fanciullo” ex art. 28, comma 3 del T.U.;
- di conseguenza, in occasione del raggiungimento della maggiore età
da parte del minore straniero, privo di genitori in Italia, non potrebbe
legittimamente operarsi alcuna differenziazione, in base alla tipologia di
provvedimenti assunti in suo favore nel corso della minore età;
viceversa, tale diversità di trattamento per una sola
“categoria” di minori stranieri si porrebbe in contrasto con i
principi di non discriminazione e di uguaglianza, di cui agli articoli 2 e 3
della Costituzione;
- in tal senso, si spiegherebbe la locuzione “comunque affidati”,
utilizzata dal menzionato art. 32 T.U.;
- peraltro, in assenza di affidamento giudiziale del Tribunale per i
minorenni, l’unico intervento giuridico a favore del minore
consisterebbe nell’istituto della “tutela”, che si porrebbe
quale presupposto per ogni attività compiuta nel suo interesse;
- nella specie, non sarebbe, infine, neppure invocabile la Circolare
ministeriale 10 aprile 2001, avendo il Questore di Bologna rilasciato al
minore un permesso di soggiorno per “affidamento – art. 31/32 D.
Lgs. 286/98”.
II. Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata,
insistendo per la reiezione del gravame.
III. Nella camera di consiglio del 17 gennaio 2002, è stata accolta
(ordinanza n. 39) l'istanza cautelare presentata unitamente al ricorso.
IV. Successivamente ed in vista dell’odierna udienza di discussione, le
parti hanno dimesso ulteriori memorie illustrative.
D I R I T T O
1.1. Pur senza
farne espressa menzione, il diniego 23.11.2001 del Questore di Bologna si
fonda sul disposto di cui all’art. 32 D. Lgs. n. 286/98, come si evince
anche dal richiamo alla (parimenti impugnata) Circolare ministeriale
10.4.2001, che di tale norma, unitamente ad altre concernenti i minori stranieri,
per l’appunto si occupa.
Detto articolo, della cui applicazione dunque si controverte, così
testualmente recita:
“Al compimento della maggiore età, allo straniero nei cui
confronti sono state applicate le disposizioni di cui all'articolo 31, commi
1 e 2, e ai minori comunque affidati ai sensi dell'articolo 2 della legge 4
maggio 1983, n. 184, può essere rilasciato un permesso di soggiorno
per motivi di studio, di accesso al lavoro, di lavoro subordinato o autonomo,
per esigenze sanitarie o di cura. Il permesso di soggiorno per accesso al
lavoro prescinde dal possesso dei requisiti di cui all'articolo 23.”
1.2. Il Collegio è consapevole che di questa norma è stata,
sino ad ora, affacciata una interpretazione “estensiva” e
favorevole alla tesi del ricorrente, non solo da parte della giurisprudenza
amministrativa e ordinaria da questi invocata (rispettivamente: sentenza
T.A.R. Toscana, 28 maggio 2001, n. 876; T.A.R. Piemonte, 30 novembre 2001, n.
2259; ordinanza Tribunale di Torino, Sez. VIII, 31 maggio 2001); ma anche da
parte di quella successiva e più recente (ancora T.A.R. Toscana, 18
marzo 2002, nn. 520, 522 e 523; decreto Giudice unico del Tribunale civile di
Bologna 7 marzo 2002, in causa R.G. n. 244/02).
Tale opzione ermeneutica poggia sui seguenti snodi argomentativi:
- il legislatore avrebbe usato il nomen iuris di “affidamento” in
senso non tecnico (stante l’equipollenza dei provvedimenti di nomina di
un tutore) e quale richiamo meramente descrittivo (e non già
restrittivo o limitante) a fattispecie aventi caratteri assimilabili alla
condizione del minore inserito stabilmente in un contesto familiare affettivo
ed educativo (rispettivamente: T.A.R. Toscana, n. 876/2001; Trib. Torino,
31.5.2001);
- il suo intento sarebbe stato quello di consentire ai minori, che hanno
legittimamente soggiornato nel nostro Paese e che siano in possesso dei
requisiti richiesti, di chiedere ed ottenere il nuovo permesso di soggiorno
al compimento della maggiore età (ancora T.A.R. Toscana, n. 876/2001);
- l’art. 32 del decr. leg.vo 286 del 1998 evidenzia la ratio propria di
una norma di chiusura di carattere onnicomprensivo, sottolineata
dall’uso dell’avverbio “comunque” e coerente con i
principi di uguaglianza, di tutela dei minori e di buon andamento, fissati
dagli artt. 3, 31 e 97 della Costituzione, ai quali deve ispirarsi il giudice
in sede ermeneutica (T.A.R. Toscana, nn. 520-522-523);
- anche in considerazione del sopravvenuto art. 28 del Regolamento di
attuazione di cui al D.P.R. n. 394/1999 (che ha introdotto per tutti i
minori, non inseriti nel permesso di soggiorno del genitore o
dell’affidatario, la possibilità di ottenere un permesso di
soggiorno per minore età) sarebbe preferibile e indenne da problemi di
costituzionalità applicare in via analogica la norma di cui
all’art. 32 del D. Lgs. n. 286/98, a tutti i minori divenuti
maggiorenni (T.A.R. Piemonte, n. 2259/2001);
- per identiche ragioni di costituzionalità, non potrebbe ritenersi
che la norma sia applicabile soltanto ai minori già affidati ai sensi
della L. n. 184/1983 e non anche a minori che, in forza di apertura di
tutela, siano comunque equiparabili, per la stessa legge, ai figli (cfr. art.
29, comma secondo): Giudice unico del Tribunale di Bologna, 7 marzo 2002.
1.3. Ad avviso del Collegio, queste argomentazioni, pur apprezzabili nella
misura in cui si sforzano di pervenire ad un’interpretazione della
norma conforme a Costituzione, non paiono, tuttavia, rispondenti al tenore
letterale della disposizione de qua e dunque, nemmeno, al fondamentale canone
ermeneutico posto dal comma 1 dell’art. 12 delle c.d.
“preleggi”, canone che la stessa Corte Costituzionale ha
recentemente mostrato di privilegiare proprio in riferimento ad altra norma
del Testo Unico sull’immigrazione (l’art. 14), in una sentenza
(n. 105 del 2001) che ha espressamente disatteso interpretazioni sorrette
“da argomenti testuali assai labili” e si è, invece,
affidata a linee argomentative tendenti a “valorizzare dati
testuali”.
1.4. Sul piano strettamente letterale, la locuzione “e ai minori
comunque affidati ai sensi dell’art. 2 della legge 4 maggio 1983 n.
184”, rivela un grado di pregnanza e di specificità
tutt’altro che meramente descrittivo ed a-tecnico, quanto piuttosto
inequivocabilmente e tecnicamente identificativo di un preciso istituto
giuridico (l’affidamento familiare di minori), così come
disciplinato dalla norma positiva che l’ha introdotto nel nostro
ordinamento giuridico (l’art. 2 della legge 184 del 1983).
Quanto all’avverbio “comunque”, esso è strettamente
riferito, per adiacenza, all’aggettivo “affidati” e,
dunque, l’interpretazione logica che ne consegue è che –
al di là, questa volta sì, del mero richiamo letterale
all’art. 2 della legge – il legislatore del T.U. (e, prima
ancora, della legge n. 40 del 1998) abbia inteso riferirsi a tutti i tipi di
affido complessivamente contemplati dalla legge 184, e cioè:
- il c.d. affido “amministrativo” (o consensuale) di cui al primo
comma dell’art. 4;
- il c.d. affido “giudiziario” (ad opera del Tribunale dei
Minorenni), di cui al secondo comma del medesimo art. 4;
- il c.d. affido “di fatto”, di cui al successivo art. 9.
Tuttavia, la stretta connessione che lega, nel testo dell’art. 32,
l’avverbio “comunque” all’aggettivo
“affidati”, impedisce di fuoriuscire dall’orizzonte dell’istituto
dell’affido di minori e di considerare tale disposizione quale
(omni)comprensiva di tutti i differenti istituti giuridici che - pur retti da
un proprio ed autonomo complesso di norme, distinto dalla legge n. 184/83 -
siano “comunque” posti a salvaguardia della condizione del
minore, mediante la previsione dell’intervento di figure diverse da
quelle genitoriali.
1.5. Né a diversa conclusione possono condurre ulteriori
considerazioni di ordine essenzialmente sistematico, miranti a valorizzare,
in relazione all’art. 32, il diverso disposto di cui al precedente art.
29, comma 2 del T.U. che, ai fini del ricongiungimento familiare chiesto
dallo straniero, equipara ai figli di quest’ultimo i minori, nei cui
confronti sia stato attivato indifferentemente l’uno o l’altro
degli istituti cui si è appena fatto indiretto riferimento (adozione,
affidamento, tutela).
Invero, una corretta interpretazione sistematica non può trascurare i
commi 1 e 2 dell’art. 31, che si situano topograficamente tra le due
norme in questione e sono espressamente richiamati dalla prima parte
dell’art. 32.
Ebbene, da una visione di insieme delle disposizioni fin qui menzionate
emerge con tutta evidenza che:
- il legislatore mostra di avere ben presente lo spettro dei diversi istituti
giuridici, posti dall’ordinamento a tutela del minore che si trovi ad
essere privo (per le più svariate ragioni e in via temporanea ovvero
definitiva) della necessaria cura da parte del proprio nucleo familiare di
origine: tant’è che all’art. 29 li menziona tutti,
espressamente ed alternativamente;
- altrove, ma sempre nell’ambito dello stesso Titolo del T.U. (il IV,
intitolato all’unità della famiglia e alla tutela dei minori),
il medesimo legislatore fa invece esclusivo riferimento ad uno solo di tali
istituti, l’affidamento: in una circostanza (art. 32) con una formula
(il “comunque”, già esaminato) che comprende
l’insieme delle diverse tipologie di cui si compone; mentre in
un’altra (l’art. 31) nomina esplicitamente solo una di queste
(l’affidamento familiare ex art. 4 legge 184/83).
A fronte di siffatta capacità di dettaglio e puntualizzazione che
contraddistingue il medesimo topos normativo, non si può, dunque,
ragionevolmente ipotizzare un legislatore disattento e generico, incapace di
fare differenze; quanto piuttosto un legislatore accurato e consapevole, il
quale sceglie di volta in volta, dallo strumentario giuridico di cui dispone,
l’istituto o gli istituti di carattere generale, previsti a tutela del
minore, che intende porre in relazione biunivoca con gli specifici istituti,
stabiliti dal T.U. a presidio della famiglia e del minore stranieri.
Così:
- ai fini del ricongiungimento familiare, il legislatore equipara ai figli
dello straniero i minori adottati o affidati o sottoposti a tutela;
- ai fini del permesso di soggiorno del minore, equipara al figlio il solo
minore in affido familiare allo straniero;
- ai fini del permesso di soggiorno del minore divenuto maggiorenne, a questi
ultimi due sono equiparati i minori in affido amministrativo o di fatto.
Da questo punto di vista, il criterio sistematico si traduce in un argomento
a contrario, perché il complesso delle norme di cui al titolo IV
contribuisce, in realtà, a delineare una situazione in cui non
può che farsi applicazione dell’antico e consolidato canone
interpretativo dell’<ubi voluit, dixit>, con la conseguente
esclusione di un’interpretazione dell’art. 32 che ne consenta
l’applicazione anche ai minori, sottoposti a tutela e non affidati.
1.6. E ad integrare in senso estensivo la regola dettata dall’art. 32,
non può valere neppure il richiamo all’art 28 D.P.R. 394/1999,
trattandosi di “disposizione contenuta in un atto privo di forza di
legge”, come affermato di recente e in più occasioni dalla Corte
Costituzionale (Ordinanze n. 35 e n. 148 del 2002).
1.7. In definitiva, lettera della norma e chiaro intento del legislatore non
consentono al Collegio - in ossequio all’art. 12, comma 1 delle
preleggi ed in adesione alla prospettazione difensiva, formulata sul punto
nella memoria conclusiva dell’Amministrazione - di far propria
l’interpretazione dell’art. 32 T.U. n. 286/1998, sinora datane
dalla giurisprudenza (amministrativa ed ordinaria) e qui ripresa dal
ricorrente.
Non sussistendo, dunque, margini di incertezza tali da giustificare la
ricerca - onde evitare il contrasto con la Costituzione - di interpretazioni
diverse da quella fatta palese dalle espressioni usate dal legislatore, ne
consegue che ambedue le determinazioni impugnate risultano conformi alla
previsione legislativa.
2. Tuttavia, il Collegio nutre seri dubbi in ordine alla intrinseca
conformità a Costituzione della norma de qua, per come - alla stregua
delle considerazioni che precedono - va interpretata: e precisamente, ritiene
non manifestamente infondata la questione di costituzionalità del
citato art. 32, sotto il duplice profilo della violazione dei canoni di
uguaglianza e ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost.
3.1. Il Collegio deve, innanzitutto, premettere in linea generale che
l’ultimo decennio del secolo scorso (durante il quale è stata
emanata la norma qui sospettata di incostituzionalità) si è
rispettivamente aperto e chiuso con la identica consapevolezza, espressa da
autorevole dottrina in occasione di due importanti appuntamenti di carattere
istituzionale (il primo Convegno nazionale dei Giudici tutelari del 1990; il
Convegno sulla famiglia, organizzato dal Ministero per la solidarietà
sociale nel 1999):
- che nel nostro ordinamento attuale non si può parlare di un unico
giudice della famiglia, ma di numerosi giudici per la famiglia, in quanto le
competenze in materia familiare sono distribuite (e frantumate) tra diversi
organi giudiziari, producendo spesso problemi di coordinamento e
sovrapposizione di interventi;
- e che l’area maggiormente critica investe, in particolare, i rapporti
tra Tribunale per i minorenni e Giudice Tutelare.
3.2. Su quest’ultimo versante, la situazione è ben lungi dal
potersi riassumere nei termini schematici e polarizzati, configurati
dall’Amministrazione sia nell’ultima parte della memoria finale,
sia nel corso dell’odierna discussione orale e secondo i quali:
- l’istituto della tutela riguarderebbe la capacità di agire del
minore, mentre l’affidamento si occuperebbe della funzione genitoriale;
- la tutela avrebbe carattere provvisorio e, ai fini che vengono in rilievo
nella presente controversia, sarebbe uno strumento inidoneo a generare una
“aspettativa di permanenza sul territorio” del minore,
“fondandosi solo sul dato obiettivo della attuale impossibilità
della famiglia di origine (che si deve presumere idonea ed esistente) ad
esercitare direttamente la potestà genitoriale”; cosicché
permarrebbe in capo allo Stato il dovere di favorire il ricongiungimento
all’estero con la famiglia di origine;
- viceversa, il provvedimento di affidamento disposto dal Tribunale per i
minorenni presupporrebbe non la temporanea assenza, bensì
l’inidoneità della famiglia di origine e mirerebbe a
“costruire, con rilievo giuridico, una nuova relazione famigliare
affettiva, capace di assicurare al minore il mantenimento,
l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha
bisogno”; in definitiva, solo tale provvedimento genererebbe - sotto il
profilo giuridico e fattuale - “quella situazione di nuovo legame
personale e di stabilità col territorio nazionale”, apprezzata
dal legislatore ai fini del rilascio del permesso di soggiorno dopo il
raggiungimento della maggiore età.
Il Collegio deve dissentire da siffatta ricostruzione dei due istituti.
3.3. Infatti, se è vero che l’intervento del Giudice tutelare,
nei confronti dei minori sottoposti a tutela ex artt. 343 e ss. Cod. Civ.,
concerne prevalentemente gli aspetti patrimoniali, è altrettanto vero
che all’istituto della tutela presiede un vero e proprio Ufficio
tutelare, che è complesso e che è composto, oltre che dal
Giudice tutelare (con compiti di direzione e sorveglianza), dal tutore e dal
protutore.
Ebbene, al tutore spetta una potestà (tutoria) comprensiva di poteri,
che attengono così al patrimonio, come alla persona del minore (cfr.
artt. 357-358 Cod. Civ.): in particolare, il tutore, in quanto ha la cura
della persona del minore, è munito, come i genitori, di un potere
disciplinare, di natura personale, sul minore stesso ed esplica un potere di
proposta al Giudice tutelare in ordine al luogo dove il minore deve essere
allevato ed al suo avviamento agli studi o all’esercizio di arte,
mestiere e professione (cfr. art. 371, Cod. Civ.).
Quanto, poi, ai presupposti per l’apertura della tutela indicati
dall’art. 343 Cod. Civ., essi attengono a situazioni di
definitività (quale la morte di entrambi i genitori) ovvero comunque
provviste assai più dei caratteri di una certa permanenza piuttosto
che della provvisorietà, quali l’impossibilità ad
esercitare la potestà genitoriale per scomparsa ex art. 49 Cod. Civ. o
a seguito di pronunzie giudiziali di vario genere (ex artt. 317 bis e 330
Cod. Civ., o ai sensi di specifiche disposizioni di legge).
Inoltre, l’apertura della tutela è di regola comunicata dal
Giudice tutelare al Procuratore della Repubblica presso il Tribunal per i
minorenni, ai sensi degli articoli 740 e 741 C.P.C.
3.4. L’istituto dell’affidamento si fonda, invece, sul
presupposto che il minore sia “temporaneamente” privo di un
ambiente familiare idoneo (art. 2, comma 1 legge 184/1983) ed ha lo scopo di
consentire al minore stesso di ricevere le cure necessarie al suo
mantenimento, educazione ed istruzione, senza, peraltro, che vengano meno i
legami materiali ed affettivi con la famiglia di origine, costituendo, anzi,
il reinserimento nella famiglia di sangue, la finalità primaria
dell’istituto: in tale ultimo senso concordano la dottrina
specialistica e la giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha da tempo
sottolineato (cfr. Ordinanza n. 94 del 1990) la mancanza del carattere di
stabilità e definitività dell’affidamento familiare, in
quanto istituto destinato esclusivamente al reinserimento nella famiglia di
origine (ovvero all’acquisizione dello status di figlio adottivo).
In siffatto contesto, l'affidatario ha sì il compito di
“accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo
mantenimento e alla sua educazione e istruzione”, ma ciò
“tenendo conto delle indicazioni dei genitori per i quali non vi sia
stata pronuncia ai sensi degli articoli 330 e 333 del codice civile, o del
tutore, ed osservando le prescrizioni stabilite dall'autorità
affidante” (cfr. art. 5, comma 1 legge 184/1983): in sintesi, il
legislatore prevede la partecipazione attiva della famiglia di origine in
ordine alle fondamentali scelte educative riguardanti il minore ed un ruolo
di supervisione dell’autorità affidante.
3.5. Dalle osservazioni che precedono si possono trarre alcune prime
conseguenze, e cioè:
a) le fondamentali funzioni di cura, educazione ed istruzione del minore
rientrano nei compiti tanto dell’affidatario, quanto del tutore: in
nessuno dei due casi l’attribuzione dei poteri è in via
esclusiva ed anche se l’investimento diretto dell’affidatario
appare maggiore, cionondimeno questa circostanza non vale a differenziare
qualitativamente le rispettive competenze delle due figure, che restano
entrambe soggette alla sorveglianza dell’autorità che le ha
nominate (generalmente giudiziaria, salvo i casi di affido amministrativo);
b) da questo punto di vista, occorre convenire con il giudizio di equivalenza
o assimilabilità tra i due istituti della tutela e dell’affido,
rispettivamente contenuti nelle pronunzie n. 876/2001, 520, 522 e 523/2002
del T.A.R. Toscana e 31.5.2001 del Tribunale di Torino, cui già si
è fatto cenno al precedente punto 1.2.;
c) occorre, invece, rovesciare l’impostazione della difesa
dell’Amministrazione sul punto: non è la tutela, bensì
l’affido, a rivestire un carattere dichiaratamente temporaneo e a
presupporre una situazione reversibile; di converso, non è
l’affido, bensì la tutela a presentare profili di maggiore
stabilità, sia in riferimento alla situazione da fronteggiare; sia,
conseguentemente, in termini di intensità di quel legame personale del
minore col territorio nazionale, valorizzato dal legislatore ai fini del
rilascio del permesso di soggiorno al raggiungimento della maggiore
età;
d) e che non si tratti di un semplice sillogismo logico-giuridico, lo si
può desumere dalla semplice constatazione che nel caso di specie -
secondo la tesi dell’Avvocatura dello Stato - si dovrebbe considerare
maggiormente significativo (del rapporto del minore col territorio nazionale)
un provvedimento di affido istituzionalmente volto al suo reinserimento nella
famiglia di origine, dimorante in Albania; anziché la nomina di un
tutore, nella persona del cognato (marito della sorella), soggiornante nel
nostro paese.
4.1. Le prime conseguenze, che si sono tratte al precedente capo 3.5.,
contengono in sé anche le ragioni di fondo dei dubbi di
costituzionalità avvertiti dal Collegio, in relazione ai valori
costituzionali presidiati dall’art. 3 Cost.
4.2. Sotto un primo profilo, dalla sostanziale equivalenza tra gli istituti
dell’affidamento e della tutela deriva che la preferenza accordata dal
legislatore nei confronti dell’uno, con contestuale esclusione
dell’altro (ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, al
compimento della maggiore età del minore straniero), risulta
confliggente con il principio di uguaglianza sancito in via generale dal
citato art. 3 Cost. e specificamente sottolineato dalla Corte Costituzionale,
per quanto riguarda i minori, nella sentenza n. 148 del 1992, in cui si
riconosce “l’esigenza di un pari trattamento di essi, quando
versano nella medesima condizione”.
4.3. Sotto un diverso ed ulteriore profilo, risulta violato anche il canone
di ragionevolezza (pure riconducibile al medesimo art. 3 Cost.), in quanto
– una volta accertato (ed in questo occorre convenire con la difesa
dell’Amministrazione) che il legislatore persegue il (condivisibile) intento
di valorizzare il legame del minore con il territorio del nostro paese
– la scelta in concreto effettuata non si dimostra coerente a tale
finalità, risultando privilegiato, tra i due istituti sin qui posti a
confronto, quello che meno si presta a fungere da indice rivelatore di un
simile rapporto e più sottolinea, invece, la relazione del minore con
la famiglia (e conseguentemente il paese) di origine.
5.1. Il Collegio è, altresì, consapevole che, in tema di
immigrazione, la Corte Costituzionale ha costantemente affermato (sentenza n.
353 del 1997 e ordinanza n. 232 del 2001) che il legislatore può
legittimamente porre dei limiti all’accesso degli stranieri nel
territorio nazionale, esistendo in materia una ampia discrezionalità
legislativa, limitata soltanto dal vincolo che le scelte non risultino
manifestamente irragionevoli: nondimeno, ritiene che, nel caso
dell’art. 32 T.U. n. 286/98, sia stata superata anche la soglia della
manifesta irragionevolezza non solo per le ragioni sin qui illustrate, ma
anche alla stregua di un'ulteriore considerazione, fondata sul “diritto
vivente” dei Tribunali per i minorenni, cui si richiama anche il
ricorrente nell’atto introduttivo di questo giudizio.
5.2. Invero, a proposito dell’applicazione degli istituti in esame nei
riguardi di minori stranieri, si è consolidato presso i Giudici
minorili l’orientamento assolutamente favorevole all’utilizzo
della tutela ex art. 343 Cod. Civ., in luogo dell’affidamento.
Le motivazioni di tale indirizzo si trovano compiutamente esposte nella decisione
19 maggio 1992 del Tribunale dei Minorenni di Venezia (anch’essa
concernente un minore di cittadinanza albanese, come l’attuale
ricorrente), nei termini che seguono:
- il minore straniero presente in Italia, avendo abbandonato, con il
presumibile consenso della famiglia di sangue, il proprio paese
d’origine per ragioni politiche, di emigrazione e di lavoro, non
può essere considerato come temporaneamente privo di ambiente
familiare ai fini dell’affidamento familiare, previsto e disciplinato
dall’art. 2 e seguenti della legge n. 184 del 1983;
- poiché, tuttavia, il suddetto allontanamento rende di fatto
impossibile ai genitori l’esercizio delle proprie potestà,
è pertinente al caso ed applicabile l’art. 343 Cod. Civ., ai
sensi del quale lo Stato italiano deve assicurare al minore ogni tutela
giuridica, tutela affidata al Giudice tutelare.
A seguire, altri Giudici minorili hanno, così, declinato il proprio
intervento in favore, per l’appunto, di quello del Giudice tutelare:
- il Tribunale per i minorenni di Brescia ha pronunciato un decreto
(pubblicato, privo di data, in un recente volume dedicato alla legislazione
sugli immigrati e comunque riferito ad una istanza della fine del 1998: a
tale provvedimento ha fatto richiamo anche l’ordinanza cautelare emessa
da questa Sezione nel presente ricorso) con cui, esclusa la necessità
di un proprio intervento protettivo essendo il minore già seguito dal
parente istante, ha dichiarato il non luogo a provvedere e disposto la
trasmissione degli atti al Giudice tutelare, in quanto competente a dare i
provvedimenti circa l’avviamento del minore agli studi oppure al
lavoro;
- da ultimo, anche il Tribunale per i minorenni di Perugia (1 luglio 2000)
non ha ravvisato la necessità o l’utilità di un proprio
intervento protettivo e formale, qualora non siano applicabili né gli
articoli 8 e ss. della legge 184/83 (stato di adottabilità del
minore), né gli artt. 333 e 336 Cod. Civ. (condotta del genitore
pregiudizievole ai figli), restando, quale unico strumento formale di
protezione, la tutela del minore ex artt. 316 e 343 Cod. Civ.
Il formarsi (prima del T.U. n. 286 e della legge n. 40, entrambi del 1998) ed
il successivo consolidarsi, in questi sensi, della giurisprudenza dei
Tribunali per i minorenni priva, all’evidenza, di significato concreto
l’espressione “minori comunque affidati ai sensi
dell’articolo 2 della legge 4 maggio 1983, n. 184”, contenuta
nell’art. 32 del medesimo T.U., giacché la prassi giudiziale
è propensa ad utilizzare, nei confronti dei minori stranieri non
accompagnati, l’istituto non già dell’affidamento,
bensì della tutela, escluso invece dalla previsione della norma.
Quest’ultima finirebbe per richiedere, in sostanza, una condizione nei
fatti non realizzabile e dunque impossibile: donde la palese incongruenza
della disposizione qui scrutinata, la cui area di applicazione verrebbe, a
questo punto, a coincidere in toto con quella di cui ai commi 1 e 2 del
precedente art. 31.
5.3. Una tale situazione può, ad avviso del Collegio, essere
riequilibrata solo mediante la declaratoria di illegittimità della
norma medesima, nella parte in cui non prevede la possibilità del
rilascio del permesso di soggiorno, al compimento della maggiore età,
anche ai minori stranieri in precedenza sottoposti a tutela.
Il Collegio non si nasconde, nel contempo, che - in considerazione della
sostanziale automaticità dell’apertura della tutela - la
questione che solleva con la presente ordinanza potrebbe, ove accolta,
comportare il rischio di un “aggiramento” delle regole che
presiedono all’immigrazione autorizzata (già oggi, il fenomeno
dei minori stranieri non accompagnati riguarda, per intuitive ragioni di
ordine - per così dire - “naturale”, adolescenti
abbastanza prossimi al diciottesimo anno di età: ne è riprova
la stessa vicenda dell’odierno ricorrente): ed intende, pertanto,
affrontare direttamente anche questo argomento, peraltro presente nelle
difese dell’Amministrazione e a cui la medesima Corte Costituzionale ha
già mostrato di non essere insensibile (cfr. la menzionata ordinanza
n. 232 del 2001).
In sintesi, a siffatta obiezione, il Collegio così si sente di
replicare:
1) come già si è avuto modo di esporre in precedenza, non
sembra dubitabile che il legislatore per primo abbia inteso valorizzare, ai
fini della concessione del permesso di soggiorno al compimento della maggiore
età, un certo qual rapporto di stabilità instauratosi tra il
minore straniero ed il nostro territorio nazionale: ebbene, se questo
è l’intento del conditor legis, la questione qui sollevata non
tradisce né trasforma la finalità della norma, ma si limita a
correggerne l’erronea (ad avviso del rimettente) indicazione del
corrispondente strumento giuridico;
2) invero, deve ritenersi che le caratteristiche costitutive degli istituti
del nostro ordinamento giuridico debbano restare immutate nella loro
ontologica essenza e nella loro generale applicabilità, anche ove
siano destinate a confrontarsi con l’irruzione nella scena sociale e
giuridica di fenomeni nuovi e di rilevanti dimensioni, come indubbiamente
è, nella specie, quello dei “minori stranieri non
accompagnati”;
3) in ogni caso, se l’apertura della tutela costituisce un atto dovuto,
non altrettanto lo sarebbe - nell’eventualità
dell’accoglimento della presente questione di costituzionalità -
il rilascio del permesso di soggiorno al minore straniero, divenuto
maggiorenne dopo aver usufruito di detto istituto: invero, come esattamente
osservato dalla difesa del ricorrente in sede di memoria conclusiva e di
discussione orale, detto rilascio resta comunque subordinato alla verifica
delle ulteriori condizioni (di studio, lavoro, salute) previste a tal fine
dall’art. 32, che, coerentemente, si esprime, al riguardo, in termini
possibilistici (“può essere rilasciato un permesso di
soggiorno”).
In definitiva, quello dell’esser stato sottoposto a tutela si
risolverebbe, per il minore, in un pre-requisito, dovendo sussistere altri e
concorrenti presupposti, di carattere obiettivo, per ottenere il rilascio del
titolo abilitativo al soggiorno nel nostro paese: e tali ulteriori requisiti
il ricorrente ha dimostrato, nella presente fattispecie, di possedere,
poiché:
o all’indomani del compimento della maggiore età, egli è
stato assunto, presso una ditta artigiana, con regolare contratto di
apprendistato di durata triennale, percependo una retribuzione media netta
mensile che si aggira sulle 1.400.000. lire (cfr. buste paga del periodo
marzo-novembre 2001);
o gode della disponibilità di un alloggio, in quanto è tuttora
ospitato dall’ex-tutore, come da relativa dichiarazione rilasciata da
quest’ultimo.
6. Concludendo sul punto, il Collegio è, pertanto, propenso a ritenere
non manifestamente infondata la questione di costituzionalità, nei
termini innanzi precisati.
7. Quanto alla sua rilevanza nella presente controversia, è
sufficiente osservare che tanto il diniego del Questore di Bologna, quanto la
Circolare ministeriale ivi richiamata costituiscono applicazione della
disposizione di cui all’art. 32 T.U. n. 286/1998, affermando entrambi
che solo “il permesso di lavoro per affidamento, che sia stato disposto
ai sensi della legge n. 184/1983” consente al minore di ottenere, al
raggiungimento della maggiore età, un permesso di soggiorno per
lavoro; ragion per cui, un’eventuale declaratoria di
incostituzionalità della norma applicata (nella parte in cui non
contempla il caso dell’apertura della tutela) travolgerebbe anche
entrambi gli atti di cui si controverte in questa sede.
8. Per le suesposte considerazioni, il Collegio deve sollevare
d’ufficio – siccome rilevante e non manifestamente infondata
– la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32
del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui non prevede che, al
compimento della maggiore età, il permesso di soggiorno possa essere
rilasciato anche nei confronti dei minori stranieri “sottoposti a
tutela, ai sensi degli articoli 343 e seguenti del Codice civile”.
P. Q. M.
Il Tribunale
Amministrativo per l’Emilia-Romagna, Sezione I,
Visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 e ss. della legge costituzionale
1/1948 e 23 e ss. della legge 87/1953, DICHIARA rilevante e non
manifestamente infondata, in riferimento all’articolo 3 della
Costituzione, la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 32 del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui
non prevede che, al compimento della maggiore età, il permesso di
soggiorno possa essere rilasciato anche nei confronti dei minori stranieri
“sottoposti a tutela, ai sensi degli articoli 343 e seguenti del Codice
civile”.
Sospende il giudizio.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Dispone che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata
alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e comunicata
al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei
Deputati.
Così deciso in Bologna, nella camera di consiglio del 9 maggio 2002.
Presidente (Bartolomeo Perricone)
Consigliere rel.est. (Giorgio Calderoni)
Depositata in Segreteria in data 23 maggio 2002.
Bologna, li 23 maggio 2002.
Il Segretario
(Luciana Berenga)
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