(Sergio Briguglio, 3/10/2002)
DIRITTO DI IMMIGRAZIONE?
L’asimmetria asilo-immigrazione
I flussi migratori verso i paesi ad economia avanzata
vengono tipicamente classificati in base ai motivi principali che li
determinano, distinguendo – almeno in prima approssimazione - tra flussi
di rifugiati (in fuga da persecuzioni) e flussi di immigrati (alla ricerca di
migliori condizioni economiche). Questa classificazione puo’ apparire
forzata quando si tenti di applicarla al singolo migrante, dato che spesso le ragioni
che ne hanno determinato la partenza sono una miscela di bisogni economici
inappagati e di diritti fondamentali non rispettati. Essa pero’ corrisponde al diverso assetto giuridico
sviluppato dagli Stati in risposta a ciascuna componente del flusso migratorio.
Mentre, infatti, alla fuga dalle condizioni di persecuzione corrisponde, negli
ordinamenti nazionali e in quello internazionale, un preciso diritto – il
diritto d’asilo –, nessun ordinamento prevede un corrispondente diritto
di immigrazione per coloro che fuggano da condizioni economiche insopportabili
ne’, a maggior ragione, per coloro che aspirino, piu’
semplicemente, a un incremento del proprio benessere. Questa asimmetria ha
conseguenze piuttosto modeste sulle condizioni di inserimento, nel paese
ospitante, del rifugiato o dell’immigrato per lavoro: non vi e’ un
significativo privilegio del primo rispetto al secondo, dal momento che la sua
condizione e’, sotto molti aspetti, equiparata dalle convenzioni
internazionali alla piu’ favorevole tra quelle previste per i cittadini
stranieri, e quest’ultima, tipicamente, corrisponde proprio alla
condizione del lavoratore immigrato. Le conseguenze sono invece evidentissime
in relazione all’ammissione nel paese d’arrivo. Lo straniero
rifugiato matura il diritto d’asilo in seguito a circostanze che
prescindono dal comportamento o dalle scelte contingenti del paese in cui si
rifugia. Lo si considera quindi, al momento dell’arrivo, il massimo
conoscitore della sua condizione, nello stesso modo in cui il medico del pronto
soccorso presume che il paziente sia affidabile nella descrizione dei sintomi
del proprio male. Chi si proclami perseguitato e’ quindi ammesso nel
territorio dello Stato, almeno fino a quando la sua richiesta di asilo si
riveli, in seguito a un esame piu’ approfondito, infondata.
La mancanza di un diritto di immigrazione, invece, fa
si’ che l’ammissione dell’immigrato nel territorio dello
Stato sia fondata prioritariamente sulla convenienza del paese d’arrivo:
non e’ piu’ la condizione soggettiva dello straniero a determinare
la decisione sul suo ingresso, e non vi e’ alcun automatismo che lo
protegga – sia pure temporaneamente – dal respingimento o
dall’allontanamento.
Mercato ideale e mercato reale
Chi stabilisce che cosa e’ conveniente, con
riferimento al flusso di immigrazione per motivi economici? La prima, ovvia,
risposta e’ che le decisioni devono essere frutto della composizione
degli interessi degli attori in gioco (stranieri migranti che offrono lavoro e
cittadini nazionali che lo acquistano): devono essere, cioe’, determinate
dal mercato. In generale il mercato determina il prezzo a cui viene scambiato
un bene in modo tale che domanda e offerta di quel bene si eguaglino.
All’equilibrio la quantita’ del bene scambiata e’ tale che l’utilita’
dell’ultima unita’ di bene acquistata e’ pari al costo
dell’ultima unita’ di bene prodotta, ed entrambe sono uguali al
prezzo. Entrambe le categorie – acquirenti e venditori –
massimizzano cosi’ simultaneamente il proprio interesse. Se il prezzo
fosse piu’ alto di quello di equilibrio, l’eccesso di offerta
rispetto alla domanda indurrebbe i venditori, in gara tra loro per aggiudicarsi
la scarsa domanda, ad abbassarlo progressivamente fino a ripristinare il valore
di equilibrio. Un’analoga concorrenza tra gli acquirenti innalzerebbe un
prezzo innaturalmente basso. Un mercato ideale conduce cosi’, con la sua “mano
invisibile”, all’allocazione ottimale delle risorse.
Nel mondo reale, tuttavia, si verificano spesso
condizioni che conducono ai cosiddetti “fallimenti del mercato”:
deviazioni dal funzionamento ideale – associate, per esempio, alla
mancanza di concorrenza perfetta o all’esistenza di costi sociali non ben
rappresentati dal sistema dei prezzi (le cosiddette esternalita’
negative) – impediscono alla mano invisibile di esplicare la sua azione e
richiedono l’intervento regolatore dello Stato. Un mercato del lavoro
aperto ai lavoratori immigrati, in particolare, puo’ presentare
un’importante esternalita’ negativa. La causa remota di essa
risiede nella distanza –
fisica, culturale ed economica – tra i paesi di emigrazione e
quelli di immigrazione. Questa distanza puo’ avere due effetti nocivi
sulla condizione del migrante: il primo e’ che, nel momento in cui questi
decide di lasciare il proprio paese, non conosca, se non a grandi linee, la
situazione del mercato del lavoro nel paese d’arrivo e non sappia quindi
esattamente se, dove e a quali condizioni la sua figura professionale sia
richiesta; il secondo effetto e’ che, ove non riesca a raggiungere in un
tempo ragionevole un inserimento lavorativo sufficientemente remunerato, egli
si trovi – per l’entita’ delle spese di viaggio o per
l’impossibilita’ di ripianare i debiti eventualmente contratti per
migrare – nell’oggettiva impossibilita’ di rimpatriare.
L’occorrenza di una sola di queste circostanze, per un dato migrante, non
produce danni rilevanti: l’eventuale incapacita’ di rimpatriare con
le proprie forze non si tradurrebbe, infatti, in un rischio di emarginazione
per migranti perfettamente informati sull’offerta di lavoro, dal momento
che essi non avrebbero difficolta’ a trovare inserimento (ovvero si
asterrebbero proprio dal migrare, in caso di inserimento impossibile);
viceversa, l’insuccesso conseguente a un difetto di informazione non nuocerebbe
troppo a immigrati capaci di invertire per tempo la rotta. Quando pero’
entrambi gli effetti agiscono sulla stessa persona, e’ facile che essa
cada in condizioni di grave indigenza o che, per evitarla, sia coinvolta in
traffici criminali.
Da un punto di vista astratto, ferma restando
l’applicazione delle normali sanzioni contro i comportamenti criminali,
la societa’ di accoglienza potrebbe accettare supinamente questa
situazione, attendendo che la marginalita’ di queste fasce di immigrazione
non inserita agisca come repellente rispetto a ulteriore immigrazione di
soggetti con le stesse caratteristiche: un equilibrio sarebbe allora comunque
raggiunto, a spese del disagio di un certo numero di individui deboli.
Tuttavia, il mancato accesso, per questi soggetti, ad un sufficiente livello di
risorse si tradurrebbe nell’impossibilita’ di godere di diritti
elementari, costituzionalmente garantiti. In alternativa, la societa’
potrebbe venire in soccorso degli immigrati a rischio di esclusione sociale con
misure di assistenza. Si perderebbe pero’, questa volta, l’effetto
repellente, rispetto a nuovi ingressi, dell’esperienza diffusa di
insuccesso. Il problema, in assenza di qualunque meccanismo di controreazione,
si ripresenterebbe immutato con la successiva ondata migratoria, e il sistema
assistenziale potrebbe essere messo in ginocchio.
L’inaccettabilita’ di entrambi questi
scenari motiva un intervento correttivo statale rispetto al puro meccanismo di
mercato. Si tratta di ovviare agli effetti nocivi della distanza originaria tra
chi domanda e chi offre lavoro; piu’ precisamente, per quanto detto,
e’ sufficiente porre rimedio a uno solo di essi. L’intervento
correttivo puo’ consistere allora nel condizionare l’ammissione
dell’immigrato al soddisfacimento di opportuni requisiti che facciano
riferimento al possesso di un’informazione sufficiente o, in alternativa,
di capacita’ di rimpatrio adeguate.
La politica migratoria italiana dal 1987 ad oggi
In Italia, dal 1987 – vale a dire,
dall’entrata in vigore della prima legge sull’immigrazione –
a oggi, il Legislatore si e’ dimostrato molto affezionato alla prima
possibilita’. Sulla base di disposizioni che hanno resistito a tutte le
riforme in materia, l’ingresso di lavoratori stranieri e’ stato
generalmente condizionato alla stipula preventiva di un contratto di lavoro (la
cosiddetta chiamata nominativa), con l’intento di evitare che
l’immigrato potesse trovarsi, in Italia, incapace di trovare sistemazione
lavorativa. La legge ha poi introdotto requisiti aggiuntivi che garantissero la
solidita’ di quel contratto (ad esempio, un reddito sufficiente in capo
al datore di lavoro) o prevenissero le conseguenze di una possibile
incompletezza di informazione in relazione ad altri mercati comunque
significativi per la valutazione, da parte del lavoratore, delle condizioni di
inserimento (la garanzia di un alloggio a disposizione del lavoratore).
Rispetto a questo quadro di riferimento, la normativa
italiana ha offerto all’esecutivo alcune altre manopole mediante le quali
introdurre ulteriori restrizioni o rilassamenti delle condizioni di ingresso.
Tra le prime, la possibilita’ di fissare limiti superiori al numero di
ingressi di lavoratori stranieri in un anno (le cosiddette quote) e l’accertamento
preventivo di indisponibilita’ di manodopera residente quale condizione
necessaria per l’autorizzazione di un nuovo ingresso. Tra le seconde, la
piu’ nota e’ quella relativa all’ingresso, nei limiti della
quota appositamente fissata annualmente dal Governo, per inserimento nel mercato
del lavoro:
l’ammissione di un lavoratore straniero per un anno di ricerca di lavoro
sul posto, condizionata all’impegno di un garante (sponsor) riguardo al sostentamento
del lavoratore fino a inserimento avvenuto, e delle spese di rimpatrio in caso di
insuccesso. Accanto a questa forma di ingresso, va ricordato quello che
potremmo chiamare ingresso per auto-sponsorizzazione: quando, trascorsi sessanta
giorni dall’entrata in vigore del decreto di programmazione, avanzi un
residuo non utilizzato della quota di ingressi per inserimento nel mercato del
lavoro, possono entrare, fino a completamento della quota, lavoratori iscritti
in apposite liste di prenotazione, a condizione che dimostrino di essere in
grado di provvedere da se’ al proprio sostentamento ed alle eventuali
spese di rimpatrio.
L’esame di come queste disposizioni e
l’uso che ne e’ stato fatto abbiano giocato nell’influenzare
l’andamento dell’immigrazione in Italia e di come, in particolare,
abbiano avuto o meno successo nel curare i fallimenti del mercato e’
importante per operare previsioni su quanto seguira’
all’approvazione della legge 189/2002 (la legge Bossi-Fini) e per
giudicare l’andamento del confronto in corso, in sede europea,
sull’armonizzazione delle condizioni di ingresso e soggiorno per lavoro
degli immigrati.
La politica di controllo dei flussi migratori
presenta, in Italia, dal 1987 al 1990, quattro fasi. La prima fase, dal 1987 al
1990, e’ regolata dalla legge 943/1986. L’ingresso del lavoratore
e’ condizionato alla sua preventiva chiamata da parte di un datore di
lavoro, possibile solo quando sia stata accertata per trenta giorni
l’indisponibilita’ di manodopera residente a ricoprire quello
specifico posto di lavoro. Si registra, in quegli anni, un flusso stimabile in
circa 13.000 lavoratori per anno[1].
Qui e nel seguito consideriamo solo gli ingressi per lavoro subordinato
finalizzati a un inserimento relativamente stabile nel mercato del lavoro. Sono
cosi’ esclusi dal conto gli ingressi per lavoro stagionale, che, sul
lungo periodo, corrispondono a un flusso netto nullo.
La seconda fase (1991-1996) e’ regolata dalla
legge 39/1990 (la legge Martelli). Il Governo potrebbe imporre, con il decreto
annuale di programmazione dei flussi, un limite superiore al numero di
ingressi; nei fatti, tuttavia, non lo impone. La condizione resta cosi’
quella dell’assunzione preventiva, a valle dell’accertamento di
indisponibilita’. I decreti di programmazione di quegli anni,
pero’, impediscono l’assunzione di lavoratori residenti
all’estero in tutti i casi in cui “vi sia possibilita’ di
occupare nel posto di lavoro altro cittadino extracomunitario gia’
regolarmente residente in Italia”. A causa dell’alto numero di
immigrati formalmente disoccupati, sono ammesse cosi’, di fatto, solo le
assunzioni relative a collaboratori familiari, gia’ allora esonerati dal
rispetto delle graduatorie del collocamento. Gli ingressi sono poi condizionati
al fatto che il datore di lavoro procuri al lavoratore un alloggio adeguato e
sia in possesso di un reddito sufficientemente alto[2].
Gli ingressi per lavoro ammontano a circa 22.000 per anno.
Nel biennio ‘97-’98 (terza fase), vigente
ancora la legge Martelli, il Governo impone formalmente un tetto al numero di
ingressi per anno. Si tratta pero’ di limiti determinati come semplice
estrapolazione dei valori registrati negli anni precedenti. Permanendo
invariate le altre condizioni per l’ammissione per lavoro, e’
probabile, cosi’, che questo vincolo non abbia comportato un effettivo
restringimento del canale di ingresso. In media, sono ammessi, nel biennio,
circa 20.000 lavoratori per anno.
La quarta fase, dal 1999 al 2001, e’
caratterizzata dall’applicazione della legge 40/1998 (la legge
Turco-Napolitano). Scompare la condizione di accertamento di
indisponibilita’, mentre l’imposizione di tetti sul numero di
ingressi diventa la norma. Le altre condizioni restano sostanzialmente
immutate. La generalizzazione dell’esonero dall’accertamento di
indisponibilita’ amplierebbe significativamente il numero degli ingressi;
e’ cosi’ il rispetto del tetto fissato dai decreti di
programmazione dei flussi a risultare la condizione piu’ restrittiva.
Oltre agli ingressi per chiamata nominativa (in media, circa 22.000 per anno),
nel 2000 e nel 2001 vengono ammessi 15.000 lavoratori per anno per inserimento
nel mercato del lavoro (l’ingresso per ricerca di lavoro protetto da
sponsor). Nello stesso biennio, nei limiti di quote destinate (e non pienamente
utilizzate) a paesi che hanno stipulato accordi con l’Italia per il
contrasto dell’immigrazione clandestina, viene anche ammesso, per
auto-sponsorizzazione, un certo numero di lavoratori albanesi, marocchini e
tunisini (circa 3500 ingressi, ad esempio, nel 2000).
Accanto a questo quadro corrispondente
all’applicazione delle disposizioni “a regime”, sono state
adottate, nello stesso periodo, quattro sanatorie, rese necessarie
dall’allarme determinato nell’opinione pubblica dall’alto
numero di stranieri privi di permesso di soggiorno, ma di fatto stabilmente
inseriti nella societa’ e nel mercato del lavoro. Pur variando, tra una
sanatoria e l’altra, le condizioni per ottenere il permesso di soggiorno,
un’applicazione progressivamente piu’ rilassata delle norme
corrispondenti ha finito, volta per volta, per includere quasi integralmente,
tra i beneficiari del provvedimento di sanatoria, il bacino di immigrati in
condizioni illegali accumulatosi fino alla scadenza dei termini utili per
fruirne. Hanno cosi’ ottenuto la regolarizzazione della propria posizione
circa 120.000 stranieri nel 1987, 220.000 nel 1990, 250.000 nel 1995 e 240.000
nel 1998.
Dalle cifre appena riportate ricaviamo che il numero
medio di posizioni sanate e’ di quasi 79.000 per anno[3].
L’ingresso legale per lavoro ha riguardato invece circa 22.000 immigrati
per anno[4].
Si vede allora che non e’ possibile considerare le sanatorie come
interventi meramente correttivi di una situazione determinata, a grandi linee,
dalle norme a regime. E’ vero il contrario: quasi quattro quinti degli
accessi a un permesso di soggiorno per lavoro hanno avuto luogo grazie a un
provvedimento di sanatoria; poco piu’ di un quinto attraverso un ingresso
basato sulla stipula preventiva di un contratto di lavoro.
Questa conclusione e’ rafforzata dal dato
qualitativo ricavato dall’esperienza di tutte le associazioni che
lavorano a contatto con immigrati. E’ noto che le chiamate nominative di
lavoratori “residenti all’estero” riguardano in
realta’, nella stragrande maggioranza dei casi, lavoratori di fatto
gia’ presenti in Italia, per lo piu’ illegalmente, a seguito di un
ingresso clandestino o del prolungamento irregolare di un soggiorno legale. In
altri termini, anche nel caso degli ingressi formalmente legali per lavoro, si
e’ in presenza, in genere, di regolarizzazioni camuffate di situazioni
originariamente illegali. Se ne puo’ concludere che, tra coloro che sono
arrivati a conquistare un permesso di soggiorno per lavoro, la percentuale di
quelli che hanno dato vita ad un aggiramento delle norme relative alle
condizioni di ingresso per lavoro e’ compresa tra l’ottanta e il
cento per cento. L’Adriano della Yourcenar commenterebbe: “Ogni
legge trasgredita troppo spesso e’ cattiva; spetta al legislatore
abrogarla o emendarla, per impedire che il dispregio in cui e’ caduta
quella stolta ordinanza si estenda ad altre leggi piu’ giuste.”
Il difetto, qui, potrebbe essere associato, in linea
di principio, a ciascuno dei requisiti imposti nei diversi periodi. Possiamo
avvalerci del fatto che le varie fasi siano state caratterizzate da
combinazioni diverse di quei requisiti per valutare separatamente
l’effettiva rilevanza di ognuno di essi. Notiamo cosi’ che i limiti
numerici non hanno agito fino al 1997; che i requisiti di reddito e alloggio
non erano in vigore prima dell’entrata in vigore della legge 39/1990; che
l’accertamento di indisponibilita’ e’ stato soppresso dalla
legge 40/1998. La sostanziale costanza del fenomeno dell’elusione delle
norme in tutto il periodo considerato indica allora come la causa principale di
esso sia da ricercare nella disposizione che impone l’assunzione dello
straniero quando ancora questi risiede all’estero – prima,
cioe’, del suo ingresso formale in Italia come lavoratore immigrato. Non
e’ difficile, del resto, individuare le ragioni per cui questa disposizione
induca una violazione delle prescrizioni di legge. L’inserimento di
immigrati nell’economia italiana riguarda, infatti, prevalentemente il
settore dei servizi alla persona (la collaborazione familiare,
l’assistenza domiciliare agli invalidi, la cura di bambini e anziani) e
in quello della piccola impresa. Entrambi questi settori sono basati su
rapporti di lavoro con un forte contenuto fiduciale: perche’ il rapporto
si costituisca e’ indispensabile un
incontro diretto tra datore di lavoro e lavoratore. Un lavoratore che
attenda dall’estero la chiamata da parte di un datore di lavoro, senza
che un incontro vi sia stato, puo’ attenderla inutilmente per tutta la
vita. E’ indotto cosi’ ad entrare in qualunque modo in Italia per
trovare sul posto un’opportunita’ di inserimento. Se gli e’ possibile
fare ingresso legalmente (per turismo, per esempio), utilizza il tempo che ha a
disposizione per cercare lavoro e, se questo non basta, si trattiene oltre i
termini del soggiorno legale, finche’ la ricerca non e’ coronata da
successo. Se non riesce a entrare legalmente, percorre, con la stessa
finalita’, vie di accesso clandestino. Una volta trovata
un’occupazione (in condizioni comunque illegali, data la mancanza di un
permesso di soggiorno che lo abiliti allo svolgimento di attivita’
lavorativa), il lavoratore regolarizza la propria posizione di soggiorno e di
lavoro grazie alla prima sanatoria utile o all’uso improprio, di cui si
e’ detto, della chiamata nominativa. In quest’ultimo caso, il
lavoratore tornera’ temporaneamente in patria, rientrando in Italia dopo
aver ottenuto il visto di ingresso per lavoro.
Una politica alternativa
Con riferimento al problema generale del rimedio
degli effetti negativi della distanza originaria, l’errore sta qui
evidentemente nel considerare l’esistenza di un contratto anteriore
all’ingresso come cura dell’incompletezza di informazione. Essa
puo’ essere, al piu’, l’effetto di una cura appropriata, che
pero’ la disposizione di legge non indica come effettuare. Una tale cura
dovrebbe consistere in un dispositivo che permetta un incontro tra domanda e
offerta di lavoro, ma che non lo affidi all’iniziativa e alla
mobilita’ dei lavoratori (assunto, naturalmente, che si voglia evitare il
rischio legato all’incapacita’ di rimpatrio del migrante che non
trovi inserimento adeguato). Si potrebbe pensare allora ad attivita’ di
reclutamento all’estero da parte dei datori di lavoro. Attivita’
del genere, probabilmente alla portata della grande impresa, sembrano
pero’ improponibili per piccole imprese e famiglie – i piu’
tipici, cioe’, tra i soggetti da cui proviene la domanda di lavoro.
L’incontro tra domanda e offerta potrebbe, in
alternativa, essere affidato ai servizi di agenzie di intermediazione. E’
noto che a livello informale (e illegale) questi servizi sono molto attivi e
riescono a collocare dai paesi dell’Est – e non solo da quelli -
lavoratori in posizione irregolare perfino nei paesi dell’Italia
Meridionale. Tuttavia, si tratta di processi di inserimento non molto diversi
da quelli utilizzati a livello individuale dai migranti che vengono a cercare
lavoro sul posto illegalmente. Anche chi e’ “collocato” da
una di queste agenzie, infatti, entra in Italia senza alcuna certezza sulla
costituzione del rapporto di lavoro. Sara’ solo l’incontro faccia a
faccia tra datore di lavoro e lavoratore a decidere della vita di questo
rapporto, senza che la preventiva intermediazione dell’agenzia possa o
voglia giocare un ruolo di garanzia per alcuna delle parti.
Sul fronte delle attivita’ di intermediazione
legale tra parti distanti – tali, cioe’, da dar luogo alla stipula
di un contratto prima dell’ingresso, in assenza di un incontro diretto
tra i contraenti – l’esperienza italiana e’ molto modesta.
Merita attenzione, pero’, il caso del Progetto Albania, condotto
dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), in
collaborazione col Ministero del lavoro italiano e con quello albanese.
Nell’ambito di questo progetto, l’OIM provvedeva, nel corso del
2000, a certificare la qualificazione professionale di ciascuno degli iscritti
– circa cinquemila – in una lista di prenotazione raccolta dal
Ministero del lavoro albanese. La certificazione operata dall’OIM aveva
lo scopo di facilitare le chiamate nominative di lavoratori albanesi da parte
degli imprenditori italiani. L’OIM stessa, quindi, aveva reclamizzato la
lista di lavoratori qualificati presso molte importanti associazioni
imprenditoriali del Centro-Nord. Si trattava, in questo caso, di una effettiva
opera di intermediazione, giacche’, certificazione a parte, la chiamata
del lavoratore sarebbe avvenuta “al buio” (col lavoratore,
cioe’ ancora in patria). Il risultato di questa grande mole di lavoro
e’ consistito, alla fine dell’intero processo, in poco piu’
di sessanta chiamate nominative![5]
L’impraticabilita’ o, rispettivamente, la
scarsa efficacia delle attivita’ di reclutamento e di intermediazione
spinge a cercare una cura alternativa per il fallimento del mercato. Piuttosto
che a compensare l’incompletezza dell’informazione, si puo’
puntare a prevenire le situazioni in cui la debolezza dell’immigrato che
non trovi inserimento lavorativo gli impedisca di rimpatriare. Si tratta, a
questo scopo, di stabilire una soglia minima di risorse economiche, al di sotto
della quale la condizione di inserimento sociale della persona sia da
considerare inaccettabilmente precaria. Tale soglia, in nome di un principio
generale di uguaglianza rispetto ai diritti fondamentali, sara’
strettamente correlata alla soglia minima al di sotto della quale scatta, per i
cittadini nazionali, il diritto ad interventi di natura assistenziale;
potra’ ad esempio corrispondere alla disponibilita’ di una
sistemazione alloggiativa, di mezzi di sostentamento in misura pari
all’importo dell’assegno sociale e di una assicurazione contro il
rischio di malattia. L’ingresso e il successivo soggiorno del lavoratore straniero potrebbero
essere consentiti a chiunque sia in grado di dimostrare la disponibilita’
della quota di risorse minime per tutta la durata del soggiorno in questione.
Disposizioni di questo genere sono gia’ presenti nella normativa
italiana, e di ogni altro paese avanzato, in relazione ai soggiorni di breve
durata (ad esempio, per turismo). Sono disposizioni largamente sperimentate: in
Italia si contano circa 400.000 ingressi all’anno, per soggiorni di
questo tipo, da paesi non appartenenti all’Unione europea, con una punta,
in tempi recenti, di circa 600.000 ingressi nel 1999. L’innovazione qui
consisterebbe nell’applicazione ampia di queste disposizioni al problema
dell’accesso legale al lavoro: lo straniero che faccia ingresso sulla
base della propria volonta’ e del soddisfacimento del requisito di
disponibilita’ di risorse sufficienti sarebbe autorizzato a intraprendere
attivita’ lavorative (anche saltuarie), a prolungare il proprio soggiorno
in presenza di rinnovata disponibilita’ di risorse, e a stabilizzarlo a
titolo di lavoro una volta reperita una solida opportunita’ di
inserimento. Potremmo allora battezzare convenzionalmente questa
modalita’ di ammissione conversione turismo-lavoro.
Differentemente dal caso in cui a cadere al di sotto
della soglia minima siano le condizioni del cittadino nazionale –
situazione che esigerebbe l’intervento assistenziale pubblico –,
ove a trovarsi in difficolta’ fosse il lavoratore straniero in fase di
soggiorno precario, lo Stato sarebbe legittimato ad imporne il rimpatrio, non
essendo tenuto a sobbarcarsi l’onere del mantenimento di una persona non
appartenente alla comunita’, ne’ invitata a soggiornare sulla base
di stime di fabbisogno di manodopera, qui del tutto assenti.
Le esperienze simili: sponsorizzazione e
auto-sponsorizzazione
Si e’ gia’ osservato, per altro, come la
legge Turco-Napolitano avesse reso possibili forme simili di ricerca di lavoro
sul posto: la sponsorizzazione e l’auto-sponsorizzazione. A dimostrazione
della ragionevolezza del quadro da esse rappresentato, queste forme di ingresso
hanno avuto un grande successo, benche’ siano state utilizzate in via
puramente sperimentale. Come si e’ detto, l’ingresso per inserimento
nel mercato del lavoro dietro prestazione di garanzia da parte di uno sponsor
e’ stato consentito per la prima volta nel 2000 entro il tetto di 15.000
ingressi. A dispetto della novita’ e delle molte incertezze, in fase di
prima applicazione, in relazione alla documentazione da produrre, il tetto
e’ stato raggiunto entro pochi giorni. Il decreto di programmazione dei
flussi per il 2001 ha confermato, per un improvvido eccesso di cautela, lo
stesso limite numerico. Il tetto, questa volta, e’ stato raggiunto entro
poche ore, destinando al diniego la maggior parte delle numerosissime domande
(forse 150.000[6]) presentate
da aspiranti sponsor.
C’e’ da dire, nell’esaminare questi
dati, che in molti casi – tipicamente tutti quelli corrispondenti a
domande presentate da sponsor italiani – la prestazione di garanzia
mirava a riportare alla legalita’ rapporti di lavoro gia’ nati
irregolarmente, a somiglianza di quanto verificatosi per le chiamate
nominative. Era cioe’ il datore di lavoro a proporsi come sponsor di un
lavoratore solo formalmente in attesa nel proprio paese. La ragione di
questo comportamento, ancora una volta elusivo rispetto alle disposizioni di
legge, puo’ essere rintracciata, oltre che negli argomenti esposti in
precedenza, nella necessita’ di aggirare le restrizioni derivanti dai
limiti numerici sugli ingressi per chiamata nominativa e, in misura minore, dal
requisito relativo al reddito del datore di lavoro. Difficilmente, per questi
casi, si puo’ trarre la conclusione che l’ingresso condizionato
alla prestazione di garanzia sia un buon canale per consentire la ricerca di
lavoro sul posto in forma originariamente legale. Questo rilievo non impedisce
pero’ di considerare positivamente questa forma di ingresso in relazione
alle domande presentate da sponsor stranieri regolarmente soggiornanti in
Italia. Si ha a che fare, in questi casi, con effettive catene migratorie,
nelle quali l’ingresso legale del lavoratore straniero non e’
preceduto da un periodo di soggiorno illegale.
E’ da notare come, per i casi di uso proprio
dello strumento della sponsorizzazione, il dispositivo si avvicini molto a
quello della conversione turismo-lavoro. In entrambi i casi, infatti, il
lavoratore e’ ammesso se il suo sostentamento in fase di ricerca di
lavoro e’ garantito. La differenza principale sta nel fatto che,
nell’ambito della sponsorizzazione, il sostentamento deve necessariamente
essere garantito da un terzo. Il limite evidente di questa previsione e’
rappresentato dal fatto che lo straniero che aspiri a migrare in Italia per
cercare lavoro e non abbia alcun contatto con un potenziale sponsor – un
parente gia’ inserito, per esempio – si trova comunque indotto a
conquistare attraverso il soggiorno illegale un’ammissione formalmente
legale.
Il superamento di questo limite era potenzialmente
consentito, all’interno della legge Turco-Napolitano, dalle disposizioni
che consentivano, sotto certe condizioni, l’ingresso per auto-sponsorizzazione. Tuttavia, essendo
richiesto, per quel tipo di ingresso, il mancato raggiungimento del tetto fissato
per gli ingressi associati a prestazione di garanzia e l’iscrizione del
lavoratore in una lista di prenotazione nel consolato italiano,
l’esiguita’ dei tetti fissati e la mancata istituzione di liste ha
fatto si’ che, nel caso generale, lo strumento non sia stato utilizzato.
Eccezioni (di carattere sperimentale, appunto) si
sono avute – come detto – per i paesi cui erano state assegnate,
per gli anni 2000 e 2001, quote riservate: Albania, Tunisia e Marocco.
Nell’ambito degli accordi di collaborazione stipulati con l’Italia
erano state istituite, per quei paesi, liste di prenotazione – allestite,
in realta’, dalle autorita’ di ciascuno dei paesi, non dai
corrispondenti consolati italiani. I decreti di programmazione dei flussi avevano
autorizzato ingressi di lavoratori iscritti in quelle liste, alle condizioni
previste per l’auto-sponsorizzazione, in caso di mancato raggiungimento
dei tetti fissati per la sponsorizzazione.
Pur essendo esaurite in pochissimo tempo le quote
generali per sponsorizzazione (quelle, cioe’, fissate senza riferimento
alla provenienza dei lavoratori), la condizione favorevole di mancato
esaurimento si registra – nel 2000 – con riferimento alle quote
riservate per ciascuno dei tre paesi[7].
Per quanto riguarda l’Albania, in particolare, sono cosi’ ammessi
per auto-sponsorizzazione circa milleduecento dei lavoratori iscritti nella
lista raccolta dal locale Ministero del lavoro. L’OIM, che aveva –
come detto – certificato la qualificazione di ciascuno di quei lavoratori,
offre loro, all’atto dell’ingresso, la propria assistenza per il
superamento delle difficolta’ che possano presentarsi in Italia. Dei
lavoratori entrati, solo quattrocento prendono effettivamente contatto, nei
mesi seguenti, con l’OIM, chiedendo aiuto per questioni burocratiche o di
altro genere; l’OIM fornisce l’aiuto richiesto, e registra, per
ogni contatto, il recapito del lavoratore in Italia. Degli altri ottocento
l’OIM perde le tracce; ma non sembra infondata l’ipotesi che
abbiano raggiunto un inserimento lavorativo con le proprie forze[8].
Qualche tempo dopo, infatti, avendo organizzato corsi di formazione
professionale per i lavoratori albanesi, e temendo di doverli cancellare per
mancanza di iscritti, l’OIM raggiunge tutti i quattrocento lavoratori di
cui conosce un recapito, invitandoli ad iscriversi ai corsi. Tre quarti degli
intervistati declina l’invito, per aver gia’ trovato lavoro; gli
altri accettano di iscriversi. Degli iscritti, successivamente, riescono a
trovare occupazione in settanta, all’incirca; gli altri trenta restano
disoccupati. Fino a prova contraria (relativa all’esito della ricerca di
lavoro da parte degli ottocento lavoratori con i quali l’OIM non ha avuto
contatti), possiamo cosi’ presumere che la percentuale di insuccessi, nei
casi di ricerca di lavoro autosponsorizzata, sia quindi non superiore al 7.5%
(trenta su quattrocento); e si puo’ ipotizzare addirittura che sia non
molto superiore al 2.5% (trenta su milleduecento). In ogni caso emerge
l’efficacia di questo strumento nel consentire un percorso interamente
legale di inserimento lavorativo, e l’incomparabile superiorita’ di
esso rispetto alla soluzione rappresentata dall’agenzia di
intermediazione (sessanta ingressi su chiamata nominativa, a partire dalla stessa
lista).
La conversione turismo-lavoro
Rispetto alle esperienze gia’ maturate di
ingresso condizionato a sponsorizzazione o auto-sponsorizzazione,
l’approccio fondato sulla conversione turismo-lavoro rimuove il requisito
relativo al rispetto di un tetto numerico fissato con il decreto di
programmazione e, quindi, quello relativo all’iscrizione in una lista di
prenotazione. Riduce cosi’ fortemente la necessita’ di intervento
statale.
La principale obiezione che puo’ essere mossa a
una proposta di questo genere e’ che essa non sembra in grado, di per
se’, di garantire allo Stato la concreta possibilita’ di
allontanare lo straniero le cui risorse, fallito il tentativo di inserimento
lavorativo, cadano al di sotto della soglia minima. Trovandosi in queste
condizioni, infatti, lo straniero potrebbe sottrarsi al controllo periodico del
possesso dei requisiti economici per il rinnovo del permesso. Che questo
rischio di incapacita’ di controllo statale sia effettivo e’
provato, ovviamente, dal fatto che negli ultimi quindici anni l’ingresso
per turismo e il prolungamento illegale del soggiorno hanno costituito –
come detto – uno dei meccanismi di elusione delle norme
sull’accesso al lavoro.
E’ necessario allora che le norme
sull’ingresso e sulla possibilita’ di permanenza legale siano affiancate
da disposizioni che consentano allo Stato di procedere, senza incidere sulla
spesa pubblica, al rimpatrio di chi non soddisfi piu’ la condizione di
autosufficienza, come pure di chi debba essere allontanato per motivi –
piu’ gravi – di sicurezza pubblica. Cosi’, l’aggravio
per l’erario puo’ essere prevenuto imponendo, in ingresso, il
deposito di un biglietto aperto per il viaggio di ritorno o dei mezzi necessari
ad acquistarlo.
E’ possibile pero’ – ed e’
una pratica largamente utilizzata da chi voglia rendersi difficilmente
allontanabile – che lo straniero occulti o distrugga il proprio
passaporto, in modo da rendere assai difficile l’individuazione del paese
di appartenenza, il solo obbligato a riammetterlo nel proprio territorio. Il ricorso
a costose misure detentive finalizzate all’accertamento della
nazionalita’ della persona da allontanare puo’ essere reso
superfluo dalla conservazione, per ciascuno dei lavoratori stranieri ammessi,
di una fotocopia del passaporto e delle impronte digitali (o di altro analogo
segno di riconoscimento non equivoco).
In questo modo, lo straniero che, in qualunque modo,
cada nel novero delle persone non legittimate a soggiornare nel territorio
dello Stato, potrebbe, alla prima intercettazione che ne evidenzi questa
condizione, essere associato immediatamente al fascicolo impronte-passaporto-biglietto. Potrebbe cioe’
essere allontanato senza difficolta’ e senza bisogno di accordi di
riammissione con altri paesi. Allo stesso tempo, e in virtu’ della
linearita’ acquistata dal procedimento di allontanamento, lo Stato
potrebbe ben rinunciare, nei casi in cui l’allontanamento stesso non sia
motivato da reati, all’applicazione di qualunque sanzione aggiuntiva
(quella tipica e’ il divieto di reingresso), dato che nessun danno
– in termini di aggravio di spesa – e’ stato apportato dallo
straniero alla collettivita’.
Andrebbe, ovviamente, rispettato comunque il diritto
dello straniero di far valere le proprie ragioni contro il provvedimento di
allontanamento, ma tale rispetto non infirmerebbe in alcun modo la
capacita’ dello Stato di mantenere il pieno controllo della situazione:
se anche lo straniero, in assenza di un regime di detenzione, si sottraesse al
provvedimento, la successiva intercettazione darebbe luogo all’allontanamento
immediato, essendo gia’ esaurito il diritto di ricorso.
Si osservi come, in questo contesto, il rilevamento
delle impronte digitali non assuma la connotazione di misura vessatoria
adottata da parte di uno Stato pervasivo nei confronti di un individuo
gia’ privato di molte delle proprie prerogative. E’ piuttosto lo
strumento per il recupero in extremis, da parte dello Stato, della porzione di
sovranita’ ceduta all’individuo straniero, con l’ammissione
nel proprio territorio, in nome del rispetto sostanziale della liberta’
di movimento di questi. E’ anche, certamente, una misura discriminatoria,
dato che, anche in caso di estensione al cittadino nazionale[9],
questi non ne soffrirebbe la valenza repressiva. Ma la discriminazione
corrisponde esattamente, e nel modo piu’ contenuto possibile, a quella
esistente, a livello fondamentale, tra cittadino e straniero (l’uno
dotato di un diritto pieno di soggiorno, l’altro semplicemente autorizzato a soggiornare) –
condizione che, pur sempre, si ribalterebbe a vantaggio dello straniero nel suo
paese di origine.
Una seconda possibile obiezione contro il dispositivo
di conversione turismo-lavoro e’ che la concorrenza di una manodopera
straniera ammessa senza eccessive restrizioni a cercare lavoro nel territorio
dello Stato costituisce una concorrenza troppo aggressiva nei confronti di
quella nazionale. Un rischio del genere potrebbe essere ridimensionato
imponendo il preventivo accertamento di indisponibilita’ di manodopera
nazionale come condizione necessaria per la costituzione di un rapporto di
lavoro duraturo con un lavoratore straniero (e per la conseguente
stabilizzazione del soggiorno di questi). Si tratta, come tutte le misure di
tipo protezionistico, di un’arma pericolosa, che provoca un uso
inefficiente delle risorse, ma che puo’ trovare una giustificazione
– anche sul piano economico – nella necessita’ di tutelare,
in situazioni particolari e per tempi non troppo lunghi, settori specifici del
bacino di disoccupazione.
L’imposizione, invece, di un limite numerico
sugli ingressi o sulle possibilita’ di stabilizzazione, non tenendo
conto, di per se’, delle aspirazioni di alcuno degli attori –
lavoratore nazionale, lavoratore straniero, datore di lavoro –, non
sembra difendibile[10].
Un tetto numerico potrebbe ancora avere una ragion d’essere se fosse
determinato sulla base di criteri diversi, quali il rispetto delle limitate
capacita’ di accoglienza da parte della societa’, con riguardo alla
disponibilita’ di strutture e servizi sociali o alla necessita’ di
proteggere la cultura locale da un’eccessiva alterazione della
composizione etnica della popolazione. Tuttavia, limitazioni di questo genere
trovano in genere giustificazione solo su una scala spaziale e temporale
limitata (puo’ essere cioe’ necessario evitare concentrazioni
eccessive di presenza straniera nel tempo o nello spazio); non hanno quindi
– se ben congegnate – un carattere globale, ma tendono piuttosto a
ridistribuire il carico degli ingressi su un arco di tempo un po’
piu’ lungo o su un territorio un po’ piu’ vasto.
Si vede come l’assetto normativo basato sulla
conversione turismo-lavoro corrisponderebbe ad una ricombinazione ed
estensione, sia pure in chiave diversa da quella originaria, di disposizioni
gia’ sperimentate o appena introdotte dalla legge Bossi-Fini. Sembra
ragionevole aspettarsi che esso, non costituendo un salto nel buio e
comportando un significativo alleggerimento del controllo statale sui flussi,
possa ridurre di molto le dimensioni dei flussi illegali. La cosa e’
tanto piu’ probabile quanto piu’ il requisito di autosufficienza
corrisponda all’effettiva protezione del migrante dal rischio di una
insostenibile indigenza. Nessun migrante troverebbe infatti vantaggioso eludere
un percorso legale di fatto ritagliato sul suo interesse. La definizione, per
eccesso di prudenza, di criteri piu’ restrittivi – in termini di
tetti numerici o di livelli minimi di risorse troppo alti –
produrrebbe invece una tensione tra l’interesse del migrante e cio’
che gli e’ consentito fare. La migrazione illegale potrebbe ancora
risultare appetibile, e lo Stato si troverebbe probabilmente a sanare domani
quello che non ha autorizzato oggi.
Verso un diritto di immigrazione?
Si puo’ allora concludere che la ricetta per
una gestione del fenomeno migratorio che renda inutili i flussi illegali e,
allo stesso tempo, eviti di trasformarlo in un onere per la societa’ del
paese d’arrivo consiste nel lasciare che ogni individuo – il
migrante, in particolare – agisca liberamente per migliorare la propria
condizione finche’ questo non peggiori la condizione di qualcun altro
– in particolare, il cittadino nazionale. Le deviazioni da questo
principio corrispondono proprio alla definizione di criteri inutilmente
restrittivi, che impediscono l’evoluzione di alcuni soggetti – i
migranti – senza che gli altri – i cittadini nazionali – ne
abbiano alcun vantaggio. Dando luogo ad una fascia di situazioni proibite dalle
norme a dispetto della loro utilita’, queste deviazioni promuovono, di
fatto, le pratiche illegali.
All’inverso, l’implementazione della
ricetta di conversione turismo-lavoro somiglia molto alla definizione di un
vero e proprio diritto di immigrazione. Non un diritto assoluto –
come formalmente e’ il diritto d’asilo –, ma un diritto
condizionato alla tutela dello status quo della societa’ ospitante: il
migrante ha diritto di essere ammesso, purche’ non rappresenti un onere
netto per il paese d’arrivo.
E’ ipotizzabile che questo quadro trovi
corrispondenza nella normativa e nella politica italiana? Stando ai contenuti
della riforma appena varata con la legge Bossi-Fini, no. Rispetto al quadro
uscente, e’ stata confermata l’impostazione dominante, fondata
sulla stipula preventiva del contratto di lavoro (ribattezzato contratto di
soggiorno).
E’ stata invece cancellata ogni possibilita’ di ingresso per
sponsorizzazione o auto-sponsorizzazione. Verosimilmente si riprodurranno
cosi’, a dispetto di un inasprimento delle sanzioni contro
l’immigrazione clandestina, le condizioni che hanno indotto per anni i
lavoratori stranieri a cercare nell’illegalita’ la via di accesso a
una condizione di soggiorno stabilmente legale.
Le cose potrebbero, in linea di principio,
modificarsi in virtu’ del processo di armonizzazione delle politiche di
immigrazione e asilo in ambito europeo, avviato con il Trattato di Amsterdam.
All’interno di questo processo la Commissione europea ha presentato
proposte per direttive e regolamenti che toccano ormai quasi tutti gli aspetti
di rilievo della materia. La strategia qui prospettata – ingresso per
soggiorni di breve duata condizionato alla dimostrazione di autosufficienza
economica, con deposito delle impronte e di copia del documento di viaggio;
possibilita’ di ricerca di lavoro sul posto; stabilizzazione del
soggiorno in caso di reperimento di un’occupazione, previo eventuale
accertamento di indisponibilita’ di manodopera nazionale, ma senza il
vincolo di limiti numerici prefissati – sembra sostanzialmente
compatibile con le proposte finora avanzate dalla Commissione. C’e’
da dire, pero’, che i rappresentanti di tutti i governi si sono
pronunziati, nell’ambito dell’esame della proposta di direttiva su
ingresso e soggiorno per lavoro, contro la possibilita’ di accesso sul
posto al
soggiorno stabile per lavoro da parte di chi sia stato autorizzato
all’ingresso per un soggiorno di breve durata; ed e’ il Consiglio
europeo (espressione dei governi) a detenere il potere legislativo
nell’Unione europea, non la Commissione.
Anche l’Europa sembra cosi’ destinata a
impantanarsi in un quadro legislativo gia’ rivelatosi chiaramente insufficiente.
Se ne avvantaggeranno scafisti, trafficanti e, certamente, leaders politici
senza grandi idee. Il diritto di immigrazione dovra’ invece aspettare
ancora per qualche anno...
[1] In mancanza di dati completi e’ stato utilizzato il dato relativo all’anno 1990.
[2] Quest’ultimo requisito e’ introdotto con circolare ministeriale.
[3] Il dato si riferisce al periodo 1990-1998, non essendo disponibili informazioni attendibili sull’istante di inizio della formazione dello stock di immigrati irregolari regolarizzati con la sanatoria del 1987, ne’, per il momento, sulle dimensioni del processo di emersione di immigrati entrati tra il 1998 e il 2001. Dati su quest’ultimo aspetto potranno essere ricavati a conclusione della regolarizzazione avviata con la legge Bossi-Fini e con il decreto-legge 195/2002.
[4] Questa conclusione vale sia che si guardi all’intero periodo 1987-2001, sia che si considerino solo gli anni dal 1990 al 1998.
[5] Cito questi e gli altri dati relativi al Progetto Albania a memoria, sulla base di quanto esposto da rappresentanti dell’OIM durante un incontro al Centro Studi Politica Internazionale (CeSPI) nell’Aprile 2002.
[6] In mancanza di dati ufficiali del Ministero dell’interno, la stima e’ basata su informazioni relative a un ristretto numero di province.
[7] Le quote riservate potevano essere utilizzate sia per ingressi con chiamata nominativa, sia per ingressi con sponsorizzazione.
[8] In proposito il Ministero dell’interno non ha ancora pubblicato dati ufficiali. In generale, la mancanza di dati ufficiali del Ministero sulle richieste di ingresso e sui soggiorni per inserimento nel mercato del lavoro ha dell’incredibile, se si considera che l’abrogazione, disposta con la legge Bossi-Fini, delle norme che consentivano questa modalita’ di ingresso e’ stata motivata con l’argomento secondo il quale essa si sarebbe prestata ad abusi sistematici – argomento mai sostanziato con dati empirici.
[9] Prevista dal decreto-legge 195/2002.
[10] La definizione di un limite superiore agli ingressi per lavoro su chiamata nominativa e’ ancora meno difendibile quando – come e’ successo con la programmazione dei flussi dal 1997 ad oggi – e’ intesa non come strumento di tutela del disoccupato residente, ma come risultato di una stima del fabbisogno di manodopera non saturato dall’offerta nazionale. Il vincolo, infatti, non agisce se non quando il limite viene superato dal numero di richieste avanzate dai datori di lavoro – quando, cioe’, la stima si rivela errata.