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IL CARCERE NON E’ UN CENTRO DI PERMANENZA TEMPORANEA!
Il
numero dei migranti nelle carceri italiane sta aumentando rapidamente: nelle
carceri delle grandi città si arriva a percentuali che spesso superano
il 50% dei detenuti. Questo aumento avviene a dispetto di tutti i tentativi
(vedi espulsione come pena alternativa introdotta dalle Bossi-Fini) di
espellere i migranti soggetti a pena. Questo andamento non è
sorprendente dato che la stessa Bossi-Fini, sanzionando penalmente la
violazione dell’ordine ad allontanarsi dal territorio e prevedendo
l’arresto in flagranza per chi si trova in violazione di un tale ordine
sul territorio dello Stato, configura il carcere come un evento normale per
coloro che sono costretti dalla stessa legge (data l’assoluta
implausibilità ed inumanità sia della stipulazione di un
contratto di lavoro a distanza che dell’idea di un radicamento sul
territorio italiano limitato al periodo di lavoro) a vivere da “clandestini”.
Il
dato su cui in questa sede mi preme mettere l’accento è
però rappresentato dal fatto che sempre più il carcere viene
configurato dal legislatore come un centro di permanenza temporanea,
cioè come un luogo in cui il migrante (anche se era regolare) soggiorna
in attesa dell’esecuzione dell’espulsione. La Bossi-Fini mira
infatti a rendere praticamente impossibile che un migrante passato dal carcere
possa riprendere la sua vita normale sul territorio italiano, possa reinserirsi
socialmente. La previsione che debba essere espulso infatti chiunque sia
entrato in carcere per uno dei delitti previsti dall’art. 380, comma
primo e secondo, c.p.p. nonché per qualsiasi reato attinente la droga
esclude in partenza la possibilità che un migrante possa riprendere la
sua vita sul territorio italiano da regolare: anche se ha rubato una mela (cosa
per cui si va in carcere non solo nei film e nelle storielle ma anche nella
civile Italia, dove il furto non aggravato non esiste più, ...
naturalmente solo se si è migranti!).
Questa
decisione del legislatore è assolutamente incostituzionale perché
da un lato svuota di ogni contenuto il terzo comma dell’art. 27 della
Costituzione che vuole che la pena tenda “alla rieducazione del
condannato”, cioè, secondo l’interpretazione ormai canonica,
della Corte Costituzionale al suo reinserimento sociale. La sistematica
prospettiva di essere espulso impedisce sicuramente alla pena di aver qualsiasi
effetto “rieducativo-reinseritivo” e crea una intollerabile
disparità di trattamento tra migranti e cittadini italiani, ma
soprattutto snatura il carcere. Da luogo in cui viene praticato un intervento
sociale di tipo reinseritivo questo si trasforma in un contenitore di carne
umana destinata all’espulsione. Chiunque abbia a cuore le sorti della
pena detentiva italiana, oltre che quelle dei migranti, non può che
opporsi con forza ad una tale tendenza.
In
attesa che questa mutazione genetica della pena detentiva sia sottoposta al
vaglio della Corte Costituzionale (il magistrato di sorveglianza di Alessandria
ha già rimesso al giudizio della Corte la norma relativa
all’espulsione come pena alternativa). Si deve trovare una strada per
sabotare sistematicamente il disegno che vuole snaturare le carceri italiane.
Le modalità con cui farlo che finora siamo riusciti ad individuare sono
tre:
1) opporre all’esecuzione dell’espulsione amministrativa
l’esecuzione della pena pecuniaria;
2) opporre all’esecuzione dell’espulsione amministrativa
l’esecuzione della misura di sicurezza (questa strategia ha delle
controindicazioni)
3) opporre al diniego del permesso di soggiorno la non
retroattività della norma della Bossi-Fini che individua i reati di cui
all’art. 380, primo e secondo comma, c.p.p., nonché i reati
attinenti agli stupefacenti come ostativi al rilascio o al rinnovo del permesso
di soggiorno stesso.
Le
prime due strategie sono meramente dilatorie, ma sono fondamentali per prendere
tempo dato che i ricorsi contro i provvedimenti di espulsione non hanno effetti
sospensivi. Il momento in cui è più facile sollevare le
opposizioni è quello del giudizio di convalida dell’internamento
nei Centri di permanenza temporanei. Anche la mera dilazione
dell’espulsione ha effetti importanti specialmente se si protrae per
cinque anni. In questo caso infatti si mette il migrante (non dichiarato recidivo) in condizione di chiedere la
riabilitazione che dovrebbe eliminare tutti gli ostacoli di natura penale posti
dalla Bossi-Fini alla sua regolarizzazione.
Tentativo di costruzione di un percorso costituzionalmente legittimo
per i migranti ex-detenuti (a dispetto della Bossi-Fini!).
1) Sul pagamento delle
pene pecuniarie.
La
scelta di esercitare o meno la potestà punitiva da parte dello Stato non
può essere rimessa alla discrezionalità della pubblica
amministrazione né tanto meno può dipendere da criteri quali la
personalità del soggetto passivo. Bensì tale scelta è di
prioritaria spettanza del legislatore il quale nel perseguimento dell'interesse
pubblico, valutati gli interessi in gioco, può anche optare per una rinunzia
all'esercizio della potestà punitiva solo in casi eccezionali che come
tali devono essere espressamente indicati. In mancanza di una specifica
indicazione in tal senso nessuna deroga è ammessa
all'obbligatorietà dell'esercizio della potestà punitiva. Si
ricorda che la pena pecuniaria non è una pena residuale rispetto a
quella detentiva, essendo la pena pecuniaria sanzioni penale principale
così come quella detentiva e non pena accessoria.
In
base all’art. 742 c.p.p. soltanto la presenza di accordi internazionali,
intercorrenti tra gli Stati
interessati, autorizza il Ministro di Grazia e Giustizia a domandare
l’esecuzione delle sentenze penali all’estero o ad acconsentirvi
quando essa è richiesta dallo Stato estero. Non risulta che
l’Italia abbia stipulato accordi in questa materia (esecuzioni delle pene
pecuniarie) con alcun paese. Peraltro il migrante può chiedere la
conversione di una delle sue pene pecuniarie nella misura della libertà
controllata. Ottenuta la suddetta conversione, ci troveremmo di fronte ad una
misura restrittiva della libertà personale la cui esecuzione
all’estero necessiterebbe in ogni caso del consenso
dell’interessato, come precisato dall’art. 742, comma 2, del codice
di procedura penale.
Un
altro argomento a sostegno della tesi che la pena pecuniaria osti
all’espulsione amministrativa è offerto dall’aggiunta di un
comma 1 bis all’art. 15 del T.U. operato dalla legge 189/2002. Infatti,
in tale comma 1 bis dell’art. 15 si prevede che l’espulsione come
misura di sicurezza vada effettuata subito dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o di
detenzione e, quindi, prima dell’esecuzione
della pena pecuniaria. Una disposizione di tal genere non è prevista per
la espulsione amministrativa. Perciò, il legislatore della legge
189/2002, nel pronunciarsi su quali forme di espulsione sono immediatamente
eseguibili al momento della scarcerazione, ha inteso riferirsi solo alla
espulsione prevista come misura di sicurezza. Se ne desume che, per quanto
riguarda l’espulsione amministrativa, il legislatore abbia inteso
lasciare immutata la disciplina prevista all’art. 742 c.p.p. e a ribadire
il principio per cui prima si esegue tutta la pena (compresa quella pecuniaria) e solo successivamente
si può procedere all’espulsione. Altrimenti, avrebbe dovuto
affermare che tanto l’espulsione misura di sicurezza che
l’espulsione amministrativa si eseguono immediatamente dopo la
scarcerazione.
A
questo motivi si deve aggiungere che esiste un diritto del migrante a
estinguere anche la pena pecuniaria, mediate la sua rateizzazione o la sua
conversione in libertà controllata, se non ha fondi sufficiente per
estinguerla in una unica soluzione, cosa che non accade mai. (Ricordiamo che il
nuovo Testo Unico in materia di spese di giustizia stabilisce all’art.
238, comma 4, in merito all’esecuzione delle pene pecuniarie ed in
particolare per la loro conversione, che “alla scadenza del termine
fissato per l’adempimento, anche rateizzato, è ordinata la
conversione, dell’intero o del residuo”. Una norma di questo tipo
non lascia spazio alcuno alla possibilità che sul nostro territorio
permangano soggetti in stato di insolvenza permanente.) Infatti
l’estinzione della pena pecuniaria, che è come detto pena
principale e non accessoria, è a norma dell’art. 179 c.p.
precondizione per l’ottenimento della riabilitazione. Impedire
l’esecuzione della pena pecuniaria vorrebbe dire discriminare il migrante
ed impedirgli il conseguimento della riabilitazione.
Fino
a quando non si saranno ottenute sufficienti pronunce giudiziarie che affermano
l’ineffettuabilità dell’espulsione amministrativa prima
dell’esecuzione della pecuniaria conviene che il migrante detenuto chieda
prima della conclusione della reclusione la conversione della pena pecuniaria
in libertà controllata. In questo modo si rendono più forti le
garanzie contro la sua espulsione, dato che come ricordato il secondo comma
dell’art. 742 relativo all’esecuzione delle pene limitative della
libertà all’estero richiede espressamente il consenso del soggetto
interessato. Una volta consolidato il principio della non eseguibilità
dell’espulsione amministrativa prima dell’esecuzione della pena
pecuniaria (ammesso e non concesso che si riesca a consolidarlo) allora al
migrante conviene chiedere la sua rateizzazione, che gli concede un lungo
periodo di regolarità: è in esecuzione pena finché paga le
rate della pena pecuniaria e quindi come tutti i soggetti in esecuzione pena ha
diritto a lavorare e ad avere l’assistenza sanitaria, oltre che a non
essere espulso.
2) Concorrenza tra misura di sicurezza ed espulsione come misura
amministrati
Preliminarmente
vi è da dire che la giurisprudenza della Corte Costituzionale (fra
cui la sentenza n. 175/1971, Pres.
Branca, Rel. Mortati, in Giurisprudenza
Costituzionale, Repertorio,
1971, p. 53 ss.) afferma che non appartiene alla discrezionalità del
legislatore concedere o meno la possibilità di ottenere il
riconoscimento della completa innocenza da parte dell’imputato. Esiste un
interesse morale ad una sentenza di assoluzione con formula piena che non
può venire soppresso ad libitum dal legislatore. Per analogia si può affermare
che esiste un uguale interesse a veder rivista la propria pericolosità
da parte del soggetto al momento in cui finisce di scontare la pena detentiva.
Quando l’art. 13 del Testo unico in materia di immigrazione, come
modificato dalla legge 189/2002, prevede la richiesta di nulla osta
all’autorità giudiziaria prevede che questa possa negarlo in
presenza di inderogabili esigenze processuali, tali esigenze vanno valutate, a
dispetto di una sbrigativa sentenza della Corte di Cassazione, anche
nell’interesse della parte accusata o, nel caso di procedimento di
sorveglianza, condannata, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 111
della Costituzione (Giusto processo). Quindi, quando in sentenza esiste una
misura di sicurezza, prima di eseguire l’espulsione amministrativa deve
essere quantomeno richiesto il nulla osta al magistrato di sorveglianza che
deve rivedere la pericolosità. Il magistrato di sorveglianza dovrebbe
negare il nulla osta a tutela dell’interesse del detenuto a vedersi
dichiarare non pericoloso o a vedersi commutare la misura di sicurezza
dell’espulsione (eventualmente sia questa la misura di sicurezza prevista
dalla sentenza) in una misura di sicurezza come quella della libertà vigilata
che consenta ad un certo punto di avere una decisione che dichiara il soggetto
non più pericoloso. Una tale decisione può essere fondamentale
infatti al fine di un suo reingresso nell’Unione Europea decorso il
periodo di interdizione al reingresso.
Merita
anche di essere sottolineato che quando il detenuto ha problemi di natura
psichica, caso ormai non infrequente dato che il carcere si sta sempre
più delineando come mero raccoglitore dei soggetti che disturbano,
ponendo le esigenze di tutela della salute degli individui in secondo piano
rispetto a mitizzate esigenze di sicurezza, la misura di sicurezza della
libertà vigilata si può configurare come intervento terapeutico
essenziale previsto dall’art. 35 del T.U. al comma 3 anche a vantaggio
del cittadino straniero comunque presente sul territorio nazionale. Inoltre,
tale intervento curativo risulta conforme alla Risoluzione O.N.U. del 30 agosto
1955 (regole minime per il trattamento dei detenuti) in cui all’art. 83
si considera desiderabile che il trattamento psichiatrico sia continuato, se
sia necessario, dopo la liberazione del detenuto e sia assicurata
un’assistenza sociale post-penitenziaria a carattere psichiatrico.
Analogamente, le regole penitenziarie europee contenute nella Raccomandazione del
Consiglio dei Ministri della Comunità Europea del 12 febbraio 1987
prevedono al punto 100.4 che sia assicurata al detenuto alienato psichico, dopo
la dimissione, la continuità dell’assistenza psichiatrica.
E’ evidente che questo percorso deve essere tracciato con
l’assistenza del personale dell’area trattamentale
dell’amministrazione penitenziaria e dei C.S.S.A. Esso è infatti
assolutamente impercorribile senza tutta una serie di relazioni e un programma
che solo questo personale può predisporre.
La
strada della richiesta di conversione della misura di sicurezza
dell’espulsione nella misura di sicurezza della libertà vigilata,
anche quando supportata dal personale dell’amministrazione penitenziaria,
è comunque molto complessa perché non è chiaro se la misura
di sicurezza della libertà vigilata osta all’espulsione
amministrativa. La materia è regolata dall’art. 200 c.p. che
all’ultimo comma, statuisce che “l’applicazione di misure di
sicurezza allo straniero non impedisce l’espulsione di lui dal territorio
dello Stato, a norma delle leggi di pubblica sicurezza”. Le norme a cui
il predetto articolo fa riferimento (art. 151 del Testo unico delle leggi di
Pubblica sicurezza) sono state abrogate dall’art. 46 della legge n. 40
del 1998, poi confluita nel Testo Unico in materia di immigrazione, D. lgvo
286/1998. Considerare che con questa abrogazione il rinvio dell’art 200
c.p. vada ritenuto implicitamente riferito alle nuove norme
sull’espulsione dello straniero (che hanno sostituito quelle previste
dalle leggi di pubblica sicurezza) appare problematico sotto il profilo della
lettera del testo dell’art. 200 c.p. e del principio di legalità
che regola la materia delle misure di sicurezza.
In
primo luogo l'attribuzione di norma di pubblica sicurezza al Testo Unico in
materia di immigrazione (D. Lgvo 286/98) appare contraria alla ratio dello stesso testo unico oltre che
all’intenzione del legislatore. Il dibattito parlamentare e le relazione
che accompagnano la presentazione del progetto che diverrà la legge n.
40 del 1998, poi confluita nel decreto legislativo n. 286 del 1998,
testimoniano la volontà del legislatore di pervenire attraverso una
regolamentazione organica dello status dei migranti al superamento della logica
di pubblica sicurezza che aveva segnato la natura dei precedenti interventi
legislativi in tema d’immigrazione. Basti qui menzionare le due
relazioni. In quella alla Camera del Governo si parla di un testo normativo
caratterizzato «da una visione responsabile e solidale dei problemi del
mondo anche a noi vicino, da una preoccupazione di pace e giustizia, da una
scelta di cooperazione euromediterranea», connotazione che non sembra
certo quella di una “legge di pubblica sicurezza”. Si dice che la norma mira a
«disciplinare l’immigrazione e insieme, anche se non in modo
esaustivo, la condizione dello straniero», per la quale si sottolinea
«la necessità di definire ormai un quadro normativo, certo,
generale e unitario»: appare molto problematico classificare come
“legge di pubblica di sicurezza” un testo mirante a regolare lo
status delle persone! Infine si afferma che «l’intento del Governo
è quello di varare una legge quadro capace di reggere alla prevedibile
evoluzione del fenomeno -- dell’immigrazione -- nei prossimi anni».
Questa chiara definizione di legge quadro regolante lo status dei migranti
sembra chiarire in modo esplicito che non siamo di fronte ad una “legge
di pubblica sicurezza”. Concetti analoghi sono ribaditi nella relazione
del Senatore Guerzoni, al Senato: qui si parla di una legge mirante a dare
“una visione unitaria della materia” dell’immigrazione e
capace di intervenire “su tutta la condizione dello straniero in
Italia”. Appare quindi confermata la volontà di superare
un’impostazione parziale come è quella delle “leggi di
pubblica sicurezza” che si occupano di un solo aspetto, appunto la
“pubblica sicurezza” che ha caratterizzato la normativa in materia
di stranieri fino alla legge Martelli. Del resto ad escludere la
caratterizzazione della legge n. 40 del 1998 come “legge di pubblica sicurezza”
dovrebbe bastare il Titolo V della stessa legge che disciplina il godimento dei
cosidetti “diritti civili” o “diritti di cittadinanza”
per straniero presente sul territorio italiano.
Se
si esclude che il T.U. del 1998 sia una “legge di pubblica
sicurezza” allora la misura di sicurezza dovrebbe ostare, per il
principio di legalità che governa la materia delle misure di sicurezza,
all’espulsione amministrativa. Infatti nel secondo comma dell’art.
200 c.p.p., concernente la normativa che deve regolare l’applicazione
della misura di sicurezza viene adottata dal legislatore una tecnica di redazione normativa
rispondente ad una visione di “proiezione verso il futuro”, si
afferma che “se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di
sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo
dell’esecuzione”.
Viceversa nel quarto ed ultimo comma dell’art. 200 c.p., come
già ricordato, si legge che
“l’applicazione di misure di sicurezza allo straniero non
impedisce l’espulsione di lui dal territorio dello Stato, a norma
delle leggi di pubblica sicurezza”. In tal caso la tecnica di redazione normativa è
stata quella di un rinvio ad una specifica categoria di disposizioni
legislative. Agli effetti
pratici, con la precisazione finale di tale ultimo comma, il risultato che si
ottiene, conformemente al principio di legalità, è che solo il
ristretto ambito delle espulsioni a norma delle leggi di pubblica sicurezza
prevale sulla misura di sicurezza applicata allo straniero, non le espulsioni
disciplinate da leggi di diversa natura, non le espulsioni amministrative in
genere.
Appare
irrilevante l’argomento per cui quella prevista dalle leggi di pubblica
sicurezza era l’unica forma di espulsione dello straniero esistente al
momento della redazione della norma (e quindi l’unico rinvio possibile ad
una normativa sull’espulsione). Se il legislatore avesse realmente voluto
far prevalere qualsiasi tipo di espulsione amministrativa sulla misura di
sicurezza non avrebbe avuto necessità di aggiungere la stringente
precisazione finale “a norma delle leggi di pubblica sicurezza”.
Sarebbe stato sufficiente, omettere questa precisazione o, adottare anche in tale ultimo comma la già citata
tecnica di “proiezione verso il futuro” scrivendo (o riscrivendo)
nella precisazione finale, “disposta a norma delle leggi in vigore al
tempo dell’esecuzione”, esattamente come nel secondo comma. Ancora
il legislatore avrebbe potuto utilizzare un inciso differente, come “per
motivi di pubblica sicurezza”, capace di ricomprendere anche espulsioni
previste da leggi non specificatamente di pubblica sicurezza, ma comunque
attinenti a questa materia.
Peraltro, anche se il legislatore avesse adottato tale ultima formula,
rimarrebbe dubbia la possibilità di considerare l’espulsione
disposta dalla prefettura come una espulsione per motivi di pubblica sicurezza,
dato che l’art. 13 del decreto legislativo n. 286 del 1998, qualifica
come espulsione effettuata “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza
dello Stato” solo quella regolata dal primo comma e quindi disposta dal
Ministro dell’interno e non quelle regolate dalle lettere a, b, c, del secondo comma, disposte dal Prefetto.
Annullare
la distinzione operata consapevolmente dal legislatore tra il secondo ed il
quarto comma dell’art. 200 c.p. configurerebbe un’arbitraria
violazione del principio di legalità delle misure di sicurezza facendo
risultare privo di coerenza sistematica l’assetto dei rapporti tra misure
di sicurezza e le varie espulsioni presenti nel nostro panorama legislativo.
3) Sulla non retroattività della Bossi-Fini
Riteniamo
che le norme che sanciscono il divieto di rilasciare o rinnovare il permesso di
soggiorno al migrante che ha compiuto un reato di cui all’art. 380, primo
e secondo comma, c.p.p. o un reato previsto dal T.U. sugli stupefacenti e non
solo al migrante ritenuto pericoloso, come sanciva la normativa previgente, non
possano essere applicate retroattivamente e comunque non posso essere applicate
a quei soggetti che hanno cominciato, in corso di esecuzione pena, il percorso
risocializzante prima dell’entrata in vigore della Bossi-Fini.
La retroattività in genere sembra essere
esclusa dalla circostanza che la revoca del permesso di soggiorno o il diniego
della sua concessione e quindi l’espulsione amministrativa sono
configurati dalla legge Bossi-Fini come una vera e propria pena accessoria
conseguente alla commissione di uno dei reati di cui ai commi uno e due
dell’art. 380 c.p.p. o previsto dal T.U. sugli stupefacenti. Non è
infatti lasciata nessuna discrezionalità o possibilità di
valutazione a chi deve decidere se concedere o meno il permesso di soggiorno, e
quindi se espellere o meno il
migrante, o al giudice che deve verificare la legittimità di quegli
atti: in presenza di quei reati l’espulsione deve essere effettuata.
E’ proprio questo automatismo a conferire all’espulsione la
caratteristica pena accessoria per quei reati a cui deve necessariamente
conseguire. Ma se si tratta di pena accessoria essa non può certo essere
attribuita retroattivamente a chi aveva commesso il reato prima
dell’entrata in vigore della Bossi-Fini.
L’irretroattività poi sembra doversi escludere in particolare per quei soggetti che hanno iniziato il percorso di reinserimento sociale. E’ infatti chiaro che un percorso mirato al reinserimento di un soggetto nella realtà sociale italiana viene reso vano da una norma che comporta l’automatica espulsione di quello stesso soggetto dal territorio dello Stato al momento in cui la pena è stata scontata, cioè al momento in cui il percorso di reinserimento si ultima. Le nuove preclusione alla possibilità di soggiornare sul territorio dello Stato aggiunte dalla Bossi-Fini compromettono in maniera palese i percorsi di reinserimento sociale già avviati, si pensi solo al soggetto che sta lavorando in affidamento (casomai dopo un periodo di formazione). La Corte Costituzionale ha sancito il principio della impossibilità per i legislatore di interrompere questi percorsi per soggetti molto più pericolosi dei migranti che hanno compiuto un reato, casomai di scarso allarme sociale, come gli autori di reati di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario: quindi condannati per associazione mafiosa, omicidio, rapina aggravata eccetera. Nel senso della tutela delle aspettative dei migranti, pur senza riferimento al percorso risocializzante, ma apparentemente ad esclusiva tutela dell’affidamento fatto sulla situazione giuridica esistente, va una recente ordinanza del TAR Toscana (119/2003) che ha ritenuto di sospendere l’esecuzione del provvedimento di diniego del provvedimento di rinnovo del permesso di soggiorno disposto in conseguenza dell’applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 c.p.p., anche questa fattispecie aggiunta dalla legge Bossi-Fini ai motivi che impediscono il rinnovo del permesso di soggiorno. Nel disporre la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato il TAR osserva che la norma «non sembra applicabile retroattivamente ad accordi precedentemente conclusi dall’imputato confidando negli effetti della sentenza previsti dall’art. 445 c.p.p.».
Merita
di essere sottolineato che il percorso di reinserimento può trovare un
ostacolo insuperabile nella dichiarazione di pericolosità. E’
quindi fondamentale per chi vuol provare a restare in Italia non per un periodo
di tempo breve, puntare sulla pena pecuniaria per ostacolare l’espulsione
e non sulla conversione della misura di sicurezza. E’ interesse di chi
vuol far valere la non-retroattività della Bossi-Fini ottenere la revoca
della misura di sicurezza, che presuppone la dichiarazione di non
pericolosità, non la sua sostituzione con la libertà vigilata,
che implica invece che il soggetto sia ancora considerato pericoloso.