A conclusione dei festeggiamenti di S.Giorgio, nella
notte del 6 maggio, scoppia una sparatoria tra i rom che vivevano nel villaggio
comunale di Secondigliano (Napoli). Vengono colpiti 2 ventenni e 2 bambini.
Dopo un po’ arriva la polizia, il Comune, i giornali. Sulla stampa la
vicenda viene ridotta a guerra etnica. Su alcuni giornali si parla di
sparatoria avvenuta durante una festa per bambini.
Abbiamo scritto questa lettera per tentare di fare un po’ di chiarezza
Com.p.a.re
Con questa lettera vogliamo cercare di fornire, a chi
non è addentro alle vicende dei Rom a Napoli, gli elementi minimi per
ricostruire organicamente gli eventi che hanno preceduto, costituendone la
premessa, gli accadimenti della scorsa settimana, così da comprenderne
le cause ed inquadrarli correttamente.
Tutto ciò analizzando la gestione di
questa vicenda da parte delle istituzioni, nonché le numerose
imprecisioni riportate nelle cronache delle principali testate giornalistiche
I Dobreva, famiglia allargata composta da circa 40 persone, sono una
delle famiglie coinvolte negli scontri del 6 maggio. La loro storia recente
mette in luce una serie di elementi importanti. Un campo di grandi dimensioni
(costruito prolungando il recinto del carcere di Secondigliano), nel quale
vivono insieme per forza e non per scelta oltre 700 persone, costrette in
container uno a ridosso dell’altro e in un luogo separato fisicamente dal
resto della città, è un’ottima cassa di risonanza per
qualunque tensione.
In questo contesto è scoppiata una
rissa nel giugno scorso, a cui è seguita la fuga della famiglia Dobreva.
Motivo della fuga sono state le minacce che avrebbero messo in pericolo di vita
i membri della famiglia. Prima di fuggire i Dobreva hanno denunciato
l’accaduto alla Polizia. Poi hanno trascorso alcuni mesi in campi abusivi
dell’Italia settentrionale.
In quell’occasione numerose associazioni cittadine e nazionali e
persone che da anni si occupano della questione rom, inviarono una lettera al
Sindaco di Napoli, Rosa Russo Jervolino, per invitarla ad occuparsi della
vicenda. Fu lo stesso Sindaco a sollecitare il responsabile delle politiche
sociali di quel periodo, il Dott. Salvatore Esposito, che era stato tra i
gestori dell’apertura dell’insediamento di Secondigliano, al fine
di creare le condizioni per un ritorno dei Dobreva a Napoli. Il Comune di
Napoli contattò i Dobreva direttamente e più volte. Alla fine li
convinse a tornare impegnandosi a:
-
predisporre
tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza a tutti gli abitanti del
campo
-
occuparsi della
gestione quotidiana del campo fino a quel momento abbandonato a se stesso, ad
esempio attraverso la convocazione del il comitato consultivo per la
gestione del campo previsto
dal patto di cittadinanza
che accompagnò l’apertura dell’insediamento nel luglio
‘99
-
costituire a
breve termine una Consulta per le problematiche rom affinché si occupasse organicamente della questione dei rom a Napoli
elaborando soluzioni alternative ai campi.
Le promesse della pubblica amministrazione non sono state
mantenute se si esclude la costituzione della Consulta riunitasi però una sola volta in
febbraio senza individuare un percorso programmatico. Ugualmente non ha avuto
alcuna efficacia operativa il comitato consultivo.
Inoltre, con la riorganizzazione della Giunta
comunale napoletana che ha portato all’assegnazione
dell’Assessorato alle politiche sociali al Dott. Raffaele Tecce e
all’uscita di scena del Dott. S.Esposito, si è determinata l’assenza
di un effettivo referente istituzionale in un momento così delicato.
Le tensioni nel campo anziché cessare
sono aumentate fino al determinarsi di nuovi incidenti in seguito ai quali i
Dobreva, il 2 aprile scorso, hanno incontrato L’Assessore Tecce. Al neo
Assessore hanno denunciato nuovamente l’elevato stato di
pericolosità del campo e chiesto ancora una volta il rispetto degli
impegni presi in luglio dall’amministrazione comunale, facendo presente
in ogni modo che loro in quel campo non potevano più restarci.
Nello stesso periodo il Sindaco Jervolino
riceve una nuova lettera firmata dai gruppi e dai singoli che erano intervenuti
a luglio, nella quale viene comunicato il degenerare della situazione dei campi
napoletani e al tempo stesso ribadite le proposte già fatte otto mesi
prima.
Nessun segnale viene dal Sindaco,
e dall’Assessore non si riesce a strappare altro che promesse e
divagazioni sul tema.
Adesso, coinvolti nella
sparatoria, i Dobreva sono fuggiti di nuovo. Di nuovo in cerca di un posto dove
accamparsi tra i campi al nord dell’Italia.
Le denunce, gli appelli, le
richieste di presenza ci dicono che non è assoluto il clima di
omertà al campo, come è invece stato affermato dalla stampa in
questi giorni, ma che ad essere assente è stata piuttosto la
capacità da parte delle
istituzioni di tutelare realmente le persone.
Il Comune ha sì fatto
autocritica pubblicamente, ma imputando la colpa di quanto accaduto ad un suo
errore di valutazione: quello per cui avrebbe affidato al metodo
dell’autogestione il buon mantenimento di un villaggio dove aveva
rinchiuso 700 persone in 90 container di 40mq., nascondendoli al resto della
città e dimenticandosene quasi subito. Sulla storia
dell’autogestione non ci é cascato nessuno, essendo risultato
evidente che in realtà si trattava dell’abbandono a sé
stesso di un progetto sbagliato. Con i tempi che corrono un’amministrazione che si
vorrebbe di sinistra dovrebbe fare più attenzione a non svendere
concetti tanto importanti.
Motivi di autocritica, tuttavia,
le istituzioni possono trovarli, come si deduce dalla cronaca appena riportata.
Veniamo alla stampa. La maggior parte degli articoli pubblicati a proposito
della sparatoria di Secondigliano ha utilizzato facili stereotipi che si
potrebbero ridurre con una frase del tipo: ‘rissa dopo la festa tra
zingari ubriachi di tribù nomadi per contrasti etnico-religiosi’.
Le molte imprecisioni fomentano i pregiudizi; la più clamorosa
è l’affermazione che i due bambini feriti durante la sparatoria
fossero di religioni (o di ‘etnie’) diverse. La realtà
è che Roberto e Silvana sono entrambi cristiani ortodossi e Roberto
è figlio di un serbo e di una kosovara (a quale etnia
appartiene?)…ammesso e non concesso che nella comunità Rom di
Secondigliano l’elemento religioso o ‘etnico’ sia così
importante da poter essere utilizzato per spiegare le tensioni. Molto
più spazio occorrerebbe per affrontare l’argomento
‘etnie’ e per comprendere quale senso possa avere ancora utilizzare
questo termine.
Ci sembra necessario soffermarsi a
riflettere su come certe analisi dei fatti si limitino a riprodurre una lettura
della realtà fatta di idee semplicistiche spesso utilizzate
strumentalmente, non affrontando affatto la questione specifica della presenza
rom a Napoli né tantomeno quella più generale
dell’immigrazione, entrambe molto complesse.
L’editoriale di Ciaramelli
sul Corriere del Mezzogiorno del 9 maggio, interpreta le dinamiche e i contrasti descritti
come conflitti etnici, parlando di balcanizzazione del campo di Secondigliano. Questo
è soltanto fuorviante, perché distoglie l’attenzione da
quelle che sono le condizioni materiali in cui si sono prodotti i fatti
culminati nella sparatoria. Del
resto abbiamo già detto che non è vero che i due bambini colpiti
sono di religioni diverse, fatto riportato dalle cronache e che capziosamente
suggerisce l’odio interetnico come motivo scatenante lo scontro. Sono
molti i serbi di Scampia che non si riconoscono in una fazione avversa a quei
kossovari con cui, da molto prima che il campo della circonvallazione fosse
progettato, convivevano senza grossi problemi e che oggi vorrebbero vederli
ritornare.
D’altra parte non si
può neanche ridurre la questione ad una lite condominiale, come la ha
definita l’assessore Tecce, visto che in un condominio evidentemente non
ci troviamo.
Ancora Ciaramelli ha posto il
problema dell’integrazione culturale. Nonostante
la colpevole assenza istituzionale, alcune delle persone che oggi sono fuggite
avevano iniziato un percorso di crescita personale, grazie al quale stava
crescendo l’intera città. Su di loro si basava la
progettualità comunale relativa alla scolarizzazione e
all’integrazione, ed erano inoltre divenuti i referenti principali per
carceri e tribunali in qualità di mediatori culturali. Svolgevano ormai
una funzione sociale fondamentale, sia nella mediazione tra le persone che
vivono nel campo e il resto della città, con i servizi che essa offre,
sia in contesti del tutto indipendenti dall’esistenza del campo stesso.
Oggi queste persone si sono viste sbattute sulle prime pagine dei giornali come
selvaggi o criminali, costretti a troncare traumaticamente questo
percorso. La questione centrale, allora, non è tanto trovare il modo per
fare convivere le culture, quanto capire come sia possibile sostenere e garantire
l’autonomizzazione, la responsabilizzazione e l’impiego delle
risorse di tutti quegli immigrati, zingari e non, che se non assolutamente
dimenticati, vengono considerati come soggetti da assistere o oggetti da
sfruttare.
A conclusione del suo editoriale
Ciaramelli tira le somme e afferma che questioni come quella di Scampia
impongono di regolare meglio i flussi migratori e di ripristinare la
legalità. Dovrebbe essere a questo punto chiaro come si arrivi ad una
tesi di comodo, quella che gli immigrati (serbi e kossovari nello specifico)
vadano controllati o rispediti al mittente, attraverso una falsificazione e
semplificazione delle ipotesi di ragionamento.
Questa vicenda
è in realtà un fenomeno locale, determinatosi nel complesso
contesto della periferia napoletana, e si deve principalmente alle pessime
condizioni in cui sono costretti a vivere i Rom nei campi costruiti dagli
italiani. Prova ne sono gli altri megacampi autorizzati d’Italia, nei
quali anche in presenza di un’unica ‘etnia’ o religione, si
possono osservare le stesse perverse dinamiche.