MIGRACTION EUROPA
Bollettino
trimestrale di analisi delle politiche migratorie in Europa
prodotto dal CeSPI nel quadro del programma MIGRACTION
realizzato con il sostegno di
Compagnia di San Paolo
Ministero degli Affari Esteri
Monte dei Paschi di Siena
Il Consiglio europeo
di Siviglia del 21 e 22 giugno 2002 doveva rappresentare l’apoteosi della
Presidenza spagnola. Nelle intenzioni del padrone di casa, il vertice serviva a
chiudere in bellezza un semestre reso fatalmente poco produttivo
dall’accavallarsi delle scadenze elettorali in diversi Stati membri. Il
trampolino andaluso doveva inoltre contribuire a proiettare José Maria
Aznar verso un ambito futuro di leader dello schieramento conservatore europeo. A questo scopo,
il capo del governo spagnolo aveva confezionato l’agenda con cura,
collocando al primo posto il tema che riteneva più fruttuoso dal punto
di vista politico e mediatico: la lotta all’immigrazione clandestina.
Dopo alcuni anni di
egemonia progressista, la scelta spagnola confermava che il pendolo delle
politiche migratorie stava tornando all’impostazione prevalente nella
lunga stagione di Schengen. L’attenzione per l’immigrazione
regolare e per l’integrazione (che, peraltro, era rimasta in gran parte a
livello di retorica) evapora; l’unica priorità torna ad essere il
controllo delle frontiere.
Sul palcoscenico di Siviglia p.
1
Quale condizionalità migratoria p.
3
Schengen 2: la vendetta p.
5
La
“soluzione” su cui Aznar, in vista della cumbre di Siviglia, aveva puntato maggiormente era
una forma inedita, piuttosto radicale, di condizionalità migratoria.
Da tempo, i paesi
(non solo europei) destinatari di flussi migratori non autorizzati si sono resi
conto che una strategia di contrasto unilaterale e puramente difensiva è
perdente. Hanno dunque cominciato a inserire la tematica migratoria nel
più vasto sistema delle relazioni con i principali paesi di origine e di
transito. In alcuni casi, come in quello tedesco, ci si è concentrati
sulla cooperazione tecnica in materia di controlli alle frontiere comuni (con
la Polonia, in particolare) e sulla negoziazione/imposizione di accordi di
riammissione. In altri casi, sono emerse soluzioni più articolate,
basate sul ricorso a incentivi specifici sotto forma di tranche extra di aiuti allo sviluppo o di quote
privilegiate di ingressi per lavoro. Gli esperimenti italiani in questo campo
sono noti; ma altrettanto interessante (e parzialmente influenzata, almeno
inizialmente, dall’esempio italiano) è l’esperienza
spagnola, in cui si combinano una gestione negoziata degli ingressi per lavoro
(a partire dagli accordi con l’Ecuador, 31 gennaio 2001, con la Colombia,
21 maggio 2001, e con il Marocco, 25 luglio 2001) e una diretta finalizzazione
della cooperazione allo sviluppo (anche decentrata, come nel caso della
Catalogna) alla riduzione della pressione migratoria.
Tali approcci possono
dare frutti significativi, come sembrano dimostrare le cifre decrescenti degli
sbarchi sulle coste pugliesi, dopo alcuni anni di intensa e articolata
cooperazione con le autorità albanesi. Ma in altri casi, anche le
strategie più sofisticate si scontrano con la dimensione oggettiva dei
problemi. E’ così che il partenariato ispano-marocchino in materia
migratoria si è arenato nell’ottobre del 2001, in seguito al
ritiro dell’ambasciatore nord-africano a Madrid; si è trattato di
un gesto clamoroso e inspiegato, su cui però le tensioni in materia
migratoria sembrano aver pesato almeno quanto quelle relative ai diritti di
pesca. In entrambi i casi - è il caso di dire - il Mediterraneo, oggi,
divide assai più che unire.
Tormentato dal difficilissimo rapporto bilaterale con il regno
maghrebino, reso adesso ancor più teso da un aspro dissidio in merito
alle modalità di rimpatrio dei clandestini minorenni, Aznar ha deciso di
porre il problema in sede europea. E lo ha fatto nel modo più duro,
invocando l’adozione congiunta di una strategia basata su un aut aut: o bloccate i flussi (mediante controlli
rafforzati in uscita e riammissioni rapide) o tagliamo gli aiuti e sospendiamo
i regimi di favore (per esempio, in campo commerciale).
Ma l’impegnativa proposta non era stata preceduta da una
riflessione e da un dibattito sufficientemente approfonditi e ampi. Le
divisioni sono emerse ben presto, prima in occasione del Consiglio GAI di
Lussemburgo del 13 giugno, poi tra i ministri degli esteri riunitisi il 17 (una
ricca raccolta di documenti si trova nella sezione “Immigration”,
recentemente inaugurata sul sito www.euractiv.com).
A favore di una condizionalità migratoria rigida si sono schierati
innanzitutto - seppur con sfumature diverse, tentennamenti e qualche
ambiguità - i governi che avevano già autonomamente messo in
cantiere soluzioni analoghe: oltre all’esecutivo italiano (il cui disegno
di legge in materia di immigrazione, ora all’esame del Senato in seconda
lettura, AS N. 795-B, enuncia, all’art. 1, comma 2, il medesimo
principio), quello britannico, il cui leader ha smorzato i toni solo di fronte al moltiplicarsi
delle perplessità, anche all’interno del suo governo (il ministro
per la cooperazione britannico, Clare Short, ha definito “moralmente
ripugnante” la versione originaria della proposta, vd. Le Monde, 23-24
giugno 2002). Anche altri due paesi, teatro di recenti rovesciamenti di
maggioranze politiche, la Danimarca e l’Olanda, si sono mostrati
sostanzialmente favorevoli. Su posizioni opposte si sono invece schierati la
Francia, interessata a preservare l’autonomia della propria politica
estera, in particolare verso il Nord Africa, e la Svezia, portatrice di una
grande tradizione di cooperazione umanitaria. Il governo tedesco, reduce
dall’approvazione di una controversa legge sull’immigrazione e
impegnato in una difficilissima campagna elettorale, ha preferito mantenere una
posizione prudentemente favorevole, ma defilata.
Da questo balletto politico-mediatico, tanto frenetico quanto confuso,
è scaturito un blando compromesso, che delinea una procedura articolata
in due stadi:
1) si procederà dapprima a una
“valutazione sistematica delle relazioni con i paesi terzi che non
cooperano nella lotta contro l'immigrazione illegale”, dei cui risultati
si “terrà conto nelle relazioni fra l'Unione europea e gli Stati
membri e i paesi interessati, in tutti i settori pertinenti” (Consiglio
europeo di Siviglia, 21-22 giugno 2002, Conclusioni della Presidenza, punto 35,
SN 200/02, disponibili in http://ue.eu.int/en/Info/eurocouncil/index.htm);
2) in una seconda fase, se “non si
sarà ottenuto alcun risultato ricorrendo ai meccanismi comunitari
esistenti, il Consiglio potrà prendere atto, all'unanimità, della mancanza ingiustificata di
cooperazione da parte di un paese terzo nella gestione comune dei flussi
migratori. In tal caso il Consiglio, conformemente alle norme dei trattati,
potrà adottare misure o assumere posizioni nel quadro della politica
estera e di sicurezza comune e delle altre politiche dell'Unione europea”
(ibidem, punto 36, corsivo
aggiunto). Queste imprecisate misure di natura sanzionatoria dovranno comunque
essere assunte “nel rispetto degli impegni assunti dall'Unione e senza
mettere in discussione gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo” (ibid.).
Le implicazioni concrete di tale testo sono piuttosto oscure;
ciò che è chiaro è che la politica comune in materia di
cooperazione non potrà venire intaccata, né sarà possibile
sospendere regimi di associazione già pattuiti. Sembra, pertanto, che le
eventuali ritorsioni – da adottare comunque all’unanimità,
senza alcun ruolo esplicitamente previsto per la Commissione e il Parlamento
europeo, secondo una tipica impostazione da pilastro intergovernativo –
non siano destinate a produrre effetti retroattivi, ma solo a condizionare le
politiche future dell’Unione nei confronti dei paesi in questione. In
sintesi, si tratta di un risultato modesto, che avrebbe potuto essere raggiunto
con minor clamore all’interno del secondo pilastro; si sarebbe
così evitata l’ondata di diffidenza e chiusura inevitabilmente (e
inutilmente) suscitata in numerosi paesi terzi e, in primo luogo, in quelli
apertamente menzionati da Aznar nei discorsi di questi giorni: Jugoslavia e
Turchia.
Il vertice di Siviglia merita un ultimo rilievo critico. Il modo
ambizioso e avventato in cui è stato impostato dal governo spagnolo
dimostra una volta di più la necessità di riformare urgentemente
il meccanismo delle presidenze semestrali, che nella sua forma attuale
incentiva la spettacolarizzazione e ostacola un policy-making più costruttivo e lungimirante. Anche
su questo punto, le soluzioni che proporrà la Convenzione rivestiranno
la massima importanza.
Pur con tutti i suoi limiti, al Consiglio europeo di Siviglia va
riconosciuto un merito innegabile. Quello di avere tematizzato, in ambito
europeo e al massimo livello politico, la questione cruciale dei rapporti tra
paesi di origine, di transito e di destinazione dei flussi migratori, di quelli
non autorizzati in particolare. Come abbiamo già sottolineato, da alcuni
anni, esperti e policy-makers
nei principali paesi europei di immigrazione sono venuti maturando una
consapevolezza crescente della necessità di cooperare con i paesi
emissari e di passaggio, ai fini di un governo efficace e sostenibile dei
fenomeni migratori.
Tale consapevolezza astratta si deve misurare, tuttavia, con gli
ostacoli generati dal conflitto di interessi e di percezioni che sussiste
normalmente tra i partner
predestinati di tali forme di cooperazione, particolarmente quando si tratta di
migrazioni non autorizzate.
Nella maggior parte dei paesi a forte pressione migratoria,
l’emigrazione, anche se clandestina, rappresenta un fattore importante di
sopravvivenza economica e di stabilità sociale. Generalmente, questo
è tanto più vero quanto minori sono le prospettive di uno
sviluppo economico e sociale sufficientemente vasto, a breve e medio termine.
Al contrario, nei paesi più dinamici, le valenze positive
dell’emigrazione tendono a essere offuscate dai suoi effetti negativi di
lungo periodo (brain e skill drain; squilibri demografici; gap motivazionali, soprattutto presso le giovani
generazioni; dinamiche criminogene legate allo sviluppo dei mercati della
migrazione clandestina; etc.).
In questa seconda categoria di paesi, le classi dirigenti – anche
a seconda della loro qualità e lungimiranza - possono mostrarsi propense
ad elaborare spontaneamente politiche di prevenzione e di controllo
dell’emigrazione, o politiche di incentivazione al rimpatrio.
Ma i paesi in cui hanno origine oggi i principali flussi non
autorizzati verso l’Europa non hanno queste caratteristiche:
a)
o si tratta di
paesi gravati da problemi gravi o gravissimi di natura politica (Afghanistan,
Iraq, Somalia e, con una situazione di emergenza meno acuta, Sri Lanka) le cui
autorità (laddove esistano autorità internazionalmente
riconosciute) avrebbero comunque scarse capacità di cooperare
efficacemente;
b)
oppure si tratta
di paesi in fase di transizione e di crescita, per i quali però i
vantaggi dell’emigrazione eccedono ancora largamente gli inconvenienti
(tra i paesi di maggiore rilevanza per l’Italia, questo discorso si
applica all’Albania, al Marocco, alla Tunisia e a tanti altri).
In entrambi questi sottogruppi di paesi, le politiche di emigrazione (o
la somma degli atteggiamenti e dei comportamenti ufficiali e ufficiosi in
materia, laddove non esistano politiche strutturate), si ispirano generalmente
a un favore di fondo verso l’emigrazione in sé, che spesso si
accompagna uno sfavore più o meno esplicito nei confronti di
un’integrazione piena nel paese di destinazione (su queste tematiche, vd.
F. Pastore - G. Sciortino, Tutori lontani. Il ruolo degli Stati
d’origine nel processo di integrazione degli immigrati, rapporto prodotto per la Commissione per le
politiche di integrazione degli immigrati, ottobre 2001, disponibile in www.cespi.it).
Nel caso di failed States o di paesi interessati da estesi conflitti intestini (vd. sopra,
gruppo a), la legittimità stessa di massicci interventi internazionali
finalizzati a impedire l’emigrazione non autorizzata o a realizzare
rimpatri forzati su vasta scala è discutibile e da verificare caso per
caso. Questo non impedisce ai governi europei di operare attivamente in questa
direzione: basti pensare all’accordo di riammissione recentemente firmato
dall’Italia con Sri Lanka, all’accordo analogo che la Commissione
europea sta negoziando su mandato del Consiglio con lo stesso paese, o al vasto
programma di rimpatri (con destinazione privilegiata Afghanistan) che il
Consiglio europeo di Siviglia ha invitato il Consiglio a varare entro la fine
dell’anno (Conclusioni della Presidenza, punto 30). Nei rapporti con
questa categoria di paesi, tuttavia, i margini per una cooperazione più
strutturata e articolata in tema di migrazioni appaiono in ogni caso piuttosto
limitati.
Nel caso dei paesi appartenenti al gruppo b), invece, il problema
fondamentale della cooperazione in materia migratoria non è tanto quello
della legittimità o
della capacità, ma
soprattutto quello della motivazione. La questione essenziale è cioè come
indurre le classi dirigenti e le amministrazioni del paese in questione a
cooperare per un fine – la lotta all’emigrazione clandestina e
irregolare – tendenzialmente non condiviso. E qui si colloca
l’alternativa fondamentale tra un approccio “in positivo”,
basato su incentivi (e,
ovviamente, sulla minaccia della loro riduzione o cancellazione, a fronte di
una collaborazione insoddisfacente), e un approccio “in negativo”,
basato su sanzioni, quale
quello originariamente proposto dai governi dell’“ala dura”,
a Siviglia.
Il primo tipo di condizionalità è, per esempio, quello
utilizzato dall’Italia nei rapporti con i tre paesi del Mediterraneo che,
dal 1998, hanno beneficiato in misura maggiore delle quote privilegiate di
ammissione previste dai decreti annuali di programmazione dei flussi (vedi
tabella a pag. 5).
Questa forma di condizionalità positiva non impedisce di attivare mezzi di pressione
in caso di cooperazione insufficiente; questo è, ad esempio, ciò
che avvenne tra 2000 e 2001, con il dimezzamento della quota di ingressi
regolari per cittadini marocchini, quale reazione italiana a un comportamento
poco cooperativo delle autorità marocchine in materia di riammissione.
Pur trovandosi oggettivamente messo in crisi dalla mancata approvazione da
parte del Presidente del Consiglio del decreto-flussi per il 2002, il modello
descritto non viene abbandonato formalmente dal citato disegno di legge
governativo in materia di immigrazione, il quale anzi “codifica” la
prassi della riduzione a scopo sanzionatorio della quota privilegiata.
L’art. 17, nella versione approvata dalla Camera, prevede infatti che
“nello stabilire le quote i decreti prevedono restrizioni numeriche all’ingresso
di lavoratori di Stati che non collaborano adeguatamente nel contrasto
all’immigrazione clandestina o nella riammissione di propri cittadini
destinatari di provvedimenti di rimpatrio”.
Regimi privilegiati di ammissione per motivi economici non sono
ovviamente l’unica contropartita possibile all’interno di partnership basate sulla condizionalità positiva.
Linee mirate di cooperazione allo sviluppo, aperture commerciali, programmi di
riduzione condizionata del debito, sono altrettante soluzioni, che finora
purtroppo non sono state sperimentate in maniera adeguata e continuativa,
né in Italia né altrove.
All’opposto di questo approccio si colloca, invece, la condizionalità
negativa, basata su sanzioni,
il cui grande vantaggio – nel breve periodo – è quella di
non generare costi aggiuntivi. Anche per questo paradigma di intervento,
mancano riscontri sperimentali diretti. I sostenitori di questa soluzione
dovrebbero tuttavia riflettere in maniera molto approfondita sui possibili
effetti di medio e lungo periodo.
La comunità scientifica concorda genericamente nel ritenere che,
solo in casi molto specifici (per esempio, di fronte a ondate migratorie
generate da fattori ambientali di natura straordinaria, come una siccità
prolungata) e a determinate condizioni, un flusso adeguato di aiuto
internazionale allo sviluppo può, di per sé e in tempi
medio-brevi, produrre
attenuazioni significative della pressione migratoria. In termini più
generali, il legame tra processi di sviluppo socio-economico e migrazioni
è estremamente complesso e non univoco, e quindi non riconducibile a
schemi semplici e universali (per una panoramica di situazioni, vd. i paper prodotti nell’ambito del programma di
ricerca CEME, Cooperative Efforts to Manage Emigration, scaricabili dal sito http://migration.ucdavis.edu). Ma
è anche vero che se un aumento dell’APS non garantisce una
riduzione della pressione migratoria, un suo calo drastico e improvviso
può facilmente avere effetti destabilizzanti, poiché i regimi di
aiuto internazionale, soprattutto se ampi e consolidati, tendono a generare
reti di dipendenza e forme di equilibrio, anche se in certi casi di natura poco
virtuosa o addirittura perversa.
Infine, bisogna considerare l’impatto che una cooperazione seria
nella lotta all’emigrazione non autorizzata può avere sulla
stabilità politica degli apparati istituzionali dei paesi di origine.
Controllare le frontiere in uscita e riammettere i propri cittadini partiti in
cerca di fortuna ed espulsi dal paese di destinazione sono comportamenti
altamente impopolari per qualsiasi governo, tanto più se posto a capo di
un paese a forte pressione migratoria. Persino una repressione penale decisa
delle attività di sfruttamento della emigrazione clandestina rischia, in
contesti particolarmente disagiati, di generare reazioni negative da parte di
un’opinione pubblica assai più vasta della cerchia coinvolta
direttamente nel business
del traffico. In situazioni di questo tipo, una politica di contrasto attivo
dell’emigrazione clandestina può risultare praticabile e
sostenibile, per le leadership locali, solo se accompagnata e sorretta da programmi di segno diverso.
In caso contrario, la mano dura contro i clandestini rischia di indebolire e
destabilizzare il braccio che la muove.
Anno |
Albania |
Marocco |
Tunisia |
Somalia |
Altri |
Totale |
1998 |
3000 |
1500 |
1500 |
0 |
0 |
6000 |
1999 |
Mancata approvazione decreto-flussi |
|||||
2000 |
6000 |
3000 |
3000 |
0 |
6000 |
18000 |
2001 |
6000 |
1500 |
3000 |
500 |
4000 |
15000 |
L’agenda migratoria di Siviglia era densa, anche
se – come abbiamo già osservato - fortemente squilibrata sul
versante di controllo e repressivo. Oltre agli orientamenti deliberati in
materia di rapporti con paesi terzi, su cui ci siamo già soffermati, si
possono enucleare due blocchi fondamentali di decisioni. Entrambi hanno per
oggetto quasi esclusivo (con l’eccezione, indubbiamente significativa,
dei provvedimenti in materia di ricongiungimento famigliare e di status dei
lungo-residenti) temi che si trovavano già al cuore della cooperazione
intergovernativa in ambito Schengen. Si constata, insomma, che, dopo anni di
dibattiti su un approccio comprensivo e integrato alla politica migratoria
europea, gli obiettivi fondamentali degli esecutivi europei non sono
sostanzialmente mutati.
Nell’immediato, la sensazione di un ritorno
all’epoca di Schengen è accentuata dalla situazione paradossale
che si determina con l’assunzione della presidenza – a partire dal
1° luglio - da parte della Danimarca. Come è noto, infatti, da
Amsterdam in poi, il paese scandinavo non partecipa alla cooperazione europea
in materia di immigrazione e di asilo, salva la sua facoltà di aderire ex
post- entro sei mesi –
a decisioni che rappresentino sviluppi immediati dell’acquis di Schengen. Nel silenzio degli accordi,
sembra dunque che in questi sei mesi assisteremo a scene al limite del nonsense, in cui i ministri danesi presiederanno
riunioni in cui non disporranno del diritto di voto (per una panoramica
sulle priorità danesi in materia GAI, in cui
per quanto riguarda asilo e immigrazione ci si limita a rinviare al lavoro
svolto sinora dalla Commissione e
dal Consiglio. Si veda, a questo proposito, http://www.eu2002.dk/issues/default.asp?MenuElementID=8009).
Tornando al lascito
di Siviglia, i due blocchi di decisioni su cui ci sembra utile soffermarsi sono
i seguenti:
A) ridefinizione
del calendario legislativo, mediante la selezione di alcune priorità
a scapito degli altri provvedimenti pianificati nello scoreboard (di cui è ora disponibile
l’ultima edizione, COM(2002) 261 def., 30 maggio 2002, reperibile alla
data 12 giugno 2002 sulla pagina delle novità GAI della Commissione: http://www.europa.eu.int/comm/justice_home/what_new_en.htm).
In particolare, il Consiglio europeo ha chiesto al Consiglio di approvare
“senza indugio” i seguenti atti:
“- entro
dicembre 2002 il regolamento Dublino II;
- entro giugno 2003
le norme relative alle condizioni richieste per beneficiare dello status di
rifugiato e al contenuto di tale status; le disposizioni sul ricongiungimento
familiare e lo status dei residenti permanenti di lunga durata;
- entro il 2003 le
norme comuni in materia di procedure d'asilo”.
Questo elenco, da un
lato, conferma il decadimento della proposta di direttiva in materia di
ammissione per motivi economici dalla lista delle priorità effettive
(cfr. MigraCtion Europa n° 2, scaricabile da www.cespi.it);
dall’altro, esso riflette l’importanza preminente che diversi Stati
membri, con la Germania in testa, assegnano alla riforma della Convenzione di
Dublino e, più in generale, al completamento della fase I della
costruzione di un regime europeo comune in materia di asilo (vd. la Prima
relazione della Commissione sull’attuazione della comunicazione COM(2000)
755 def. del 22 novembre 2000,
COM(2001) 710 def., 28 novembre 2001). Un passo avanti in questa direzione -
importante a livello di principi, ma modesto nei contenuti - è stato
compiuto con il raggiungimento di un consenso politico sulla direttiva in
materia di condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in seno al Consiglio
GAI del 25-26 aprile 2002.
B) Consacrazione
definitiva di un vasto e articolato piano di riforma e rafforzamento del
sistema europeo di controllo migratorio, anche in vista
dell’allargamento. Dopo essersi astenuta, per più di due anni dopo
l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam, dall’offrire alcuno
stimolo o proposta in materia di “immigrazione e soggiorno
irregolari” (art. 63, paragrafo 3, lettera b) TCE), nell’autunno
2001, pressata dal contesto politico, la Commissione ha assunto con decisione
l’iniziativa anche su questo terreno. L’importante comunicazione
presentata il 15 novembre “su una politica comune in materia di
immigrazione illegale” ha innescato una reazione politico-istituzionale a
catena, che ha visto la Commissione stessa, il Consiglio e alcuni Stati membri
impegnati in una “corsa” per assumere la guida di questo filone del
processo di comunitarizzazione. Si sono così succeduti, in un ristretto
arco di tempo, diversi documenti strategici, che in parte si integrano a
vicenda e in parte si sovrappongono:
-
Comunicazione
della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo “Su una politica
comune in materia di immigrazione illegale”, COM(2001) 672 def., 15
novembre 2001;
-
Piano
d’azione del Consiglio per la lotta all’immigrazione clandestina e
al traffico di esseri umani, doc. 6621/1/02, approvato dal Consiglio GAI del 28
febbraio 2002;
-
Comunicazione
della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo “Verso una
gestione integrata delle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione
europea”, COM (2002) 233 def., 7 maggio 2002;
-
Rapporto finale
del Feasibility Study for the Setting Up of a “European Border
Police”, promosso dai
governi di Italia, Belgio, Francia, Germania e Spagna con il sostegno del Programma
Odysseus della Commissione europea, presentato a Roma il 30 maggio 2002;
- Consiglio
dell’Unione europea, Plan for the management of the external borders
of the Member States of the European Union, doc. 10019/02, approvato dal
Consiglio GAI del 14 giugno 2002.
Orientarsi in questa
alluvione di piani e programmi – che in parte, peraltro, rispondono a
obiettivi di immagine, più che di sostanza – non è facile.
Ai fini di comprendere i cambiamenti concreti che si delineano all’orizzonte,
è pertanto opportuno concentrarsi – oltre che sulle Conclusioni di
Siviglia - sui due piani d’azione del Consiglio, su cui si è
già formato il consenso unanime degli esecutivi coinvolti.
Per un verso, questi
documenti confermano delle linee di intervento già avviate, imprimendo
ad esse un forte impulso politico e un’accelerazione; rientrano in questa
logica le decisioni prese dai capi di Stato e di governo di:
- riesaminare entro fine anno le liste dei paesi
soggetti all’obbligo di visto e di quelli esonerati;
- “accelerare la conclusione degli accordi di
riammissione in fase di negoziazione ed approvare nuovi mandati per negoziare
accordi di riammissione con i paesi già indicati dal Consiglio”;
- approvare, in occasione del prossimo
Consiglio GAI, tre atti normativi finalizzati ad armonizzare l’azione
repressiva nei confronti delle organizzazioni criminali dedite al traffico e
alla tratta di esseri umani (decisione-quadro sulla lotta contro la tratta
degli esseri umani; decisione-quadro intesa a rafforzare il quadro penale per
la repressione del favoreggiamento dell'ingresso e del soggiorno illegali;
direttiva volta a definire il favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del
soggiorno illegali; per un sintetico ma accurato commento su questi tre
provvedimenti, vd. l’ottima rubrica dal titolo Key Legislative
Developments on Migration in the European Union, curata da Steve Peers su “European Journal of
Migration and Law”, n. 1/2002, scaricabile a pagamento dal sito www.kluweronline.nl).
Ma oltre a potenziare filoni di attività
già esistenti, i governi europei hanno lanciato un vasto programma di
rinnovamento strutturale del sistema europeo di controllo migratorio, che si
caratterizza essenzialmente per due linee di riforma:
i) Generalizzazione
e anticipazione del momento della schedatura a livello europeo dei cittadini di
paesi terzi a fini di controllo migratorio. Attualmente esistono due
strumenti per la schedatura centralizzata a livello europeo di cittadini di
paesi terzi a fini di politica migratoria: la banca-dati sugli stranieri
“non ammissibili” all’interno del SIS (fondamentalmente, si
tratta di cittadini di paesi terzi respinti o espulsi da uno degli Stati
aderenti, e gravati da un conseguente divieto di reingresso; vd. art. 96, comma
3, Conv.Schengen) e il sistema Eurodac per il rilevamento delle impronte
digitali di “tutti i richiedenti asilo e di tutti gli stranieri che
vengano fermati in relazione all’attraversamento irregolare della
frontiera esterna di uno Stato membro [e che non siano stati respinti], qualora costoro abbiano almeno 14 anni di
età”. A quest’ultimo proposito, si segnala che il Consiglio
GAI del febbraio 2002 ha approvato un regolamento di attuazione (doc.
6328/02+6345/02 ADD 1) del regolamento 2725/2000, approvato l’11 dicembre
2000, istitutivo di Eurodac; con l’approvazione di queste norme
attuative, il sistema, dopo una lunga gestazione, è ora in grado di
funzionare.
Con il Piano
d’azione approvato il 28 febbraio, il Consiglio ha stabilito di
affiancare a queste due banche-dati, un terzo strumento di schedatura, dalla
portata assai più ampia, denominato “sistema comune
d'identificazione dei dati dei visti”. Per una descrizione sommaria di
questo progetto, che nasce da una proposta della Commissione sollecitata dagli
Stati membri all’indomani dell’11 settembre 2001, rinviamo al
numero precedente di questo bollettino. Qui ci limitiamo a esprimere una
perplessità di ordine generale: anticipare il momento della schedatura,
anche mediante tecniche biometriche, all’atto della richiesta del visto
(a monte, quindi, della richiesta del permesso di soggiorno, in occasione della
quale il ddl “Bossi-Fini” prevede che lo straniero venga
“sottoposto a rilievi fotodattiloscopici”, art. 5) non rischia
forse di produrre l’effetto perverso di dissuadere un numero crescente di
cittadini di paesi terzi dal tentativo – dall’esito incerto per
definizione - di ottenere un visto, imboccando invece subito il canale
clandestino?
ii) Creazione di
un sistema europeo di gestione delle frontiere esterne (il concetto di management
of external borders è
definito ufficialmente in un allegato al Piano approvato dai ministri
dell’interno il 14 giugno). Nelle intenzioni dei governi coinvolti, tale
sistema integrato dovrebbe rappresentare un’evoluzione sostanziale
rispetto all'attuale rete di strutture nazionali, operanti sulla base di standard comuni (in primo luogo, il Manuale Comune
Schengen sui controlli alle frontiere esterne, doc. Consiglio 8248/01 del 22
giugno 2001, che ora può essere richiesto, privo delle parti riservate,
mediante advanced search effettuata
a partire da http://register.consilium.eu.int/utfregister/frames/introshfsEN.htm)
e di meccanismi di mutuo riconoscimento dei risultati delle attività
svolte a livello nazionale (per es. tramite le segnalazioni al SIS ai fini
della non ammissione). L’evoluzione concreta verso un sistema europeo di
gestione delle frontiere esterne si configura come un processo di notevole
complessità, non riducibile allo slogan fuorviante “verso una
polizia di frontiera comune”. Le prime tappe del processo sono state
fissate a Siviglia:
Ø
istituzione
immediata (“al più presto”), nell'ambito del Consiglio, di
“un organo comune di esperti delle frontiere esterne, composto dai capi
dei servizi di controllo alle frontiere degli Stati membri”, incaricato
di coordinare l’intero processo;
Ø
“entro il
2002:
- attuazione di operazioni comuni alle
frontiere esterne;
- avvio immediato di progetti pilota aperti a
tutti gli Stati membri interessati;
- creazione di una rete di funzionari di collegamento incaricati dell'immigrazione degli Stati membri”;
Ø
“entro
giugno 2003:
- elaborazione di un modello comune di analisi dei rischi per giungere
ad una valutazione comune e integrata dei rischi;
- definizione di una base comune per la formazione delle guardie di
frontiera nonché consolidamento della normativa europea in materia di
frontiere;
- attuazione di uno studio ad opera della Commissione sulla
suddivisione degli incarichi [sic; “burden-sharing” nella versione inglese] fra gli Stati
membri e l'Unione circa la gestione delle frontiere esterne”.
Questo calendario
rappresenta il frutto di un compromesso tra due ipotesi estreme (e diverse
intermedie): quella “conservatrice”, sostenuta inizialmente dai
paesi scandinavi (Agence Europe, Bulletin Quotidien Europe, 13-14 maggio 2002) e limitata a un
potenziamento mirato della cooperazione tra agenzie nazionali, e quella
più innovativa, espressa nella Comunicazione della Commissione del 7
maggio 2002, che mira alla creazione di un “Corpo europeo di guardie di
frontiera”. Il merito maggiore del compromesso raggiunto è che
esso consente di guardare con maggiore serenità al momento – che
speriamo verrà, come previsto, nel 2004 - in cui il controllo delle
frontiere esterne dell’Unione sarà in buona parte compito dei
nuovi paesi membri. Il limite principale di tale compromesso consiste
nell’accantonamento del problema cruciale del burden sharing relativo ai costi dei controlli di frontiera.
Ora la palla è di nuovo nel campo della Commissione, che dovrà
tentare di sciogliere – con uno studio ad hoc – quello che potrebbe rivelarsi l’ultimo
grande ostacolo di una comunitarizzazione ormai inevitabilmente molto selettiva
.
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Il programma MIGRACTION è coordinato da
Ferruccio Pastore (ferruccio.pastore@cespi.it) e Andrea Stocchiero (anstoc@edl.it).
Responsabile dell’osservatorio sulle migrazioni
nei Balcani è Alessandro Rotta (alessandro.rotta@cespi.it).
Il coordinamento organizzativo del programma è
assicurato da Cinzia Augi (cinzia.augi@cespi.it). La segreteria del programma
MIGRACTION è situata presso il
CeSPI - via d’Aracoeli 11, 00186 Roma -
tel. 06-6990630 - fax 06-6784104
Bollettino
a cura di Ferruccio Pastore; chiuso il 2 luglio 2002.