L’odissea di un padre

FIGLIA CEDUTA ILLEGALMENTE IN ADOZIONE

Il dramma psicologico e umano vissuto a Trapani da un carcerato tunisino

 

Sembra la storia romanzata d’altri tempi ma in chiave moderna quella vissuta da un immigrato tunisino, sposato e padre di una figlia, oggi sedicenne. Sono diverse trame che s’intrecciano ma partono da alcune invariabili che sono la cultura, la povertà (non solo quella materiale) e il bisogno esistenziale, l’affetto frammisto a quella componente che è la paternità, l’esigenza di giustizia. Questa è una storia che ha dell’inverosimile, un racconto a tappe che merita d’essere seguito non tanto per conoscerne l’epilogo quanto piuttosto per imparare anche noi a scavare in quella componente psichica dell’uomo e, all’occasione, lasciarci coinvolgere ognuno secondo i propri ruoli. Riteniamo che esistano ancora degli ideali per i quali vale la pena vivere e lottare fino a quando l’uomo avrà il senno ed un po’ di cuore. Noi ve la descriviamo lasciandovi l’autonomia del giudizio.

Maarouf Nabil Ben Abdelmajid, oggi un uomo trentottenne, lascia negli anni ’80, come tanti altri suoi connazionali, la Tunisia per raggiungere l’Europa alla ricerca di un lavoro decente e fare fortuna. Si reca in Svezia ove conosce una giovane donna d’origine svedese ma di nazionalità greca. Nel 1985 la sposa. La loro relazione inizialmente appare felice e tranquilla tanto che l’anno seguente nasce una bella bambina alla quale viene attribuito il nome di “Nabila”. Dopo i primi anni di matrimonio la coppia comincia ad avvertire le differenze culturali e quindi relazionali: il marito fa rilevare costantemente alla moglie la sua indifferenza e soprattutto la negligenza verso la casa e nei confronti della piccola. Ma la donna, abituata alla vita precedente, rifiuta ogni sua responsabilità, la coppia entra in crisi e, di comune accordo, nel 1990 si separa. Ottenuto il divorzio, la figlia, che allora aveva appena quattro anni, viene affidata alla custodia di ambedue i genitori. Essi, una volta divisi, rimangono in buoni rapporti e il padre ha la possibilità di incontrare la figlia ogni fine settimana. Nel 1991 Maarouf si reca in Libia dove vende la sua vettura. Ritornato in Tunisia ha problemi con la dogana del suo paese e salda con dieci mesi di carcere questa faccenda amministrativa. Ma durante il periodo di detenzione, mentre il padre attende di rivedere la figlia, l’ex moglie, è il padre che lo asserisce, firma a posto suo e, con la complicità di due persone, falsifica illegalmente alcuni documenti, secondo i quali il padre stesso si libera della figlia e la rinnega: il tribunale nel 1992 affida così la custodia della figlia esclusivamente alla madre. La madre però non aspira all’esclusivo affidamento ma questo le da l’opportunità di decidere liberamente del domani della figlia. Nel 1994 la donna, volendosi liberare delle sue responsabilità e riacquistare la libertà, ma anche perché, a dire del padre, lei non aveva la possibilità economica di mantenere la figlia né di farla crescere in un ambiente sano, decide di darla in adozione senza preventiva consultazione né approvazione del padre. Nel frattempo i servizi sociali svedesi stanziano una cospicua somma alla nuova famiglia d’adozione. La madre così si sbarazza definitivamente del padre e della figlia.

Nabil Maarouf, uscito intanto dalla prigione tunisina nel 1992, si reca a lavorare in Italia. Da qui tenta in tutti i modi d’avere un visto d’espatrio per la Svezia ma le richieste che fa gli sono negate e solo sette anni più tardi, nel 1999, ottiene un visto per 10 giorni e raggiunge il paese desiderato. Appena arrivato in Svezia viene informato di ciò che era stato tramato durante la sua assenza e sporge querela di falso e di falsificazione di documenti ai danni della sua ex moglie, denunciando l’illegalità dell’adozione e rivendicando il diritto alla custodia della figlia. La suprema corte, informata del fatto, s’assicura della verità della querela della vittima e fa appello contro le due persone che avevano firmato. Essi dichiarano che non conoscevano neanche l’autore della suddetta manipolazione. La vicenda viene affidata allora al tribunale di prima istanza incaricato di riesaminare la sentenza riguardante la custodia della bambina. Il padre, trovatosi in questa situazione, rimane molto afflitto dal contegno della figlia, che aveva compiuto già i 15 anni, e si rifiuta di incontrarlo, anzi chiede la sua espulsione dal territorio svedese non riconoscendo come genitori che i soli adottivi dai quali aveva ricevuto affetto e educazione. Due anni dopo Maarouf è espulso dalla Svezia ma ritorna alla carica, rientra clandestinamente, convinto d’averla vinta e di recuperare finalmente la figlia: prende contatti con un’organizzazione di destra della Svezia i cui membri rimangono sbalorditi nell’ascoltare la storia e tutte le peripezie che l’uomo ha dovuto affrontare. Il calvario non finisce ma continua, nel frattempo, infatti, la famiglia adottiva s’era fatta carico di condurre l’adolescente in Grecia presso i nonni materni, peraltro molto anziani e sofferenti per un handicap mentale. I membri dell’organizzazione della destra esprimono subito le loro preoccupazioni riguardo all’avvenire di Nabila che, lasciati i banchi della scuola svedese, si era recata in Grecia, paese di cui ignorava persino la lingua. A questo punto il padre prende contatti col console di Tunisia a Stoccolma il quale, preso di compassione per la vicenda dell’uomo, l’appoggia moralmente e finanziariamente, così il 27 novembre del 2001 il console, impugnata la faccenda, interessa dell’affare un avvocato, interpella contemporaneamente il Ministero degli Esteri di Svezia perché si arrivi al più presto possibile ad una soluzione che ponga fine a questa vicenda. Il padre continua nella sua ‘folle’ corsa pur di raggiungere il suo intento: contatta la stampa tunisina e bussa a tutte le porte pur di riavere la figlia e uscire finalmente da quest’intrigo.

Ma la vicenda non finisce qui, la stampa svedese, tunisina e inglese dà ampio risalto alla vicenda in lingua anche araba e francese, fino a quando la faccenda sembra arenarsi: siamo alla seconda parte di un racconto che appare tale ma non lo è per nulla. Maarouf in questi anni, come abbiamo detto, era stato anche in Italia dove aveva lavorato ottenendo un permesso di soggiorno. Fu così che approssimandosi la scadenza del permesso di soggiorno Nabil, non volendo perdere il diritto, il 18 aprile del 2002 lascia la Svezia e torna in Italia, precisamente a Mazara del Vallo dove si trova un lavoro. Recatosi al Commissariato di Polizia di quella città, anziché trovare la disponibilità al rinnovo del permesso di soggiorno, si vede notificata una condanna di due anni e due mesi inflittagli per rapina dal tribunale di Macerata il 27 novembre 2001 e resa definitiva il 28 febbraio 2002. Dal 9 maggio così Nabil si trova nel carcere circondariale di Trapani a scontare una condanna di cui non conosceva l’imputazione e della quale non aveva avuto la possibilità di dimostrare la sua innocenza attraverso un interrogatorio, adducendo dei testimoni e partecipando ad un confronto con chi l’aveva denunciato, cioè una donna tunisina coetanea, per dei fatti, a dire dell’uomo, mai commessi. Nel 1995, infatti, dopo la denuncia era stato tratto in carcere ove era rimasto tre giorni. Rilasciato, ignorava che il procedimento penale era in corso. Al dramma della figlia si aggiunge così quello personale e giudiziario. Oggi Maarouf, che sta scontando la pena, implora tutte le istituzioni e i responsabili politici e giudiziari perché sia riaperto il processo fatto a suo carico in contumacia e dimostri la sua innocenza. Se nonostante tutto gli viene confermata la pena, egli implora, ed è fiducioso, di essere espulso dal territorio italiano al fine di continuare a seguire il procedimento in Svezia (tuttora in corso) per la custodia della figlia. L’appello tramite queste pagine lo giriamo a tutti coloro che in un modo o in un altro sappiano trovare una spiegazione e in entrambe le vicende diano una mano idonea alla risoluzione dei casi.

 

TP 17/07/02

Salvatore Agueci