Inserita in rivista 1.2003
ordinanza 7/23.1.2003 – est. Ciccarelli
Letti gli atti e sciolta
la riserva assunta all’udienza del 7.1.2003,
premesso
- con
ricorso depositato il 1 7. 1 2.02, Evbadazehi Kate Edemakhionta (sia in proprio
sia in qualità di genitore esercente la potestà sulle figlie
minorenni […]) ha proposto opposizione ex art.
13 co. 8, T.U. 286/98 avverso il decreto di espulsione n. 584/02 emesso
nei suoi confronti dal Prefetto di Torino l’8.3.02 e notificato il
12.12.02;
la
ricorrente (con memoria integrativa depositata il 3.1.03) ha esplicitato i
seguenti motivi:
a) difetto di motivazione del decreto espulsivo in ordine alla pericolosità sociale della straniera, mancando ogni valutazione sia in ordine alla attualità della pericolosità (da valutarsi questa anche in rapporto alle misure cautelari cui la sig.ra Evbadazehi era stata sottoposta dal giudice penale), sia in ordine alla complessiva condotta di vita della stessa;
b) il
GIP presso il Tribunale di Torino, con sentenza n. 3184 del 18.11.02 (di
condanna della Evbadazehi a tre anni e due mesi di reclusione) aveva
altresì disposto nei suoi confronti la misura di sicurezza della
espulsione a pena espiata (prevista dall’art.15 T.U. 286/98, come
modificato dalla L. 189/02); nelle more del giudizio di appello la ricorrente
era sottoposta alla misura cautelare dell’obbligo di firma e non poteva,
dunque, abbandonare il territorio nazionale, con conseguente non
eseguibilità del decreto di espulsione notificatole dall’autorità
amministrativa; detto decreto quindi avrebbe dovuto essere eseguito soltanto in
un momento (molto successivo alla adozione del provvedimento) in cui la
valutazione di pericolosità sociale non sarebbe stata comunque
più attuale; con l’unico effetto (immediato e concreto) di porre
la Evbadazehi in una situazione di illegittima permanenza sul territorio
nazionale (proprio perché colpita da un decreto di espulsione),
impedendole di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno (con conseguente
impossibilità, anche, di svolgere attività lavorativa regolare);
c) il
decreto di espulsione non prende in alcuna considerazione la situazione
personale e familiare della ricorrente, madre - e unico
genitore convivente - di tre
minorenni (due dei quali nati in Italia), sempre vissuti in Italia e privi di
ogni legame con il paese di origine della madre (Nigeria); la misura adottata
viola dunque l’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (resa esecutiva in
Italia con L. 848/55) perché interferisce indebitamente nella vita
privata e familiare della ricorrente, senza essere giustificata da alcuna
necessità di ordine sociale (e comunque senza minimamente motivare in
ordine alla necessaria proporzionalità fra la grave interferenza imposta
e le esigenze di sicurezza sociale tutelate con il provvedimento espulsivo);
d)
l’amministrazione procedente aveva violato l’art. 7 L. 241/90.
perché aveva omesso di dare comunicazione dell’avvio del
procedimento amministrativo alla parte interessata;
e) non era stato chiesto e rilasciato dalla A.G. che procedeva nei confronti della Evbadazehi il nulla osta di cui all’art.13 comma 3, TU. 286/98; tanto più necessario perché la ricorrente si trovava sottoposta a misura cautelare (prima custodia in carcere, poi arresti domiciliari, poi obbligo di firma) restrittiva della libertà personale:
- in via subordinata la
Evbadazehi ha chiesto la riduzione a tre anni del divieto di reingresso in
Italia, facendo presente che il decreto di espulsione era stato adottato prima
della entrata in vigore della L. 189/02 e che. quindi, doveva ritenersi
applicabile l’art.13 comma 14 nella formulazione precedente, che
consentiva al giudice di abbreviare fino a tre anni il divieto di reingresso,
tenendo conto della complessiva condotta tenuta dall’interessato sul
territorio dello stato;
- l’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino ha fatto pervenire note informative in data 30.12.02 e 4.1.03;
- alle
udienze del 3.1.03 e del 7.1.03 la ricorrente è comparsa personalmente;
osserva
1.
Rapporti fra la espulsione amministrativa e il procedimento penale.
1.1. E’ opportuno esaminare con priorità i denunciati difetti di
coordinamento (sia in astratto. con riferimento alla disciplina dei diversi
istituti, sia soprattutto in concreto, con riguardo alle specificità del
caso in esame) tra il procedimento penale in corso nei confronti della
Evbadazehi, ed il provvedimento amministrativo di espulsione adottato nei suoi
confronti (motivi sopra indicati sub b ed e). Al riguardo si premette:
a) il
decreto di espulsione è stato adottato l’8.3.02 (prima
dell’entrata in vigore della 1. 189/02 di modifica del T.U. 286/98). ma
è stato notificato il 12.12.02 (dopo l’entrata in vigore di detta
legge);
b) al momento dell’adozione del decreto la sig.ra Evbadazehi era sottoposta (sin dal febbraio 2002) alla misura cautelare della custodia in carcere;
c)
successivamente detta misura è stata convertita in quella degli arresti
domiciliari e quindi (dal 20.11.02) in quella dell’obbligo di firma giornaliero;
d) con
sentenza del GIP di Torino in data 28.11.02 la sig.ra Evbadazehi è stata
condannata a tre anni e due mesi di reclusione; la medesima sentenza ha
applicato alla ricorrente la misura di sicurezza della espulsione a pena
espiata, ai sensi dell’art.15 T.U. 286/98 (come modificato dalla
L:189/02).
1.2. La
ricorrente sostiene che “al momento di adozione del provvedimento
impugnato il pericolo di reiterazione delle condotte contestate era in radice
escluso dalla condizione di detenzione cui l’indagata era allora
sottoposta; il decreto amministrativo di espulsione avrebbe potuto essere
adottato soltanto dopo la cessazione delle misure cautelari detentive e previo
il nulla dell’autorità giudiziaria procedente. Al riguardo va
anzitutto osservato che la mera opposizione dello straniero ad una misura
cautelare detentiva non esclude, di per sé, l’esistenza dei
presupposti per l’adozione di un provvedimento espulsivo ai sensi
dell’art.13 comma 2 lett. b) T.U. 286/98. La misura cautelare infatti ha
presupposti applicativi ben diversi ed una finalità prettamente
orientata al procedimento penale in corso; essa è cioè diretta ad
assicurare la genuinità degli elementi di giudizio e a garantire
l’esecuzione della pena (che potrà essere irrogata); essa
può anche fondarsi su un giudizio di pericolosità, ma sempre
orientato alle modalità e circostanze di fatto per cui si procede. La
misura di prevenzione non è invece necessariamente correlata
all’accertamento di reati e si fonda sulla “pericolosità
sociale” del soggetto. e quindi su un giudizio prognostico nel quale
possono essere utilizzati una ampia serie di elementi (indizi, precedenti
condanne, segnalazioni, tenore di vita e frequentazioni di pregiudicati: cfr.
Cass. 473/94) rivelatori della pericolosità sociale, cioè della
capacità e della propensione a delinquere. La valutazione di
pericolosità sociale che fonda la misura di prevenzione dunque non
è affatto esclusa dalla contemporanea applicazione di una misura
cautelare perché quest’ultima può essere modificata o
revocata, venendone meno gli specifici presupposti, senza che muti la
“condizione personale” (e dunque la specifica pericolosità)
del soggetto che vi era sottoposto. Le esigenze di “difesa sociale”
sottese alla applicazione di una misura di prevenzione sussistono dunque anche
quando il suo destinatario sia momentaneamente sottoposto a una misura
cautelare detentiva.
1.3. Sotto un diverso profilo la ricorrente sostiene che il decreto di
espulsione non avrebbe potuto essere adottato senza il nulla osta dell’Autorità
giudiziaria che procedeva nei suoi confronti; anche perché nella specie
era stata adottata la misura cautelare della custodia in carcere. Sul punto
occorre ricordare che il provvedimento di espulsione è stato adottato
l’8.3.02; a quella data l’art.13 comma 3 T.U. 286/98 testualmente
prevedeva: “l‘espulsione è disposta in ogni caso con decreto
motivato. Quando lo straniero è sottoposto a procedimento penale,
l’autorità giudiziaria rilascia nulla osta salvo che sussistano
inderogabili esigenze processuali. Nel caso di arresto in flagranza il giudice
rilascia nulla osta all‘atto della convalida, salvo che applichi una
misura detentiva ai sensi dell’art. 391, comma 5, c.p.p. Se tale
misura non è applicata o
è cessata; il questore può adottare la misura di cui
all’art. 14 comma 1.” Nel sistema precedente
alla novella, dunque, l’art. 13 comma 3 non sanciva un obbligo del
Prefetto di richiedere il nulla osta all’autorità giudiziaria;
rilevato infatti che la norma prevedeva che l’autorità
giudiziaria, qualora trattasse un procedimento penale cui era sottoposto uno
straniero, rilasciasse - autonomamente,
e non su richiesta - il nulla osta, salva la sussistenza di
inderogabili esigenze processuali, ben può affermarsi che la mancanza di
provvedimento interdittivo alla espulsione equivalesse ad un “nulla osta
tacito”. Nel caso di applicazione della misura cautelare detentiva invece
il nulla osta (tacito o no) doveva essere rilasciato al momento della sua
cessazione. In ogni caso, comunque, il nulla osta dell’autorità
giudiziaria non era funzionale alle esigenze di difesa dello straniero nel
procedimento penale; queste esigenze venivano infatti adeguatamente
salvaguardate dall’art. 17 del T.U. che consentiva (ed ancor oggi
consente) allo straniero di rientrare in Italia per partecipare al giudizio o
per compiere singoli atti per i quali è necessaria la sua presenza
(così anche Cass. 14853/00). Deve quindi escludersi che lo straniero
potesse - sotto il
vigore dell’abrogata normativa -~ far valere la mancanza di nulla osta come autonomo profilo di
nullità del decreto di espulsione emesso nei suoi confronti.
Dopo la modifica
dell’art. 13 comma 3
ad opera della L. 189/02 il nulla osta non condiziona
più l’adozione del provvedimento espulsivo, ma
solo la sua esecuzione; al suo rilascio, cui
l’A.G. deve provvedere entro 15 giorni dalla richiesta (intendendosi, in
difetto, concesso), ostano soltanto:
- lo stato di custodia cautelare in
carcere in cui si trovi lo straniero;
-
l’esistenza di inderogabili esigenze processuali, valutate in relazione
all’accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel
reato o imputati in procedimenti per reati connessi e all’interesse della
persona offesa.
La misura cautelare della
custodia in carcere condiziona dunque soltanto la esecuzione del provvedimento
di espulsione; pertanto, nella presente sede di opposizione avverso il decreto
di espulsione, non è possibile - quand’anche si
ritenesse già applicabile la nuova normativa - far
valere la mancata richiesta del nulla osta; salvo naturalmente l’obbligo
per il questore di richiederlo prima di dare esecuzione alla espulsione al fine
di consentire all’A.G. procedente di valutare l’esistenza di
esigenze processuali ostative (sul punto si dirà tra breve).
1.4 . Con un
ulteriore complesso motivo di gravame la sig.ra Evbadazehi contesta la
legittimità del decreto di espulsione. La ricorrente muove:
- dal precetto costituzionale (art. 27 comma 20) della
necessaria finalità anche rieducativa della pena;
-
dall’esistenza di una sentenza di primo grado che l’ha condannata a
tre anni e due mesi di reclusione e le ha applicato altresì la misura di
sicurezza della espulsione a pena espiata.
Afferma quindi:
a) che “l’adozione nei suoi confronti del decreto di espulsione prefettizio si pone in insanabile contrasto con il precetto costituzionale in quanto sostanzialmente impedisce alla condannata di condurre. in attesa del giudizio di appello, una vita onesta e laboriosa, costringendola ad una condizione di irregolarità”;
b) che
ove il decreto prefettizio di espulsione fosse suscettibile di immediata
esecuzione ciò comporterebbe una vanificazione della pretesa punitiva
dello stato; ove, invece, esso potesse essere eseguito soltanto a pena espiata,
ciò consentirebbe l’espulsione di un soggetto in un momento in cui
il presupposto della pericolosità sociale, posto alla base della misura
amministrativa, non sarebbe più attuale proprio per il decorso di tempo
dal momento in cui la misura era stata assunta.
E’ opportuno muovere dalla
considerazione che, nel sistema della L. 286/98, soprattutto dopo le modifiche
apportate con la L. 189/02, la coesistenza fra un provvedimento amministrativo
di espulsione ed un procedimento penale in corso di svolgimento è del
tutto fisiologica (cfr. art.13 commi 3 e seguenti, art. 14 commi 5-ter e seguenti). Il “conflitto” fra le esigenze dello stato di
applicare la sanzione penale e di dare esecuzione alla espulsione viene, in
linea di massima, risolto dal legislatore accordando prevalenza alla prima; la
disciplina dettata dall’art.13 comma 3 per il nulla osta
dell’autorità giudiziaria procedente costituisce un chiaro indice
della “preferenza” accordata all’interesse dello stato di
presidiare le proprie frontiere rispetto a quello di esercitare la
potestà punitiva: la possibilità di rifiutare il nulla osta
è ancorata non all’esigenza punitiva, ma a quella di accertamento
(della responsabilità di concorrenti o imputati per reati connessi). Si
noti che anche nel caso in cui la responsabilità penale è stata
accertata e la sanzione applicata, l’interesse ad espellere lo straniero
può essere prevalente rispetto a quello di punirlo; è quanto
emerge dal nuovo art.16 del T.U. che prevede la espulsione come sanzione
sostitutiva o alternativa alla detenzione. Ora, non pare che, in termini
generali, questa “scelta legislativa” confligga con norme
costituzionali, concretandosi in una opzione (non tanto fra diversi valori e
principi, quanto) fra più modi possibili di accordare tutela ad un
medesimo valore costituzionalmente rilevante (quello della difesa sociale).
Sotto diverso profilo non può ritenersi che la espulsione amministrativa
di cui qui si discute sia in contrasto con il principio della finalità
rieducativa della pena, né in astratto, né nella fattispecie.
Premesso. in termini generali, che la finalità rieducativa è
soltanto una delle finalità proprie della pena (a cui sono propri anche
intenti generalpreventivi e specialpreventivi), si osserva che il provvedimento
di espulsione impedisce in radice che la pena venga espiata e che, quindi,
possa svolgere la sua funzione rieducativa; come si è detto lo Stato
preferisce espellere lo straniero piuttosto che (punendolo) rieducarlo.
Non si può dunque
lamentare la illegittimità costituzionale di un provvedimento che non va
ad incidere sulle modalità di espiazione della pena, ma la elimina in
radice (e. prima che la pena sia stata comminata, elimina addirittura la
necessità di accertare il fatto di reato).
In definitiva, la
legittimità del decreto di espulsione qui impugnato sussiste nonostante
la applicazione alla sig.ra Evbadazehi (peraltro in epoca successiva a detto
decreto) di misure cautelari e la sua condanna (non definitiva ed
anch’essa successiva al decreto) a pena detentiva (allo stato non ancora
applicata). Resta comunque ferma la necessità per il Questore di
chiedere, prima dell‘esecuzione dell‘espulsione, il nulla osta all’Autorità giudiziaria che sta procedendo nei
confronti della ricorrente.
2. La
pericolosità della ricorrente e i limiti alla applicazione della
espulsione derivanti dall’art. 8 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo.
La sig.ra Evbadazehi
sostiene che il decreto di espulsione non avrebbe adeguatamente motivato in
punto all’esistenza di una attuale pericolosità
sociale della ricorrente, difettando ogni indagine sulla sua condotta e tenore
di vita attuali. Inoltre il provvedimento espulsivo integrerebbe una
interferenza di una pubblica autorità nella vita privata e familiare
della ricorrente, tanto più illegittima - in base ai parametri di cui all’art.8 della Convenzione europea per la salvaguardia diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali - in quanto non “necessaria” in una
“società democratica” e non “proporzionata al fine
legittimo da perseguire”.
Una premessa è
opportuna a fini di chiarezza. L’art.8 comma 2 della Convenzione prevede
che “non può aversi interferenza di una autorità pubblica
nell’esercizio di questo diritto [al
rispetto della vita privata e familiare] a meno che questa ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società
democratica è necessaria
per’ la sicurezza nazionale, la sicurezza pubblica …
per la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della
morale…”. Ora, è indiscutibile che la finalità
del provvedimento di espulsione qui censurato sia proprio quella di
salvaguardare la sicurezza pubblica e di prevenire la commissione dei reati:
dunque, in astratto, rientra
in pieno nelle deroghe contemplate dall’art.8 comma 2. Si tratta
però di verificare se, in concreto, i
presupposti siano realmente sussistenti, se cioè la misura applicata sia
davvero necessaria per salvaguardare l’ordine pubblico e prevenire la
commissione di reati. E una simile valutazione si risolve, ancora una volta, in
quella circa la pericolosità sociale della ricorrente, da indagarsi
“ad ampio spettro”, tenuto conto della sua condotta pregressa, del
suo stato attuale e del suo inserimento, della probabilità che, in
futuro, essa metta in pericolo quelle esigenze a salvaguardia delle quali
è stata emessa la misura espulsiva.
La Corte
europea dei diritti dell’uomo ha da tempo elaborato una serie di principi
per verificare se, in concreto. una misura amministrativa (che interferisca
nella vita privata e familiare) possa dirsi “necessaria in una
società democratica”; prima fra tutte viene costantemente richiama
l’esigenza di un “giusto equilibrio” fra gli interessi
coinvolti: quello dello Stato a proteggere l’ordine pubblico e prevenire
la commissione di reati, e quello del privato a veder rispettata propria sfera
personale e familiare (arret Boultif c. Suisse del
2.8.01). La Corte espressamente afferma di non
sottovalutare l’interesse degli Stati ad assicurare l’ordine
pubblico, in particolare nell’esercizio del loro diritto di controllare -
in virtù di un principio internazionale comunemente riconosciuto
– l’ingresso,
il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri (arret Mostaquim c.
Belgique del 18.2.91); chiarisce però che le decisioni
degli Stati in questa materia, in quanto colpiscono un diritto protetto
dall’art.8 del Trattato. devono essere “giustificate da un bisogno
sociale imperioso” e devono essere “proporzionate
all’importanza dell’interesse perseguito” (arrets Dalia c.
France del 19.2.98 e Methemi c. France del 26.9.97). Per chiarire come questi criteri
debbano essere “riempiti di contenuto” la Corte espressamente
afferma che devono essere presi in considerazione i seguenti elementi: la
natura e la gravità dell’infrazione commessa, la durata del soggiorno
dello straniero nel paese da cui sta per essere espulso, la condotta dello
straniero dopo la commissione del reato, la nazionalità delle persone
interessate dall’espulsione. la situazione familiare del ricorrente
(considerata sotto tutti gli aspetti, ivi compresa la consapevolezza da parte
dei suoi congiunti, circa il reato commesso). l’esistenza di figli e la
loro età, la gravità delle difficoltà che
l’espulsione comporterà per lo straniero ed i suoi familiari (arret
Boultif c. Suisse del 2.8.01).
Si tratta dunque di valutare non soltanto se la persona espulsa sia “pericolosa” secondo la accezione fatta propria dell’art.1 della L. 1423/56 (richiamato dall’art.13 comma 2 lettera c del T.U. 286/98), ma anche se questa “pericolosità” sia tale da giustificare nei suoi confronti la misura della espulsione.
Premesso che il decreto di espulsione non
contiene alcuna valutazione degli elementi sopra specificati e non consente di
cogliere se e su quali basi l’autorità amministrativa abbia
effettuato l’indispensabile giudizio di comparazione di cui si è
detto, è compito di questo giudice - nel verificare la legittimità del decreto
di espulsione impugnato - accertare se possa dirsi esistente la pericolosità sociale della
sig.ra Evbadazehi e se essa sia tale da giustificare il suo allontanamento dal
territorio nazionale.
Facendo dunque applicazione dei principi sopra
richiamati al caso di specie si osserva quanto segue.
a) La
ricorrente vive in Italia da circa 16 anni, essendovi entrata per la prima
volta nel marzo 1987 (cfr. permesso di soggiorno doc. 16); la sua posizione
è stata pressochè sempre regolare, avendo beneficiato di
successivi rinnovi del permesso di soggiorno fino al10.12.01;
b) la
sig.ra Evbadazehi ha svolto attività lavorativa regolare sin dal 1991:
prima come dipendente (come risulta dal libretto di lavoro, doc. 10), poi come
imprenditore (come risulta dal certificato CCIAA doc. 11);
c) fino
alla sentenza di condanna del novembre 2002 la Evbadazehi non risulta aver
commesso reati, né aver tenuto comportamenti rilevanti ai fini
dell’applicazione delle misure di prevenzione di cui alla legge 1423/56:
unica eccezione: una “denuncia” per detenzione e spendita di monete
false, risalente al 2001, della quale non è dato conoscere le effettive
conseguenze penali (se vi sia stato procedimento penale e condanna); si tratta
comunque di fatto che, per la sua ‘unicità”, non consente in
alcun modo di inferire che la ricorrente tragga (anche solo in parte) il
proprio sostentamento da questa attività;
d) la
sig.ra Evbadazehi è madre di tre figli, tutti minorenni, due dei quali
nati in Italia (e sempre vissuti qui), l’altro nato in Nigeria, ma
vissuto in Italia dall’età di un anno (cfr. certificato di
famiglia doc. 5);
e) tutti
e tre i figli frequentano scuole italiane e svolgono in Italia attività
sportive (doc. 6. 7, 8); possono pertanto dirsi pienamente inseriti nel tessuto
sociale italiano;
f)
analoga valutazione di pieno inserimento va fatta per la ricorrente: non
soltanto in relazione alla attività lavorativa per lungo tempo svolta
(di cui si è già detto), ma anche per lo svolgimento di
attività di rilevante valore sociale; la sigg.ra Evbadazehi ha infatti
seguito (dal marzo al giugno 2001) un corso - gestito
dall’ente Enaip in convenzione con la Regione Piemonte — per l’apprendimento delle
“tecniche di sostegno alla persona” ed ha successivamente lavorato
per la Cooperativa sociale Punto Service;
g) i
figli minorenni non risultano avere altri parenti stretti in Italia,
poiché il padre Edoridion
Kingsley risiede in Nigeria (doc. 17, 18).
A fronte
di questa situazione personale e familiare della ricorrente, occorre
considerare che la stessa è stata condannata (con sentenza non
definitiva e ad oggi appellata) a tre anni e due mesi di reclusione per il
reato di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, reato che desta
senz’altro un particolare e allarme sociale. Si tratta tuttavia di un
episodio che - per quanto grave - è il solo in oltre 15
anni di soggiorno in Italia. La necessità per lo Stato di
“difendersi”, in questo caso, con la espulsione dello straniero non
pare né rispondente ad una necessità sociale imperiosa. né
proporzionata rispetto ai diritti (di cui all’art.8 citato) che devono
essere salvaguardati. Sotto il primo profilo infatti la “neutralizzazione”
dello straniero (e dunque la finalità
“specialpreventiva” perseguita attraverso la espulsione) viene
adeguatamente realizzata attraverso la sottoposizione alle sanzioni penali
detentive cui è stato condannato.
Sotto il secondo profilo la misura appare eccessiva, e dunque “non proporzionata” sia perché tende a recidere completamente il legame con il paese in cui lo straniero ha vissuto (perfettamente integrandosi) per circa 15 anni; sia perché coinvolge nella sua “radicalità” l’intera famiglia dello straniero, composta da tre figli minori, che sarebbero di fatto costretti (per fatti che non possono essere in alcun modo a loro imputati) a lasciare il paese in cui hanno sempre vissuto e a trasferirsi (a seguito della madre) in un paese (la Nigeria) con il quale non hanno il benché minimo legame e che offrirebbe loro possibilità di sviluppo e crescita (intese nell’ampio senso di cui agli artt. 3 e 4 Cost.) ben inferiori rispetto a quelle di cui hanno sino ad oggi goduto in Italia.
Si
ritiene. conclusivamente. che il grado di pericolosità concretamente
manifestato dalla sig.ra Evbadazehi con tutta la sua condotta di vita in Italia
(ivi compresa la commissione del reato per cui è stata condannata) non
sia tale da esigere - quale
necessaria misura “di tutela della collettività” - la sua espulsione dallo Stato; e si valuta altresì, rispetto a tale
pericolosità, eccessiva e non proporzionata la predetta misura
dell’espulsione, in considerazione del complessivo grado di ingerenza che
questa misura avrebbe nella sfera privata e familiare della persona espulsa.
Alla
luce di queste considerazioni il decreto di espulsione deve essere annullato.
La peculiarità della questione trattata costituisce giusta causa per
l’integrale compensazione delle spese del procedimento.
P.Q.M.
annulla
il decreto di espulsione n. 584/02 emesso nei confronti di Evbadazehi Kate
Edemakhionta dal Prefetto di Torino l’8.3.02 e notificato il 12.12.02;
compensa le spese di giudizio.