INVISIBILI MA PRESENTI

 

Fra i luoghi del vivere quotidiano, l'appartenenza etnica e le espressioni della comunità ospitante

 

Percorsi di partecipazione socio-culturale e occupazionale

delle donne migranti

 

 

 

Indice

 

1

Introduzione

1

1.1

Note Preliminari

1

1.2

Finalità Dello Studio

2

1.3

Osservazioni Metodologiche

3

 

 

 

2

Fisionomie Del Fenomeno Migratorio

6

2.1

Indicazioni Propedeutiche

6

2.2

Presenza Femminile Nell'Immigrazione

8

2.3

Profili Femminili Di Riferimento

13

 

 

 

3

I Giochi Dell' Invisibilità

20

3.1

La Realtà Lavorativa

20

3.1.1

Un'Integrazione Condizionata

28

3.2

La Dimensione Socio-Culturale Del Vivere Quotidiano

32

 

 

 

4

Considerazioni Conclusive

42

 

Riferimenti Bibliografici

45

 

 

 

 

Rapporto di ricerca

 

A cura di

 

Barbara Bastarelli

 

Trento, dicembre 2000

 

 

1   INTRODUZIONE

 

 

1.1   NOTE PRELIMINARI

 

Interrogare le invisibilità - sociali, economiche, culturali e affettive - e il loro intrecciarsi fra condizioni ricercate o subite così come trapelano dalle esperienze delle donne da noi raccolte è, parallelamente, riflettere l'attenzione ad un'analisi che ci comprenda, e possa cogliere quali tipi privilegiati di accoglienza sappiamo e desideriamo porre in essere.

Il porsi - dunque - come soggetto e nel contempo oggetto d'analisi nell'affrontare la complessità che la tematica delle migrazioni inevitabilmente comporta, è segno di un approccio che, nel fotografare il contesto multietnico che caratterizza la nostra società e il nostro territorio, apre - similmente - ad una riflessione critica sugli equilibri che dobbiamo ancora perseguire e ricercare per una politica dell'accoglienza che sappia e voglia gestire anche le possibilità date dalla multiculturalità, per una società plurale «in cui l'adattamento da parte altrui non sia l'unico modo di convivenza permesso, in cui l'immigrato/[a] non sia necessariamente obbligato/[a] all'accettazione dell'uniformità, secondo linee gestite da altri, ma gli/[le] si riconosca il diritto alla diversità» (Macioti M. I.; 1995, p.12).

Se il dato fattuale della compresenza territoriale di persone di diversa origine, la multietnicità di un contesto, chiama prioritariamente l'attenzione a problemi sociali di tipo strutturale - in particolare ai temi del lavoro e della casa - un orizzonte multiculturale presuppone un paritario e reciproco riconoscimento simbolico dell'altro, un'accettazione - scevra dalle derive assimilatorie o cooptatrici indotte dai pregiudizi etnocentrici - dell'esistenza di paradigmi e prospettive diverse, di cittadini e cittadine che nei loro insiemi veicolano ciò che chiamiamo culture e culture di genere - eterogenee, fluide, sempre passibili di reciproche ibridazioni.

Relazioni e chiusure, barriere di incomprensioni e spazi comunicativi si manifestano - nel nostro studio - nelle esperienze con la comunità ospitante riferite dalle donne incontrate. Esperienze che inevitabilmente si incontrano/scontrano con i progetti migratori e i segni dell'appartenenza etnica che diversamente plasmano i percorsi di partecipazione nella società di accoglienza. Entrambi gli aspetti sondati guardano allo specifico del genere femminile nelle migrazioni non solo - ed esclusivamente - per nominare un'assenza ancora troppo spesso riscontrabile negli studi di sociologia delle migrazioni o nei progetti di politiche d'accoglienza, ma anche - e principalmente - per aprire a prospettive diverse che sappiano cogliere - contestualizzandoli - significati e valori che i corpi sessuati quotidianamente ci propongono[1].

 

1.2   FINALITA' DELLO STUDIO

 

         Analisi diretta a riconoscere e a interpretare i limiti e le possibilità delle dinamiche di partecipazione socioculturale e occupazionale delle donne straniere extracomunitarie presenti sul territorio della Provincia di Trento.

L'analisi è posta in relazione sia con le influenze dei progetti migratori - motivazioni alla partenza, competenze sociali e professionali pregresse, caratteristiche degli aggregati d'appartenenza, universi simbolici di riferimento - che con la percezione degli spazi e delle relazioni concesse dalla società d'accoglienza - collocazioni occupazionali e modalità di inserimento nel mercato lavorativo, atteggiamenti della comunità ospitante, valutazione delle opinioni collettive.

         Alla luce dell'esperienza empirica - e nei limiti e parzialità che ogni lavoro di ricerca inevitabilmente comporta - il presente studio rappresenta un approccio alla lettura del fenomeno migratorio al femminile che nel nominare i significati attribuiti dalle cittadine straniere ai loro quotidiani incontri con la comunità autoctona coglie - similmente - la conoscenza di alcuni aspetti del fenomeno migratorio stesso.

         Conoscenza che, propositivamente, potrebbe offrirsi come orientamento per eventuali interventi operativi, efficaci ad incidere sulle realtà presentate.

 

1.3   OSSERVAZIONI METODOLOGICHE

 

         L'orientamento metodologico adottato si propone - secondo una metodologia accorta e attenta a non "confondere" i livelli di analisi in cui si articola la ricerca - di "interscambiare" soggetto e oggetto d'analisi. Loro sono "oggetto" delle nostre osservazioni nel medesimo momento in cui noi siamo "oggetto" delle loro osservazioni. Paradigmaticamente nel rapporto di ricerca centralità e marginalità delle culture si avvicendano, riconoscendo valore alla scelta di "riportare ampi stralci delle testimonianze raccolte", testimonianze rese per costruire spazi comuni di intelligibilità.[2]

 

         Il piano del lavoro ha previsto tre momenti di ricerca: una prima fase - essenzialmente bibliografica - di raccolta e studio del materiale cartaceo pubblicato, analisi che ha permesso la costruzione di una griglia interpretativa finalizzata ad indagare l'oggetto della ricerca. A tale momento propedeutico è seguita la fase propriamente empirica del lavoro, con la realizzazione di quaranta interviste in profondità sulla base di una traccia - precedentemente impostata e testata - di item comuni a tutte le testimonianze raccolte. Infine si è proceduto ad una analisi del contenuto del materiale raccolto che, comparato con gli elementi bibliografici precedentemente consultati, ha portato alla stesura del presente rapporto di ricerca.

         Per restituire spessore storico alle testimonianze raccolte la metodologia qualitativa adottata si è avvalsa dello strumento d'analisi dell'intervista semi-strutturata, la cui traccia è stata opportunamente modulata sia per facilitare la pratica discorsiva nella narrazione del vissuto personale delle donne intervistate che per superare eventuali resistenze nell'identificare e/o raccontare atteggiamenti avvertiti come pregiudiziali della società autoctona.

         Le interviste[3], della durata variabile da quaranta a novanta minuti circa, sono state condotte fra giugno e ottobre 2000 da donne frequentanti il "Centro Interculturale delle Donne - Ujamaa'", committente della ricerca, opportunamente preparate in alcuni incontri di briefings.

         Considerando gli ambiti che la ricerca si prefigge di esaminare, lo studio ha coinvolto donne presenti nel nostro Paese da almeno tre anni, anche se non in possesso di regolare permesso di soggiorno. Il campione è stato calibrato sulla base delle indicazioni emerse dall'analisi delle caratteristiche socio-demografiche delle immigrate regolarmente presenti nella Provincia di Trento[4], ponderando in particolare le macro aree di provenienza delle cittadine straniere (con esclusione delle donne originarie del Nord - America e dei Paesi Europei Occidentali non comunitari), la distribuzione territoriale delle stesse e le motivazioni espresse nella richiesta del permesso di soggiorno.

 

         Riteniamo opportuno precisare - prima di procedere nell'esposizione del presente contributo - che metodologie di tipo qualitativo rinunciano a pretese di generalizzazione ed esaustività delle indicazioni raccolte, in favore della possibilità di inoltrare compiutamente l'analisi all'approfondimento dello spaccato di realtà esaminato.

 

 

 

 

 

 

 

2   FISIONOMIE DEL FENOMENO MIGRATORIO

 

 

2.1   INDICAZIONI PROPEDEUTICHE

 

         L'inversione storica del nostro Paese da "area di esodo ad area di approdo" si è imposta - significativamente - nei primi anni Ottanta, contestualmente all'attuazione di misure a carattere restrittivo (la c.d. "politica degli stop") avviate dai Paesi industrializzati dell'Europa Centro - Settentrionale al fine di controllare il flusso degli ingressi. I nuovi spostamenti migratori - secondo la letteratura classica sulle migrazioni - sono stati determinati da interdipendenze globali e connessioni multiple ben distinguibili dalle grandi migrazioni intraeuropee che hanno caratterizzato gli anni Cinquanta e Sessanta, e che avevano nei Paesi della sponda Nord del Mediterraneo le "riserve" di lavoro manuale a cui attingere.

         Quest'inversione risponde, dunque, alle trasformazioni generali del contesto socio - economico internazionale, trasformazioni identificabili nei processi di deindustrializzazione e terziarizzazione dell'economia, nei bassi tassi di natalità e nell'invecchiamento della popolazione che caratterizzano i Paesi industrializzati, congiuntamente ai processi di depauperizzazione ambientale, esplosioni demografiche, urbanizzazioni, conflitti etnici - razziali e degrado ecologico che distinguono sempre più vaste aree del Sud del Mondo.

         Se le politiche adottate dai Paesi Europei di antica tradizione immigratoria a cavallo degli anni Ottanta hanno "spostato" i flussi migratori nelle aree "di ripiego" mediterranee, caratterizzate da un'accentuata permeabilità delle frontiere[5], la nuova fisionomia internazionale, i mutamenti nello scenario economico nazionale e - non da ultimo - l'implosione che a partire dagli anni Novanta ha sconvolto i Paesi dell'Europa dell'Est ad economie centralmente pianificate, hanno definitivamente connotato i Paesi industrializzati dell'Europa mediterranea come "mete", non più marginali, di eterogenei flussi migratori.

         La società italiana - caratterizzata da una forte differenziazione economica e geografica fra realtà regionali - ha assistito ad un flusso migratorio concentrato, nella sua fase iniziale, nelle grandi metropoli e nelle aree centro - meridionali del Paese, composto da cittadini originari del Maghreb (in particolare marocchini e tunisini) e da cittadine provenienti dall'Eritrea, da Capo Verde e dalle Filippine, occupati prevalentemente nei settori ittico e agricolo stagionale e nel settore domestico.

         «Mete di un'immigrazione di natura selettiva e guidata dalla consapevolezza delle opportunità di lavoro in esse esistenti» (Zanfrini L., 1993, p.87) le regioni settentrionali italiane (e in particolare le realtà del Nord - Est) perdono - nel corso degli anni Novanta - la loro "relativa estraneità al fenomeno migratorio" e diventano polo attrattivo sia per gli stranieri già presenti nelle aree centro - meridionali del Paese - "migrazione intraterritoriale" - che per le aggiuntive e significative migrazioni provenienti dai Paesi dell'Europa dell'Est.

 

2.2   PRESENZA FEMMINILE NELL'IMMIGRAZIONE

 

         La "progressiva e precoce femminilizzazione dei flussi" (Favaro G., 1991) con la presenza di donne sole con progetti migratori prettamente lavorativi è la significativa anomalia dei flussi migratori italiani.

         Particolarmente nella sua fase iniziale - indicativamente negli anni Ottanta - tale anomalia distanzia nettamente la realtà del nostro Paese con quelle delle Nazioni a più matura tradizione immigratoria, che - fra gli anni Settanta e Ottanta - vedono una presenza femminile determinata, in larga misura, dalle norme sui "ricongiungimenti familiari". Solo a partire dagli anni Novanta il fenomeno incomincia ad essere diversificato per la presenza di donne - per lo più maghrebine - che, agevolate dalle nuove norme legislative, sono giunte - o giungono - in Italia a seguito del coniuge, per "ricomporre" il nucleo familiare originario (la c.d. "immigrazione femminile derivata").

         Nell'osservare il trend italiano se già dagli anni Settanta la percentuale femminile sul totale della componente migratoria oscillava intorno al 30%, i dati ultimi disponibili mostrano una presenza femminile pari al 45% dell'immigrazione regolare in Italia, con una quota sempre considerevole di percorsi migratori declinati al femminile[6].

         Donne che, in prima persona, agivano e agiscono la dinamica migratoria, e che spesso rappresentavano e rappresentano il momento di inizio di una catena migratoria di genere o di ricongiungimenti familiari. Donne appartenenti - prevalentemente - a gruppi etnici ben determinati e inserite - in particolare nella prima fase del flusso immigratorio nel nostro Paese - in correnti favorite dall'associazionismo legato alla Chiesa cattolica[7], una relazione che, variamente ancora unisce "l'essere donna, colf e cattolica" (De FilippoE., 2000).

         Sebbene a tali "flussi storici" si siano aggiunti altri e più compositi flussi che stanno ridefinendo la componente di genere nell'origine etnica dei gruppi migratori, rimane - comunque - sempre una marcata caratterizzazione di genere nelle diverse collettività presenti, con una presenza numerica maggiore di quella maschile fra gli asiatici (sono donne il 67.3% dei filippini), fra i cittadini provenienti dal Centro - Sud America (il 69.6% dei peruviani e il 73.2% dei brasiliani) e dell'Europa dell'Est (il 67.5% della popolazione polacca presente è di genere femminile). Confrontando la consistenza numerica fra i generi per nazionalità, le donne costituiscono la componente minoritaria fra i senegalesi (5.7%) e i pakistani (8.7%), mentre sono di genere femminile il 20.4% dei macedoni, il 20.7% dei marocchini e il 30.7% degli albanesi presenti sul nostro territorio[8].

         Sin dalle sue origini, la femminilizzazione della presenza straniera extracomunitaria significa, sostanzialmente, una collocazione occupazionale nell'ambito familiare, passando - nell'ultimo quindicennio - dalla cura della casa alla cura delle persone, un "ampliamento" che sempre più ha richiesto la presenza di "lavoratrici giorno e notte" (de Filippo E., 1994) disponibili ad una flessibilità di ruoli e orari e adattabili ai bisogni e agli spazi della famiglia datrice di lavoro. Lavoratrici con "pressoché nulle prospettive di mobilità professionale" (Vicarelli G., 1994) che svelano - con la loro presenza - una domanda di servizi alla persona elusa da uno stato sociale in progressiva erosione, «servizi non forniti, o insufficientemente forniti, dallo Stato e dalle Amministrazioni locali» (de Filippo E., 2000, p.52).

         Domande di cura - alla casa, ai minori, ai disabili, … - indotte - in società postindustriali - dalle trasformazioni nei rapporti comunitari e familiari, dal sistema di produzione economica, dalle politiche di restrizione - più che di trasformazione - del welfare state, dalla presenza femminile nel mercato lavorativo extra-domestico e dal costante invecchiamento della popolazione.

         Richieste di servizi rivolte all'universo femminile extracomunitario per compensare la parziale e incompleta trasformazione dei "nostri" modelli familiari, così «queste donne, che vengono da lontano, occupano i posti che noi [donne] abbiamo lasciato liberi, fanno i mestieri che non siamo riuscite a condividere con i nostri uomini, svolgono ruoli che non abbiamo ottenuto che fossero organizzati civilmente dalle strutture sanitarie e per i quali il volontariato non ha abbastanza braccia e cuori» (Luciano A., 1994, p.225).

         Qualsiasi sia la scelta all'emigrazione o - più propriamente - qualsiasi sia il "peso" delle variabili che nella loro eterogenea compresenza intervengono in ogni progetto migratorio - e qualsiasi sia il livello di scolarità o professionale raggiunto nel Paese d'origine, la collocazione occupazionale nel settore domestico e/o assistenziale appare l'unico spazio realisticamente praticabile per le donne migranti. Aspirazioni di "mobilità verticale", aspirazioni, cioè, legate ad un desiderio di emancipazione lavorativa e sociale che possa permettere un "cambiamento" ad un altro settore occupazionale sembrano - nel quadro della società italiana - difficilmente realizzabili, mentre più fattibile (anche se non esente da rischi di disoccupazione e da processi di impoverimento) sembra essere prefiggersi l'obiettivo di "promozione orizzontale", ovvero passare dalla condizione di lavoratrice convivente ad impieghi ad ore o all'assunzione in imprese del terziario (imprese di pulizia o cooperative di servizi alla persona).

         Se l'occupazione "giorno e notte" può corrispondere ai progetti immigratori "a termine" e alle aspettative di guadagno delle donne immigrate "sole", in quanto permette, contemporaneamente, un inserimento lavorativo e alloggiativo, un reddito netto convertibile in rimesse ai Paesi di provenienza (e - per chi è irregolarmente presente - l'invisibilità sociale), questi stessi fattori costituiscono - nel tempo[9] - una forma di "segregazione occupazionale" che rende difficile ipotizzare percorsi di autonomia personale e abitativa, ricongiungimenti familiari e modalità di inserimento nella comunità autoctona.

         Meno problematica - ma non per questo priva da conflittualità - appare la situazione delle donne il cui progetto migratorio segue o accompagna quello del coniuge o del nucleo familiare d'origine. Donne che migrano - pertanto - per ricomporre il loro nucleo familiare, e che dagli anni Novanta sono sempre più presenti nella comunità maghrebina (in particolare fra i cittadini del Marocco), asiatica (essenzialmente cinese) e - solo recentemente - in quella albanese.

         L'esperienza migratoria assume - in questi casi - caratteristiche che possono avvicinarsi ai modelli femminili della tradizione emigratoria intraeuropea degli anni Cinquanta e Sessanta, figure di donne in cui predomina il ruolo di moglie e madre, anche in quei casi in cui il lavoro extradomestico appare predominante.

         Per chi non rimane completamente al di fuori del mercato del lavoro (per scelta personale o di coppia), le opportunità occupazionali sono concentrate negli stessi ambiti offerti alle donne immigrate "sole", ma presumono impegni lavorativi più discontinui o modalità, specialmente orarie, differenti: lavori a ore presso le famiglie, nelle imprese di pulizia o nella ristorazione.

         Se l'inserimento nel nucleo familiare - nel ruolo di moglie e madre - attenua quei sentimenti di solitudine, di nostalgia, di "vuoto interiore" che drammaticamente accompagnano l'esperienza migratoria delle donne "sole"[10], l'acquisizione stessa del "ruolo familiare" rende qui complessa l'esperienza migratoria, esperienza accompagnata - da un lato - da una "tensione" all'autoisolamento per garantire «un rapporto di continuità con il passato attraverso la trasmissione della tradizione» (Grasso M., 1994, p.27) e - dall'altro - da una spinta al confronto per ricercare nuovi equilibri con i modelli valoriali della società d'accoglienza.

 

 

2.3   PROFILI FEMMINILI DI RIFERIMENTO

 

         Sostanzialmente simile - nell'offerta d'opportunità occupazionali - ai contesti territoriali che caratterizzano il Nord - Est Italiano, la presenza migratoria extracomunitaria nella Provincia di Trento risulta comparabile a quella registrata nelle regioni confinanti, mostrando un trend dei flussi migratori in costante incremento. Sebbene l'andamento non sia da considerarsi linearmente progressivo, si è passati da un tasso d'incidenza degli stranieri extracomunitari residenti sul totale della popolazione dello 0.4% nel 1990 all' 1.8% nel 1997[11].

         La femminilizzazione del fenomeno immigratorio nella realtà provinciale è particolarmente evidente (essenzialmente in linea con il dato nazionale): il 44.8% della popolazione extracomunitaria presente (con esclusione dei/lle cittadini/e del Nord - America e dei Paesi Europei Occidentali non comunitari) è di genere femminile[12].

         Considerando la consistenza numerica delle straniere residenti nel territorio e scorporando il dato per macro - aree geografiche d'origine, la componente femminile più rappresentativa proviene dai Paesi dell'Est (52.4%), seguita dalla componente femminile originaria del Maghreb (23.2%), dell'America Centromeridionale (14.7%, dell'Asia (5.9%) e dell'Africa (3.8%).

         Comparando la consistenza numerica fra i generi per ogni gruppo considerato risulta che la componente femminile è maggioritaria fra le persone dell'America Centromeridionale (73.2%), mentre il suo peso appare più contenuto nel gruppo Asiatico (in cui il 42.4% dei cittadini sono donne), Africano (con il 42.4 delle residenti che appartengono al genere femminile) e nel gruppo proveniente dall'Europa Orientale (il 41.2% dei cittadini dell'Europa dell'Est sono donne). La componente femminile risulta, invece, minoritaria fra i maghrebini/e (sono donne il 31.9% dei/lle residenti nel territorio provinciale).

 

I profili femminili di riferimento emersi dalla ricerca ritraggono - proporzionalmente - le macro - aree di provenienza delle donne regolarmente residenti nella Provincia di Trento[13], considerando la distribuzione territoriale delle stesse nella realtà provinciale e le motivazioni espresse nelle richieste di rilascio del permesso di soggiorno.[14]

Lo scenario composto dalle macro - aree d'origine delle 40 cittadine straniere intervistate rivela che 21 donne provengono dall'Europa Orientale, 9 dal Maghreb, 5 dal Centro - Sud America, 3 dall'Asia e 2 dall'Africa centrale.

 

 

 

 

Nello specifico, le diverse Nazionalità che compongono i gruppi di riferimento sono così rappresentate:

 

GRUPPO DI RIFERI-MENTO

 

NAZIONALITA'

TOT.

DONNE

 

GRUPPO DI RIFERI-MENTO

 

NAZIONALITA'

TOT.

DONNE

 

MOLDAVIA

1

 

 

MAROCCO

6

 

UCRAINA

8

 

MAGHREB

ALGERIA

2

EUROPA

RUSSIA

2

 

 

TUNISIA

1

 

ROMANIA

1

 

TOT.

 

9

EST

POLONIA

3

 

 

 

 

 

SERBIA

1

 

AMERICA

ARGENTINA

1

 

(KOSOVO)

1

 

CENTRO

CILE

1

 

ALBANIA

4

 

SUD

ECUADOR

1

TOT.

 

21

 

 

BRASILE

2

 

 

 

 

TOT.

 

5

 

FILIPPINE

1

 

 

 

 

ASIA

GIAPPONE

1

 

AFRICA

NIGERIA

1

 

(HONG KONG)

1

 

CENTRALE

MOZAMBICO

1

TOT.

 

3

 

TOT.

 

2

 

         Quattro donne (provenienti dall'Argentina, dalle Filippine, dal Centro-Sud  America e da Hong Kong) possiedono la doppia cittadinanza (italiana più straniera) in virtù del matrimonio con cittadini italiani, ad esclusione di un unico caso in cui la doppia cittadinanza è data dalle origini italiane della donna cilena intervistata.

         Considerando le finalità che la ricerca si prefigge di analizzare, si sono coinvolte nello studio cittadine straniere extracomunitarie presenti stabilmente nel nostro Paese da almeno tre anni. Il dato relativo al periodo di permanenza in relazione al gruppo di riferimento è riportato nella seguente tabella:

 

 

 

TEMPO PERMANENZA

(IN ANNI)

GRUPPO DI RIFERIMENTO

DONNE

 

TOTALE

3

EUROPA EST

7

8

 

ASIA

1

 

 

EUROPA EST

12

 

4-6

MAGHREB

5

20

 

AFRICA CENTRALE

2

 

 

ASIA

1

 

 

EUROPA EST

1

 

7-9

MAGHREB

3

7

AMERICA CENTRO-SUD

3

10-12

EUROPA EST

1

2

 

MAGHREB

1

 

13-15

ASIA

1

3

 

AMERICA CENTRO-SUD

2

 

TOTALE

 

40

 

Come si evince dalla tabella riportata il campione di donne considerato risulta avere un periodo medio di permanenza nel nostro Paese piuttosto elevato. L'incrocio fra tali dati con quelli relativi allo stato civile delle donne (che riportiamo in seguito) e la nazionalità del partner evidenzia che tutte le donne presenti da oltre dieci anni sono coniugate con un italiano. Abitano a Trento città o comuni limitrofi 19 intervistate, 9 a Rovereto città o nei paesi vicine e 12 nelle valli della nostra provincia.

         La fascia d'età più rappresentativa risulta essere quella fra i 30 - 39 anni (16 donne), mentre 12 e 10 donne hanno - rispettivamente - un'età compresa fra i 40 - 49 anni e 20 - 29 anni. Solo 2 donne hanno un'età compresa fra i 50 - 59 anni.

Donne nel pieno del loro ciclo di vita che risultano - nella stragrande maggioranza - coniugate (30), poche - in proporzione - le nubili (8) e 2 le separate o divorziate. Sono sposate con un cittadino italiano 12 intervistate, 4 delle quali originarie dell'Europa dell'Est, 3 dal Maghreb, 2 dall'America Centromeridionale, 3 dall'Asia e una dell'Africa Centrale. Delle 40 donne contattate 21 hanno figli/e minori (in genere molto piccoli/e) e 4 hanno ragazzi/e maggiorenni. In 8 casi i/le figli/e risiedono nel Paese d'origine dell'intervistata, convivendo con il padre o con un componente della famiglia d'origine.

         Relativamente alla religione praticata 17 donne si professano Cattoliche, 10 Mussulmane, 11 appartengono ad altre religioni (Ortodossa, Evangelica, …) e una si dichiara atea. Solo una donna non ha ritenuto di dover esprimere nel colloquio la propria religione d'appartenenza.

         Il livello di scolarizzazione delle intervistate è mediamente elevato. Ben 5 donne hanno conseguito un Diploma di Laurea nel Loro Paese, 20 donne hanno un Diploma di Scuola Media Superiore di durata quinquennale, 9 hanno conseguito un Diploma Professionale che prevedeva un corso triennale di studio e, solo 6 donne, hanno conseguito nel loro Paese la Licenza Media Inferiore.

La tabella seguente consente di visualizzare immediatamente il buon livello di scolarità posseduto dalle donne intervistate:

 

 

 

 

GRUPPO DI RIFERIMENTO

 

TITOLO DI STUDIO

 

LICENZA ELEMENTARE

SCUOLA MEDIA INFERIORE.

DIPLOMA PROFES.

(3 ANNI)

DIPLOMA

SCUOLA MEDIA SUPERIORE

 

LAUREA

 

TOT.

EUROPA EST

 

 

1

6

11

3

21

MAGHREB

 

 

2

2

4

1

9

AMERICA CENTYRO-SUD

 

2

 

2

1

5

AFRICA CENTRALE

 

 

1

1

 

2

ASIA

 

 

1

 

2

 

3

TOTALE

 

6

9

20

5

40

 

         Dall'analisi del contenuto delle interviste emerge che, particolarmente nei Paesi dell'Europa Orientale, gli elevati livelli di scolarità raggiunti dalle donne si armonizzavano con adeguati percorsi lavorativi. Percorsi professionali - dunque - che il crollo delle economie centralmente pianificate ha frantumato.

         I dati relativi alla situazione occupazionale attuale in relazione alle macro - aree geografiche di provenienza delle 40 donne da noi incontrate sono visualizzati nel quadro seguente:

 

 

GRUPPO

DI RIFER.

SITUAZIONE OCCUPAZIONALE

STUDEN-TESSA

CASA-

LINGA

OCCU-

PATA

(24/24 h)*

OCC. TEMPO PIENO

PARZ. OCC.

DISOC.

EUROPA

EST

2

2

5

6

5

1

MAGHREB

 

 

3

 

1

2

3

AMERICA CENTRO-SUD

 

2

1

 

2

 

AFRICA CENTRALE

 

1

 

 

1

 

ASIA

 

 

2

 

 

1

 

TOTALE

2

10

6

7

11

4

         *coabitante con il datore di lavoro

 

         Il panorama che si presenta osservando gli ambiti occupazionali "coperti" dalle 24 donne che risultano "occupate" o "parzialmente occupate" (in rapporto al gruppo di riferimento) è illustrato nella seguente tabella:

 

 

 

 

GRUPPO

DI RIFERIMENTO

AMBITI / MANSIONI OCCUPAZIONALI

ASSISTENZA DIURNA E NOTTURNA*

COLLABO-

RAZIONE

DOMESTICA³

INTERPRETA-

RIATO***

 

ALTRO****

EUROPA

EST

5

11

 

 

MAGHREB

 

 

1

2

 

AMERICA CENTRO-SUD

1

 

1

1

AFRICA CENTRALE

 

 

1

 

ASIA

 

 

 

1

 

TOTALE

6

12

5

1

* assistenti diurne e notturne ad anziani    **domestiche / operatrici in imprese di pulizia    *** Mediatrici culturali, interpreti, lettrici    **** segretaria d'azienda

 

Dati particolarmente esplicativi - seppur non generalizzabili, ma sostanzialmente simili allo scenario nazionale - sulla collocazione occupazionale offerta alle donne. Collocazione che, a fronte di una minoranza collocata nel variegato settore dell'interpretariato (con un impegno estremamente saltuario) vede la stragrande maggioranza delle donne inserite nell'ambito domestico e/o assistenziale, spesso assunte - dalla famiglia datrice di lavoro - senza alcun tipo di contratto lavorativo.

Nel periodo di svolgimento della ricerca tutte le donne contattate che svolgevano mansioni relative alla cura degli anziani (con assistenza diurna e notturna) e la metà delle donne che lavoravano (a tempo pieno o a ore) nelle famiglie in qualità di collaboratrice domestica risultano "assunte in nero".

Oltre 1/4 delle donne intervistate, presenti regolarmente in Italia da tre o più anni, sono in condizione di "clandestinità", tutte impiegate presso famiglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3   I GIOCHI DELL'INVISIBILITA'

 

 

         Proporre percorsi e storie di migrazione raccontate dalle protagoniste è rendere familiare e visibile la "pluralità della loro esperienza": valutazioni e percezioni che ogni donna singolarmente esprime rispetto alla sua esperienza concreta, a ciò che apprende da altri/e, alla conoscenza che ha del suo ambiente e di ciò che ascolta nella società in cui vive.

         Ogni donna porta con sé diversità originate dal progetto migratorio perseguito, dal suo contesto d'origine, dal periodo di permanenza nel nostro Paese, dalla condizione in cui vive e dalle "risorse personali" a cui può attingere. Diversità che nel contempo fanno emergere tracce di esperienze sovrapponibili - spazi che a noi possono permettere la lettura di un fenomeno che appare - per molti aspetti - ancora in ombra.

 

3.1   LA REALTA' LAVORATIVA

 

         Nel veicolare il patrimonio di storie, notizie, strategie d'immigrazione che costituiscono - nei Paesi di esodo - la fonte principale di informazione sul nostro Paese e sulle possibilità occupazionali che esso può offrire, un ruolo fondamentale sembrano assumere le reti informali - personali o familiari - di conoscenti. Reti che, se attivate, rendono "fattibile" la partenza, individuabile l'approdo e, talvolta, facilitano l'inserimento lavorativo:

 

«Avevo problemi economici, non c'era tanto lavoro lì […] Sentivo che tante donne della mia città venivano qui e allora ho chiesto a una conoscente […] mi ha detto come fare i documenti e sono venuta» (B. Ucraina);

«Mia sorella ha chiamato che una signora aveva bisogno allora ho preso il pullman e sono venuta. [E' venuta con i documenti?] Tutte siamo senza carte, con il passaporto e il visto veniamo con il pullman.» (C. Moldava);

«Un collega mi ha detto dove andare per avere subito le carte giuste [Il visto d'ingresso?] Si [Ma sapeva il posto?] Tutti sanno che ci sono posti, poi però non sono tutti buoni, mi ha detto lui dove andare, sono stata fortunata [Conosceva qualcuno qua?] Non sono partita con gli occhi chiusi […] Nessuno parte con gli occhi chiusi, c'erano [… lontani parenti] di mio marito a Foggia sono stata un anno in una casa [assistenza ad un anziano] poi un'amica conosceva una famiglia che cercava qua e sono venuta» (D. Albanese).

 

Reticoli di conoscenze cui ricorrere anche nel Paese d'approdo, forme di solidarietà intra-comunitaria che, al di là della loro funzione "relazionale - affettiva" - sono spesso considerate una fra le principali risorse "materiali" a cui appellarsi in un'eventuale ricerca di un inserimento lavorativo. Parallelamente, le risorse istituzionali, i servizi pubblici e privati che potrebbero sostenere ed orientare la ricerca di un'occupazione (Centri per l'Impiego, Agenzia del Lavoro, Agenzie del Lavoro interinale) sembrano poco utilizzati, ritenuti - per lo più - inefficaci (ad esclusione del settimanale locale di annunci gratuiti) e burocratizzati:

 

«E' molto meglio arrangiarsi da sola per il lavoro, con gli amici che hai.[…] Puoi prendere "Bazar", o vedi "l'Alto Adige". Non l'Ufficio del Lavoro perché io non mi fido mai, vai, lasci il nome e non ti chiamano mai. Meglio da sola però …» (J. Marocchina);

«Se dovessi consigliare a una mia amica come cercare lavoro consiglierei di cercarlo attraverso conoscenze … poi non so …» (P. Albanese);

«Direi i giornali, come "l'Alto Adige", "Bazar" e gli amici. Non conosco altri Enti che aiutano per il lavoro a parte la CISL» (O. Russa)

«Non so … Ma meglio non andare negli Uffici, devi portare le carte e poi non sanno per noi … Poi non sai se lasci il nome … [ma cosa può succedere?] non sai … Meglio chiedere agli amici o a chi conosci» (B.Brasiliana).

 

Un'informazione sulla realtà locale che appare generalmente "sfumata", anche in chi ha una maturata esperienza migratoria nella nostra Provincia, risulta coniugata con un cittadino italiano o ha conseguito la Licenza Media nella nostra Provincia. Una non chiara conoscenza dei limiti/opportunità delle risorse territoriali che distanzia le testimonianze seguenti dal panorama generalmente ascoltato[15]:

 

«Consiglierei a chi cerca un lavoro di iscriversi e di andare a vedere gli annunci all'Ufficio di Collocamento, o nelle altre Agenzie, ma anche lì le cose sono lunghe. Ti mettono in una lista d'attesa ma non sai mai quando ti chiamano. E' la strada giusta ma è molto lunga. Ma proverei anche in altri modi, metterei un fogliettino nel supermercato o nel giornale. Proverei ad andare all'ACLI, sempre per domestica. Per altri lavori migliori non so, perché anch'io non ho cambiato, non ho trovato niente» (M. Albanese);

«Direi quello come quello che direi a me [se cercassi un lavoro]. Vai alle Agenzie come Adecco o altre e all'Ufficio di Collocamento, lì ci sono gli indirizzi, ti iscrivi ma è lungo il tempo. Subito ci sono i giornali di qui e "Bazar", sempre se vuoi cercare come domestica, altro è difficile …. Poi vedi di far riconoscere la scuola che hai fatto, è importante» (R. Albanese).

 

         Un singolare e accentuato ripiego comunitario, sostenuto da progetti migratori autorappresentati e immaginati come esperienze limitate, a "breve termine" (anche in chi, nei fatti, li ha ripetutamente procrastinati), sembra plasmare i rapporti e le relazioni che si strutturano (in particolare) fra le donne ucraine intervistate, esperienze che "limitano" le informazioni ad un unico canale facilitatore per un rapido inserimento lavorativo:

 

«Appena venuta sono stata alla "Casa della Giovane" e poi sono andata alla "Caritas", e ho preso i numeri di telefono, ci sono sempre anziani […] Se avessi un'amica che cerca lavoro direi di andare alla "Caritas". Poi io conosco tante persone qui, ci sono tanti vecchi [da assistere], l'aiuterei io» (G. Ucraina);

«Io aiuterei, adesso la "Caritas" non è più buona come una volta … ma forse anche la "Caritas … altro non so» (E. Ucraina);

«"Caritas", [vale] anche per me. Tante donne vanno alla "Caritas": indirizzi, numeri di telefono» (Q. Ucraina).

 

         Se lo stato di clandestinità porta con sé l'inevitabilità di un'occupazione irregolare:

 

«Tutte noi vorremo essere regolari. Tutte, così potremo stare qui per altri 2 o 3 anni ancora. Adesso abbiamo paura […] basterebbe che il Comune ci dicesse "paghi e ti do il permesso di soggiorno". Noi lavoriamo e tutto sarebbe a posto» (F. Ucraina);

«Noi non abbiamo diritti. Come clandestine dobbiamo accettare tutto» (B. Ucraina);

«Non ho le carte del lavoro perché qui siamo tutte clandestine [ma vorrebbe avere un contratto di lavoro in regola?] Si, si, ma se torno a casa poi non posso più ritornare … allora resto qui» (C. Moldava);

 

il possesso di un permesso di soggiorno non sembra - però - essere requisito sufficiente per entrare nel mercato del lavoro regolare[16] - un desiderio di uscita da un mercato sommerso espresso frequentemente dalle donne intervistate:

 

«Senti, se una straniera cerca in regola non trova. Mio marito [italiano] mi ha trovato questo [lavora come segretaria part-time presso una ditta] e sono fortunata.[E' in regola?] no, no … vorrei ma non dipende da me. [Ma ha chiesto?] Si, ma hanno detto che forse più avanti … [Da quanto tempo lavora lì?]. Aspetta …sono quasi due anni e mezzo» (A. Brasiliana);

«Questa persona mi ha detto che se accettavo di lavorare senza contratto era meglio per lei [ma perché era meglio per lei?] per i contributi, nessuno vuole pagarti i contributi […] Se uno vuole lavorare in regola non si trova» (T. Mozambicana).

«Se sei in regola hai tutto tranquillo, se ti ammali, le ferie e tutto. [Ha chiesto se la regolarizzano?] Tre parti [la signora lavora come domestica a ore da tre famiglie] e nessuno vuole» (R. Albanese).

 

Il bisogno di un'occupazione e la percezione della precarietà contrattuale - lavorativa inducono - nelle donne intervistate - una sorta di "realistico adeguamento" alle condizioni imposte dal mercato del lavoro. La "non - opportunità" di alternative occupazionali al settore domestico/assistenziale che, per molte, assume il carattere dell'impossibilità al cambiamento[17]:

 

«Fare questo lavoro [domestica] per una giovane come me non è gran che, serve per andare avanti. Ma nella vita, per il futuro, devi fare un lavoro che almeno un po’ ti piaccia […] Sai nella mia situazione è difficile cambiare, tanto difficile. Vorrei fare dei corsi della Provincia per entrare nei buchi che la società ha bisogno […] ma lavoro tutto il giorno …» (M. Albanese);

«Fare altri lavori [la signora lavora come domestica] è quasi impossibile per me […] Ho lavorato come capo - infermiera a Scutari [Albania] mi piaceva quel lavoro. Forse se prendo la scuola qua ho qualche possibilità di fare altro … forse. Ma ora non posso […] Vedi i bambini? sono qua per loro. [la signora ha due bambini ed è giunta in Italia per ricongiungimento familiare] dobbiamo lavorare anche male per loro»(R. Albanese);

«Non ci sono tante scelte [per una immigrata] per trovare lavoro, lo so per mia esperienza personale. Anche per le mie amiche che hanno qualifiche minori della mia [la signora è casalinga, laureata e sta cercando il riconoscimento del titolo di studio conseguito] trovano solo da fare pulizie e assistenza anziani» (H. Algerina).

 

La distanza fra lavoratrici straniere e lavoratrici italiane (fra i "non - diritti delle une" e i "diritti delle altre") è un sentire che accomuna la stragrande maggioranza delle donne straniere intervistate, occupate o non:

 

«Qui per certi lavori si preferiscono le straniere [perché?] perché si sa che le straniere lavorano di più perché hanno bisogno del lavoro e lo vogliono tenere» (D. Argentina);

«Sento tante mie amiche [la signora è casalinga] lavorano tanto e sono pagate poco. Sfruttano tanto sui problemi degli altri […] Le italiane prendono differente, di più […] C. lavora sempre [24/24h] da un anziano e prende 1.000.000 £. [Sa se ha giorni di riposo o ferie?] la domenica non lavora, poi sempre» (C. Ecuadoriana);

«E' successo proprio a me. Sono andata per un annuncio e questa persona mi ha detto che dovevo lavorare dalle 8 alle 18 per 1.2000.000 £ .Io non ci sono andata. Subito l'ho detto a una mia amica italiana, lei è andata e le hanno detto che la pagavano 1.500.000 » (T. Mozambicana);

«Qui trovi facilmente lavoro … se non pretendi troppo. Molte [donne immigrate] si accontentano di quello che trovano e si lasciano sfruttare per paura di rimanere senza lavoro» (K. Russa);

«Sono in regola e per tutte [italiane e non] c'è la stessa tariffa […] Se poi lavori fuori orario [straordinario] sono privilegiate le italiane […] L'ho scoperto questo "privilegio", non è scritto ma esiste!» (I. Polacca);

«La donna italiana [che fa il mio stesso lavoro] prende di più, tu lo sai» (E. Ucraina);

«Prendono di più [le italiane]. L'ho saputo da altre donne che fanno il mio stesso lavoro [assistenza anziani 24/24h.]. Ma per noi la cosa che conta è lavorare, non importa se c'è [il giorno] libero o no […] Sarebbe bello che avessimo libero 2 o 3 ore al giorno perché sono lavori pesanti, ci sono invalidi, anziani che non ragionano ed è pesante. Ma non sempre questo è possibile. E' così» (A. Ucraina).

 

Inevitabile adattamento alle regole del mercato che, per alcune, sembra rendere superflua anche la sola informazione sui diritti (retribuzione, riposi, ferie …) garantiti dalle norme contrattuali vigenti:

 

«Una volta ho letto su un giornale che c'era questo contratto, ma non ricordo bene […] tutto non so, non serve per noi che siamo senza carte [permesso di soggiorno]» (E. Ucraina);

«Lavoro in nero […] Una volta volevo andare a chiedere bene … ma poi non sono andata [perché?] mio marito ha detto "ma cosa serve se poi non puoi chiedere?" [e non sei andata] No »(R. Albanese);

«So … so delle cose ma non mi sono mai informata bene [perché?] non sono assunta giusta, anche se so a cosa serve?» (B. Brasiliana);

«Ho sentito delle voci, fra noi » (Q. Ucraina).

 

In una fase di maturata esperienza migratoria, il senso di costrizione / frustrazione per un ruolo caricato di disistima sociale - anche in molte culture di riferimento delle donne migranti - diviene particolarmente opprimente laddove la scelta migratoria ha comportato un collassamento dello status sociale precedente alla partenza con la "frantumazione" d'invidiabili carriere professionali:

 

«Tu devi lavorare e accettare tutto, non hai scelta …Devi […] Cambiare così … la mia vita e il lavoro [la signora era ingegnere responsabile in un'Azienda a Durazzo (Albania)] è molto difficile dentro da accettare […] Ho pianto tanto …fuori accetti … ma dentro accettare non penso che riesci […] Prima [appena giunta in Italia] non pensavo proprio che era così, pensavo che forse trovavo qualche cosa, non proprio come là, ma … qualche cosa […] C'è anarchia là, niente funziona adesso, non puoi lasciare crescere giusto un ragazzo [il figlio] che deve studiare, fare tutte le scuole buone, ora non puoi farlo più in Albania» (D. Albanese).

 

Senso di frustrazione accentuato dal desiderio di veder legalizzata la propria carriera scolastica, una possibilità che richiede farraginosi e lunghi iter burocratici in assenza di accordi specifici fra Stati. Problematica, quest'ultima, particolarmente sentita e richiamata nelle interviste ascoltate:

 

«Non penso che sia giusto che uno se ha fatto degli studi poi qua non è niente … io non sono niente [la signora è ragioniera] ho chiesto, ma hanno detto che devi fare tanti documenti e poi non sai se vanno bene per qua […] Una mia amica che sa cinque lingue e che ha studiato tanto anche lei è così come me […] Queste cose noi non ci possiamo fare niente, è una cosa di Governi» (I. Algerina);

«Volevo fare un corso a Trento per far riconoscere il mio diploma di infermiera professionale. Ho fatto tutta la pratica, ma adesso, dopo 11 mesi, Roma non mi ha ancora risposto» (L. Ucraina);

«.Mi sono informata [per il riconoscimento della laurea in Ingegneria] e hanno detto che devo fare tre esami ma devo portare i programmi [degli esami sostenuti] ed è difficili averli là adesso … vorrei fare … Ma non so se poi serve […] Ci sono tanti qua che conosco, non ignoranti, che hanno studiato tanto e lavorato tanto prima [con la loro qualifica] e adesso sono qui e fanno questi lavori, come me […] Tu studi tanto e qui sei ignorante! … Serve anche per te, dentro … qui non hai riconosciuta neanche la scuola più bassa!» (D. Albanese).

 

Il tipo di progetto migratorio, la possibilità di scelte differenti, l'istruzione, lo status socio/professionale precedente all'esperienza migratoria condizionano - seppure sempre in un quadro di notevoli differenze soggettive - la stessa disponibilità ad accettare determinate collocazioni lavorative:

 

«Anche mio marito è sempre stato d'accordo, se devo andare a pulire le case degli altri è meglio non lavorare "fuori" […] Qui c'è solo per le pulizie io non spendo il mio tempo a cercare quello che non c'è […] Non ci sono occasioni [ma ha mai chiesto?] No, perché qui gli stranieri hanno proprio difficoltà a trovare il lavoro che vogliono loro. Se sei professionista o infermiere è difficile […] Questi lavori sono per gli italiani, sono anche loro disoccupati e quindi il lavoro pulito va a loro, per noi c'è il lavoro sporco» (V. Filippina);

«Sono sarta, l'ho sempre fatto e mi piace. […] Sto cercando lavoro come sarta. [Non c'è lavoro?] Non so …dipende. Quando io telefonavo [per un annuncio] e sentivano che ero straniera dicevano che non c'era lavoro per gli stranieri» (N. Marocchina);

 

Se la risorsa "disponibilità / adattamento" sembra l'elemento che in qualche modo accomuna le donne lavoratrici intervistate, le valutazioni rispetto all'atteggiamento del datore di lavoro nei loro confronti sembrano fortemente condizionate dal periodo di permanenza nel nostro Paese e dal progetto migratorio perseguito.

Molte indagini, compresa la nostra, hanno rilevato una preminenza di giudizi positivi nei confronti dei datori di lavoro fra i/le lavoratori/trici che non sono in possesso di un permesso di soggiorno valido, che sono irregolarmente assunte e che compongono la fascia più precaria e debole (più ricattabile economicamente) della popolazione immigrata. Dinamiche individuali e sociali, processi psicologici complessi di "dislocazione identitaria"[18], il mito di un ritorno in Patria, la condizione di "solitudine affettiva" in cui si trovano a vivere, l'isolamento sociale e la «condizione di debolezza sul mercato del lavoro [sono tutti elementi che fanno] apparire come una sorta di benefattore chi specula sul lavoro nero degli immigrati» (Ambrosini M., 1993, p.190):

 

«Lavoro 24 ore al giorno, all'inizio la nonna si svegliava anche 4 o 5 volte la notte […] Il sabato non lavoro e neanche la domenica, perché la testa ha bisogno di riposare [Lavora tutte le notti?] una notte alla settimana non lavoro, ma dove vado che il mio letto è qua? Dove lavoro tutti mi vogliono bene, tutti mi vogliono aiutare. Capiscono che per me è difficile, e che ho nostalgia. Io ho sempre detto che gli italiani sono brava gente» (E. Ucraina);

«Lavoro giorno e notte. La famiglia dove lavoro è molto buona, molto religiosa. Io dico le preghiere insieme alla signora anziana […] le ho anche insegnato alcune canzoni ucraine, canzoni religiose [Hai il giorno libero?] Si, i figli sono molto buoni, io lavoro sempre tutta la settimana, ma non la domenica e due ore il pomeriggio degli altri giorni [… Secondo te una donna italiana che fa il tuo stesso lavoro prende lo stesso?] Io non posso dire queste cose, vedo che la vita qui è cara, le tasse sulla casa e poi le donne italiane hanno i figli qui e non possono lavorare come noi […] Noi non vogliamo quello che voi avete, vogliamo solo che i nostri figli mangino e vogliamo stare tranquilli» (A. Ucraina)».

 

Presenze consolidate nel nostro Paese e situazioni di minor marginalità sociale informano valutazioni più caute rispetto all'atteggiamento del datore di lavoro:

 

«Senti, sono educati … come posso dire … sono normali con me. Io lavoro bene, tanto, tanto e non possono dire niente di me … Non so come spiegare … è normale essere educati … ma tu pensi che sia giusto non pagare il giusto?» (R. Albanese);

«Anche se alcuni non si comportano male hanno con te sempre un rapporto … non come una persona come loro [...] Ti possono ferire anche senza pensare di fare qualche cosa di male … Dove vai tu a lavorare se si approfittano allora quello è razzismo, […] ti vedono come meno di loro. Non farebbero le stesse cose con un'italiana. Quello è razzismo.» (B. Ucraina);

«All'inizio se uno assume una straniera ha paura di ciò che ha sentito del Paese che viene o altro […] ci sono tante difficoltà, non c'è mai fiducia per una persona straniera. E' la fiducia che manca, per un'italiana penso che ci sia subito la fiducia […] All'inizio per me è stato difficile guadagnare la fiducia, e già conoscevano i miei parenti! […] Ti dico solo che ho lavorato 5 anni per guadagnarmi questa fiducia, non 5 giorni, ma 5 lunghi anni» (M. Albanese).

 

3.1.1   UN'INTEGRAZIONE CONDIZIONATA

 

«Se faccio io quello che tu non fai sono accettata» (B. Brasiliana) è una scena che racchiude mondi diversi, ma che sembra comprendere e veicolare il sentire comune delle donne intervistate, un pensiero rivolto agli spazi d'inserimento lavorativo offerti e proposti dalla società autoctona. E' la percezione di un'integrazione fortemente subordinata al concetto dell'utilità, della valutazione che - in termini economici - la società d'accoglienza fa della presenza degli/delle immigrati/e extracomunitari/e  sul proprio territorio.

L'integrazione lavorativa sembra essere percepita, dunque, come un "non-problema" per la società - se si rimane ai suoi margini, se ci si adatta, se non si pongono questioni di scelta:

 

«Qui sei integrata così … se tu non scegli il lavoro da fare non è difficile per una straniera. Assistenza agli anziani c'è dappertutto, cercano domestici, per gli stranieri se tu non scegli il lavoro c'è sempre il lavoro per te […]Però se cerchi un lavoro altro è difficile, difficile» (V. Filippina);

«Ci sono sempre i soliti lavori, poco pagati, pagati in nero, sempre nel terziario, assistenza anziani o vai a fare le pulizie o vai a raccogliere mele. Ma sono lavori così, non c'è sicurezza» (E., Cilena);

«Se cerchi un lavoro così … lo trovi. Dipende tutto da ciò che cerchi. Per le pulizie … [non c'è problema] … anche perché se vuoi la fare commessa dicono che gli stranieri sono troppo lenti … trovi a lavorare in casa di altri e basta, ma per lavorare in un posto un po’ più bello sono pochissimi gli stranieri che trovano» (T. Mozambicana);

«Dipende sempre dal lavoro che vuoi. Per quelli di basso basso livello non è difficile trovare» (J. Polacca);

«Dipende da come una si adatta, e dipende dal tipo d'offerta» (M. Marocchina).

 

Ma l'integrazione economica sembra dipendere, seppur con connotazioni meno accentuate - e nel quadro delle differenze percettive delle donne intervistate - da una serie di pregiudizi[19] e diffidenze, stereotipi[20] e chiusure che pesano - inevitabilmente - nei percorsi di partecipazione economica delle donne migranti.

Se il motivo religioso - culturale sembra essere percepito come legame fiduciario e polo di vicinanza fra alcuni gruppi Nazionali e la società italiana - facilitatore, pertanto, di un'integrazione occupazionale:

 

«Per noi ucraine è più facile [trovare lavoro] perché non siamo tanto diversi [dagli italiani …] Noi dell'Ucraina siamo più vicine a voi» (L. Ucraina);

«Forse per noi ucraine è più facile [trovare lavoro] perché non siamo tanto diverse dalle italiane, allora si fidano di più per il lavoro in casa […] Le abitudini non sono tanto diverse […] e allora è più facile capirsi, si fidano di più» (E. Ucraina);

«L'offerta di lavoro? … Certo che dipende dal Paese d'origine [della donna], nelle case private certo che si. Ne abbiamo discusso anche fra noi … [nel gruppo amicale di cittadine polacche che la donna frequenta] Se sei polacca va benissimo, se sei marocchina allora "no" mi ha detto una signora dove ho lavorato, "perché abbiamo le abitudini diverse" […] Un'altra signora [dove poi ho lavorato] mi ha chiesto da dove venivo. "Polonia" e lei "oh che bello, siete come noi, è da dove viene il Papa e no come questi Africani che hanno una cultura diversa"» (H. Polacca);

 

la stessa dichiarazione d'appartenenza religiosa della donna musulmana "velata" può suscitare - nell'esperienza di talune donne intervistate - un'accentuazione della diffidenza sociale, traducibile - nella dimensione occupazionale - nella percezione di addizionali difficoltà d'inserimento lavorativo:

 

«Io penso che ci siano difficoltà per tutte [le donne straniere] per trovare qualche lavoro. E' forse più difficile per una donna che porta il velo perché dicono:"chissà che cosa fa, che cosa pensa quella donna". Al corso "Miriam" ho conosciuto donne che hanno le difficoltà che ho io. [ … L'integrazione dipende dal Paese dal quale viene la Persona straniera?] Dipende più dalle religione che dalla Nazionalità. Prima facevo l'esempio del velo, ecco per quella donna è difficile integrarsi qua» (H. Algerina);

«E' sempre più difficile che per le altre [donne] se vieni dal Marocco o dal mio Paese [Algeria] … si sentono dire tante cose …. e … è difficile trovare nelle case […] No, per me non è stato facile [trovare lavoro] ma vedo che di più è per le mie amiche, con loro è più … più difficile [ma perché?] Perché portano il fazzoletto - come dicono gli italiani - e c'è … come dire … pensano che sei diversa … non so come dirti» (I. Algerina).

 

Percezioni di difficoltà occupazionali riscontrabili, quindi, anche per alcune Nazionalità - albanese e marocchina in particolare - su cui sembra gravare l'etichettamento sociale dell'appartenenza a una comunità "intrinsecamente" deviante: stereotipi che non risparmiano alcune delle stesse donne intervistate:

 

«Si, certo che l'offerta di lavoro dipende da dove vieni. Se vieni dal mio Paese [Albania] o dalla Polonia ha un peso diverso per voi italiani. Hai come un marchio, in tutte le cose che fai [Ma questo vale anche per le donne albanesi?] Per gli uomini si, sicuramente di più, qui dite delle cose … come che siamo tutti delinquenti … e poi è tutto un popolo che ne soffre» (D. Albanese);

«Io ho fatto il corso ["Miriam" per assistenti domiciliari] con le marocchine e loro dicono "questo no, questo no", sono tanto lontane dalle vostre abitudini. Noi siamo più vicini alle abitudini Europee» (L. Ucraina);

«Trovare lavoro … se la cultura è tanto diversa forse è più difficile … A parte che agli italiani ho visto che piace addossare le colpe agli stranieri … guarda per gli albanesi ad esempio» (J. Polacca);

«Se vieni dal mio Paese [Albania] è più difficile … hai sempre un peso per quello che dicono di noi … che poi c'è tanta diffidenza per darti un lavoro […] ci sono tante russe, cecoslovacche, moldave che prendono loro, noi per guadagnare un po’ di fiducia ci vuole tanto tempo» (R. Albanese).

 

Stigmatizzazioni sociali connotative di una presunta "diversità razziale" ricorrono anche nei racconti delle donne di colore, indizi dell'esistenza di un pregiudizio aggravante l'inserimento lavorativo:

 

«Si, si, sicuramente trovare un lavoro dipende dalla Nazionalità, le africane non sono accettate facilmente. Non saprei perché, ma dicono che gli africani sono lenti … non le prendono così facilmente» (T. Mozambicana);

«A volte cercare lavoro dipende dal Paese da cui vieni, non posso dirti che non fa differenza, ma non posso neanche condannare questo perché purtroppo esiste anche chi ha rovinato la "reputazione" di tanti stranieri e quindi la gente ha pregiudizi. E ci sono anche quelli che per motivi razzisti non vogliono assumere persone straniere di colore. Questo l'ho sentito tante volte da persone a me vicine che dicono: "preferisco avere persone sud-americane con pelle chiara che persone africane con pelle scura per fare la collaborazione domestica" […] dispiace, dispiace quando si implica le differenze di colore senza vedere le competenze di quella persona» (M. Marocchina);

«A una donna ucraina dicono di si, subito, perché è lavoro in casa, ma quando va un'africana no, dicono di no, non si fidano. Dicono che viene dalla strada e dopo che è in casa che va sulla strada!» (S. Nigeriana).

 

Episodi di diffidenze, pregiudizi, stereotipie e intolleranze che la risorsa individuale "disponibilità/adattamento" cerca di arginare, ma che inevitabilmente provocano nel loro verificarsi - o nel verificarsi ad altre - una conferma della sensazione di insicurezza/precarietà che sembra plasmare i percorsi di partecipazione delle cittadine straniere non comunitarie e i rapporti con la società d'accoglienza.

 

 

 

 

 

3.2   LA DIMENSIONE SOCIO-CULTURALE DEL VIVERE QUOTIDIANO

 

L'incontro che ogni donna fa con persone, esperienze, mondi, aspettative e opportunità diverse non sempre - quasi mai nelle testimonianze raccolte - può formularsi in parole chiare e immagini nette. E' il dialogo stesso che, nel tradurre le percezioni sugli atteggiamenti della comunità ospitante e sugli spazi e sulle relazioni instaurate, crea immagini sfocate della nostra società.

I limiti fra accettazione e fastidio, i crocevia fra aperture e chiusure dei propri confini culturali da parte della società ospitante sono, così, variamente interpretati e codificati dalle donne intervistate, creando - nel complesso - l'immagine di una comunità "tollerante", sostanzialmente orientata all'indifferenza.

Appare spesso visibile, scorrendo le testimonianze raccolte, la distanza fra giudizi non - negativi espressi sulla società d'accoglienza e l'indicazione - nel corso della stessa intervista - di episodi che manifestano a volte veri e propri atti o atteggiamenti xenofobi - di cui si è state vittime. Scarto/Distanza che sembrerebbe riflettere - pur con modalità diverse - sia la cautela per una non generalizzazione degli episodi subiti alla "responsabilità" della comunità - che processi psicologici di difesa che inducono la minimizzazione degli atteggiamenti negativi che potrebbero provocare un senso di precarietà o insicurezza nelle donne.

Nel panorama complessivo delle interviste da noi raccolte «l'ombra che pare stendersi su quasi tutte le vicende è quella del cosiddetto razzismo quotidiano. Anche se non si arriva alla violenza, al sopruso o all'insulto, la vita quotidiana degli/[delle] immigrati/e è esposta a una serie di piccoli incidenti ognuno dei quali può essere di per sé insignificante, ma che si compongono in un quadro permanente, sempre pronto a emergere drammaticamente, di esclusione, di incomprensione e di isolamento». (IRES Piemonte, 1991. pp.10 - 11)[21]. "Incidenti" che, per le donne, possono tradursi - anche - in molestie, in comportamenti, frasi o atteggiamenti a chiaro sfondo sessuale; un'oggettivazione del corpo femminile - specialmente se nero - che indica chiaramente l'esistenza di pregiudizi razziali e atteggiamenti sessuofobici.

L'appartenenza etnica - culturale, l'età, la scolarizzazione, la vicinanza o la lontananza dal mondo degli affetti, il progetto migratorio, le caratteristiche e le esperienze personali di ciascuna donna costituiscono - nella loro eterogenea combinazione - le variabili intervenienti nella percezione e nella valutazione degli atteggiamenti della comunità ospitante riferiti dalle donne incontrate.

 

La scarsità del "tempo per sé" - posta dalle condizioni stesse in cui si trovano la maggioranza delle donne intervistate[22] - e la percezione, generalizzata, di una società incline alla diffidenza / chiusura verso l'altro e che richiede una disponibilità di tempo - proprio e altrui - per entrare in relazione, generano, nella loro combinazione, una carenza (riscontrata nella quasi totalità delle testimonianze raccolte) di relazioni amicali significative o di costanti e strutturati rapporti di frequentazione con la popolazione locale. Una diffidenza a volte percepita anche da chi - sposata con un cittadino italiano o figlia di immigrati italiani - ha una sedimentata esperienza d'immigrazione:

 

«Ho visto che qui non è come da noi … qui devono saper bene per dare un'amicizia [è così anche per un'italiana che proviene da un altro posto?] Penso di si, questo si ma poi c'è sempre quella che tu sei uno straniero e chissà cosa sei e allora … senti certe cose … che poi se ti conoscono non è così»(E. Ecuadoriana);

«Devono avere tempo per conoscerti, sei considerata così … una straniera […] Poi devo dire che quando ti conoscono e riescono a capire che tipo sei […] non ho avuto problemi. Però ci sono sempre troppi che non ti considerano parte della società, come un'italiana [la signora è nata in Cile ed è figlia di italiani](E. Cilena).

 

Impegni lavorativi e familiari, difficoltà di significative relazioni sociali con la popolazione locale, concorrono nel rendere prevalente - fra le donne incontrate - dinamiche relazionali e forme di solidarietà informale vissute nell'ambito di gruppi circoscritti, per lo più amicali o familiari, aggregati per appartenenza etnica:

 

«Io trovo le mie amiche al mercato il giovedì, poi la domenica un prete di Trento ci ha dato una sala per le donne della Moldava che sono a Trento e che vogliono stare al caldo e parlare» (C. Moldava);

«Ho di più amicizie straniere e mi trovo meglio, perché abbiamo culture simili e tanti problemi anche simili» (M. Marocchina);

«Ho più conoscenze che amici italiani. Sono i colleghi di mio marito [italiano] Non li frequento regolarmente perché io ho amici miei non italiani» (U. Asiatica);

«Conosco tanta gente italiana, anche brava, ma quando ho tempo preferisco stare con i miei amici» (K. Tunisina).

 

Nella reciprocità di un "aggiustamento dinamico fra pari culture" risiede il significato del concetto d'integrazione che esplicitamente traspare dalle parole delle cittadine non comunitarie ascoltate.

Veder riconosciuto il valore del confronto e dello scambio di standard di vita, di tradizioni, di modelli comportamentali è presumere la necessità di meccanismi d'interazione fra culture distanti sia da un'idea di conformizzazione, di una assimilazione - cioè - della cultura minoritaria in quella maggioritaria, sia dalla mera giustapposizione di culture diverse. Vi è la necessità, pertanto, di un riconoscimento - da parte della società d'accoglienza - di culture, tradizioni e valori che possono essere "altri" ma ugualmente legittimi. Una domanda di "cittadinanza sociale e culturale" che appare ancora distante dall'essere raccolta:

 

«Sia gli stranieri che gli italiani devono cambiare, fino a quando riescono a capirsi […] Gli stranieri devono adattarsi, devono rispettare le Leggi. Ma la mentalità e la cultura sono altre cose, lì ognuno deve avvicinarsi all'altro fino a quando si capiscono» (Z. Giapponese);

«Se vado in un Paese io devo essere la prima ad adattarmi alle "regole del gioco", non penso che siano gli altri a doversi adattare alla mia situazione. Però bisogna sempre cercare un punto di incontro […] un'accoglienza che rispetti "dentro" la tua cultura. Questo è quello che uno si aspetta più che altro. Anche perché io rispetto tutti e mi aspetto che anche gli altri lo facciano. […] Poi ti accettano perché - non so - la persona ha un certo senso "civico", o lo fa perché gli fai "pietà", c'è tanta gente buona che vuole aiutare. E tutto va bene finché questo straniero rimane nel terziario. Se magari poi le straniero prende il "sopravvento" su un italiano è da eliminare, perché non va bene, e dicono: "perché lui ha quello e noi no?" … Finché tu stai sotto va tutto OK» (E. Cilena);

«Se gli immigrati lavorano solo e non hanno altro … non è niente, è solo uno che lavora per voi […] Se chiede qualche cosa di più allora non va più bene […] un diritto, un rispetto per le sue cose, … le abitudini, la religione per come sei … allora non va bene» (K. Tunisina);

«Quando sei in un altro Paese, cambi ma di sicuro mantenendo la tua diversità, […] Ma se siamo trattati come forza lavoro e basta, e non hai nessun diritto oltre a quello che "non puoi dire la tua", ti limiti a dare alla società il minimo indispensabile. Però se sei coinvolto, se ti considerano "uguale" allora puoi dire la tua da cittadino» (M. Marocchina);

«Sono sei anni che sono qui e non sono cambiata "dentro", non mi sento italiana, in parte si, perché parlo la lingua, perché lavoro, perché un po’ si cambia … ma dentro di me io ho tante cose che non voglio cambiare. Non si può cambiare dentro perché poi non ti senti più te stessa, se dimentichi … assomigli ad una "figura immaginaria". Non si può e anche se si potesse non è giusto. Però questi cambiamenti toccano anche gli italiani … anche a loro, perché ogni cosa [nuova] fa cambiare, e domani sai un'altra cosa e corri … Capisci? … Secondo me non c'è una cultura che abbia una fine» (P. Albanese);

«Comprensione, questo deve esserci, sia da parte degli stranieri che da parte degli italiani. Quando non c'è questa comprensione pian piano cresce un muro, lo straniero si sente schiacciato, e ha altre immagini. Per capire, per andare d'accordo. Se non [proprio] d'accordo almeno rispetto da entrambe le parti» (I. Polacca).

 

L'interazione con la comunità appare caratterizzarsi secondo atteggiamenti e orientamenti ambivalenti da parte degli autoctoni, che sembrano sostanzialmente generati - secondo la percezione delle intervistate - dal "non interesse alla conoscenza della diversità", una "ignoranza della diversità" (Delle Donne M., 1994) sostenuta e alimentata da una cultura etnocentricamente sbilanciata.

Un'accettazione dello Altro/a basata sul disinteresse «che consente alla cultura Altra di sopravvivere, ma non certo di interagire« (Delle Donne M., 1994, p.95) e che equivale - nella percezione di chi ne è oggetto - a un "non riconoscimento", particolarmente sofferto in chi - per progetti migratori o per la presenza di minori - immagina una stabile (o relativamente lunga) stabilizzazione nel nostro Paese:

 

«Mi dispiace proprio tanto [che le maestre (la signora ha una bambina che frequenta la seconda elementare che parla perfettamente l'italiano)] non abbiano queste curiosità di domandare, di chiedere […] anche solo per un saluto, cioè come si dice in albanese "Buon giorno", così gli altri bambini scherzando imparano, e non solo imparano, ma "parlano" con la mia figlia … Capisci?» (P. Albanese);

«Devo dire [che a scuola, (la signora ha tre figli, uno frequenta l'asilo e due sono inseriti nelle scuole elementari)] che mi chiedono le maestre del piccolo […] hanno fatto delle cose a scuola che mi sono piaciute [cioè?] Una volta hanno fatto venire le mamme a raccontare storie [favole] del Paese, poi mi chiedono delle feste … e altre cose [le fa piacere questo interessamento?] Si, si, certo [perché?] … è' importante per il piccolo … non so come dire … ti ho detto l'esempio delle storie [favole], tutte le storie dei Paesi sono importanti, sono uguali e diverse [… E con i grandi le maestre chiedono?] Ci sono differenze … dipende dalle maestre … ci sono maestre che chiedono … ma così … senza niente!» (K. Tunisina).

 

Gli atteggiamenti relazionali verso le comunità Altre non raramente sembrano rivelarsi nella forma di un'interazione superficiale, «una curiosità un po’ povera» (M. Marocchina), essenzialmente "paternalista"[23], veicolante il pregiudizio etnocentrico a fondamento dell'equazione povertà = ignoranza / inferiorità:

 

«Molti mi chiedono del mio Paese, anche per la strada. Anche per la strada ti chiedono … più ignoranza … è più ignoranza che odio razziale [Mi fa un esempio?] Una signora ti vede e ti saluta. Tu saluti e poi ti chiede "come mai sei in Italia?". Può essere curiosità sua ma io non vado a chiedere "come mai sei in Italia?" ad altre persone. E poi che gli ho risposto "si, mi sono sposata e sono qua in trentino da tanti anni" ti dice "oh, che fortunata che sei tu che sei venuta in trentino che nel tuo Paese c'è la miseria!" Allora quel "tu sei fortunata" io ci rimango male. E anche se non è proprio un problema razziale il fatto così, di vederti "fortunata" perché sei in Italia ti fa male […] In un certo senso lo sono fortunata, perché economicamente lavori, guadagni, però se io potessi avere tutto quello che ho, l'amore, il marito nel mio Paese ci vado volentieri e subito» (M. Marocchina);

«Si, a me chiedono spesso [del mio Paese] e non sempre mi fa piacere, dipende dalle domande che mi fanno […] Una volta c'era molta ignoranza verso i Paesi dell'Est, adesso mi sembra che va meglio, fanno domande normali» (J. Polacca);

«Voi non sapete niente delle nostre cose, eppure anche da noi ci sono belle piazze e Chiese. Da noi ci sono le montagne, il mare, i teatri e voi non lo sapete! … Forse qui si pensa che siamo solo poveri ma anche da noi c'è architettura tedesca, polacca, ci sono bei centri storici. La nostra città la chiamano la piccola Parigi […] Quando avrò cinquant'anni voglio scrivere un'autobiografia, per aiutare gli altri, perché possano capire come siamo vissute e che cosa abbiamo dovuto fare [per vivere]» (G. Ucraina);

«Non sempre le persone mi chiedono del mio Paese, mi piace quando lo fanno, però a volte sono un po’ invadenti e disprezzano il mio Paese anche se non sono mai stati in Marocco. [Mi fa un esempio?] In banca mi hanno chiesto … se abbiamo l'acqua! Io gli ho detto: "non ti rispondo, vai a cercarti un libro che parla del Marocco e leggilo!» (J. Marocchina);

«Ci sono tanti che chiedono [del mio Paese], ma non tutti … C'è gente intelligente che domanda, c'è gente non intelligente che non chiede, ma hanno impressioni brutte [le piace che le chiedono?] Si, molto volentieri rispondo. Ma ci sono persone, anche tanti, che quando dico che sono filippina … più questa gente mi dice che in quei Paesi c'è povertà, tutti poveracci. Ma io dico che c'è povertà, ma che non tutti sono poveri, alcuni sono più ricchi di te. E' che si generalizza molto … C'è gente che non sa neanche dove sono le Filippine, allora devo spiegare che sono in Asia e fare lezione di geografia!» (V. Filippina);

«Quando mi chiedono mi fa piacere, ma mi chiedono delle cose strane. Pensano che l'Ucraina sia un Paese come l'Africa!» (L. Ucraina).

 

Processi di generalizzazione privi di discrezionalità, politicizzazione della "paura della criminalità" - alimentata da campagne massmediali enfatizzanti l'allarme sociale - sono alla base di atteggiamenti pregiudiziali e stigmatizzazioni sociali verso determinate comunità Nazionali ritenute "intrinsecamente" devianti. Luoghi comuni e stereotipi (presenti anche in alcune intervistate) che sembrano rendere ancor più difficoltoso un processo d'integrazione e legittimazione:

 

«Integrarsi qui è un problema per tutti gli immigrati, ma specialmente per gli albanesi, perché sono quelli di cui ultimamente si parla molto di più. Hanno, diciamo, un'etichetta, come un marchio, vengono definiti come tutti delinquenti, ladri, assassini e dire essere albanese … A me non è che mi importa, perché sono già sei anni che sono qui e so già la mentalità, e non ci posso fare niente, io non posso cambiare niente. Quello che io ho e che mi dà la tranquillità per vivere è il cerchio dove lavoro, le persone con cui sono più a contatto, che mi danno una certa tranquillità perché mi vedono come una persona simile [a loro] Ma se io incontro per la prima volta una persona e dico che sono albanese do un'altra immagine» (P. Albanese);

«Agli italiani piace addossare le colpe agli stranieri … guarda ad esempio per gli albanesi» (J. Polacca);

«Io ho sempre detto che gli italiani sono brava gente. E' per questi albanesi che gli italiani si lamentano. Al telegiornale lo dicono sempre albanesi, è perché non vogliono lavorare. Ed è per questo che gli italiani si lamentano» (E. Ucraina);

«Tanti marocchini non lavorano e questo non piace alla gente di qui» (C. Moldava).

 

Immettersi nella sfera pubblica è - per il genere femminile - anche un "dover" a volte transitare con un corpo che diventa oggetto di frasi, sguardi, attenzioni, molestie a chiaro sfondo sessuale. Se a procedere è un corpo nero, gli atteggiamenti sessuofobici sembrano fondersi - in alcuni immaginari maschili - nel simbolismo di un corpo a pagamento, da umiliare e offendere con frasi e atteggiamenti cui talvolta si allude nelle testimonianze raccolte, e che l'esperienza e il senso di sicurezza di una donna nigeriana (mediatrice interculturale) nomina e ci rimanda con tutta la sua forza:

 

«Le persone mi dicono sempre cose brutte. Quando andavo a casa con il pullman quattro ragazzi sono venuti vicino a me e uno mi ha preso la borsa quando sono scesa. Io ho chiesto "Ma perché fai così? e lui mi ha risposto "Ma va, brutta troia, puttana" …ma ormai io a queste frasi e a queste cose sono abituata …L'inverno scorso andavo a scuola di italiano vicino a piazza Duomo e alcuni uomini hanno preso la mia amica [africana] e l'hanno picchiata e tagliato i capelli. E' pericoloso. Adesso non ci vado più. Poi l'inverno scorso non c'era nessuno per la strada ed era proprio pericoloso per noi» (S. Nigeriana).

 

E' nello scenario complessivo delle storie raccolte che sembrano modellarsi e materializzarsi messaggi, impressioni, sentimenti e comportamenti che provengono - molto più di quanto si pensi - dalla nostra società. Messaggi spesso impliciti ma ambivalenti che inducono - in noi che li abbiamo ascoltati, nelle donne che li vivono - una pervasiva percezione di estraneità, di lontananza, distanti dal riconoscersi come forme relazionali paritarie.

Siano piccoli o grandi i comportamenti o i gesti discriminatori essi mostrano differenze e soprusi da parte della popolazione locale ("razzismo quotidiano"), episodi di discriminazione che ogni donna migrante può raccontare, anche se «io, per me, non ci faccio più caso, perché sono abituata a quello» (P. Albanese).

Episodi di intolleranza che si riescono ad evitare / ridurre grazie al perfetto uso e conoscenza della lingua italiana (minimizzate e non riconoscibili - pertanto - come cittadine straniere) o ricorrendo all'intermediazione del coniuge italiano:

 

«Sai io parlo molto bene la lingua e quando parlo con qualcuno è molto difficile che le persone si accorgano che sono straniera. Forse questo mi facilita le cose, non capiscono che sono straniera … io certo non lo dico e parlare bene non permette agli altri di darmi dei giudizi. E' per questo che non ho avuto tante difficoltà» (M. Albanese);

«No, [io non ho mai avuto problemi negli Uffici] anche perché so bene la lingua, so capire anche il "burocratese" per cui mi so muovere […] Tante mie amiche, che purtroppo si noterà sempre il loro accento, mi hanno detto di tanti problemi [ad esempio] negli Uffici non danno informazioni o in Comune, o nelle ditte ove cercano e loro vanno e dicono subito di no. O ad affittare case, ad esempio, o l'affitto aumenta o non gliel'affittano […] cose così. Però devo dire, visto che sono tanti anni che sono qua, che la mentalità sta cambiando, io vedo un'accettazione diversa e questo mi fa piacere» (E. Cilena);

«Io, personalmente, negli Uffici non ho mai avuto problemi. I miei amici si, si specialmente in questura o in altri uffici, che solo per il fatto che sei straniero ti trattano come una pezza da piedi … Non so se fanno così perché sono pieni di lavoro tutti i giorni … però personalmente ho potuto evitare tutto questo, perché mio marito va lui o insieme anche solo per le informazioni» (M. Marocchina).

 

Meccanismi di difesa /evitamento a cui non tutte possono ricorrere e, al di là delle differenze percettive degli atti di discriminazione subiti, "episodi di scortesia, se non di vero e proprio rifiuto" si inseriscono nello sfondo delle testimonianze raccolte:

 

«Ho proprio trovato un ufficio che non so spiegare … io mi sono girata perché piangevo davanti a tutti e non volevo che mi vedessero. Ero andata all'INPS per rinnovare delle "carte" per il lavoro. Io le dico così. Solo che capiscono che sono straniera e allora mi dice la signora che la prendo in giro e butta tutte le mie "carte" all'aria. Lei mi dice che "noi" non paghiamo i contributi: "furbi, poi andate all'INPS e dite che non sapete niente". Io l'ho pregata di non urlare, che cosa aveva con me?» (L. Ucraina);

«A me non è mai successo niente … di importante ma a delle mie amiche si [mi può raccontare un fatto?] Ad esempio una volta che erano in stazione sono state seguite dalla polizia e che loro [i poliziotti] pensavano che avessero delle cose [che cosa?] delle cose rubate» (H. Algerina);

«Succedono tante cose a noi … ad esempio l'altro giorno sono andata all'INPS per portare il certificato di malattia, e c'è una macchina per imbucarlo. L'impiegato è uscito perché la macchina non funzionava e io ho detto: "queste cose io non le so fare, c'è tanta burocrazia qua" e lui mi ha chiesto se ero di qua. No, ho risposto io, sono straniera, e ho aggiunto "quante carte!" "Ma questa è l'America" mi ha risposto, "Qua stai bene!, è l'America per te" … Ci sono certe frasi che … non rispondi neanche, perché se io dicessi certe cose che penso … Sai non è il caso di legarsela al dito, ma ci sono persone "scomode" che stanno lì per affaticarti la vita» (D. Argentina);

«Ho trovato tante discriminazioni "psicologiche". In banca non ho problemi perché sanno che ho soldi e non si permettono … ma negli altri uffici, quando parlano con te e ti danno del "tu" […] Ma io posso urlare con loro [quando mi trattano male], io ho il Diritto, ho la cittadinanza italiana, posso fare come gli italiani!» (V. Filippina);

«Non ho mai avuto problemi … Alla stazione si, ma penso che non sono tanto normali [cosa è successo?] Ti prendono in giro, ti dicono parolacce o ti dicono "ritorna al tuo Paese" … Ma le persone normali non credo che parlino così» (N. Marocchina);

«Le difficoltà ci sono a scuola. Per esempio due anni fa ho iscritto la mia figlia alla Prima Elementare. Il primo giorno di scuola me lo ricordo benissimo […] alla fine di quella giornata c'era una festa per i bambini, e hanno fatto una specie di gioco, se erano stati promossi o no per quel primo giorno. I maestri chiamavano i bambini e dicevano "è promosso" e i genitori applaudivano. Quando è stata nominata la mia figlia nessuno ha applaudito … Questa è una cosa che fa male, fa male e mi dispiace anche per loro, non solo per mia figlia […] Loro [gli altri genitori] hanno sempre applaudito gli altri bambini, e non perché li conoscevano, solo perché avevano un nome italiano, quando è stato nominato un bambino albanese come fosse … Io mi sono sentita molto male, la mia bambina non ha capito, lei era tutta contenta. [Ma gli altri che reazione hanno avuto?] Niente … le maestre  [la signora è maestra], le maestre poi non hanno chiesto l'applauso anche per lei vedendo così …Comunque io ho tanto applaudito da sola e non so come ho fatto a mantenere le lacrime, ma mi dicevo dentro di me: voi non avete idea chi è quella bambina, e quando un giorno la conoscerete avrete tanta voglia di avere una bambina come la mia. Così ho pensato. […] Poi pian piano […] il tempo è passato, la bambina ha amici […] e ora vedo che tante mamme invidiano la mia figlia» (P. Albanese).

 

Il senso di insicurezza prodotto dalle relazioni / incontri con la comunità locale sembra anche determinarsi - secondo la percezione di molte intervistate - da deficit personali di conoscenze linguistiche, civiche e culturali della società d'accoglienza, che rendono difficile orientarsi nella complessità della sua organizzazione socio - istituzionale:

 

 «Magari tanti problemi ci sono perché non capisco alcuni termini e loro non ti spiegano con parole semplici. Non so perché, forse non hanno tempo, non so perché non spiegano. Io poi ho sempre chiesto ai miei amici, e ho capito subito» (H. Polacca);

«Tante cose succedono perché io ho visto che non so giusto dove andare, non sei sicura che sia il posto giusto … e poi non sai bene, allora perdi tempo» (B. Brasiliana);

«Ho visto che con il tempo impari ad informarti e sai andare nei luoghi giusti e come chiedere giusto … all'inizio [la signora è 14 anni che è in Italia] c'è sempre paura di sbagliare e anche tu hai problemi e non sai come chiedere e se vai in un posto non hanno tempo per ascoltarti» (C. Ecuadoriana);

«Non sempre è colpa degli italiani […] alcuni [stranieri] non capiscono le regole di qua e dicono che è colpa delle persone italiane […] devi imparare anche tu quando vai in un posto nuovo e solo la lingua non basta»(A. Brasiliana);

«I problemi ci sono anche perché noi non siamo informate […] e non entriamo nell'ambiente» (I. Polacca);

«Io penso che il punto sia la comunicazione, la comunicazione è un grande ostacolo anche nelle amicizie, al di là della lingua» (Z. Giapponese).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4   CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

Tracciare - conclusivamente - un quadro dei percorsi di partecipazione occupazionale e socio-culturale delle donne migranti nella nostra comunità diviene, similmente, cogliere il divenire di ogni esperienza migratoria così come esperita dalle protagoniste, nell'accortezza di non cristallizzare immagini femminili in identità definite né traslare rigorosamente similitudini emerse dall'analisi all'universo migratorio femminile presente nel territorio provinciale.

         Se l'eterogeneità delle migrazioni - carattere generato dal differente intersecarsi fra eventi sociali, economici, politici di portata trasnazionale con le svariate realtà di vita delle persone coinvolte - si riflette, nelle molteplicità dei progetti migratori, sono prevalentemente le politiche e gli orientamenti della società d'accoglienza che producono il segno distintivo delle relazioni fra autoctoni e migranti. E', detto altrimenti, "da ciò che una società è e vuole essere" (Colasanto M., 1993) che derivano condizioni, opportunità e significati dei processi d'integrazione, sia a livello economico che a livello socio - culturale. Piani che dovrebbero procedere linearmente ma che, letti in prospettiva, appaiono nettamente squilibrati e disarmonicamente articolati al loro interno.

         La partecipazione lavorativa delle migranti nella società autoctona si situa - occupazionalmente - nel settore domestico e/o assistenziale, rispondente a domande di cura - alla casa, agli anziani, ai minori - che provengono da molte comunità familiari locali e che non trovano, nei Servizi offerti dallo Stato Sociale, un adeguato soddisfacimento. Spazi d'inserimento economico configurabili come forme di segregazione occupazionale e comprendenti ampie fasce di lavoro sommerso, condizioni lavorative che inevitabilmente incidono sulle possibilità di una "presenza" delle donne migranti (siano esse occupate 24/24 ore o donne con impegni intra ed extra familiari) nel tessuto sociale della comunità d'accoglienza.

         Tessuto che sembra esprimere - nei confronti delle persone migranti - un significato d'integrazione subordinato a quello dell'utilità, della "valutazione economica" come principio cardine della "legittimità" della presenza straniera sul proprio territorio. Vincolando la "legittimità" allo status di lavoratore/trice - o compagne di - i sentimenti della comunità ospitante sembrano racchiudersi in una sorta di tolleranza sostanzialmente orientata all'indifferenza, "che consente alla cultura altra di sopravvivere, ma non certo d'interagire" (Delle Donne M., 1994), e che non eccezionalmente - nelle molteplicità delle espressioni della vita quotidiana - possono tradursi in atteggiamenti xenofobi e pregiudizi etnici. Un'accettazione dell'altro/a che fotografa una società etnocentricamente sbilanciata, orientata ad un concetto d'integrazione non scevro da derive meramente assimilatrici.

         E' solo prevedendo un orizzonte "altro", che guardi a percorsi di cittadinanza, al riconoscimento di diritti politici e civili, che si possono creare le condizioni per una partecipazione sociale ed economica delle persone che abitano il territorio, pur provenendo da "fuori". Un'orizzonte multiculturale che colga - nella società civile - il riconoscimento simbolico dell'altro, il riconoscimento dell'esistenza - eterogenea, fluida, sempre passibile di reciproche ibridazioni - di paradigmi e prospettive diverse, di cittadini e cittadine che nei loro insiemi veicolano ciò che chiamiamo culture e culture di genere.

         E' per un'efficace interazione fra culture che strategie e politiche d'intervento - pubbliche e del privato sociale - dovrebbero orientarsi in azioni comunitarie finalizzate alla conoscenza e alla responsabilizzazione sia dei/delle cittadini/e autoctone che di quelli/e immigrati/e.

         Iniziative non frammentarie né episodiche, volte ad un coinvolgimento sociale in positivo della cittadinanza, consapevolmente responsabili dei significati simbolici e delle implicazioni sociali e culturali che comporta l'appartenenza ad un genere piuttosto che ad un altro, sia nel momento di progettazione dell'azione, nei contenuti da veicolare, nelle modalità d'esecuzione che nei soggetti fruitori dell'iniziativa.

         Strategie e politiche d'intervento indirizzate - pertanto - a favorire esperienze di contatto con l'altro/a, a promuovere e sostenere forme d'aggregazione etniche ed interetniche - anche, ma non esclusivamente le forme associative - , a incoraggiare iniziative che implichino forme di cooperazione fra cittadini/e stranieri/e e autoctoni, legittimare la figura del/della mediatore/trice interculturale nell'organico di tutti i servizi e le agenzie pubbliche - anche, ma non solo, (episodicamente) nella scuola - , prevedere la presenza degli/delle stranieri/e nelle Istituzioni e negli organismi locali.

         A livello nazionale si dovrebbero programmare politiche dei flussi rispondenti ai reali bisogni espressi dalle diverse realtà regionali e si dovrebbero sostenere quanti - fra stranieri e autoctoni - richiamano la necessità di modificare l'articolo 48 della Costituzione che non permette agli stranieri residenti di esercitare il diritto di voto nelle elezioni locali.

"Invisibili ma presenti" ha desiderato cogliere - nei limiti di un'immagine - i percorsi di partecipazione socio - culturale e occupazionale delle donne incontrate, in una locuzione sintetica che, nella sua congiunzione avversativa, vuol riconoscere e nominare la presenza di soggettività "altre", nel loro diritto inalienabile alla diversità in condizioni di parità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

 

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[1] «Il genere è un modo di classificare, di indicare l'esistenza di tipi. In particolare il genere propone un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri viventi si presentano e sono percepiti nel mondo: nella società convivono due sessi e il termine "genere" segnala questa duplice presenza. Si tratta dunque di un termine binario, non univoco: gli uomini, come le donne, costituiscono il genere. Non è superfluo sottolineare questo punto […] il concetto di genere […] pone in modo radicale la questione della costruzione sociale dell'appartenenza di sesso» (Piccone Stella S., Saraceno C., 1996, p.8).

 

[2] Nel riferire « strategie, […] comportamenti, […] forme di pensiero poco familiari, che appartengono a persone diverse per storia, cultura, provenienza geografica, [… si risaltano] questi punti di vista riportando ampi brani di discorso diretto. Ciò non solo allo scopo di restituire il "sentire" dei soggetti - gli stati d'animo, le motivazioni, le percezioni -, ma, soprattutto, di mostrare la rilevanza di tali punti di vista in quanto termini interpretativi ineludibili per la comprensione delle ragioni dell'Altro/a» (Giacomini M., 1996, p.163).

 

[3] Sebbene le interviste siano state concesse - con il vincolo dell'assoluta riservatezza- sulla base di un rapporto fiduciario che variamente legava l'intervistata con l'intervistatrice, in alcuni casi le resistenze incontrate alla registrazione del parlato sono state notevoli, e ciò ha indotto - per non rinunciare al valore delle testimonianze - ad "utilizzare" un'intervistatrice con conoscenze stenografiche. Riteniamo utile sottolineare che in alcuni casi il diniego alla registrazione è stato esplicitato dalle donne contattate allorché le intervistatrici illustravano l'ambito della ricerca relativo agli atteggiamenti della società di accoglienza nei confronti degli/delle immigrati/e.

Una decisa diffidenza a fornire una qualche forma di testimonianza è pervenuta, in particolare, dalle cittadine straniere d'origine albanese.

La sigla con la quale sono riportati i brani delle interviste è costituita da una lettera che in ordine progressivo ha siglato le testimonianze e dall'indicazione della nazionalità della donna incontrata.

 

[4] Fonte O.M.L. - XIV Rapporto sull'immigrazione in provincia di Trento, Trento, Provincia Autonoma di Trento, n°1, 1999.

 

[5] «Si registra ovunque un'iniziale assenza di norme regolanti l'immigrazione e la successiva, più recente, emanazione di leggi generali riguardanti l'immigrazione particolarmente restrittive rispetto a nuovi ingressi. L'esperienza della politica migratoria in questi paesi ha visto il passaggio da una politica (o se si preferisce da una non-politica) di frontiere aperte a una politica di adeguamento agli orientamenti emersi in sede di Unione europea. Ma l'originaria situazione delle frontiere e di grande facilità di ingresso è da considerarsi senza dubbio una degli elementi di stimolo - non certo il solo - allo sviluppo dell'immigrazione verso i paesi mediterranei» (Pugliese E., 2000, p.16). La prima normativa italiana in materia di regolamentazione dell'immigrazione è la L. 943 del 1986. Attualmente la normativa nazionale di riferimento è data dalla Legge 40 del 6 marzo 1998. Il regolamento di attuazione è in vigore dal 18 novembre 1999.

 

[6] Da dati ISTAT relativi ai permessi di soggiorno rilasciati a cittadini/e stranieri/e al 31 gennaio 1998 la presenza femminile è numericamente quantificabile in 458.613 unità, pari al 44.8% sul totale dell'immigrazione straniera regolare. 206.000 di tali permessi (il 45%) sono stati rilasciati per motivi di lavoro (fonte ISTAT, 1999).

 

[7] In tali correnti ritroviamo le cittadine provenienti da Capo Verde, dal Salvador, dall'Eritrea, dall'Etiopia e - in fase successiva - dalle Filippine. Per alcuni Paesi di religione Cattolica - la Polonia come caso emblematico - il motivo religioso - culturale diviene "polo attrattivo" e "legame fiduciario" fra Paesi, ed ha caratterizzato flussi femminili di breve - media durata, inizialmente sostenuti da progetti migratori a "termine" (cfr. Vicarelli, 1994) ma mutati nel corso del tempo per le difficoltà di mantenere un modello migratorio "flessibile".

 

[8] Fonte: ISTAT, La presenza straniera in Italia: caratteristiche demografiche, Roma, ISTAT, 1999. Riteniamo utile sottolineare che la capacità informativa fornita dai dati sui permessi di soggiorno o sulle iscrizioni alle anagrafi comunali ha - allo stato attuale - una serie di limiti connaturati alla rilevazione dei dati. Tali limiti non inficiano - comunque - la loro attendibilità come indicatori della presenza straniera sul territorio nazionale. Rimandiamo alla pubblicazione ISTAT citata per un compiuto approfondimento.

 

[9] con l'evidenziarsi delle difficoltà che sopraggiungono nel mantenere l'alternanza fra "progetti migratori a termine" e "rientri" nel Paese d'origine. Difficoltà strettamente congiunte alle norme regolanti il sistema di visti e ingressi nell'area Schengen e alla legislazione italiana inerente alla programmazione dei flussi di ingresso dei cittadini extracomunitari.

 

[10] L'esperienza migratoria inevitabilmente è segnata «da una condizione di solitudine affettiva. E' il senso di isolamento, di non appartenenza, di precarietà che viene attribuito […] alla disgregazione del nucleo familiare d'origine. La lontananza [dai figli], dai genitori, dalle sorelle, la mancanza di parenti in Italia sono i dati che servono a spiegare il "vuoto"» (Favaro G., 1990, p. 169).

 

[11] Fonte OML su dati Servizio Statistica XIV° Rapporto sull'occupazione in Provincia di Trento, Provincia Autonoma di Trento, n°1, 1999, p.211.

Il Rapporto citato è punto di riferimento per i dati provinciali riportati nella presente sezione. La sezione «Immigrazione» è stata curata da Lucia Trettel (pp. 205- 221).

 

[12] con un incremento percentuale rispetto al 1996 del 17% (a fronte di un incremento maschile del 10.8%).

 

[13] Fonte OML su dati Servizio Statistica XIV° Rapporto sull'occupazione in Provincia di Trento, Provincia Autonoma di Trento, n°1, 1999

 

[14] Riteniamo opportuno ricordare che lo studio ha coinvolto anche donne "non ufficialmente presenti" nel territorio provinciale in quanto prive di regolare permesso di soggiorno.

Le caratteristiche socio - anagrafiche evidenziate e commentate nel corso del rapporto di ricerca non possono essere generalizzate all'universo migratorio femminile presente nell'ambito provinciale. Ne consegue - pertanto - che i dati e le considerazioni seguenti sono da ritenersi "attendibili" rispetto allo spaccato di realtà analizzato, composto dalle quaranta donne intervistate.

 

[15] «Rispetto al modo di funzionare del mercato del lavoro, c'è da osservare che un sistema sociale è fatto di strutture tendenzialmente complesse in una società come la nostra, e ogni interazione con tali strutture presuppone un savoir faire, la familiarità con determinate "tecnologie sociali", cui l'autoctono è in generale socializzato fin dalla nascita, a differenza dell'immigrato, che deve impadronirsi di codici simbolici, oltre che di nozioni» (Colasanto M., 1993, p.219)

[16] E', pertanto, nelle norme nazionali che disciplinano l'emigrazione e nelle regole e nel funzionamento del mercato del lavoro locale che vanno ricercati i presupposti dell'attuale situazione occupazionale dei/delle cittadini/e non comunitarie. «L'irregolarità [degli immigrati] deriva in realtà, nella maggior parte dei casi, dalla mancanza di occasioni di inserimento regolare cui si affianca, invece, la possibilità di una partecipazione all'economia informale - in particolare quella dei servizi a bassa qualificazione - che non solo esiste [   ] ma che tende via via a estendersi e a trovare una risposta insufficiente nella manodopera autoctona. Assai più che per effetto dei flussi clandestini, l'immigrazione irregolare cresce per l'operare di quelli che si possono enfaticamente - ma non senza ragione - definire come i meccanismi di costruzione sociale dell'irregolarità degli immigrati» (Zanfrini L., 1998, p.140).

 

[17] «Nessuno, o quasi, sceglie un cattivo lavoro per vocazione. Nessuno, o quasi, accetta di costruire la propria identità e il proprio progetto di vita sul fatto di essere un buon manovale a giornata, piuttosto che una buona baby sitters.

In questo gli immigrati che abbiamo conosciuto e che ci hanno parlato della loro vita non sono diversi da noi […] Il loro sguardo è altrove. Radicalmente altrove. Almeno quanto è radicale la rottura che è avvenuta nella loro biografia quando hanno deciso di emigrare e quando è grande la distanza che separa la condizione attuale dal progetto, o dal sogno» (IRES Piemonte, 1991, p.184).

 

[18] ove il sé, la propria identità, il proprio ruolo sociale è altrove.

 

[19] «Dal punto di vista etimologico il termine pregiudizio indica un giudizio precedente all'esperienza, vale a dire un giudizio emesso in assenza di dati sufficienti. Proprio per tale carenza di validazione empirica, il pre-giudizio viene di solito considerato un giudizio errato, vale a dire non corrispondente alla realtà oggettiva» (Mazzara Bruno M., 1997, p.10).

 

[20] Gli stereotipi sono delle «immagini mentali, che costituiscono una sorta di pseudo - ambiente con il quale di fatto si interagisce, hanno la caratteristica di essere delle semplificazioni spesso grossolane e quasi sempre molto rigide (gli stereotipi appunto) […] Il processo di semplificazione della realtà avviene […] secondo modalità che sono stabilite culturalmente: gli stereotipi fanno parte della cultura del gruppo e come tali vengono acquisiti dai singoli e utilizzati per una efficace comprensione della realtà» (Mazzara Bruno M., 1997, p.15).

 

[21] La ricerca di cui si riporta il commento citato è stata condotta nel 1990 nella realtà piemontese. Ha previsto la raccolta di 87 storie di vita (55 maschi e 32 femmine) con il metodo dell'osservazione partecipante.

 

[22] Siano esse lavoratrici occupate 24/24 h. che donne vincolate da una "doppia presenza" particolarmente gravosa in chi non ha la possibilità di ricorrere al sostegno della rete familiare e/o sociale - il "tempo per sé" sembra essere una risorsa personale particolarmente esigua.

 

[23] E' questo un «atteggiamento "caritatevole" ma sostanzialmente razzista, per il quale alle donne dell'Africa, ad esempio, si può dare di tutto - sono bisognose! - umiliandole […] E' un atteggiamento che mantiene i confini fra loro - tollerati/e perché e purché in situazione di inferiorità economica - e i locali che "fanno del bene". Questa lettura miserabilista, nella sua schematicità, rimanda per contrasto al tema dei diritti, all'accettazione e al rispetto reciproco» (Merelli M., Ruggerini M.G., «Sicurezza / Insicurezza nelle donne migranti - Prima parte» in Quaderni di Cittàsicure, Sicurezza / Insicurezza delle donne migranti, Regione Emilia - Romagna, n° 16, Aprile 1999, pp. 17 - 97. Il brano citato è a pag. 44). La ricerca cui si fa riferimento è stata condotta nel 1998 e ha previsto la testimonianza di 42 donne migranti (10 interviste individuali e 32 in 10 focus group), residenti a Bologna e a Reggio Emilia; 5 interviste biografiche e informative a donne straniere e 25 interviste a operatori/trici dei servizi quali testimoni privilegiati.