A 18 anni divento clandestino

MI vergogno, non posso tornare a casa battuto», confessa Rafik Rabia tormentandosi le dita piccole, già gonfie e callose. A settembre sarà maggiorenne e per legge dovrà rientrare in Marocco. Non conta che abbia un posto da fresatore: la conversione del permesso di soggiorno per minori è complicata, pochi stranieri ottengono la regolarizzazione così, la maggior parte, a diciott´anni, entra in clandestinità. Rafik è pronto, dice, «dall´Italia non vado via». D´accordo con lui, Yussef, Abdelmajd, tutti i ventotto ragazzi iscritti alla Casa di Carità Arti e Mestieri per il corso professionale in costruzione di macchine utensili: sono andati a scuola a imparare italiano, matematica, legislazione del lavoro, hanno ricevuto almeno un paio di offerte a testa dalle aziende dove hanno svolto gli stage, «ma senza il permesso non se ne fa niente», problemi con polizia e carabinieri zero. Per restare a Torino non basta. «Al pari dei coetanei che comprano e vendono droga a Porta Palazzo, questi giovanissimi non hanno molte possibilità di vivere regolarmente nel nostro paese - spiega Michele Grisoni, collaboratore dell´ente di formazione di strada Traforo del Pino, una delle cinque agenzie cittadine che fanno orientamento ai piccoli ospiti dei centri di accoglienza -, la legge non prevede alcun premio per chi studia e si applica». Il mercato nero è lì, pronto ad accogliere i delusi. Aziz El Muanid è arrivato dal Marocco tre anni fa, ne aveva quattordici. Torino era l´Eldorato descritto al telefono dai cugini immigrati, un lavoro sicuro in fabbrica, il cellulare, l´automobile italiana da sfoggiare al rientro in paese, l´estate. E´ stato il padre ad accompagnarlo sul pulmann che attraverso Granada, Barcellona, Marsiglia, l´avrebbe portato in corso Giulio Cesare: trecento mila lire in tasca, un visto da turista valido tre mesi, l´indirizzo degli zii.

«Ci ho messo trentadue ore, il tempo del viaggio, a capire che l´Italia non era come la sognavo, ma sempre meglio del mio paese», dice Aziz mostrando in un largo sorriso i denti rovinati e ingialliti dall´acqua inquinata di Khouribga, la sua città. Sa che il soggiorno è a tempo, a settembre avrà diciott´anni, ma spera di evitare la clandestinità facendo buona figura con la Questura, dove gli avvocati dell´Asgi, l´associazione studi giuridici per l´immigrazione, presenteranno l´appello al Tar per la conversione del permesso per minori in lavorativo. Il pulmino per la scuola aspetta ogni mattino alle otto e venti davanti alla caserma dei carabinieri di strada Traforo del Pino. I ragazzi arrivano da borgo Dora, San Salvario, Regio Parco. A gruppetti chiassosi i marocchini, la maggioranza, soli gli altri: ceceni, albanesi, bosniaci. Certan Gheorghe spegne la sigaretta prima di salire. Parla poco con i compagni, per timidezza, l´italiano lo conosce bene. «Scherzano tra loro, sono quasi tutti arabi, io sono moldavo non li capisco», dice con un filo di voce e abbassa gli occhi azzurro slavato, tristi. L´Italia non è il paradiso che sognava a Singerei quando, un anno e mezzo fa, ha preso la sua licenza da meccanico e per mille e cinquecento euro, tre milioni di vecchie lire, si è affidato a una «ditta» che l´ha scaricato a Padova. «Puntavo a Torino, c´erano dei connazionali che avevo contattato prima di partire ad aspettarmi», racconta Gheorghe. Per il permesso di soggiorno, indispensabile per iscriversi a una delle dieci strutture territoriali per l´alfabetizzazione degli stranieri, ha atteso in lista qualche mese, un lavoretto in nero come aiuto saldatore qua e là, i tornei di calcetto organizzati dal centro d´accoglienza dove vive, «gioco in attacco, come Shevchenko del Milan». Ora va a scuola, ma le lezioni di disegno, intercultura, le 300 ore di stage appena finite con lode in una ditta metalmeccanica, non gli garantiranno la permanenza in Italia per più di tre mesi: è un leone, i primi d´agosto festeggerà diciott´anni. «Bel compleanno, davvero. Il giorno che diventi maggiorenne perdi tutto, lavoro, documenti, contatti», interviene Sajhir Hysmelaj, «clandestino» dal 19 aprile. E´ preoccupato, non ha paura: «La paura l´ho persa nella mia terra, in Albania, non mi spaventa più nulla». Si passa le dita tra i capelli corti, impomatati, come un adulto, la mano trema: ricorda il viaggio notturno in gommone attraverso l´Adriatico, stretto, in mezzo a sconosciuti terrorizzati, a proteggersi dal vento gelido. E´ stato quattro anni fa: «Laz, la mia città, era impazzita, come tutto il paese - racconta -. I ragazzi maneggiavano kalashnikov come fossero giocattoli, io non volevo, avevo studiato inglese e italiano e sono partito». Un milione e mezzo il «viaggio» fino a Barletta, poi il treno per Porta Nuova, sulle tracce di un fantomatico cugino mai rintracciato. Ha imparato da solo a conoscere Torino. Il lavoro, «sembra che non ci sia ma trovi sempre un posto come lavapiatti, manovale, ora che ho fatto il corso all´Arti e mestieri tornitore». I posti da evitare, «lo so cosa fanno tanti miei connazionali in certe strade di San Salvario, io non ci vado», e quelli a cui chiedere una mano tipo il Sermig di Ernesto Olivero e la comunità salesiana che lo ospita adesso. Il cinema piccolo Valdocco, dove in cambio di una mano a staccare i biglietti gli lasciano guardare i film. Non può tornare a Lac, non ora, piuttosto la «clandestinità». «Con che faccia tornerei?», chiede. «Sono un uomo ormai, un uomo non si ripresenta a casa dopo tre anni a mani vuote». E´ l´unica cosa che a Sajhir fa paura.