Comunitarizzazione delle politiche d’immigrazione e di asilo dell’Unione europea:

a cinque anni dal Trattato di Amsterdam, quale  bilancio?

 

 

Al summit di Tampere, nel 1999, i capi di Stato e di governo si sono dichiarati determinati a fare dell’Unione europea “uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia sfruttando pienamente le possibilità offerte dal Trattato di Amsterdam”. Tra queste possibilità si trova in particolare l’elaborazione di politiche comuni in materia di immigrazione e di asilo, come previsto dal Titolo IV del Trattato.

 

A Tampere si è affermato:

-       che la possibilità di avere la libertà di circolare liberamente in tutta l’Unione non doveva essere una prerogativa riservata ai cittadini comunitari;

-       che l’Unione voleva essere “aperta e sicura, totalmente rispettosa degli obblighi della Convenzione di Ginevra riguardo ai rifugiati e capace di rispondere ai bisogni umanitari sulla base della solidarietà”;

-       che era necessario promuovere “l’integrazione nelle nostre società delle persone originarie da paesi terzi che risiedono legalmente nell’Unione”.

 

Avevamo allora potuto credere alla volontà di istituire un quadro giuridico comune che avrebbe permesso, alla fine del processo, di raggiungere gli obiettivi da noi difesi: il rispetto di un reale diritto all’asilo per le persone che cercano protezione, e un avvicinamento delle persone originarie dai paesi terzi, divenuti soggetti diretti del diritto comunitario, allo statuto giuridico dei cittadini degli Stati dell’Unione. Abbiamo quindi accompagnato questo processo, partecipando alle discussioni e agli scambi aperti dalla Commissione europea sulle varie proposte di direttive che ha elaborato nel quadro del suo diritto di iniziativa.

 

A che punto siamo ora, a metà della strada tra le dichiarazioni di Tampere e la data del 2004, dopo la quale, in applicazione del Titolo IV del Trattato di Amsterdam, si dovrebbe mettere in opera una “comunitarizzazione” delle politiche di asilo e d’immigrazione? Siamo costretti a constatare che siamo ben lontani dai principi proclamati tre anni or sono. L’esame del lavoro realizzato dall’UE nel campo dell’avvicinamento delle politiche di asilo e d’immigrazione deciso dal Trattato di Amsterdam è illuminante:

 

i           Tra le misure già adottate, molte riguardano la repressione dell’immigrazione irregolare e la protezione delle frontiere:

-       regolamenti che fissano la lista dei paesi sottoposti a visto (2001)[1]

-       direttiva sull’armonizzazione delle sanzioni imposte ai trasportatori (28 giugno 2001)[2]

-       Direttiva relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di espulsione (28 maggio 2001)[3]

 

Lavori in corso:

In questo ambito, sono ancora in cantiere: misure miranti a definire e a rinforzare il quadro penale della repressione dell’aiuto a entrare e a soggiornare irregolarmente (accordo politico del Consiglio 28-29 maggio 2001);  un piano globale di lotta contro l’immigrazione clandestina (approvato dal Consiglio nel febbraio del 2002), che comporta, in particolare, un sistema comune di identificazione dei dati dei visti; la conclusione con i paesi terzi di accordi de riammissione (per il ritorno dei loro cittadini, o di altri stranieri che sono passati sul loro territorio, in situazione irregolare nell’UE);  una politica comune di gestione integrata delle frontiere (con un corpo europeo di guardia delle frontiere); la costituzione di una rete di ufficiali di collegamento nei paesi fonti di immigrazione (per “cooperare con le autorità locali in tutti i campi relativi alla gestione dei flussi”).

 

La Commissione europea a dedicato parecchi documenti a questi temi, come la comunicazione riguardante una politica comune in materia di immigrazione clandestina (15 novembre 2001)[4]; la comunicazione Verso una gestione integrata delle frontiere esterne degli Stati membri dell’UE (7 maggio 2002)[5] e il Libro verde relativo a una politica comunitaria in materia di ritorno delle persone in soggiorno irregolare (10 aprile 2002)[6].

 

Non possiamo chiudere questo capitolo senza ricordare gli annunci fatti dopo gli avvenimenti dell’11 settembre 2001. Avendo indicato la lotta contro il terrorismo come un obiettivo prioritario dell’Unione, il Consiglio ha deciso “un piano d’azione relativo alla lotta contro il terrorismo” che ricopre tutti gli ambiti politici, tra i quali quello dell’asilo e dell’immigrazione. In questo spirito, la Commissione europea ha presentato il 5 dicembre 2001 un documento sul Rapporto tra la salvaguardia della sicurezza interna e il rispetto degli obblighi e degli strumenti internazionali in materia di protezione[7] che propone di rivedere, nella legislazione comunitaria “già in vigore e in quella futura”, “l’efficacia delle disposizioni relative alla sicurezza interna”. Il Parlamento europeo e Amnesty International, in particolare, hanno messo in guardia l’UE contro le misure prese in nome della lotta al terrorismo.

 

iPer quanto riguarda l’asilo, il summit di Tampere aveva fissato un programma ambizioso, volto a stabilire un regime europeo comune di asilo, fondato sul rispetto della convenzione di Ginevra. La Commissione europea ha confermato questo obiettivo nella comunicazione: Verso una procedura di asilo comune e uniforme, valida per tutta l’Unione, per le persone alle quali viene accordato l’asilo (22 novembre 2000). Ma i tre testi adottati a tutt’oggi riguardano:

 

-       il finanziamento delle azioni miranti all’integrazione dei rifugiati statutari, con la decisione che porta sulla creazione di un Fondo europeo per i rifugiati (28 settembre 2000);

-       la schedatura delle impronte digitali dei richiedenti asilo – e degli stranieri in situazione irregolare – col regolamento Eurodac (11 dicembre 2000);[8]

-       un dispositivo d’urgenza – che costituisce una deroga alla Convenzione di Ginevra – con la direttiva relativa a norme minime per la concessione di una protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di persone sfollate (20 luglio 2001).[9]

 

Lavori in corso

Un regolamento (detto “Dublino II”, sulla determinazione dello Stato responsabile di una richiesta di asilo), e altre tre proposte di direttiva sono in corso di elaborazione; una (la cui logica vorrebbe che fosse stata posta come preambolo ad ogni dispositivo riguardante l’asilo) riguarda l’interpretazione comune della nozione di rifugiato nel senso della Convenzione di Ginevra (proposta di direttiva riguardante “le condizioni che devono rispettare le persone originarie da paesi terzi per poter chiedere lo status di rifugiato”, 12 settembre 2001); la seconda tratta le “norme minime riguardanti la procedura della concessione e del ritiro dello status di rifugiato”, ultima versione, 18 giugno 2002); la terza, che è stata oggetto di un accordo politico il 26 aprile 2002, riguarda le “norme minime di accoglienza dei richiedenti asilo”.[10]

 

Quest’ultima direttiva illustra l’evoluzione del modo di elaborazione delle norme comunitarie, nei settori asilo e immigrazione, di cui la proposta di direttiva riguardante il ricongiungimento familiare (vedi sotto) è la triste caricatura: davanti all’impossibilità per gli Stati membri di mettersi d’accordo su un certo numero di punti contenuti nella proposta iniziale presentata dalla Commissione, si sceglie la “flessibilità”, rendendo facoltative clausole fino ad ora vincolanti…[11]

 

Una delle colonne portanti della politica di asilo: scoraggiare l’arrivo

Benché non siano presentati come facenti parte della politica di asilo, i lavori del Gruppo d’Alto livello Asilo e Migrazioni, costituito dal Consiglio nel 1999, non ne possono essere dissociati. Questo gruppo è stato incaricato di stabilire “piani di azione” per ridurre il flusso migratorio proveniente da cinque paesi “obiettivo” la cui lista è significativa: Afghanistan, Albania, Iraq, Somalia e Sri Lanka. Si può facilmente capire come i piani d’azione siano particolarmente destinati a evitare che dei richiedenti asilo che avrebbero tutte le ragioni per beneficiare di protezione in Europa giungano a passarne le frontiere  (tra alcune delle conclusioni preconizzate, dall’invio di ufficiali di collegamento, alla facilitazione dell’accoglienza di eventuali rifugiati nei paesi limitrofi a quelli di partenza, vi è nientemeno che il ristabilimento del rispetto di diritti umani in quei paesi!).

 

iIl terzo punto degli obiettivi definiti a Tampere, relativo all’integrazione delle persone originarie da paesi terzi che risiedono legalmente nell’UE, è certamente il settore nel quale i lavori hanno progredito di meno. Nessun testo è stato, fino ad ora, adottato dal Consiglio. Una comunicazione della Commissione, Politica comunitaria in materia di immigrazione (22 novembre 2000)[12], che auspicava la riapertura dei canali dell’immigrazione legale verso l’Unione, evoca il valore aggiunto che l’integrazione può portare all’UE in termini economici e demografici. D’altra parte, due proposte di direttiva sono state presentate dalla Commissione europea:

 

-       la prima sullo statuto delle persone originarie da paesi terzi residenti di lunga durata, presentata il 13 marzo 2001, alla quale non si è fatto più allusione nelle discussioni ulteriori dei ministri dell’immigrazione dei Quindici;

 

-       la seconda, relativa al ricongiungimento familiare, la cui ultima versione, presentata il 2 maggio 2002, è il simbolo del fallimento della ricerca di una politica comune.[13]

 

La direttiva relativa al ricongiungimento familiare: la comunitarizzazione in panne

 

Effettivamente, dopo due anni di discussioni, l’ultima versione della proposta di direttiva sul ricongiungimento familiare è un testo molto indebolito dai compromessi che la Commissione europea è stata costretta a integrarvi per evitare il blocco. L’introduzione da parte della Commissione europea rivela un vero e proprio passo indietro non solo in rapporto alle versioni precedenti della sua proposta, ma anche in rapporto ai principi sbandierati dopo il Trattato di Amsterdam. La Commissione riconosce che deve adottare un nuovo metodo per tappe al fine di giungere all’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di ricongiungimento familiare. Questo metodo si articola attorno a tre assi: la “flessibilità” sui punti dove i blocchi persistono, aprendo un margine di manovra rispetto alle legislazioni nazionali, come pure, “in casi molto limitati”, accettando deroghe per adattarsi a certe particolarità nazionali già in vigore; la clausola dello “stand still” per evitare che le deroghe inserite nella direttiva vengano usate, dopo la loro entrata in vigore, da quegli Stati membri che non le contemplano nella propria normativa  [ma niente impedisce di modificare le normative interne prima dell’entrata in vigore della direttiva!]; infine, la clausola di “appuntamento”; questa prevede che due anni dopo il recepimento della direttiva nelle legislazioni nazionali, vengano riviste prioritariamente quelle norme che sono state oggetto di massima flessibilità (quelle cioè che hanno provocato i blocchi attuali), “per tentare di progredire sulla strada dell’armonizzazione”.

Sia il tono di queste indicazioni introduttive (che rivela la debolezza della posizione della Commissione europea in rapporto alle esigenze degli Stati membri), sia il contenuto della proposta di direttiva (che rimette in discussione l’obiettivo della comunitarizzazione a beneficio del rispetto della “diversità delle legislazioni nazionali”) sono sintomatici della svolta che sembra essere stata presa durante la presidenza spagnola dell’UE.

 

Cinque anni dopo la firma del Trattato di Amsterdam che ha posto la politica di immigrazione e di asilo al centro del pilastro comunitario, tre anni dopo il summit di Tampere, durante il quale è stato posto come obiettivo prioritario l’importanza di stabilire regole comuni in materia di immigrazione familiare, oggi si parla semplicemente di “tentare di progredire sulla via dell’armonizzazione”…

 

Una carta dei diritti fondamentali … dei cittadini europei

 

Si è creduto che la Carta dei diritti fondamentali, adottata dal Consiglio di Nizza nel dicembre 2000, sarebbe andata nel senso di una migliore integrazione delle persone originarie da paesi terzi, residenti nell’UE. Se la Commissione europea ritiene che “nel rispetto del principio di universalità, i diritti enumerati nella Carta sono per la maggior parte riconosciuti ad ogni persona, indipendentemente dalla nazionalità e dal luogo di residenza”, così non è nei fatti. Le disposizioni della Carta, quando non si limitano a riprendere principi già posti da lungo tempo da altri trattati internazionali, rafforzano l’ineguaglianza tra i cittadini europei e coloro ai quali questa qualità non è riconosciuta. Non c’è posto per la persona originaria da un paese terzo avente lo statuto di residente nell’UE;  questa non viene per nulla distinta dal turista straniero di passaggio. Di ciò  è testimone il preambolo, quando dice che l’Unione “pone la persona al cuore della sua azione istituendo la cittadinanza europea”. La sola persona di cui si preoccupa l’Unione sarebbe dunque il cittadino…

 

 

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Il falso dibattito che ha caratterizzato il Consiglio europeo di Siviglia (21-22 giugno 2002) sul fatto di imporre o no delle sanzioni agli Stati terzi che non collaborano nella lotta contro l’immigrazione irregolare dei lori cittadini, non maschera la filosofia che domina – ormai apertamente – la politica di asilo e di immigrazione dell’Unione europea. In nome di un preteso “equilibrio” tra una politica di integrazione degli immigrati legalmente residenti e la lotta contro l’immigrazione clandestina, l’Unione europea lavora per sviluppare strumenti che le permettono di scoraggiare la richiesta di asilo e di proteggere meglio le proprie frontiere, e si orienta ad un approccio dell’immigrazione ridotta ai bisogni economici degli Stati membri e guidata dai soli aspetti di sicurezza, dell’ossessione dell’invasione e la paura dell’altro.

 

 

(Testo redatto da Claire Rodier

e approvato dall’Assemblea generale del Coordinamento Europeo)



[1] Regolamento 539/2001 del 15 marzo 2001, GUCE L 81, 21 marzo 2001 et regolamento 241/2001 del 7 dicembre 2001, GUCE L 237, 12 dicembre 2001.

[2] Direttiva 2001/51 del 28 giugno 2001, GUCE L187, 10 luglio 2001.

[3] Direttiva 2001/40 del 28 maggio 2001, GUCE L149, 2 giugno 2001.

[4] COM (2001) 672, testo finale, del 15 novembre 2001.

[5] COM (2002) 233, testo finale del 7 maggio 2002.

[6] COM (2002) 175, testo finale, del 10 aprile 2002.

[7] Documento di lavoro della Commissione, 5 dicembre 2001.

[8] Regolamento n° 2725/2000 dell’11 dicembre 2000; GUCE L316 del 15 dicembre 2000.

[9] Direttiva 2001/%%/CE del 20 luglio 2001; GUCE L212 del 7 agosto 2001.

[10] COM (2001) 181, testo finale del 3 aprile 2001.

[11] Questo si riscontra per la questione del diritto al lavoro dei richiedenti asilo: di fronte al rifiuto di certi Stati di autorizzarlo durante l’istruzione della richiesta, la direttiva prevede che “gli Stati fisseranno un periodo, che inizia alla data del deposito della richiesta di asilo, durante il quale il richiedente non ha accesso al mercato del lavoro”; questa formula permette sia di proibire ogni prospettiva di lavoro per un richiedente asilo che di autorizzarlo a lavorare il giorno stesso in cui deposita la sua richiesta.

[12] COM (2000) 757, testo finale del 22 novembre 2000.

[13] COM (2002) 225, testo finale del 2 maggio 2002.