(Sergio Briguglio 20/9/2002)

 

ACCESSO AL PERMESSO PER LAVORO

 

La situazione attuale

 

 

Dal 1986 a oggi, le norme a regime sull’immigrazione hanno limitato quasi completamente l’accesso al permesso di soggiorno per lavoro degli stranieri ai casi in cui fosse possibile dimostrare l’esistenza preventiva di un contratto di lavoro (chiamata nominativa, oggi contratto di soggiorno). Un dispositivo di questo genere tiene in scarsa considerazione la necessita’ di incontro diretto tra datore di lavoro e lavoratore ai fini della nascita del rapporto di lavoro – necessita’ particolarmente avvertita per la grande maggioranza dei settori in cui trovano inserimento gli immigrati.

 

Negli anni dal 1986 al 2000, essendo inutile aspettare in patria una chiamata nominativa, e non essendovi che consentissero una efficace ricerca di lavoro sul posto, i lavoratori stranieri che aspiravano a un inserimento lavorativo in Italia si son visti costretti a fare comunque ingresso in Italia, con visti di breve durata (per turismo, visita, etc.) o clandestinamente. Una volta instaurato (senza eccessiva difficolta’, ma in condizioni illegali) un rapporto di lavoro, la legalizzazione della posizione degli immigrati e’ stata spesso affidata a un uso improprio della procedura di chiamata nominativa, a valle di un temporaneo rimpatrio del lavoratore. Questo meccanismo, tuttavia,

 

a)           ha dato luogo ad uno spreco di risorse e di tempo (per il rimpatrio del lavoratore);

 

b)           ha condizionato l’accesso ad un soggiorno legale stabile in Italia all’attraversamento di una fase comunque illegale;

 

c)            ha lasciato in condizione illegale tutti quei lavoratori il cui datore di lavoro non fosse fortemente intenzionato a ripristinare la condizione di legalita’.

 

Quest’ultimo punto, in particolare, ha fatto si’ che anche sul piano dell’efficacia il meccanismo si rivelasse largamente insufficiente. Nonostante, infatti, nel decennio 1986-1996 non fossero stati posti limiti numerici sulle chiamate nominative (cosa che avrebbe consentito un uso generalizzato del meccanismo descritto), una larghissima porzione di coloro che, di fatto, avevano trovato lavoro in Italia non ha avuto modo di avvalersene e ha dovuto invece affidarsi ai vari provvedimenti di sanatoria per approdare a una condizione di soggiorno legale (oltre 600.000 in quel decennio, a fronte di cira 200.000 chiamate nominative).

 

Una importante, ma limitatissima, eccezione si e’ avuta, nel 2000 e nel 2001, con l’ammissione di 15.000 lavoratori per anno per inserimento nel mercato del lavoro – un anno di ricerca di lavoro legale sul posto protetta da un garante (sponsor) disposto a farsi carico del sostentamento dello straniero fino a inserimento avvenuto e delle spese di rimpatrio in caso di insuccesso. Questa modalita’ di ingresso, tuttavia, e’ stata abolita con l’entrata in vigore della Legge 189/2002.

 

 

La riforma dell’accesso al lavoro

 

Per uscire dai limiti di un quadro normativo che non puo’ che riprodurre i guasti registrati dal 1986 a oggi, soprattutto in relazione all’alto tasso di illegalita’ (forzata) del flusso migratorio in Italia, e’ necessario introdurre nuove disposizioni efficaci nel consentire l’incontro diretto tra datore di lavoro e lavoratore. Il modo piu’ semplice per costruire questa riforma puo’ essere quello di dare una veste pienamente legale ai meccanismi informali che hanno assicurato, in questi anni, l’inserimento di manodopera immigrata nel mercato del lavoro, depurandoli, con opportuni accorgimenti, degli effetti collaterali indesiderati. In questa linea, la scelta piu’ opportuna (nella quale potrebbe trovare spazio anche il ripristino delle norme sulla sponsorizzazione) sembra quella di consentire che a un permesso di soggiorno per lavoro possano accedere, in presenza di una opportunita’ di lavoro sufficientemente solida, gli stranieri presenti in Italia legalmente ad altro titolo, anche se relativo a soggiorni di breve durata, quali quelli per turismo.

 

Una previsione di questo genere lascerebbe inalterati i requisiti richiesti per il rilascio dei visti di breve durata e dei corrispondenti permessi di soggiorno. L’ingresso sarebbe consentito solo a condizione che sia dimostrata la disponibilita’ di risorse sufficienti per il periodo si soggiorno autorizzato. Anche da un punto di vista numerico, il flusso aggiuntivo per soggiorni di breve durata non presenterebbe, probabilmente, aumenti molto rilevanti, dal momento che la componente di “turisti” in cerca di lavoro (gia’ in parte presente, per quanto detto in precedenza) si mimetizzerebbe facilmente in un flusso complessivo che gia’ oggi corrisponde al rilascio di circa 400.000 visti per anno (con una punta di 600.000 nel 1999).

 

In considerazione del fatto che la ricerca di un’occupazione stabile potrebbe richiedere, in molti casi, piu’ dei tre mesi (o del periodo piu’ breve di soggiorno) inizialmente autorizzati, e allo scopo di evitare che un pieno inserimento continui ad essere condizionato all’attraversamento di un periodo di permanenza e/o lavoro illegale, si dovrebbe permettere allo straniero in cerca di inserimento

 

a)  di esercitare legalmente attivita’ di lavoro saltuario;

 

b)  di rinnovare i permessi di soggiorno di breve durata alle stesse condizioni stabilite per il rilascio.

 

Lo straniero avrebbe cosi’ la possibilita’ di cercare un’occupazione relativamente stabile per un periodo della durata necessaria, a condizione che sia in grado di dimostrare periodicamente la capacita’ di mantenersi per i mesi successivi.[1]

 

In presenza di questa opportunita’ di accesso al permesso di soggiorno per lavoro, l’altro canale informale fino ad oggi utilizzato (quello basato su un ingresso clandestino) perderebbe gran parte delle proprie ragioni di esistenza, con un grande beneficio sul versante del contrasto dell’immigrazione illegale. Inoltre, si potrebbe fare completamente a meno della cosiddetta programmazione dei flussi (la definizione di quote massime di ingressi per lavoro), che si e’ dimostrata, in questi anni, una inutile intromissione del potere statale nel mercato del lavoro.[2] Sarebbe infine eliminato lo spreco di risorse associato all’inutile rientro in patria di un lavoratore che ha gia’ tutti i requisiti per essere autorizzato a soggiornare come tale.

 

 

Le possibili obiezioni e i rimedi relativi

 

Si puo’ obiettare che la proposta fin qui delineata, benche’ efficace nel ridurre il fenomeno dell’immigrazione originariamente clandestina, non sia in grado di evitare il rischio di una transizione all’illegalita’ nei casi in cui, prima del reperimento di un adeguato inserimento lavorativo, lo straniero si trovi nell’impossibilita’ di ottenere il prolungamento legale del periodo di ricerca di lavoro (il rinnovo del permesso). Resterebbe cosi’ irrisolto il problema dei costi e delle difficolta’ associati all’espulsione degli stranieri in posizione illegale.

 

Per rispondere a questa obiezione e’ necessario realizzare due condizioni, entrambe necessarie a che il provvedimento di allontanamento dello straniero non autorizzato a restare in Italia risulti facilmente attuabile (una volta esaurite – s’intende – tutte le forme dovute di tutela giurisdizionale): una piena certezza, all’occorrenza, su identita’ e nazionalita’ dello straniero e la disponibilita’ di risorse che non facciano gravare il suo allontanamento sulla spesa pubblica. A questo scopo e’ sufficiente prevedere che lo straniero depositi, in ingresso

 

a)           copia del passaporto ed elementi identificativi certi che consentano di attribuire in qualunque momento, anche alla persona che abbia, in seguito, nascosto o distrutto i documenti, la corretta identita’;

 

b)           un biglietto “aperto” per l’eventuale rimpatrio (o l’equivalente in denaro o sotto forma di fidejussione).

 

Quanto agli elementi identificativi certi, essi possono essere di diversa natura. Laddove, tuttavia, la normativa gia’ preveda, sia pure per ragioni diverse, il rilevamento di un tipo particolare di elemento (es.: le impronte digitali), puo’ essere opportuno avvalersi della rilevazione gia’ esistente, senza doverne introdurre di nuove. In mancanza di una rilevazione generalizzata, essa potrebbe essere riservata a coloro che la chiedano, su base volontaria, per accedere alla prorogabilita’ dei permessi di breve durata e all’eventuale rilascio sul posto del permesso per lavoro. Effettuata su base volontaria, essa perderebbe ogni valenza discriminatoria, cosi’ come non risulta discriminatorio il rilevamento, previsto dalla normativa europea, delle impronte del richiedente asilo.

 

 



[1] Si noti che un dispositivo di ingresso di questo genere e’ stato adottato, sia pure in forma sperimentale, sulla base dell’art. 23, co. 4 del Testo unico sull’immigrazione (poi abrogato dalla Legge 189/2002): nel 2000 e nel 2001 sono stati autorizzati ingressi per ricerca di lavoro di lavoratori albanesi, tunisini e marocchini iscritti in liste di prenotazione e capaci di dimostrare di poter provvedere al proprio sostentamento. Nel 2001, ad esempio, sono entrati per questa via 3568 lavoratori da quei paesi.

[2] L’imposizione di quote massime potrebbe mantenere una sua ragion d’essere quale misura atta a tener conto di eventuali limiti nella capacita’ di accoglienza della societa’. Il rischio, invece, che una sostanziale liberalizzazione degli ingressi di stranieri in cerca di lavoro si traduca in un danno eccessivo per i disoccupati residenti potrebbe essere scongiurato imponendo, tra le condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro, l’accertamento di indisponibilita’ – per un tempo limitato – di manodopera residente.