Per costruire la cittadinanza civile e sociale dei migranti

di Moreno Biagioni

 

   Un aspetto rilevante, nella definizione di politiche per i migranti alternative a quelle oggi vigenti in Italia, con connotati particolarmente razzisti, e, più in generale, in Europa, riguarda l’elaborazione di un nuovo concetto di cittadinanza, per cui si è cittadini (di uno stato, di un’unione di stati) in quanto si vive in un determinato territorio e non più per “jus sanguinis”, con le conseguenze che ne derivano sul piano dei diritti politici, civili, sociali.

   Questa indicazione vale, ovviamente, per il processo di individuazione del cittadino europeo, nell’ambito della fase costituente dell’Europa, ma deve anche essere al centro delle concrete iniziative a livello di ogni singolo stato e quindi, per quel che ci riguarda, nello sviluppo dell’azione volta a contrastare le conseguenze nefaste della legge Bossi-Fini ed a creare le premesse per un futuro progetto migranti effettivamente basato su principi di convivenza e sui diritti di cittadinanza.

   Perciò ci soffermiamo su alcuni punti (il trasferimento di competenze in materia di soggiorno dalle questure agli enti locali; l’attribuzione della residenza ai cosiddetti senza dimora; il sostegno alle varie forme di aggregazione e di socializzazione dei migranti; la partecipazione delle cittadine e dei cittadini immigrati alla vita democratica; la tutela dei diritti sociali fondamentali) che riteniamo molto importanti per la costruzione della cittadinanza civile e sociale del migrante e che possono vedere un protagonismo positivo degli enti locali, oltre che un ruolo di denuncia, di stimolo, di proposta dei movimenti  presenti a livello territoriale. È su contenuti del genere, fra l’altro, che si basa, nella parte dedicata alla città dell’accoglienza e delle differenze, il lavoro in progress che scaturisce dalla Carta del Nuovo Municipio, progetto – elaborato dal Laboratorio di Progettazione Ecologica degli Insediamenti dell’Università di Firenze e da un gruppo di docenti di varie Università, sottoscritto da molti amministratori ed esponenti dell’associazionismo, presentato al Forum Sociale di Porto Alegre nel 2002 – di una nuova municipalità che sostenga, dal basso, la globalizzazione dei diritti, in contrapposizione ai processi globalizzanti imposti, dall’alto, ad opera delle multinazionali e dei poteri forti mondiali.

 

Il trasferimento di competenze in materia di soggiorno dalle questure agli enti locali

   Una delle differenze più evidenti fra un italiano ed un migrante, sul piano della cittadinanza civile, è data dal diverso livello amministrativo-istituzionale a cui l’uno e l’altro devono rivolgersi per legittimare la propria permanenza su un determinato territorio, per ricevere documenti essenziali, per avere un primo contatto con le istituzioni: il primo si rivolge al Comune, e cioè all’articolazione democratica dello Stato più vicina al cittadino, mentre il secondo ha l’obbligo di rapportarsi, al fine di ottenere il permesso di soggiorno, con la Questura, struttura a cui è demandato il compito di tutelare l’ordine.

   Ciò ha contribuito, e contribuisce, al diffondersi di quel senso comune che ha individuato nell’immigrazione un problema più che altro di ordine pubblico, con la conseguente costruzione di normative mirate, in primo luogo, a contenerla ed a reprimerla. Il migrante, in un immaginario ampiamente alimentato dagli allarmismi dei media, ha come principali interlocutori gli organi di polizia, proprio perché potenzialmente pericoloso e da tenere quindi sotto controllo.

   È sulla base di queste considerazioni che la Rete Antirazzista aveva promosso, alcuni anni fa, una campagna, ed una raccolta di firme per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare, finalizzate al trasferimento di competenze in materia di soggiorno dalle questure agli enti locali. La non adesione alla campagna delle principali forze politiche e sindacali, che comportò poi il suo fallimento, derivava essenzialmente dal timore che in tal modo si potessero mettere le sorti dei migranti nelle mani di sindaci xenofobi e razzisti. Inutilmente la Rete replicò che le regole per il rilascio del soggiorno venivano comunque fissate a livello nazionale e che, in ogni caso, i comportamenti di un’amministrazione locale erano più controllabili, da parte delle opposizioni e delle forze sociali, di quanto non lo fossero quelli di una questura.

   Gli eventi successivi hanno ampiamente smentito chi riteneva più opportuno affidarsi ad un Ministro degli Interni fermamente deciso a coniugare “solidarietà e rigore” (Giorgio Napolitano) piuttosto che “investire” in un processo di crescita democratica dell’intero Paese, da sviluppare tramite il trasferimento di competenze sul soggiorno ed un confronto politico-culturale diffuso, relativo al tema immigrazione, in grado di contrastare il clima crescente di chiusura e di intolleranza. Le vie “solidali e rigorose” della legge Turco-Napolitano sono state la premessa alla profonda involuzione attuale (oggi gli xenofobi e razzisti, oltre che sindaci, sono ministri e fanno leggi volte a smantellare la Costituzione).

   Occorre quindi rilanciare l’obiettivo del trasferimento in questione ripartendo dal basso, dalle realtà locali, e ponendolo all’interno di piattaforme più ampie, su cui va ricercata un’ampia convergenza di forze e di consensi.       

 

L’attribuzione della residenza ai cosiddetti senza fissa dimora

   Ottenere la residenza in un determinato comune, con la relativa iscrizione anagrafica, risulta indispensabile al fine di poter accedere a servizi essenziali ed esercitare alcuni diritti (ad esempio, per iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale).

   Non riescono, di solito, ad ottenere la residenza, oltre a chi fa la scelta di non avere una dimora fissa, coloro che dimorano in strutture precarie, presso affittacamere, o comunque in locali i cui proprietari rifiutano agli affittuari la qualifica di residenti (temendo di attribuire loro un dato di stabilità, che invece intendono negare, o perché l’affitto è “al nero”). A trovarsi in queste condizioni sono, in larga parte, gli immigrati, che hanno quindi un ulteriore ostacolo ad accedere a servizi, ai quali pure avrebbero diritto.

   Si tratta di situazioni che non spariranno di colpo con la nuova legge – sulla base dei criteri di estremo rigore, o, per meglio dire, di estrema “cattiveria”, relativi alle abitazioni, che devono avere ben precise caratteristiche e di cui i migranti devono dimostrare la disponibilità al momento del rilascio del permesso di soggiorno (con la configurazione quindi di intralci spesso insormontabili al conseguimento della regolarizzazione e/o lo sviluppo del mercato delle certificazioni false) –, che riguardano molte persone già presenti regolarmente in Italia e molti di quelli che arriveranno, in quanto non verrà certo cancellata definitivamente la mobilità da un territorio ad un altro, da un lavoro ad un altro, da una condizione abitativa ad un’altra.

   In alcuni comuni – troppo pochi, per la verità – si sono attuate misure finalizzate al riconoscimento della residenza a quanti risultano ufficialmente privi di una dimora stabile, utilizzando, in certi casi (a Firenze, ad esempio), la mediazione delle associazioni disponibili, presso le cui sedi vengono anagraficamente iscritti come residenti i cosiddetti “senza fissa dimora”.

   Tali esperienze sono attualmente bloccate e poste sotto accusa. Andrebbero difese, rilanciate, sviluppate in altre realtà, perché alla loro esistenza è strettamente collegato, come si è accennato in precedenza, l’esercizio effettivo di alcuni diritti di cittadinanza.

    

Il sostegno alle varie forme di aggregazione e di socializzazione dei migranti

   Le possibilità per i migranti di esercitare un ruolo nel contesto sociale e culturale in cui sono inseriti sono strettamente collegate ad occasioni concrete di aggregazione e di socializzazione, nelle forme – etniche, interetniche, su basi religiose etc. – che i migranti stessi individuano e scelgono.

   Ciò significa che a livello locale va dato, da parte delle istituzioni e della società civile, il massimo sostegno alle diverse realtà dell’immigrazione che si organizzano per esercitare attività di tutela e di mutuo soccorso, per promuovere iniziative ricreative e culturali, per avviare rapporti vertenziali con i vari livelli istituzionali. Si tratta di mettere a disposizione strutture e spazi, di favorire la produzione di strumenti informativi auto-gestiti, di costruire punti di incontro e di confronto (in modo che la vita culturale e sociale delle cittadine e dei cittadini immigrati non si sviluppi in forme “ghettizzate”, o comunque separate, ma si abbiano invece dei positivi intrecci, con i conseguenti “metissages”, o “meticciati”, fra le diverse “differenze” ed anche, su molti terreni, impegni comuni).

 La stessa vita democratica risulta infatti a rischio se una parte di cittadinanza è tagliata fuori in partenza da ogni possibilità di partecipazione e di intervento.

   Tanto più bisogna operare in una direzione del genere nella situazione attuale, in cui la legislazione nazionale e la volontà politica della maggioranza tendono a ridurre a braccia “usa e getta” le persone che provengono da altri Paesi.

 

La partecipazione delle cittadine e dei cittadini immigrati alla vita democratica

   Il diritto all’elettorato attivo e passivo, da parte dei migranti, costituisce un obiettivo fondamentale per dare pienezza alla loro condizione di cittadini. Per quanto riguarda le elezioni amministrative è riconosciuto da convenzioni internazionali (la Convenzione di Strasburgo), di cui però l’Italia non ha ancora ratificato il punto specifico relativo al diritto di voto.

   Mentre occorre quindi riproporre con forza questo aspetto essenziale nell’ambito della vertenza generale immigrazione e della lotta contro la legge Bossi-Fini (esaminando attentamente, nel contempo, la possibilità di inserire i migranti come elettori nei nuovi statuti regionali), vanno anche sperimentate, a livello locale, forme di partecipazione delle cittadine e dei cittadini immigrati alla vita delle istituzioni democratiche a più diretto contatto con la popolazione, e cioè i consigli di quartiere, i comuni, le province. Esistono già esperienze, per quanto limitate, di rappresentanze dei migranti direttamente elette dagli stessi (i consiglieri stranieri aggiunti, i consigli degli stranieri), che hanno sostituito – stanno sostituendo – le consulte previste dalla legge Martelli, dai risultati piuttosto fallimentari.

   È necessario rilanciare l’iniziativa su questo piano, partendo proprio da tali esperienze.

   Le caratteristiche principali delle forme di rappresentanza qui citate sono essenzialmente due, oltre ovviamente al fatto dell’elezione diretta:

n   vi è un punto di contatto con le normali istanze elettive (consigli circoscrizionali o comunali o provinciali) in quanto i consiglieri stranieri aggiunti, oppure i delegati dei consigli degli stranieri, partecipano alle riunioni consiliari con diritto di parola;

n   si esprimono su tutto ciò che rientra nelle competenze dell’ente e non solo sulla materia immigrazione, come nelle vecchie consulte.

  Vanno garantiti inoltre ai migranti, negli statuti degli enti locali (in parte lo si è fatto e lo si sta facendo),  tutti i diritti – di accesso ai servizi, alle informazioni, agli atti; di partecipazione; di voto nei referendum – attribuiti agli autoctoni.

   Esistono anche, in ambito provinciale, i Consigli territoriali per l’immigrazione, previsti dalla legge Turco - Napolitano con compiti di coordinamento e di programmazione degli interventi indirizzati ai migranti. Ne fanno parte i rappresentanti di istituzioni, realtà del volontariato, forze economiche e sociali, associazionismo degli immigrati. La conduzione prefettizia di tali organismi li ha portati, nella maggior parte dei casi, ad occuparsi di questioni emergenziali e di ordine pubblico. Quasi mai, comunque, hanno avuto un ruolo programmatico. Impossibile prevederne un rilancio in questo senso nella situazione odierna.

 

La tutela dei diritti sociali fondamentali

   Va ricordato innanzitutto che anche con la nuova legge sull’immigrazione rimane in vigore la parte, largamente inapplicata, della normativa del 1998 relativa ai processi d’inserimento e di integrazione sociale dei migranti.

   Restano validi, fra l’altro, gli articoli riguardanti il diritto alla salute e, per i minori, all’istruzione, che risultano prioritari rispetto alla condizione giuridica dello straniero – della straniera – che ha bisogno di cure o che chiede di frequentare la scuola.

   In proposito sottolineiamo che permane quindi l’obbligo dell’iscrizione alle scuole elementari e medie degli immigrati minorenni, pur se irregolari, e dell’effettuazione, da parte delle strutture pubbliche, degli interventi sanitari necessari – quelli previsti dalla legge – nei confronti di persone sprovviste di regolare permesso di soggiorno, senza che ciò comporti la denuncia delle stesse alle autorità di polizia (e con l’ente Regione che si fa carico dei relativi costi).

   Movimenti ed istituzioni locali dovranno compiere al riguardo un’attenta e continua azione di monitoraggio, rivolta alle scuole, alle aziende sanitarie, a quelle ospedaliere, che riceveranno indubbiamente solleciti ed indicazioni, anche autorevoli, di carattere opposto: si sono già avuti esempi in tal senso, e cioè richieste ai medici di elenchi di immigrati irregolari sottoposti alle loro cure.

   Particolare attenzione dovrà essere rivolta alla situazione dei minori in stato di abbandono, per i quali la normativa non prevede l’espulsione, ma la promozione di percorsi protetti di inserimento scolastico, di formazione, di avvio al lavoro, con l’eventualità anche di un ritorno al Paese di provenienza, ma a conclusione di iniziative di ricerca, relative alla famiglia, e di progetti formativi. Attualmente si tende sempre più frequentemente a provvedere al loro rimpatrio, ignorando i percorsi e le possibilità a cui abbiamo accennato in precedenza.

   Sempre di più, inoltre, andrà sviluppata l’azione propositiva e vertenziale riguardante l’eliminazione delle barriere che ostacolano l’accesso dei migranti ai servizi, agli uffici pubblici, al lavoro, in modo da dare loro pari opportunità.

   Si tratta:

·    di produrre informazione, possibilmente in più lingue;

n   di attivare forme di interpretariato sociale e di mediazione linguistico-culturale;

n   di aprire alle cittadine ed ai cittadini immigrati le graduatorie per le case dell’edilizia economica e popolare e per gli asili nido;

n   di garantire loro le misure di assistenza sociale quando ciò si rende necessario;

n   di dare avvio ad iniziative di sostegno e di intermediazione nel settore degli alloggi – vedi le agenzie casa –, valide per tutti coloro, italiani e stranieri, che ne hanno bisogno;

n   di promuovere attività formativa in grado di ampliare e di qualificare le possibilità di sbocchi occupazionali dei migranti.

   Quanto qui sommariamente elencato si collega strettamente, infine, a punti trattati in altre parti di questa pubblicazione, e cioè:

– ai progetti di accoglienza per i richiedenti asilo e per i profughi, che occorrerà sviluppare dal basso, dalle realtà locali, essendo quasi del tutto annullati a livello centrale;

– agli interventi contro le discriminazioni, con osservatori e centri di sostegno legale diffusi sul territorio;

– al movimento contro i centri di permanenza temporanea, o centri di detenzione.