CONSIDERAZIONE A MARGINE DI UNA DIRETTIVA “TRADITA”.

 

Lo schema di decreto legislativo recante il recepimento della direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che attua il principio di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, tradisce in numerosi punti le finalità e la lettera della corrispondente direttiva comunitaria. D’altra parte si osserva che non si ha alcuna notizia della direttiva 2002/73/CE, che della prima costituiva il naturale compimento, riguardando l’attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione, e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro.

 

Esaminiamo adesso le principali “innovazioni” che il governo italiano si appresta ad apportare alla normativa già vigente ( con scarsi risultati) in materia di contrasto della discriminazione razziale.

 

Nello schema di decreto legislativo di recepimento sono fatte salve tutte le norme vigenti in materia di ingresso, espulsioni e accesso al lavoro, in base all’art. 3 comma secondo. In questo modo, considerando la larga discrezionalità amministrativa esercitata in questo ambito, si apre la strada per la immunità degli agenti statali che pongono in essere comportamenti discriminatori ai danni degli immigrati in questo delicatissimo settore che riguarda la libertà personale e di circolazione.

Sarà infatti sufficiente invocare una norma di legge, per mettersi al riparo dalla prova, che rimane sempre in capo alla vittima, di un comportamento discriminatorio.

Si trascura peraltro di dare applicazione all’art. 14 della direttiva che imponeva agli stati membri di adottare le misure necessarie per assicurare che “ tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative contrarie al principio della parità di trattamento siano abrogate”.

Ma forse applicare alla lettera questa parte della direttiva comunitaria avrebbe avuto l’effetto di fare abrogare buona parte della legge Bossi Fini approvata lo scorso anno.

Non rimane che preparare ricorsi alla Corte di giustizia, oltre che alla corte Europea dei diritti dell’uomo, per contrastare sul piano internazionale tutte le norme discriminatorie contenute nella nostra disciplina sull’immigrazione. A meno che non intervenga prima la nostra Corte Costituzionale.

 

Nel decreto di recepimento sembrano fatte salve le norme in materia di discriminazione previste dagli artt. 43 e 44 del T.U. 286 del 1998, ma in realtà in questo modo si contraddice la normativa comunitaria che ne imponeva la modifica, stabilendo la inversione dell’onere della prova che sarebbe dovuto toccare al convenuto e non alla vittima della discriminazione parte attrice. Viene completamente disatteso l’art. 8 della Direttiva 2000/43/CE che assegnava alla parte accusata del comportamento discriminatorio, e non alla vittima, l’onere della prova.

 

Non vi è traccia della trasposizione nel nostro ordinamento del fondamentale art. 9 della direttiva, che stabiliva la protezione delle vittime degli atti di discriminazione, imponendo agli stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici “ le disposizioni necessarie per proteggere le persone da trattamenti o conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un azione volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento”

 

Rispetto alla normativa già in vigore l’art. 4 della bozza di decreto delegato aggrava l’onere probatorio che già aveva inficiato la effettività della norma già in vigore ( art.44), e precisa anzi che “ il ricorrente al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno può dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti”.

Esattamente l’opposto di quanto intendeva la direttiva comunitaria.

 

Le norme sulla legittimazione ad agire , art. 5, e sul registro delle associazioni , art. 6 appaiono ispirate a preoccupazioni di controllo, piuttosto che alle finalità di garantire una più ampia tutela da parte delle associazioni contro gli atti di discriminazione razziale.

 

Altra previsione in contrasto frontale con la direttiva, risulta essere l’art. 7 del decreto delegato secondo il quale “è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri dipartimento per le pari opportunità” un “Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazione fondate sulla razza e sull’origine etnica”, ufficio che dovrebbe fornire assistenza nei procedimento giurisdizionali o amministrativi le vittime dei comportamenti discriminatori.

La direttiva 2000/43/CE prevedeva un agenzia indipendente dal governo, mentre in Italia la normativa di attuazione stabilisce che questo ufficio che dovrebbe promuovere la parità di trattamento è “ diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri

o da un ministro da lui delegato”, e si articola secondo modalità organizzative “ fissate con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri”.

Tale ufficio si potrà avvalere anche di personale di amministrazioni pubbliche “nonché di esperti e consulenti esterni” tutti rigorosamente scelti in base al metodo della cooptazione.

Insomma un vero e proprio ufficio studi al servizio del governo. Altro che possibilità di contrastare le discriminazioni poste in essere da agenti istituzionali, quelle più gravi.

Insomma tutto il contrario di quanto previsto dalla direttiva comunitaria che prevedeva un organismo indipendente per la promozione della parità di trattamento ( art. 13).

 

Nello schema di decreto delegato non vi è traccia del dialogo con le organizzazioni non governative previsto dall’art. 12 della Direttiva 2000/43/CE, secondo il quale gli stati membri” incoraggiano il dialogo con le competenti organizzazioni non governative che... hanno un interesse legittimo a contribuire alla lotta contro la discriminazione fondata sulla razza e sull’origine etnica”

 

Manca infine  un adeguato quadro sanzionatorio, che era invece imposto dall’art. 15 della direttiva, ed al riguardo, in particolare, non si fa alcuna menzione delle conseguenze che incombono al soggetto autore del comportamento discriminatorio che non obbedisce all’ingiunzione del giudice di astenersi da tale comportamento. Non si vede in sostanza come le sanzioni proposte dal decreto possano risultare “ effettive, proporzionate e dissuasive”.

 

Queste le considerazioni sulla base di una prima lettura del decreto legislativo che dovrebbe dare attuazione nel nostro paese alla direttiva 2000/43/CE.

 

Il decreto si inserisce nel disegno complessivo di politica legislativa in materia di immigrazione, che già ha avuto un primo significativo compimento con la legge Bossi Fini approvata lo scorso anno e che mira a ridurre la portata effettiva delle tutele degli immigrati,  vittime degli atti di discriminazione, e a rendere più difficile il compito delle organizazzioni non governative che ne curano gli interessi.

 

Nella completa assenza di dialogo tra questo governo e le ONG indipendenti che si battono da anni contro la discriminazione razziale ed etnica subita dagli immigrati, sempre più spesso ad opera di agenti istituzionali, si tratta di studiare da subito tutte le vie di ricorso alla giustizia comunitaria per denunciare il tradimento che il nostro Governo si appresta a perpetrare ai danni della direttiva comunitaria 2000/43/CE, e quindi ai danni degli immigrati e delle prospettive sempre più labili di una società multietnica basata sul reciproco rispetto e sulla valorizzazione delle differenze.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

ASGI ( Associazione studi giuridici sull’immigrazione)- Palermo