Nel deserto
dei valori
non c’è pietà
Caro amico di
destra, ieri ho capito che governerete per i prossimi trent’anni. Mi
è bastato ascoltare, per cinque minuti i commenti della gente davanti
alla nave dei profughi in arrivo sulle coste italiane. Nessuna pietà.
Quei commenti dicevano che la lotta non è più nemmeno politica.
La destra non è più un partito. Lo era una volta, come tu mi
dici, quando c’era la passione. Oggi è un’alta cosa. Non c’entra
con lo stato, la società, i valori. Non è un ideale ma una
mentalità. Nasce da un pensiero medio che ha già vinto su scala
europea. Anche laddove si vota dall’altra parte. E’ stato
specialmente un commento a gelarmi. La Tv mostrava le immagini di una madre che
partoriva al termine della traversata dello Ionio, venendo poi trasportata in
volo all’ospedale dalla carretta dei disgraziati.
«Perché
- diceva un signore - se mi ferisco in montagna l'elicottero lo pago io, mentre
se partorisce un clandestino paga lo Stato?». Non è valso nessun
ragionamento, nessuna obiezione. Nemmeno dire: tu vai a divertirti, loro no.
Anzi: altre persone accorrevano a sostegno della tesi accusatoria. Dicevano per
esempio: perché le case Iacp agli zingari e a me no? Perché un
italiano che investe un bambino va in galera e uno straniero viene solo
espulso? Perché non restano a rubare a casa loro? Nemmeno una voce
contraria. L'equivalenza immigrazione-delinquenza era granitica, consolidata,
incrollabile. Non cedeva nemmeno di fronte al mistero della maternità e
al suo contenuto sacrale.
Mi sono chiesto
in che buco nero, in che deserto di valori siamo caduti. Ho perso la calma. Ho
persino alzato la voce. Ma in realtà non gridavo contro il mio
interlocutore era una brava persona, un uomo onesto, un lavoratore. Protestavo
con me stesso: contro la mia incapacità di far valere le mie ragioni.
Gridavo per non ammettere che «Solidarietà» era diventata
una parola vuota.
Poi è arrivato un altro pugno nello stomaco. «Perché a mio
padre che scappava dall'Istria hanno tirato le pietre mentre a questa gente
stendiamo tappeti rossi?». Era la quadratura del cerchio. La vecchia
ingiustizia subita non provocava nessuna pietà per gli esuli di oggi.
Anzi, aumentava la rabbia e il rifiuto. Anche qui vinceva la tesi di Oriana
Fallaci. Quella per cui «Noi» siamo emigrati per lavorare;
«loro» per delinquere e odiarci.
A nulla è
servito ricordare che cinquant'anni fa i marocchini eravamo noi. Che i nostri
uomini nelle stazioni svizzere avevano sale d'aspetto separate. Che i tedeschi
o i francesi dicevano degli italiani esattamente le stesse cose che oggi noi
diciamo dei curdi. Che dall'Afghanistan alla Croazia, da Otranto alla Cina il
mondo è diventato un'immensa operazione di pulizia etnica finalizzata a
produrre i nuovi schiavi dell'era globale. Che dal secolo dei nazionalismi in
poi gli uomini si erano ridotti a «effetto collaterale» di un
tritacarne che polverizza le radici, genera spaesamento e ti porta dritto
all'olocausto delle Torri Gemelle.
Non serviva. La considerazione politica era già diventata etnica, guerra
tra poveri. Le vittime diventavano colpevoli, i mercanti di uomini erano
dimenticati o assolti. Il cortocircuito mentale era scattato: era figlio di un
assedio mentale troppo forte perché una persona sola potesse
resistergli. Era figlio di troppi padri, e quei padri non stavano soltanto a
destra. Oggi sono i capitani d'industria a chiedere di aprire il Paese
all'immigrazione. I padroni, non i lavoratori.
L'equivalenza tra immigrazione e barcone pieno di potenziali delinquenti non
veniva solo dalle urla bossiane, da vecchie xenofobie o dal consumismo
televisivo che distrugge i valori. Nasceva anche dal rifiuto di certo buonismo
di maniera o da certo multiculturalismo d'accatto che bada alle identità
di chiunque tranne che alla propria. Veniva, soprattutto, da un grande vuoto di
informazione.
Gli immigrati
sono la base del nostro sistema-Paese. Senza di essi l'Europa non esisterebbe.
La Germania non sarebbe uscita dal dopoguerra. La Francia e l'Inghilterra non
sarebbero tra le prime potenze mondiali. In Italia, senza di loro andrebbe in
tilt la siderurgia, l'industria tessile, le concerie, la raccolta delle mele e
dei pomodori. Non ci sarebbe prosciutto, mozzarella, parmigiano. Non
funzionerebbe metà dei ristoranti. E in Adriatico senza extracomunitari
(senegalesi) la pesca morirebbe; lo riconosce persino l'italianissima An.
Allora chiedo: perché la sinistra, quando stava al governo e aveva
possibilità di influire sulla Tv e la scuola non ha mai spiegato queste
cose? Perché da anni l'immigrato diventa immagine mediatica solo quando
delinque o arriva con una carretta del mare? Perché l'enorme lavoro
nell'edilizia, nei servizi, persino nell'assistenza domiciliare agli anziani,
non ha mai assunto dignità di notizia? Perché non sappiamo nulla
di questo arcipelago del lavoro?
E ancora:
perché non si è tolta dall'oleografia la memoria della nostra
emigrazione per raccontare questo grande epos collettivo in termini reali?
Perché non si riparla di quello che una volta si diceva all'estero di
noi italiani in braghe di tela?
Come mai questa memoria - come quella dell'esodo istriano - non ha mai trovato
uno Spielberg che la raccontasse togliendola dalla manipolazione dei
raccoglitori di voti? E com'è possibile capire l'immigrazione se non
abbiamo coltivato la memoria nemmeno della nostra emigrazione e dei nostri
stradicamenti?
Perché la
sinistra ha rincorso la destra sugli immigrati? Ricordo che i Ds all'ultima
campagna elettorale mi invitarono a Padova a parlare di «Immigrazione,
delinquenza e prostituzione». Ovviamente rifiutai, per l'impresentabile
accostamento. La sinistra, era chiaro, era condannata a perdere. Quelli di
sinistra non l'avrebbero votata. Gli altri figurarsi. Avrebbero votato Destra.
Tra l'originale e una controfigura uno sceglie sempre l'originale.
Perché
nessuno ha spiegato ad alta voce che l'allarme immigrati è sponsorizzato
proprio da quelli che si servono dei clandestini, cioè dalle forze
dell'economia debole che regge solo schiacciando il costo del lavoro? Succede a
Milano, governata dalla destra, ma anche a Reggio Emilia, centro tessile
governato dalla sinistra. Anche lì, omertà. Nessuno denuncia i
nuovi schiavi ammassati negli scantinati, lo sfruttamento dei cinesi capaci di
lavorare 24 ore al giorno. Nessuno spiega che la pressione su quei salari poi
finirà per ricadere sui nostri.
Sul palazzo
dell'Eur c'è scolpito dal Duce l'inno agli italiani «navigatori,
santi, ecc», e l'ultimo dei mestieri citati è
«trasmigratori». Mussolini non poteva dire «emigranti»,
faceva pensare troppo a toppe nel culo e a valigie di cartone. Fu una
mistificazione geniale. Visto che nessuno dice cose di sinistra torniamo a
quella parola fascista. Può tornare utile. Può aiutarci a
chiamare allo stesso modo quelli che partono e quelli che arrivano. Capire che
immigrati ed emigranti fanno parte della stessa macchina maledetta.
Trasmigratori, vivaddio.
Paolo Rumiz
“Il Piccolo”, 19 marzo 2002