I Colori degli Scenari Migranti al Femminile

 

 

 

 

 

     Indice……………………………………………………………………………………….……   I

 

1       Un tracciato per conoscere:

 Spunto e disegno di una ricerca empirica ……….…………   1

 

1.1   Note strutturali e metodologiche …………….……………….…   3

 

2.   Uno sguardo ai fenomeni migratori ………………….……..….   5

 

3.   Le narrazioni di un percorso ……………..… ……………………….  11

 

3.1  Raccontarsi al passato ………………………………………………………  12

3.2  L'evocazione del viaggio ……………………………………………………  20

3.3  Rappresentarsi al presente ………………………………………..….  30

 

4.   Possibilità …..………………………………………..……………………………………  40

 

Bibliografia …………..………………………………………………………….…………  42

 

 

 

 

 

 

 

Trento, dicembre 1999                                             Barbara Bastarelli

 

 

 

 

UN TRACCIATO PER CONOSCERE:

SPUNTO E DISEGNO DI UNA RICERCA EMPIRICA

 

 

Se si assume l'appartenenza di genere - essere donna o essere uomo - come inalienabile realtà costitutiva d'ogni attore sociale, il sondare la realtà immigratoria coniugandola al femminile comporta, inevitabilmente, definire le dinamiche della migrazione come eventi cesellati nel cono dell'appartenenza.

Sebbene le variabili intervenienti nei fenomeni migratori - siano esse economiche, sociali o culturali - segnino i limiti o le potenzialità degli scambi fra culture, esse risentono, altresì, dei significati simbolici e dei ruoli ascritti dall'appartenenza sessuale degli attori coinvolti.

Tracciare i percorsi dell'esperienza migratoria delle donne alla luce di quanto testé ricordato ha significato, pertanto, intessere una relazione significativa fra donne, che nel tempo concesso da un'intervista in profondità ha tentato di cogliere la cornice - culturale, relazionale, religiosa - di riferimento della donna migrante, la memoria del futuro immaginato, il bagaglio umano posseduto, le competenze professionali acquisite, la percezione di margini di libertà concessi nelle scelte compiute, l'importanza della complessa dimensione del bisogno, l'attribuzione di significati al lavoro, alla famiglia, al desiderio di riqualificazione o formazione professionale, alla ricerca di relazioni sociali significative.

La realizzazione del momento qualitativo appena descritto - aspetto centrale della ricerca - ha inevitabilmente comportato una fase propedeutica ricognitiva che, dalla letteratura prodotta e dai dati provinciali disponibili, ha cercato di individuare e approfondire le complesse dinamiche inerenti allo studio.

Il processo di conoscenza messo in atto dal presente lavoro, pur nell'evidente impossibilità di una sua generalizzazione all'eterogeneo universo migratorio femminile, potrà permettere di cogliere la presenza delle donne straniere nel territorio locale, per poter cominciare a riflettere sull'insieme interagente di aspettative, vissuti, strategie e bisogni manifestati dalle donne ponderando lo iato esistente fra tali aspettative e le opportunità e gli spazi concessi.

L'individuazione dei fattori costitutivi un processo d'integrazione non ancora sedimentato - terreno privilegiato dallo studio - veicola in sé un'ulteriore finalità della ricerca: ricavare spunti orientativi che potranno divenire elementi utili non solo nella pratica d'approccio alla realtà migratoria coniugata al femminile, ma anche come indicatori o informazioni propedeutiche per eventuali approfondimenti d'analisi o per mirati interventi formativi e culturali.

 

 

 

NOTE STRUTTURALI E METODOLOGICHE

 

 

La traccia dell'intervista è stata strutturata in modo da facilitare la pratica discorsiva nella narrazione del vissuto personale, con un'attenzione particolare ai significati simbolici e alle immagini sessuate di riferimento delle intervistate. Sono state pertanto condotte - da operatrici opportunamente preparate - interviste in profondità della durata media di circa sessanta minuti.

Al fine di non escludere a priori dal lavoro anche la testimonianza delle donne la cui padronanza della lingua italiana non si prestava a sostenere un articolato dialogo, il racconto di sé è stato, all'occorrenza, veicolato nella lingua madre delle intervistate.

Per non introdurre possibili elementi di distorsione nel lavoro si è evitato di intervistare donne attive e/o frequentanti il "Centro Interculturale delle Donne - Ujamaà", committente della ricerca.

 

Per poter cogliere gli elementi costitutivi, le dinamiche intervenienti e i vissuti personali in un processo di transizione/integrazione non ancora pienamente elaborato sono state raccolte venticinque testimonianze di donne con una "maturata esperienza temporale" di migrazione di breve/medio periodo (da uno ai tre/quattro anni).

Sebbene il lavoro abbia coinvolto anche donne non in possesso di regolare permesso di soggiorno e/o non ufficialmente residenti nella realtà provinciale, lo studio ha fatto riferimento alle caratteristiche socio-demografiche delle migranti regolarmente presenti, alla distribuzione territoriale delle stesse nella Provincia e alla categorizzazione espressa nelle motivazioni al rilascio dei permessi di soggiorno.[1]

Le macro aree di provenienza delle donne intervistate hanno riflesso - proporzionalmente - la presenza femminile extracomunitaria nel territorio trentino (con esclusione delle cittadine provenienti dal Nord-America e dai Paesi Europei Occidentali non comunitari), così com'è possibile dedurre dai dati forniti Servizio Statistica della P.A.T. al 31/12/'97.

Delle venticinque testimonianze complessivamente raccolte tredici provengono da donne originarie dell'Europa non comunitaria (nel dettaglio quattro ucraine, due rumene, una polacca, una bosniaca, una macedone, una kossovara e tre albanesi), cinque dal Maghreb (due marocchine, due tunisine e una algerina), una donna originaria del Camerun, quattro provenienti dal Centro-Sud America (Perù, Ecuador, Colombia, Brasile) e due asiatiche (una filippina e una tailandese).

 

 

UNO SGUARDO AI FENOMENI MIGRATORI

 

 

Paese a forte tendenza emigratoria, la nostra penisola comincia a conoscere una significativa esperienza immigratoria solo dai primi anni ottanta, a seguito delle politiche di controllo dei flussi immigratori messe in atto - con tempi e modalità diverse - dai Paesi dell'Europa centro-settentrionale.

Gli effetti della transizione delle società europee in una fase di post-industrializzazione - con processi di deindustrializzazione e terziarizzazione dell'economia - congiunti al progressivo collasso economico e sociale della quasi totalità dei Paesi del Sud del mondo, hanno indotto una caratterizzazione dei flussi migratori sempre più marcatamente mossi da forze espulsive «operanti nei paesi di esodo che non dalle forze di attrazione presenti nei paesi di approdo» (Melotti U.,1990, p.44).

Le "politiche di stop" dei Paesi di antica tradizione immigratoria e la nuova fisionomia dei flussi migratori hanno prodotto quindi, come inevitabile riflesso, l'estensione delle aree di approdo ai Paesi del mediterraneo che, da marginali poli attrattivi "di ripiego", sono divenuti meta di nuove ed eterogenee migrazioni, indotte anche dagli stravolgimenti sociali, culturali ed economici che hanno investito - dai primi anni novanta - i Paesi dell'Europa dell'Est ad economia centralmente pianificata.

 

Sebbene la femminilizzazione della presenza straniera extracomunitaria in Europa sia da considerarsi uno degli effetti del fenomeno dei "ricongiungimenti familiari" conseguente all'introduzione delle norme disciplinanti l'immigrazione attuate dagli Stati europei a cavallo fra gli anni settanta e ottanta, la situazione italiana appare piuttosto anomala, con una presenza migratoria femminile determinata - almeno fino alla metà degli anni ottanta - dalla prevalenza di donne con progetti emigratori prettamente lavorativi.

Donne sole, pertanto, inserite in correnti migratorie favorite dall'associazionismo cattolico, e provenienti, per lo più, dal Capo Verde, dal Salvador, dalle Filippine, dall'Eritrea e dall'Etiopia, la cui unica prospettiva occupazionale era, comunque, quella di domestiche residenziali, quindi «coabitanti con il datore di lavoro, con pressoché nulle prospettive di mobilità professionale» (Vicarelli G., 1994, p.43) e con elevate percentuali di lavoro sommerso anche dopo la sanatoria prevista dalla legge 943 del 1986 (sebbene tale "gruppo" nel suo complesso abbia costituito - inizialmente, ai suoi primi ingressi - l'ambito lavorativo con la più elevata percentuale di regolarizzazione).

A tali "flussi storici" di immigrate lavoratrici si sono aggiunti - dalla fine degli anni ottanta - nuovi e più compositi flussi, con un aumento considerevole della presenza femminile (per lo più maghrebina) per "ricongiungimento familiare", un fenomeno, quest'ultimo, favorito anche dall'entrata in vigore della legge 943/'86, prima normativa italiana in materia di regolamentazione dell'immigrazione[2].

Alle donne che, in prima persona, agivano ed agiscono la dinamica migratoria, e che spesso rappresentavano e rappresentano il momento d'inizio di una catena migratoria di genere o di ricongiungimenti familiari, si sono quindi gradualmente affiancate le donne migranti che, nell'assecondare o nell'accompagnare un processo già avviato dal coniuge, sono diversamente attrici di articolati cammini migratori.

Con la serie di modifiche prodottesi in questi anni nell'origine e nella componente di genere dei gruppi migratori extracomunitari si è inevitabilmente ridefinita la categorizzazione delle realtà con presenza numerica femminile maggiore di quella maschile, e ciò vale, in particolare, per i flussi provenienti dall'America Centromeridionale e dall'Europa dell'Est, sebbene sia il gruppo femminile asiatico a risultare, quantitativamente, il più consistente.[3]

 

Relativamente al nostro Paese la frammentarietà del fenomeno e la differenziazione economica e geografica delle singole realtà locali hanno indotto una prima localizzazione del flusso migratorio centrata, in particolare, nelle grandi città e nelle regioni del centro-sud Italia.

Il passaggio ad un fenomeno di settentrionalizzazione - in specie nelle regioni del nord-est - dei flussi migratori è piuttosto recente, databile, orientativamente, agli inizi degli anni novanta, in virtù della connessione fra ragioni strettamente economiche - legate alle opportunità occupazionali offerte dal territorio locale che hanno indotto una "migrazione interna" al territorio italiano degli stranieri già presenti - e la comparsa di nuove correnti migratorie provenienti direttamente dai Paesi dell'Europa Orientale.

La relativa compenetrazione temporale fra gli eventi testé accennati fa definitivamente perdere alle regioni del nord-est quel carattere di "estraneità territoriale" inerente al primo flusso immigratorio originario dalla sponda Sud del Mediterraneo, rendendole, al contrario, nuovi poli attrattivi per la nuova e vecchia immigrazione.

 

La realtà immigratoria extracomunitaria nella Provincia di Trento non si discosta significativamente dagli altri contesti territoriali del nord-est italiano, registrando un andamento temporale dei flussi migratori in costante incremento, passando da un tasso d'incidenza della popolazione straniera extracomunitaria residente sul totale della popolazione locale dello 0,4% nel 1990, dell'1,0% nel 1993 all'1,8% nel 1997.[4]

Gli/Le stranieri/e iscritti/e alle anagrafi comunali in Provincia di Trento sono, al 31/12/'97, 9.222. Scorporando il dato per genere d'appartenenza e soffermandoci sulla componente femminile notiamo che essa rappresenta il 43,6% sul totale degli/lle stranieri/e residenti, con un incremento percentuale rispetto al 1996 del 17,0% (a fronte di un incremento maschile del 10,8%).

In riferimento alla quantificazione del fenomeno immigratorio femminile extracomunitario (con esclusione delle cittadine del Nord America e dei Paese Europei Occidentali non comunitari) la macro-area di provenienza più rappresentativa risulta essere quella composta dalle cittadine dei Paesi dell'Europa dell'Est (52,4%), seguita, rispettivamente, dalla componente femminile originaria del Maghreb (23,2%), dell'America Centromeridionale (14,7%), dell'Asia (5,9%) e dell'Africa (3,8%).

Il peso inerente alla componente di genere varia, comunque, in relazione alle aree di provenienza considerate. La presenza femminile è maggioritaria fra le persone immigrate dall'America Centromeridionale (sono donne il 73,2% dei/lle residenti provenienti da tale area geografica), appare più contenuta nei gruppi originari dall'Asia, dall'Africa e dai Paesi dell'Europa dell'Est (sono di genere femminile il 42,4% della popolazione residente asiatica e africana e il 41,2% di quella originaria dell'Europa orientale), mentre la componente femminile è decisamente minoritaria (31,9) fra i/le maghrebini/e residenti nel territorio provinciale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE NARRAZIONI DI UN PERCORSO

 

 

Raccontarsi al passato nella presenza della lacerazione del viaggio ed osservarsi al presente per re-immaginarsi un domani non è cosa facile; come non lo è accompagnare e flettere una narrazione nella prospettiva di un'analisi che, dall'incontro di tessuti personali, possa infine cogliere le possibilità di un'interazione effettivamente proficua con la realtà locale.

Storie personali che, se interpretate nell'ottica di una costante interrelazione fra dinamiche interne alle donne ed avvenimenti a loro esterni, formano - nel loro insieme - le sottili trame dei fenomeni migratori al femminile.

Motivazioni personali e dinamiche sociali si intrecciano, dunque, nel forgiare ciò che si nominerà come percorsi migratori, i cui momenti simbolici - il viaggio come fase intermedia fra un momento antecedente ed uno susseguente - racchiudono le tematiche da cui si snoderanno le nostre analisi: il "raccontarsi al passato" come formativo ad un pensiero del distacco; l'"evocazione del viaggio" come legame, luogo di progettualità, catalizzatore d'incognite; il "rappresentarsi al presente" come un fare, ma anche come approdo che si schiuda in prospettiva.

 

 

RACCONTARSI AL PASSATO

 

 

Sembrano sorprese - le donne - nel "doversi" raccontare ragazze, nel richiamare al ricordo desideri adolescenziali, aspettative di vita maturate in un tempo così lontano che sembrano sogni, che risuonano di un antico passato.

Ma se un'emozione può accomunarle, è proprio nel ricordo della giovinezza che immagini di serenità si stagliano, prendendo il corpo delle donne da noi incontrate. Ha sembianze diverse la "serenità", ma è nominata nella sua assoluta "normalità", inscindibilmente legata ai luoghi, alle consuetudini culturali, familiari, alle molteplicità delle condizioni di vita in cui si cresce.

E' nella serenità del ricordo - a volte, ma non spesso, nostalgico - che appare, così, irrilevante il "riferire", e si racconta "per compiacenza", "perché si è in gioco", "perché richiesto", ma senza enfasi, perché la propria adolescenza, i propri sogni e desideri sono - generalmente - percepiti come "normali", "universali" nelle aspirazioni, non dissimili - nella sostanza - dalla percezione/supposizione dei desideri delle "altre":

 

«Vivevo normalmente, come tutti. Ho fatto la scuola media ma non ho potuto andare avanti perché i miei genitori non avevano soldi abbastanza, ho altri sei fratelli […].Volevo una famiglia come la mia […]. Qui è diverso, puoi studiare perché ci sono i soldi, ma tutte le ragazze poi sognano di sposarsi e avere figli» (N. Marocchina),

 

« Vengo da una famiglia di campagna, vivevo come tutti in Ucraina e […] volevo cantare e lavorare in teatro. Mio padre era tenore ma non aveva potuto studiare, mia madre un soprano, ma erano poveri, così hanno fatto studiare me. Tutti in casa cantavano, io, i miei cinque fratelli e i miei genitori. Quando andavo in campagna con mia madre cantavamo insieme. Solo io ho studiato, anche se ho potuto fare solo il liceo musicale e non il conservatorio, perché ci volevano ancora cinque anni e i soldi non c'erano. Allora ho lavorato, ho sempre lavorato come cantante all'Opera e mi è piaciuto. Volevo quello che avevo prima … il canto e i figli» (V. Ucraina),

 

«C'erano i nonni, mia mamma, mio papà e i miei fratelli. Non avevamo tutte le cose che si hanno qui ma ero contenta, eravamo poveri ma non sapevo. Sempre ho lavorato in fabbrica, non ho studiato, non ero brava, sognavamo sempre con le mie amiche di sposarci, i bambini e lavorare, da piccola ridevo sempre, facevamo progetti, ma è come qui, normale» (V. Albanese).

 

Nei percorsi di preparazione alle responsabilità dell'età adulta, il pensiero del distacco, dello strappo con la propria comunità, se presente come possibilità nelle donne originarie da Paesi a tradizione emigratoria

 

«Facevo una vita normale, tranquilla. Ho lasciato la casa dei miei genitori a sette anni per problemi familiari […] ho sempre lavorato per vivere e studiare […]. Conoscevo delle persone che se ne erano andate […], io ho sempre sognato di emigrare per vivere in una società meno povera e faticare meno per mantenermi. Come un sogno, poi altri …» (M. Colombiana),

 

raramente è stato riferito ed elaborato come aspirazione adolescenziale dalle donne componenti i flussi di nuova emigrazione

 

«Ho sempre saputo quello che sarebbe stata la mia vita, è come se lo avessi saputo fin da piccola. Ho sempre voluto uscire dal Kossovo e sono contenta di essermene andata» (Z. Kossovara Rom).

 

Usualmente la fantasia - non predominante - del viaggio è prodotto di un processo di conoscenza/possibilità di mondi "altri"

 

«Studiavo e vivevo come tutti lì [in Albania]. Immaginavo il mio lavoro, con chi mi sarei sposata e avuto dei bambini. Lì tutti lavoravano, uomini e donne. Fino al '91 nessuno pensava di cambiare, non si sapeva molto di ciò che succedeva fuori e non sognavi. Tutti avevano paura, e neppure sapevi che esistevano altri modi di vivere» (L. Albanese)

 

dall'induzione di modelli di vita "occidentali" con possibilità estremamente selettive all'accesso, di valori "altri", come immagini ingannevoli veicolate - solitamente - dai mezzi di comunicazione di massa, che hanno influito in ciò che viene generalmente nominato come "rivoluzione delle aspettative crescenti"

 

«Non c'era molto al mio Paese [Ucraina]. La mia è una famiglia come tante, ho sempre studiato e mi immaginavo, beh, che mi sarei sposata e anche un buon lavoro, cose così. Da più grande come sogno io mi immaginavo anche di venire in Italia, la televisione fa vedere un paese bello, caldo. ricco, con musica e gente allegra» (I. Ucraina).

 

Fantasie di "bei Paesi" ove molto si può ottenere, «riferite sia da coloro che avevano già tentato l'avventura dell'emigrazione e che tornavano temporaneamente nel paese d'origine, sia dalle "agenzie di collocamento" che svolgono un ruolo lecito o illecito di intermediazione fra i due paesi» (Favaro G., 1990, p.166). Informazioni distorte che, nell'alimentare fantasie di un benessere facilmente raggiungibile, inevitabilmente incidono su un desiderio di emancipazione ritenuto non altrimenti realizzabile, anche in donne con bagagli culturali - familiari e personali - non trascurabili, e in situazioni di relativa agiatezza economica:

 

«Conoscevo delle persone, erano venute qui, e avevano dollari e spendevano tanto […] dicevano di prendere duemila dollari [al mese] senza fatica. Una mia amica diceva di insegnare qui […]. Finita l'università, i miei stanno bene e lì funziona se conosci […] avevo un posto da medico, nell'ospedale, ma ho pensato di venire qua, lì il futuro è incerto, non sei sicura […]. Niente, una delusione, qua neppure la laurea è riconosciuta» (K. Rumena).

 

Nell'elaborazione di un'ipotesi di separazione che rifletterà, nel tempo, l'unicità delle caratteristiche proprie di ogni progetto migratorio, si rintraccia una compresenza di fattori che - nel loro diversificato interagire - costituiscono, in definitiva, le motivazioni all'emigrazione riferite dalle donne.

Nella moltitudine degli insiemi così dati non possono essere tracciate relazioni deterministiche fra specifiche variabili - nazionalità, provenienza urbana o rurale, status sociale, età, … - e caratteristiche del progetto migratorio, anche se, alcune inclusive variabili - ad esempio l'origine del flusso nelle sue eterogeneità interne - possono risultare più significative di altre nel tratteggiare un modello migratorio. In generale, «si possono individuare al massimo […] una tipologia strumentalista e una tipologia promozionista. Queste tipologie corrispondono a due modi antitetici di concepire il progetto migratorio. Nel primo caso l'episodio migratorio è considerato una parentesi, un periodo transitorio agito e vissuto per motivi strettamente economici, che si sviluppa attraverso un adattamento forzato alle difficoltà legate all'immigrazione e con la prospettiva e il sogno del ritorno al Paese d'origine, restando fedele alla propria cultura. Nel secondo caso la migrazione è vissuta anche come un modo per modificare la propria condizione sociale e culturale» (Grasso M., 1994, p.25).

Sono, queste, modalità ideal - tipiche, ove l'appartenenza all'una o all'altra tipologia non è mai riscontrabile nella realtà quasi ipotetici poli di un continuum in cui variamente si situano le storie delle donne.

Utilizzare il concetto di continuum per orientarsi nella formazione/progetto di distacco può - pertanto - risultare particolarmente utile allorché si desideri menzionare le motivazioni alla partenza riferite dalle donne:

 

«Non vivevo tanto bene e volevo una stabilità economica per continuare a studiare, ma non avevo mai pensato ad andarmene […] avevo un'amica che lavorava qua e così mi sono convinta […] Ho sempre sognato di conoscere un mondo nuovo […] ma anche qui ho problemi per continuare a studiare[…], così …io non so …se Dio mi aiuterà rimarrò comunque qua» (C. Brasiliana),

 

«Sono venuta qua la prima volta solo per trovare il mio ragazzo, lui è trentino, ha pagato tutto […] Lavoravo come segretaria e stavo contenta, non pensavo mai [di vivere in un altro Paese] Poi ho conosciuto il mio ragazzo nella ditta in cui stavo ed è cambiato …Ora penso che vivrò qua […] devo fare le carte [per sposarmi]» (A. Camerunese).

 

Motivazioni interne ed esterne alle donne che, intrecciandosi, in un tempo personale proprio di ciascuna storia, riflettono le difficoltà di una scelta a volte catalizzata da un evento o da circostanze traumatiche particolarmente gravose per la donna:

 

«Sono qua solo per mandare soldi a mio figlio.[…]Avevo già lasciato di studiare, a quindici anni avevo un figlio e non un futuro[…] Il padre … non mi aiutava» (R. Ecuadoriana),

 

« … poi la mia nonna è morta e io sono venuta» (T. Polacca),

 

«Il mio papà è morto[…], non c'erano molte prospettive, tutto qua, e [desideravamo] una vita più tranquilla. Abbiamo pensato, magari in Italia c'è solo un futuro un po’ migliore, mica tanto, ma almeno un po’. […] ho preso io questa iniziativa» (E. Albanese).

 

Se l'eterogenea dinamica delle motivazioni induce l'oscillazione spaziale - nel continuum - delle storie delle donne, è, però, anche possibile rintracciare una relativa "concentrazione", in macro aree del continuum, di contestuali e similari elementi caratterizzanti - in particolare - i più recenti flussi migratori:

 

«Io amo l'Ucraina. Spesso mi chiedono: "Vuoi vivere qui?" Ma io penso che quella là è la mia terra. L'economia lì è il problema. Adesso non bastano più i soldi, avevo il lavoro ma mio marito è stato licenziato […] E non si trovano più i medicinali per mia figlia, e ci vuole una casa per noi» (V. Ucraina),

 

«In Macedonia non c'è lavoro. Siamo tutti albanesi e la gente che abita lì non ci vuole. Mio marito era maestro e lo hanno licenziato, anche le scuole hanno chiuso. Quando non c'era la guerra tutto andava meglio. La gente poteva vivere, non c'era sempre lavoro ma si viveva delle bestie, della campagna. Prima solo un mio zio era emigrato in Austria. Adesso tutti se ne vanno» (L. Macedone),

 

«In Ucraina io, mio marito, mio figlio, mia nuora e il mio nipotino, tutti insieme viviamo nella stessa casa, due stanze, in tutto ventotto metri quadrati! Mio marito ha lavorato ventotto anni al telegrafo, io in fabbrica per venticinque anni. Cinque anni fa abbiamo perso tutto, tutti hanno perso tutto. Tutte le grandi fabbriche chiuse e tutti hanno perso il lavoro. Mio figlio lavorava in fabbrica con me, lui era meccanico, adesso non lo ha più [il lavoro] Mia nuora ha studiato fisioterapista, oggi lavora un giorno si e tre no, un giorno e tre no. […] Prima mi lamentavo che il lavoro era troppo … e ora sono qua, lontano, solo per il lavoro … » (L. Ucraina).

 

 

Accanto a chi, formulando e agendo in prima persona la dinamica della migrazione, assume in sé la responsabilità del distacco, vi sono donne i cui percorsi migranti sembrano spinti dal desiderio/volontà di riacquistare il ruolo di moglie interrotto dalla migrazione del coniuge.

E' l'allontanamento del coniuge che sembra creare il percorso del distacco, e nel raccontarsi spesso si deflette la narrazione alle circostanze che hanno spinto il marito a partire, mentre per sé il "dirsi" predominante, la motivazione al distacco sembra assumere la forma di un ricongiungimento, un riallacciarsi di un rapporto interrotto nella sua quotidianità:

 

«Qui ad Albiano lavoravano i miei fratelli e altri uomini del paese. Allora hanno parlato con M.[il marito] e lui voleva venire qui […] Avevo i bambini piccoli e io non potevo venire, poi lui ha trovato questa casa e mi ha chiesto di venire […]. [Se non fossi stata sposata ] non sarei venuta in Italia, io sono venuta per tenere la casa, fare da mangiare e stare con mio marito» (L. Macedone).

 

Nel riacquistare appieno il proprio ruolo lacerato dalla separazione o nell'assumerlo per la prima volta - in quei casi ove al fidanzamento, come attesa nel distacco, segue il matrimonio, come unione nell'emigrazione - la motivazione all'emigrazione acquista il suo significato più pieno, ed è il mondo degli affetti, della cura - nella sua figura di moglie e madre - che sembra - comunque - predominante, anche in quei casi in cui il lavoro extradomestico della donna appare rilevante:

 

«Non ho figli, mio marito non guadagna abbastanza per mantenere una famiglia, e devo lavorare anch'io […] Sono sposata da più di un anno, lui è qua da tredici anni, poi ha fatto le carte e sono venuta qua anch'io […] Non ho bambini, non ho amici a Trento, conosco alcuni marocchini amici di mio marito ma poco ci vediamo perché io lavoro la mattina e la sera quando loro sono a casa […] Non frequento neanche la Moschea, non vado alle feste, io dopo il lavoro devo pulire la casa, lavare, fare da mangiare e riposare. Mio marito fa lo shopping perché io non capisco bene le cose al supermercato e poi io non guido, […] e mi viene a prendere dopo il lavoro perché è notte, sono le undici. […] Sono venuta in Italia per stare con mio marito, dopo che eravamo sposati, ma mi manca tanto la mia famiglia […] Lavoro perché con i soldi possiamo vivere bene quando torneremo in Marocco» (N. Marocchina).

 

 

 

 

 

 

 

 

L'EVOCAZIONE DEL VIAGGIO

 

 

Nella "necessità", che sembra dettare - seppure in diversa misura e con un'ascrizione diversificata di significati - il "muoversi" autonomo e personale delle donne, la comunità familiare assume in sé il ruolo fondamentale di supporto "materiale" ed "affettivo" della scelta migrante, preparandone - nei fatti - l'uscita, a volte facilitandone l'inserimento nella società ospite, sostenendo - psicologicamente - la lacerazione della partenza e garantendo il legame con la comunità originaria.

Non irrilevante - in particolare per alcune catene migratorie al femminile - appare anche il ruolo assunto, nella società ospitante, dai «… canali informali, personali e particolaristici interni al gruppo di appartenenza: legami basati su vincoli di sangue, di amicizia e di riconoscenza» (Zanfrini L., 1998, p.149), reticoli etnici coniugati al femminile, atipici, una relazione fra donne il cui ruolo sociale è svincolato dall'appartenenza all'uomo.

 

«L'elevato livello di consenso che accompagna la scelta di migrazione» (Guidicini P., Landuzzi C., 1993, p.55) è rintracciabile - nelle storie da noi raccolte - nel concorso di volontà materiali e psicologiche che, in forme estremamente diversificate fra loro[5], sono messe in atto dalla comunità familiare già nell'ambito "più organizzativo" della partenza: un consenso declinabile sia nello strumento di "aiuto economico" offerto per partire

 

«Sai com'è là [in Albania], se paghi puoi avere tutto, tutto.[…] Si, per i soldi, la mia famiglia ha preso un po’ in giro, mi hanno aiutato tutti, i miei fratelli, i fratelli dei miei genitori, anche amici, un po’ tutti … ma tutti aiutano perché sanno che devi pagare tutto se vuoi venire e non hai conoscenze, tutto si compra, se hai i soldi non hai problemi […] Tanti sai come vengono [con i gommoni], ma io avevo paura…beh, poi anche per quello devi pagare […] Compri il visto[d'ingresso], il passaporto, chi ti fa la fila [in ambasciata], tutto, anche la carta che hai un lavoro qui, se vuoi. Tutti vendono, anche gli italiani, anche nell'Ambasciata […] Qualcuno sapeva come si fa per trovare le persone giuste e mi ha aiutato […] devi sapere chi non vuole imbrogliarti» (V. Albanese);

 

sia come attivazione di una "rete" di conoscenze facilitanti il percorso d'uscita e/o d'inserimento, un "reticolo di parentela/vicinato" che sta sostituendosi anche all'azione di "intermediazione" svolta - in determinate nazioni - dagli organismi religiosi:

 

«Nel mio Paese [Filippine] è diverso [da qui], la famiglia è importante […] di più per una donna […]. La mia famiglia era d'accordo ma senza un aiuto come fai a venire […] Un parente sapeva di un gruppo di missionari ed è andato lì per aiutarmi […]. Ma con loro era una cosa lunga […] ma non si sapeva quando [sarei riuscita a venire]. Allora la sorella di un amico di mio padre era qui, a Trento […] No non la conoscevo, lei mi ha aiutato molto» (S. Filippina),

 

«Mia cugina mi ha detto di venire a lavorare in Italia, lei era qui come colf in una famiglia […] Mi ha pagato tutte le spese, anche il viaggio in aereo […] E' lei che mi ha aiutato, mi ha trovato il lavoro qui ed è venuta a Milano ad aspettarmi quando sono venuta» (N. Tailandese),

 

«Una mia amica era qua […], mi ha fatto venire come turista, lei mi ha trovato lavoro qua, in una famiglia […] Per i soldi ti aiutano quelli che conosci […] da noi si fa così» (O. Ucraina).

 

Ma il "consenso", al di là della "concretezza dell'aiuto", è compiutamente esplicitato dalla comunità familiare - tradizionalmente nella sua componente femminile - nel ruolo di "garante", nella lontananza, della continuità dei rapporti:

 

«Mio figlio è rimasto con mia madre che lo custodisce […] E' difficile [anche per il bambino, ma] lei gli dice che sono qua per lui e queste cose […] Mando i soldi ogni due/tre mesi e mia madre è contenta perché sto bene, lavoro e nella famiglia [dove lavoro] mi vogliono bene» (R. Ecuadoriana),

 

«Anche se sei lontano sanno quello che fai […] e tutti i racconti […] Allora parlano di te» (H. Tunisina).

 

Se la partenza, nella sua dimensione affettiva, veicola inevitabilmente un generalizzabile sentimento di perdita, di lacerazione profonda dai propri cari

 

«Se non sai non capisci … Lasci la tua casa, i tuoi posti […] Pensi che devi imparare la lingua, ma no devi imparare tutto: i sapori, il tempo, le cose, tutto» (S. Filippina),

 

«Il più brutto è stato lasciare i bambini […] Per il primo mese è stato come non avere più il cuore. Adesso mi sento di averne metà dentro di me e metà in Ucraina» (V. Ucraina),

 

«Lui [il marito] ha trovato questa casa e mi ha chiesto di venire [con i bambini] Allora ho pianto, ho pianto tanto quando ho lasciato mia madre e mio padre. Ho pianto. Mio padre è malato e vecchio e anche lui piangeva» (L. Macedone),

 

«Quando sono in casa ho il cervello e il cuore chiuso» (I. Ucraina),

 

il profondo rapporto con la comunità originaria si declina - nella quasi totalità delle storie a nostra conoscenza - come "legame", «un'assenza di rottura che vuol dire […] anche un'assenza di qualsiasi affermazione che ci possa far pensare che per i soggetti quella soluzione è vissuta come una liberazione o tanto meno contestazione nei riguardi della famiglia e della comunità» (Guidicini P., Landuzzi P., 1993, p.53).

Dal quadro dei rapporti fra la comunità di partenza e quella d'approdo si sviluppano, inoltre, una serie di fenomeni (l'invio di rimesse al Paese d'origine, i progetti di ricongiungimento familiare o di un ritorno in Patria, la propensione al risparmio) che ben esplicitano la complessa interdipendenza delle relazioni, mostrando, al di là del valore aggiunto dato dalla loro iscrizione simbolica, il "peso" della concretezza materiale veicolata da tali "indicatori di relazionalità"[6].

Il "risparmio" assume - in molti racconti da noi raccolti - un ruolo fondamentale, centrale, configurandosi come sede naturale di aspettative e progetti maturati nella fase precedente alla partenza:

 

«Qua tutto costa, la macchina più l'appartamento ci porta via tanti soldi […] Mio marito sta studiando per la patente di camion, così guadagneremo più soldi per costruirci la casa in Marocco […] Ogni tanto mandiamo soldi […], ho tanti fratelli e i genitori Ci vorrà tempo, ma tornerò in Marocco fra dieci anni, quando avremo i soldi per la casa. […], allora i miei genitori saranno vecchi e avranno bisogno» (N. Marocchina),

 

«La mia famiglia ha terra a Scutari [Albania] e volevamo costruirci un negozio, lì adesso vivi solo se hai un'attività privata, se lavori per lo stato neanche sopravvivi […] Sono venuta per fare questo» (V. Albanese),

 

«Se tutto va bene fra due anni finirò di costruire la casa al mio paese [Perù] e avrò soldi per l'educazione dei miei figli, per programmare un futuro in Perù per i miei figli […] Poi con la pensione di mio marito avremo una vita buona.» (M. Peruviana),

 

snodo comunque problematico, variamente condizionato sia dal tipo di progetto migratorio della donna che dalle effettive possibilità di integrazione offerte dal contesto d'approdo:

 

«Riesco a mandare soldi ai miei genitori e questo vale tanto […] Sono venuta per questo ma anche per conoscere, per il mio lavoro [traduttrice] Ora ho un compagno italiano e presto ci sposeremo […] ma da quando sono qua vedo che niente è così facile come credevo! […] La mia laurea non vale niente, i miei lavori non valgono niente» (T. Rumena),

 

«Pensavo che sarebbe stato più facile e anche interessante trovare un lavoro qui […] Prima al mio Paese [Brasile] mi sentivo depressa, passiva, demotivata, qui anche se è difficile ho acceso delle speranze […] La più importante è l'indipendenza economica, che mi ha dato la libertà di fare cose che avrei voluto fare al mio Paese, prima di tutto dare del denaro a mia madre, aiutare la mia famiglia» (C. Brasiliana),

 

«Mi serviva [in Ucraina] una casa con tre stanze e ci volevano ventidue milioni. Due anni di lavoro. Il mio problema è che non sono in regola e non posso tornare a casa [per vedere i bambini] e poi ritornare […] Adesso sto cercando lavoro per mio marito, così potrà venire lui qua, farà qualsiasi lavoro, certamente non potrà fare l'ingegnere ma e così. Quando lui sarà qui io potrò tornare dai miei figli a casa, perché una madre soffre di più di un padre lontano dai figli» (V. Ucraina).

 

Traspare, dalle parole da noi raccolte, una profonda consapevolezza femminile dello iato esistente fra aspettative di denaro risparmiato ed entità reale del risparmio; entità che, se assolve la sua funzione di primaria fonte di sostentamento della comunità familiare in Patria, rende difficilmente praticabile la realizzazione - nel medio termine - di progetti di reinvestimento (acquisto di una casa, avvio di un'attività autonoma, …) nel Paese natio, causa di ripetute procrastinazioni nella realizzazione di un eventuale progetto di rientro in Patria:

 

«Sono venuta qui per raggiungere lui [il coniuge], lavoriamo tanto […] per mandare soldi a casa e costruirci una casa là [in Algeria]. Vogliamo costruirci una casa e aiutare i nostri genitori […] Lui è qui da tanti anni, prima di conoscerlo, io da due, lavoriamo tanto […] io in nero così prendo più soldi, ma non so più [quando ritorneremo] ci vogliono tanti soldi qui» (H. Algerina).

 

Se il "risparmio" sembra essere - in definitiva - una risorsa ambivalente che può variamente incidere nella circolarità delle relazioni fra la donna migrante e la comunità familiare, è, in realtà, l'esperienza stessa dell'emigrazione che - sostanzialmente - «cambia le aspettative delle persone, le motivazioni individuali, i gusti e gli standard di vita di chi parte e di chi resta […] L'esperienza dell'immigrazione estende lo spazio (geografico e sociale) della comunità» (Forti M., 1994, pp.19-22), plasma i concetti di "bisogno", induce la percezione d'indeterminatezza nel luogo delle progettualità.

Nell'intreccio fra memoria e presente, fra "ero … e sono …" la dimensione sfuggente del viaggio collega - simbolicamente - le sponde fra le due realtà, uno schiudersi individuale ad un'esperienza segnata, inevitabilmente, dal dolore dell'instabilità fra dimensioni:

 

«io sono qui, ma sono anche là» (V. Albanese),

 

«Il sabato è bello, preparo da mangiare per mio marito, con la nostra cucina […] si, con le nostre ricette, così è come se fossi al mio Paese [Marocco]. Questo è tanto importante per me perché durante la settimana non posso cucinare per lui, non mangiamo assieme» (N. Marocchina),

 

«Lasciamo indietro tutta la nostra storia, tutta la nostra vita. Venire in un altro Paese significa cancellare la maggior parte della nostra vita, perché qua noi non distinguiamo neanche le nostre teste» (E. Albanese),

 

«Io non penso, meglio lavorare e basta. […] Lavoro così tanto per i soldi, così avrò tutti i soldi entro due anni. Qualche volta sono stanca, ma non penso, non ho i figli con me e quindi posso lavorare anche la domenica e guadagnare prima» (M. Peruviana).

 

Un altalenante slittamento fra culture, identità, ruoli, una sorta di «ambiguità come non scelta, come gioco di equilibrio, come omissione, reinterpretazione, trasposizione di vecchi e nuovi valori secondo una gamma di combinazioni complessa e difficilmente schematizzabile» (Vicarelli G., 1994, p.21).

Dal processo di disorganizzazione/riorganizzazione inevitabilmente indotto dell'esperienza migratoria, fra ripiegamento e integrazione, si originano mutevoli identità femminili, nuovi modi di espressione dell'essere donna, figure sospese in uno spazio "altro", frutto dell'interscambio fra modelli sociali, tradizionali, valoriali differenti. Figure che, nelle storie di vita da noi raccolte, sembrano invariabilmente segnate, al di là delle diverse modalità di vivere l'esperienza migratoria, «da una condizione di solitudine affettiva. E' il senso di isolamento, di non appartenenza, di precarietà che viene attribuito […] alla disgregazione del nucleo familiare d'origine. La lontananza [dai figli], dai genitori, dalle sorelle, la mancanza di parenti in Italia sono i dati che servono a spiegare il "vuoto"» (Favaro G., 1990, p.169).

Nei vissuti delle donne è la mancanza del complesso delle relazioni familiari, più che la lontananza dal proprio partner, che sembra innestare il sentimento di "pena" spesso riferito dalle donne, un sentimento avvertito anche in chi, migrata per ricongiungersi al coniuge, non ha la comunità familiare allargata presente:

 

«Mi immaginavo di stare vicino a mio marito, ai miei fratelli e alle mie sorelle che sono qui. Ma loro abitano lontano [in un altro paese]. Quando ci vengono a trovare […] mangiamo insieme, parliamo, […], ma a me piacerebbe abitare nello stesso paese, così starei vicino sempre alle mie sorelle e a mia nuora. Qui sono sola» (L. Macedone),

 

«In Marocco ho lasciato tutti, la mia mamma, mio padre, i miei fratelli … tutta la famiglia. […] Si, sto con mio marito ma lì ho lasciato … Quando ritorno sono di nuovo felice» (A. Marocchina).

 

Vissuti d'isolamento acutizzati dalla mancanza o dall'esiguità dell'interazione con la società d'accoglienza, società che sembra costituirsi come uno degli elementi determinanti il grado del senso di "estraneità" spesso riferito dalle donne:

 

«Qui ho trovato una mentalità molto diversa [dalla mia], chiusa, aperta niente. […] Tutti sono molto attenti nel parlare, in Italia non si può parlare chiaramente» (M. Colombiana),

 

«Insomma, se tu sei straniera le persone ti vedono con quell'occhio … capisci? che vieni da un paese povero e … diciamo che sei un ostacolo. All'inizio mai avrei pensato che in un altro paese mi potevo trovare in questo modo …, perché io non mi sento diversa dagli altri, anche se non parlo benissimo la lingua.[…] Provengo solo da un Paese più povero, ma anche lì si studia, si legge, … capisci?» (E. Albanese),

 

«Quando anche in un bar capiscono che non sei italiana ti danno una risposta così, come se è fosse meno importante risponderti» (I. Ucraina),

 

«In apparenza la gente fa vedere di essere aperta, ma quando impari bene la lingua italiana capisci che è solo apparenza, superficie […] Non posso dire che è razzismo, ma è una distanza che puoi sentire» (N. Bosniaca).

 

Se è sullo sfondo di una così sfilacciata cornice d'accoglienza che sembrano dipanarsi le storie da noi raccolte, è il senso di costrizione alienante dato dal tipo di occupazione generalmente offerto alle donne (domestiche fisse, assistenza diurna e notturna agli anziani)

 

«Vedi cosa puoi fare qui, cosa puoi trovare? [la donna fa assistenza ad un'anziana. L'intervista è stata condotta nel luogo di lavoro della donna (nota dell'intervistatrice)] E' tutto il giorno così … [l'anziana continua ad alzarsi, sedersi, a lamentarsi, ad uscire ed entrare di casa al freddo (n.d.i.)] Il lavoro nostro, delle ucraine, delle polacche, delle russe è brutto. Il lavoro nostro è faticoso, perché se si hanno dei nonni non si può urlare. Allora viene mal di testa, mal di cuore … Vedi com'è? Così anche la notte» (L. Ucraina),

 

«Qui le persone lasciano i vecchi con chi non conoscono […] E' brutto per i vecchi che non hanno una famiglia e diventano cattivi, ti fanno stancare per niente, non va bene niente … e a me fa male sempre la testa, non hai un momento che stai tranquilla … Ma non è colpa loro se sono così» (S. Filippina),

 

«E' un lavoro stancante dentro questo, [domestica ed assistente ad un anziano non autosufficiente], voi pensate che sia facile, ma è un lavoro di controllo dentro, è un lavoro di testa, poi non capisci più …Io vorrei fare altro lavorare in fabbrica, fai il tuo lavoro e poi hai tempo per te, per fare quello che vuoi» (K. Rumena),

 

che, nel circoscrivere e isolare i rapporti alla famiglia per la quale si lavora, induce una forma di segregazione occupazionale che sembra rendere difficilmente praticabili percorsi di inserimento femminile nella comunità autoctona; minando - almeno per quanto concerne lo spaccato di realtà femminile presentatosi ai nostri occhi - la fondatezza della semplicistica relazione lineare fra inserimento economico-lavorativo e integrazione sociale.

 

 

 

 

RAPPRESENTARSI AL PRESENTE

 

 

Se - nei mondi privati, nelle sfere più intime - nominarsi al presente guida un ascolto fra sensazioni di spaesamento, fra derive di sovrapposizioni psicologiche che, nel loro affollarsi, confondono confini in immagini di sé fra ritorni e approdi; impersonare l'oggi è accompagnare l'ascolto nella concretezza del fare, nelle pluralità delle sue forme, fra percorsi in equilibrio ma consapevolmente agiti.

Ritratti di sé fotografati nell'agire, il lavoro come parte integrante dei progetti migratori nella quasi totalità dei casi da noi osservati; il loro lavoro come elemento funzionale alla riproduzione delle società post-industriali, coerente, pertanto, con le logiche sottostanti al nostro sistema di produzione economica e con le politiche di trasformazione/restrizione del welfare: «queste donne che vengono da lontano occupano i posti che noi abbiamo lasciato liberi, fanno i mestieri che non siamo riuscite a condividere con i nostri uomini, svolgono ruoli che non abbiamo ottenuto che fossero organizzati civilmente dalle strutture sanitarie e per i quali il volontariato non ha abbastanza braccia e cuori» (Luciano A., 1994, p.225).

Esigenze della società ospite che, in un'ottica d'analisi macro strutturale ha portato le/i ricercatrici/tori ad ipotizzare che il fenomeno dell'immigrazione femminile rappresenti «un caso significativo di immigrazione da carenza di offerta di lavoro in uno specifico segmento di mercato. [Esempio emblematico di segregazione professionale] molto più legata al funzionamento del mercato del lavoro italiano piuttosto che a fattori vocazionali di "genere" propri delle culture di origine delle migrate» (Altieri G., 1994, pp.42-45).

La richiesta di forza lavoro straniera sembrerebbe, dunque, soddisfare i "nuovi" bisogni sociali provenienti da sempre più ampie fasce della popolazione autoctona, domande di servizi indotte dalla trasformazione dei modelli familiari, dalla sempre più massiccia presenza delle donne nel mercato del lavoro e dall'invecchiamento della popolazione; bisogni che non riescono a trovare un'adeguato e flessibile soddisfacimento all'interno delle offerte di uno stato sociale in progressiva erosione.[7]

Confinate per lo più nel settore domestico e/o di assistenza, le domande di servizi si traducono in una richiesta di collaboratrici familiari conviventi, "lavoratrici giorno e notte" (de Filippo E., 1994, p.19) disponibili ad una flessibilità di ruoli e orari, adattabili ai bisogni e agli spazi della famiglia datrice di lavoro.

Se siffatte offerte trovano una prima corrispondenza con i progetti migratori e le aspettative di guadagno delle donne migranti "sole", in quanto permettono un contemporaneo inserimento lavorativo e alloggiativo, un reddito o "compenso"[8] netto sostanzialmente convertibile in rimesse ai Paesi di provenienza e - fattore non trascurabile per chi è irregolarmente presente in Italia - la sicurezza dell'invisibilità sociale, esse comportano altresì effetti che possono rivelarsi possibilità controproducenti per i bisogni e tempi delle donne migranti.

Orari di lavoro spesso snervanti, la costante vicinanza con la malattia e la morte, la mancanza di un'indipendenza alloggiativa e di spazi per sé, l'ambiguità dei legami che possono instaurarsi con la famiglia per la quale si lavora ma nella quale anche si vive o la precarietà lavorativa nell'attività di assistenza agli anziani, così congiunta alla vita/morte, rappresentano variabili che, in relazione al periodo di permanenza e alle diversità delle condizioni di vita e lavorative, si possono tramutare in situazioni alienanti estremamente gravose e vincolanti per le donne. Così, mentre per l'uomo un «inserimento lavorativo […] può permettere stabilizzazione e ricongiungimento, […] per la donna può anche voler dire negazione della famiglia e della maternità» (Battaglino M.T., 1996, p.102):

 

«Qui io faccio i lavori di casa, tengo la nonna. Ma è dura perché la nonna non ci sta più con la testa e poi i figli sono adolescenti e continuano a litigare con i genitori. Per me è una grande tensione […] Volevo lasciare il lavoro per uno dove stavo sola con una vecchietta, ma la signora [figlia dell'anziana] mi ha chiesto di restare … Mi dispiace tanto per lei e per adesso resto […] è sola e adesso non la lascio […] Il mio problema è che non posso andare a casa e poi ritornare [la signora non è in possesso di un regolare permesso di soggiorno] Vorrei avere la mia famiglia ma come si fa […] per i soldi … se lavori hai una casa non tua» (V. Ucraina),

 

«Se Dio mi aiuta cambierò lavoro [la signora coabita con la famiglia per la quale lavora] qui dormo in una stanza dove tutti possono passare durante il giorno, non ho un posto mio» (C. Brasiliana).

 

In un mercato del lavoro che non consente realistiche aspirazioni di mobilità verticale anche per chi ha un elevato livello di scolarità, la segregazione professionale nel settore domestico e/o assistenziale è particolarmente evidente in chi - per progetti di ricongiungimento familiare, per desideri di autonomia personale e abitativa, per volontà di permanenza nel nostro Paese - persegue l'obiettivo (l'unico che appare praticabile) di promozione orizzontale, ovvero di passare da una condizione di lavoratrice "giorno e notte" ad impieghi "a ore" o all'assunzione nelle professioni del terziario non coperte dalla manodopera locale (imprese di pulizia, cooperative di servizi alla persona):

 

«Io ho capito che qua c'è lavoro perché alla gente non piace fare lavori umili, […], ma l'importante è andare avanti, in meglio […] Per me adesso vuol dire che cerco di trovare altri lavori, come questo [la signora fa assistenza diurna e notturna ad un'anziana] ma solo il giorno, oppure altro, ma dove possa avere del tempo e una casa mia» (M. Colombiana),

 

«Adesso va bene, lavoro [la signora ora ha un doppio lavoro: è assunta part-time in una azienda e fa la collaboratrice familiare a ore] ho una casa e ho potuto far venire qui la mia famiglia. Ma è stato difficile perché trovavo sempre come quello che facevo, nelle famiglie con anche la notte» (E. Albanese).

 

Siano "colf" o "lavoratrici giorno e notte", "casalinghe" o "commesse", ciò che attiene all'universo femminile e che le/ci accomuna è la disistima sociale che storicamente è legata ai «lavori femminili che implicano una relazione di cura con gli altri. Le competenze reali indispensabili allo svolgimento di tale lavoro non sono riconosciute come dato professionale e le capacità di svolgerlo diviene patrimonio ascritto al sesso femminile, più che bagaglio e retaggio culturale e storico» (Alemani C., 1994, p.52).[9]

In tale negate professionalità, in un ruolo caricato di disistima sociale anche in alcune culture di riferimento delle donne migranti, la variabile istruzione, lo status sociale precedente all'esperienza migratoria e il tipo di progetto migratorio condizionano - seppure in un quadro di notevoli differenze soggettive - «sia la disponibilità ad accettare determinati tipi di collocazione professionale, sia il livello di soddisfazione per le condizioni d'integrazione economica e sociale» (Zanfrini L., 1998, p.71).

Una problematica specifica - fonte di notevole frustrazione, in particolare per chi ha un progetto di vita nel nostro Paese - è il mancato riconoscimento del titolo di studio conseguito nel Paese d'origine. Il desiderio di veder legalizzata la propria carriera scolastica, desiderio accentuato nelle donne in possesso di un diploma di laurea e/o di una già acquisita maturità professionale, non sembra legarsi esclusivamente ad un'ipotesi di promozione professionale verticale, a chance occupazionali aggiuntive, quanto piuttosto sembra originarsi nella sfera più intima e identitaria della donna, in un vissuto che - già violato dal fatto migratorio - cerca di elaborare la disorganizzazione identitaria arginando la distanza fra le esperienze:

 

«Vorrei far riconoscere la laurea o frequentare un corso di specializzazione o anche studiare cose diverse, a me è sempre piaciuto studiare, ho sempre studiato tanto e guarda adesso […] Ma come fai? [a studiare] Come faccio se non ho tempo? se devo stare tutto il giorno qua? [la signora è domestica e assiste un anziano non autosufficiente] Ho cercato altro, negli ospedali [la signora è laureata in medicina] ma non ti propongono di meglio, di diverso […] Una delusione» (K. Rumena),

 

«Mai sono stata a casa prima [di venire in Italia] e mai mi immaginavo di stare a casa. Pensavo che per me [la signora era insegnante di lingua e letteratura russa] non sarebbe stato tanto difficile trovare un lavoro un po’ … sono laureata, sono un'insegnante, parlo italiano, parlo tante lingue … Sto a casa, potrei fare un lavoro come le pulizie o cose così ma non posso … non posso, sarebbero altre umiliazioni. Meglio stare a casa …» (N. Bosniaca),

 

«I miei diplomi [ragioneria e corso di specializzazione in tecniche finanziarie] non valgono niente qua e l'unico lavoro che ho potuto trovare è fare le pulizie, ma questo non mi va» (A. Camerunese).

 

Leggere le contraddizioni, le ambiguità che accompagnano - con modalità diverse - i percorsi delle donne migranti come categoria interpretativa degli equilibri/disequilibri che, come genere, in parte ci accomunano, significa fornire un'interpretazione empatica delle ambivalenze che segnano molte vite femminili, una «ambiguità tipica di chi svolge e occupa più ruoli, di chi ha una doppia presenza, di chi si sottopone a modelli culturali diversi e che, non a caso, è emersa come possibile modello interpretativo all'interno degli women's studies» (Vicarelli G., 1994, p.21); ambiguità come categoria interpretativa che non esclude, ma che piuttosto contempla al suo interno le diversità culturali e valoriali, di vita e di lavoro che ci/le contraddistinguono.

Ambiguità che, diversamente tradotta nelle storie personali, più che tendere all'auto-isolamento sembrano condurre le donne da noi ascoltate alla ricerca di nuovi equilibri, di nuove modalità fra adattamenti e rifiuti, al desiderio di espressione per bisogni formativi percepiti anche se non sempre praticati o immediatamente praticabili.

Comune e generalmente esplicitata è l'esigenza di soddisfare un composito bisogno di alfabetizzazione che parallelamente all'acquisizione degli strumenti linguistici possa fornire un insieme di conoscenze civiche e culturali in grado di orientare alla comprensione di diritti, risorse, opportunità, regole della società ospitante:

 

«Ho iniziato [un corso di italiano] però poi non ci sono più andata perché con il lavoro non potevo più e poi a me non serviva […] Pensavo che era una cosa diversa, che ti dicessero altre cose […] anche come si fa se vado in un ufficio e non rispettano i miei diritti» (S. Filippina),

 

«Frequento un corso di italiano per stranieri però non basta […] Non so come spiegarti, però dovrebbero dirti come si fanno le cose qua, per capire meglio, […] i diritti ma anche come gli altri devono comportarsi […] Per me è diverso ma tanti [partecipanti al corso] chiedono dove si può andare per il lavoro e cose così, ma loro [gli insegnanti] non dicono tanto, insegnano l'italiano» (N. Marocchina).

 

Desideri di socializzazione, di sicurezza e autonomia sociale sembrano trasfondersi - dalle storie raccolte - in un'esigenza di alfabetizzazione linguistica/civica/culturale quale possibile risorsa in grado di arginare diffusissime sensazioni di smarrimento e confusione generate/acutizzate anche dalla difficoltà dei rapporti con le diverse agenzie istituzionali:

 

«Mi sembra sempre di perdere molto tempo, e non mi muovo mai sicura. Non hai mai le informazioni giuste sulle regole per il permesso di soggiorno, per la residenza o per avere la cittadinanza. Così non ti muovi mai sicura e serena come se avessi l'informazione giusta» (L. Albanese),

 

« Non sai mai, quando vai [negli uffici pubblici] come ti possono trattare, c'è sempre qualcosa che non va. In questura hai mai visto com'è? […] Ti dicono che hai dimenticato un documento e che devi ritornare … ma io non posso dimenticare se non lo sapevo!» (A. Marocchina).

 

Nel ritagliare confini all'impotenza le strategie utilizzate dalle donne per soddisfare i propri bisogni di apprendimento si diversificano notevolmente sia in relazione alla presenza/assenza di tempo disponibile per sé che in rapporto alle regole di accesso/fruizione delle risorse formative proposte dalla comunità locale.

Accanto a chi - per compatibilità d'orari, per vicinanza territoriale alla sede scolastica - ha frequentato o sta frequentando corsi di lingua italiana per stranieri (ACLI, ATAS … ) o altre tipologie formative

 

«Faccio qualche lavoro, part-time, pulisco uffici, in nero. Amici di mio marito mi hanno trovato questo lavoro. Sono fortunata, vado a scuola [corso per il conseguimento della licenza media] tutti i pomeriggi così posso lavorare la sera e studiare la mattina» (A. Tunisina),

 

«All'inizio non potevo, facevo lavori umili e non hai tempo fra il marito e i lavori … Adesso sono custode […] e vado a un corso per computer e a uno di taglio e cucito» (L. Albanese),

 

vi sono donne che ricorrono a modalità alternative - non pensate come sostitutive - per aggirare un'indisponibilità alla frequenza di corsi formalizzati:

 

«Mando i soldi a casa e vivo con la famiglia dove faccio assistenza, sono bravi e mi insegnano l'italiano, mangio con loro tutto ciò che voglio […] Vorrei imparare bene l'italiano e capire qui […] guardo la televisione e un po’ imparo. Ho la domenica libera ma non so dove andare […] Vorrei imparare bene l'italiano e studiare per fare altri lavori, ma come faccio, è un po’ difficile per me, ho solo la domenica libera e ho bisogno di guadagnare per mandare soldi a casa mia» (O. Ucraina),

 

«Vorrei studiare per poter fare qualche altra cosa ma non ho tempo [la signora in Italia per ricongiungimento familiare fa assistenza diurna ad un'anziana] Forse il sabato […] se riesco a trovare un altro lavoro … ho sentito parlare delle 150 ore per lavoratori, ma lavoro senza pagare le tasse, in nero […] Intanto imparo dalla signora, non bene però è qualche cosa» (H. Algerina),

 

«Vorrei fare almeno un corso di italiano, ma come faccio, devo lavorare […] Guardo la televisione così imparo […] Un corso dovrebbe considerare che noi lavoriamo, con questi orari e che non siamo sempre libere!» (V. Ucraina).

 

Non infrequente - seppure difficilmente praticabile - appare anche l'esigenza (espressa dalle donne con progetti migratori di medio periodo) di poter frequentare specifici corsi di formazione (sarta, parrucchiera, estetista) o di specializzazione (in informatica, nella lingua italiana, nella gestione di piccole imprese) ritenuti titoli spendibili in previsione di un rientro nel Paese d'origine:

 

«Vorrei fare un corso da sarta per perfezionare quello che so così quando tornerò in Perù potrò fare vestiti per conto mio, disegnare, tagliare e cucire. Per professione. […] In Perù ho fatto la scuola superiore, dopo ho lavorato in un ufficio come impiegata […] In Italia ho frequentato solo un corso di Italiano, ma vorrei fare di più, un diploma nella moda […] ma ho bisogno di guadagnare, non ho tempo, non ho soldi per pagare un corso […] Non so come ma prima di tornare a casa devo fare qualcosa» (M. Peruviana),

 

«Mio marito vuole aprire un'attività [in Marocco] e io penso di aiutare […] servirà che io sappia bene le lingue e anche usare il computer […] Ora ci sono tante spese […] non posso studiare, […] ma dopo farò un corso per imparare» (A. Marocchina).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POSSIBILITA'

 

 

Nel "groviglio di Storia e di storie" la voce di alcune non ha - né vuole avere - valore paradigmatico, non svela meccanismi onnicomprensivi né ricostruisce strategie valide per tutte. Ma interroga.

Aprire al racconto è inventarsi uno spazio, offrire visibilità come viatico alla comprensione, per una dialettica che non invalidi la possibilità di coesistenza.

Il nostro scritto - assieme ad altri - contribuisce a creare una trama, un approccio allo studio delle migrazioni nell'orizzonte di una teoria della differenza che non nega un genere omologandolo all'altro. Schiude alle possibilità, ma domanda un confronto e richiede una riflessione.

Domanda un confronto per una politica dell'accoglienza che sia in grado di cogliere le specificità e le problematiche dei progetti migratori femminili, che implementi un'offerta di formazione calibrandola (anche) sui bisogni e i tempi delle donne migranti, che sostenga gli spazi e i luoghi associativi (anche) femminili.

Richiede una riflessione di genere che metta in discussione il fatto che, "altre" donne «possano vivere nel nostro Paese soltanto in quanto mogli, domestiche o prostitute, ovvero nei ruoli che ha loro assegnato una storia di genere che da più di un secolo tante donne, in tutto il mondo, stanno cercando di cambiare. [Questa] è una questione che ci riguarda in prima persona. Se al posto di ognuna di noi che ha potuto sfuggire a quel destino finisce una di loro, senza speranza di riscatto, la nostra storia fa un passo indietro. […] Può darsi che ad alcune (molte) di loro la nostra storia non interessi. Ma noi abbiamo bisogno di entrare in relazione con loro. […] Di offrire loro altre chances di vita e di lavoro perché non vengano rimesse in discussione quelle che abbiamo conquistato per noi» (Luciano A., 1994, p.226).

 

Non negarLe è un non negarCi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

 

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Ruggerini M. G. «I diritti di cittadinanza delle donne del Maghreb. Primi risultati di una ricerca sul campo», Inchiesta, Bari, n°113,1996, pp. 30 - 41.

 

Tognetti Bordogna M. (a cura di), Legami familiari e immigrazione: I matrimoni misti, Torino, L'Harmattan Italia, 1996.

 

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Zanfrini L., Leggere le migrazioni, Milano, Franco Angeli, 1998.

 



[1] Fonte: O.M.L., XIV Rapporto sull'occupazione in provincia di Trento, Trento, Provincia Autonoma di Trento, n°1, 1999.

 

[2] Attualmente la normativa nazionale di riferimento è data dalla legge 40 del 6 marzo 1998. Tale disciplina ha sostanzialmente abrogato (con esclusione della norma di cui all'art.1 sui "rifugiati") la legge 39 del 1990 (c.d. legge "Martelli").

 

[3] Scorrendo i dati ISTAT al 1° gennaio 1997 (I.S.T.A.T., 1998) le donne straniere extracomunitarie (con esclusione delle cittadine svizzere e delle nordamericane) residenti nel territorio italiano rappresentano il 40,5% della complessiva popolazione extracomunitaria presente. Scorporando il dato per aree geografiche d'origine, la componente femminile più rappresentativa proviene dall'Asia (24,6%), seguita, rispettivamente, dal Maghreb (17,5%), dall'America Centromeridionale (16,7%), dall'Africa subsahariana (13,9%), dai Paesi dell'ex Jugoslavia (11,6%), dall'Europa dell'est (9,3%) e dall'Albania (6,4%). Comparando la consistenza numerica fra i generi per ogni gruppo considerato notiamo che sono donne il 69,3% dei/lle residenti provenienti dall'America Centromeridionale, il 62,5% dei/lle cittadini/e dell'Europa dell'Est, il 46,1% delle persone originarie dall'Asia, il 39,0% di quelle provenienti dall'Africa subsahariana, il 38,5% dei/lle cittadini/e dell'ex Jugoslavia, il 32,4% dei/lle residenti provenienti dall'Albania e il 25,2% delle persone provenienti dal Maghreb.

 

[4] Fonte: OML su dati Servizio Statistica XIV Rapporto sull'occupazione in provincia di Trento, Trento, Provincia Autonoma di Trento, n°1, 1999, p.211.

Tale Rapporto costituirà punto di riferimento per i dati provinciali di seguito riportati. La sezione «Immigrazione» è stata curata da Lucia Trettel - pp.205-221.

 

[5] «Il problema, in realtà, è che appena andiamo ad analizzare quelli che sono i meccanismi che ogni specifica comunità mette in atto, sia nella costruzione delle singole scelte di esodi, sia nel momento di organizzare l'esodo stesso, od ancora nel modo di gestire questa situazione quando il soggetto è partito, ecco allora che notiamo immediatamente l'affiorare di una articolata serie di situazioni tra di loro tutte sostanzialmente differenti. E qui, decisivo per la comprensione delle singole situazioni è il ruolo giocato dalla famiglia; che rimane […] il punto nodale di riferimento di ogni processo migratorio» (Guidicini P., Landuzzi C., 1993, p.55).

 

[6] «Si possono definire "indicatori di relazionalità" (Colasanto M., 1994) quei fenomeni […] che esprimono la rilevanza dei legami che connettono il contesto d'origine e quello d'approdo […] Si tratta in altri termini di fenomeni che consentono di porre a tema le ripercussioni che si verificano in "altri luoghi" in relazione a eventi e comportamenti attivati nei contesti d'immigrazione» (Zanfrini L., 1998, pp.39-40).

Colasanto M., «Il processo migratorio: aspetti e tendenze», relazione presentata al Convegno "Immigrazione, volontariato e istituzioni", Roma, 27 settembre 1994.

 

[7] «In altri termini, le immigrate configurerebbero un'offerta di "servizi alla persona" che andrebbe a collocarsi accanto a quella delle reti solidali e di volontariato, della famiglia, della parentela e dell'economia di mercato, intrecciandosi e sostituendosi a ciascuna di esse a seconda del diverso mix di risorse presenti in ogni contesto socio-territoriale per far fronte ai bisogni della vita quotidiana» (Vicarelli G., 1994, p.19).

 

[8] Sebbene sia improprio utilizzare i due termini come sinonimi, in alcuni casi da noi ascoltati - in particolare nel settore dell'assistenza agli anziani che rappresenta, d'altronde, l'attività lavorativa generalmente svolta dalle donne da noi incontrate - avvalersi del concetto simbolico di compenso appare legittimo sia per definire la "consistenza monetaria" dello stipendio percepito, sia, più in generale, per indicare l'assenza (per chi è in Italia senza permesso di soggiorno) o il non-riscontro, nei fatti, delle condizioni contrattuali che regolano tali rapporti di lavoro.

 

[9] Ci interroga - o almeno dovrebbe interrogarci - la mancata ridistribuzione del lavoro familiare, la «facilità con cui abbiamo accettato che ricadessero sulle […] spalle [delle donne migranti] le contraddizioni del nostro vivere civile: donne più diseguali di altre per ribadire lo stigma che da sempre relega il lavoro domestico alla base della piramide sociale» (Luciano A., 1994, p.226).