Un aspetto
rilevante, nella definizione di politiche per i migranti alternative a quelle
oggi vigenti in Italia, con connotati particolarmente razzisti, e, più
in generale, in Europa, riguarda l’elaborazione di un nuovo concetto di
cittadinanza, per cui si è cittadini (di uno stato, di un’unione di stati) in quanto
si vive in un determinato territorio e non più per “jus
sanguinis”, con le conseguenze che ne derivano sul piano dei diritti
politici, civili, sociali.
Questa indicazione
vale, ovviamente, per il processo di individuazione del cittadino europeo, nell’ambito della fase costituente
dell’Europa, ma deve anche essere al centro delle concrete iniziative a
livello di ogni singolo stato e quindi, per quel che ci riguarda, nello
sviluppo dell’azione volta a contrastare le conseguenze nefaste della
legge Bossi-Fini ed a creare le premesse per un futuro progetto migranti effettivamente basato su principi di
convivenza e sui diritti di cittadinanza.
Perciò ci
soffermiamo su alcuni punti (il trasferimento di competenze in materia di
soggiorno dalle questure agli enti locali; l’attribuzione della residenza
ai cosiddetti senza dimora; il sostegno alle varie forme di aggregazione e di
socializzazione dei migranti; la partecipazione delle cittadine e dei cittadini
immigrati alla vita democratica; la tutela dei diritti sociali fondamentali)
che riteniamo molto importanti per la costruzione della cittadinanza civile e
sociale del migrante e che possono vedere un protagonismo positivo degli enti
locali, oltre che un ruolo di denuncia, di stimolo, di proposta dei
movimenti presenti a livello
territoriale. È su contenuti del genere, fra l’altro, che si basa,
nella parte dedicata alla città dell’accoglienza e delle
differenze, il lavoro in progress che scaturisce dalla Carta del Nuovo
Municipio, progetto – elaborato dal Laboratorio di Progettazione Ecologica
degli Insediamenti dell’Università di Firenze e da un gruppo di
docenti di varie Università, sottoscritto da molti amministratori ed esponenti
dell’associazionismo, presentato al Forum Sociale di Porto Alegre nel 2002 – di
una nuova municipalità che sostenga, dal basso, la globalizzazione dei
diritti, in contrapposizione ai processi globalizzanti imposti,
dall’alto, ad opera delle multinazionali e dei poteri forti mondiali.
Il trasferimento di competenze in materia di soggiorno dalle
questure agli enti locali
Una delle
differenze più evidenti fra un italiano ed un migrante, sul piano della
cittadinanza civile, è data dal diverso livello
amministrativo-istituzionale a cui l’uno e l’altro devono
rivolgersi per legittimare la propria permanenza su un determinato territorio,
per ricevere documenti essenziali, per avere un primo contatto con le
istituzioni: il primo si rivolge al Comune, e cioè
all’articolazione democratica dello Stato più vicina al cittadino,
mentre il secondo ha l’obbligo di rapportarsi, al fine di ottenere il
permesso di soggiorno, con la Questura, struttura a cui è demandato il
compito di tutelare l’ordine.
Ciò ha
contribuito, e contribuisce, al diffondersi di quel senso comune che ha
individuato nell’immigrazione un problema più che altro di ordine
pubblico, con la conseguente costruzione di normative mirate, in primo luogo, a
contenerla ed a reprimerla. Il migrante, in un immaginario ampiamente
alimentato dagli allarmismi dei media, ha come principali interlocutori gli
organi di polizia, proprio perché potenzialmente pericoloso e da tenere
quindi sotto controllo.
È sulla base
di queste considerazioni che la Rete Antirazzista aveva promosso, alcuni anni
fa, una campagna, ed una raccolta di firme per la presentazione di una proposta
di legge di iniziativa popolare, finalizzate al trasferimento di competenze in
materia di soggiorno dalle questure agli enti locali. La non adesione alla
campagna delle principali forze politiche e sindacali, che comportò poi
il suo fallimento, derivava essenzialmente dal timore che in tal modo si
potessero mettere le sorti dei migranti nelle mani di sindaci xenofobi e
razzisti. Inutilmente la Rete replicò che le regole per il rilascio del
soggiorno venivano comunque fissate a livello nazionale e che, in ogni caso, i
comportamenti di un’amministrazione locale erano più controllabili,
da parte delle opposizioni e delle forze sociali, di quanto non lo fossero
quelli di una questura.
Gli eventi
successivi hanno ampiamente smentito chi riteneva più opportuno
affidarsi ad un Ministro degli Interni fermamente deciso a coniugare
“solidarietà e rigore” (Giorgio Napolitano) piuttosto che
“investire” in un processo di crescita democratica
dell’intero Paese, da sviluppare tramite il trasferimento di competenze
sul soggiorno ed un confronto politico-culturale diffuso, relativo al tema
immigrazione, in grado di contrastare il clima crescente di chiusura e di
intolleranza. Le vie “solidali e rigorose” della legge
Turco-Napolitano sono state la premessa alla profonda involuzione attuale (oggi
gli xenofobi e razzisti, oltre che sindaci, sono ministri e fanno leggi volte a
smantellare la Costituzione).
Occorre quindi
rilanciare l’obiettivo del trasferimento in questione ripartendo dal
basso, dalle realtà locali, e ponendolo all’interno di piattaforme
più ampie, su cui va ricercata un’ampia convergenza di forze e di
consensi.
L’attribuzione della residenza ai cosiddetti senza fissa
dimora
Ottenere la residenza in un determinato
comune, con la relativa iscrizione anagrafica, risulta indispensabile al fine
di poter accedere a servizi essenziali ed esercitare alcuni diritti (ad
esempio, per iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale).
Non riescono, di
solito, ad ottenere la residenza, oltre a chi fa la scelta di non avere una
dimora fissa, coloro che dimorano in strutture precarie, presso affittacamere,
o comunque in locali i cui proprietari rifiutano agli affittuari la qualifica
di residenti (temendo di attribuire loro un dato di stabilità, che
invece intendono negare, o perché l’affitto è “al
nero”). A trovarsi in queste condizioni sono, in larga parte, gli
immigrati, che hanno quindi un ulteriore ostacolo ad accedere a servizi, ai
quali pure avrebbero diritto.
Si tratta di
situazioni che non spariranno di colpo con la nuova legge – sulla base
dei criteri di estremo rigore, o, per meglio dire, di estrema
“cattiveria”, relativi alle abitazioni, che devono avere ben
precise caratteristiche e di cui i migranti devono dimostrare la
disponibilità al momento del rilascio del permesso di soggiorno (con la
configurazione quindi di intralci spesso insormontabili al conseguimento della
regolarizzazione e/o lo sviluppo del mercato delle certificazioni false)
–, che riguardano molte persone già presenti regolarmente in
Italia e molti di quelli che arriveranno, in quanto non verrà certo
cancellata definitivamente la mobilità da un territorio ad un altro, da
un lavoro ad un altro, da una condizione abitativa ad un’altra.
In alcuni comuni
– troppo pochi, per la verità – si sono attuate misure
finalizzate al riconoscimento della residenza a quanti risultano ufficialmente
privi di una dimora stabile, utilizzando, in certi casi (a Firenze, ad
esempio), la mediazione delle associazioni disponibili, presso le cui sedi
vengono anagraficamente iscritti come residenti i cosiddetti “senza fissa
dimora”.
Tali esperienze
sono attualmente bloccate e poste sotto accusa. Andrebbero difese, rilanciate,
sviluppate in altre realtà, perché alla loro esistenza è
strettamente collegato, come si è accennato in precedenza,
l’esercizio effettivo di alcuni diritti di cittadinanza.
Il sostegno alle varie forme di aggregazione e di socializzazione
dei migranti
Le
possibilità per i migranti di esercitare un ruolo nel contesto sociale e
culturale in cui sono inseriti sono strettamente collegate ad occasioni
concrete di aggregazione e di socializzazione, nelle forme – etniche,
interetniche, su basi religiose etc. – che i migranti stessi individuano
e scelgono.
Ciò
significa che a livello locale va dato, da parte delle istituzioni e della
società civile, il massimo sostegno alle diverse realtà
dell’immigrazione che si organizzano per esercitare attività di
tutela e di mutuo soccorso, per promuovere iniziative ricreative e culturali,
per avviare rapporti vertenziali con i vari livelli istituzionali. Si tratta di
mettere a disposizione strutture e spazi, di favorire la produzione di
strumenti informativi auto-gestiti, di costruire punti di incontro e di
confronto (in modo che la vita culturale e sociale delle cittadine e dei
cittadini immigrati non si sviluppi in forme “ghettizzate”, o
comunque separate, ma si abbiano invece dei positivi intrecci, con i
conseguenti “metissages”,
o “meticciati”, fra le diverse “differenze” ed anche,
su molti terreni, impegni comuni).
La stessa vita democratica
risulta infatti a rischio se una parte di cittadinanza è tagliata fuori
in partenza da ogni possibilità di partecipazione e di intervento.
Tanto più
bisogna operare in una direzione del genere nella situazione attuale, in cui la
legislazione nazionale e la volontà politica della maggioranza tendono a
ridurre a braccia “usa e getta” le persone che provengono da altri
Paesi.
La partecipazione delle cittadine e dei cittadini immigrati alla
vita democratica
Il diritto
all’elettorato attivo e passivo, da parte dei migranti, costituisce un
obiettivo fondamentale per dare pienezza alla loro condizione di cittadini. Per
quanto riguarda le elezioni amministrative è riconosciuto da convenzioni
internazionali (la Convenzione di Strasburgo), di cui però
l’Italia non ha ancora ratificato il punto specifico relativo al diritto
di voto.
Mentre occorre
quindi riproporre con forza questo aspetto essenziale nell’ambito della
vertenza generale immigrazione e della lotta contro la legge Bossi-Fini
(esaminando attentamente, nel contempo, la possibilità di inserire i
migranti come elettori nei nuovi statuti regionali), vanno anche sperimentate,
a livello locale, forme di partecipazione delle cittadine e dei cittadini
immigrati alla vita delle istituzioni democratiche a più diretto contatto
con la popolazione, e cioè i consigli di quartiere, i comuni, le
province. Esistono già esperienze, per quanto limitate, di
rappresentanze dei migranti direttamente elette dagli stessi (i consiglieri
stranieri aggiunti, i
consigli degli stranieri),
che hanno sostituito – stanno sostituendo – le consulte previste
dalla legge Martelli, dai risultati piuttosto fallimentari.
È necessario
rilanciare l’iniziativa su questo piano, partendo proprio da tali
esperienze.
Le caratteristiche
principali delle forme di rappresentanza qui citate sono essenzialmente due,
oltre ovviamente al fatto dell’elezione diretta:
n
vi è un
punto di contatto con le normali istanze elettive (consigli circoscrizionali o
comunali o provinciali) in quanto i consiglieri stranieri aggiunti, oppure i
delegati dei consigli degli stranieri, partecipano alle riunioni consiliari con
diritto di parola;
n
si esprimono su
tutto ciò che rientra nelle competenze dell’ente e non solo sulla
materia immigrazione, come nelle vecchie consulte.
Vanno garantiti inoltre
ai migranti, negli statuti degli enti locali (in parte lo si è fatto e
lo si sta facendo), tutti i
diritti – di accesso ai servizi, alle informazioni, agli atti; di
partecipazione; di voto nei referendum – attribuiti agli autoctoni.
Esistono anche, in
ambito provinciale, i Consigli territoriali per l’immigrazione, previsti dalla legge Turco - Napolitano con compiti
di coordinamento e di programmazione degli interventi indirizzati ai migranti.
Ne fanno parte i rappresentanti di istituzioni, realtà del volontariato,
forze economiche e sociali, associazionismo degli immigrati. La conduzione
prefettizia di tali organismi li ha portati, nella maggior parte dei casi, ad
occuparsi di questioni emergenziali e di ordine pubblico. Quasi mai, comunque,
hanno avuto un ruolo programmatico. Impossibile prevederne un rilancio in
questo senso nella situazione odierna.
La tutela dei diritti sociali fondamentali
Va ricordato
innanzitutto che anche con la nuova legge sull’immigrazione rimane in
vigore la parte, largamente inapplicata, della normativa del 1998 relativa ai
processi d’inserimento e di integrazione sociale dei migranti.
Restano validi, fra
l’altro, gli articoli riguardanti il diritto alla salute e, per i minori,
all’istruzione, che risultano prioritari rispetto alla condizione
giuridica dello straniero – della straniera – che ha bisogno di
cure o che chiede di frequentare la scuola.
In proposito
sottolineiamo che permane quindi l’obbligo dell’iscrizione alle
scuole elementari e medie degli immigrati minorenni, pur se irregolari, e
dell’effettuazione, da parte delle strutture pubbliche, degli interventi
sanitari necessari – quelli previsti dalla legge – nei confronti di
persone sprovviste di regolare permesso di soggiorno, senza che ciò
comporti la denuncia delle stesse alle autorità di polizia (e con
l’ente Regione che si fa carico dei relativi costi).
Movimenti ed
istituzioni locali dovranno compiere al riguardo un’attenta e continua azione
di monitoraggio, rivolta alle
scuole, alle aziende sanitarie, a quelle ospedaliere, che riceveranno
indubbiamente solleciti ed indicazioni, anche autorevoli, di carattere opposto:
si sono già avuti esempi in tal senso, e cioè richieste ai medici
di elenchi di immigrati irregolari sottoposti alle loro cure.
Particolare attenzione dovrà
essere rivolta alla situazione dei minori in stato di abbandono, per i quali la
normativa non prevede l’espulsione, ma la promozione di percorsi protetti
di inserimento scolastico, di formazione, di avvio al lavoro, con l’eventualità
anche di un ritorno al Paese di provenienza, ma a conclusione di iniziative di
ricerca, relative alla famiglia, e di progetti formativi. Attualmente si tende
sempre più frequentemente a provvedere al loro rimpatrio, ignorando i
percorsi e le possibilità a cui abbiamo accennato in precedenza.
Sempre di
più, inoltre, andrà sviluppata l’azione propositiva e
vertenziale riguardante l’eliminazione delle barriere che ostacolano
l’accesso dei migranti ai servizi, agli uffici pubblici, al lavoro, in
modo da dare loro pari opportunità.
Si tratta:
·
di produrre
informazione, possibilmente in più lingue;
n
di attivare
forme di interpretariato sociale e di mediazione linguistico-culturale;
n
di aprire alle
cittadine ed ai cittadini immigrati le graduatorie per le case
dell’edilizia economica e popolare e per gli asili nido;
n
di garantire
loro le misure di assistenza sociale quando ciò si rende necessario;
n
di dare avvio ad
iniziative di sostegno e di intermediazione nel settore degli alloggi –
vedi le agenzie casa –, valide per tutti coloro, italiani e stranieri,
che ne hanno bisogno;
n
di promuovere
attività formativa in grado di ampliare e di qualificare le
possibilità di sbocchi occupazionali dei migranti.
Quanto qui
sommariamente elencato si collega strettamente, infine, a punti trattati in
altre parti di questa pubblicazione, e cioè:
– ai progetti di accoglienza per i richiedenti asilo e per i
profughi, che occorrerà sviluppare dal basso, dalle realtà
locali, essendo quasi del tutto annullati a livello centrale;
– agli interventi contro le discriminazioni, con osservatori e
centri di sostegno legale diffusi sul territorio;
– al movimento contro i centri di permanenza temporanea, o centri
di detenzione.