Dall'indulto all'insulto

 

            La discussione di questi giorni sul problema del sovraffollamento carcerario e del provvedimento di clemenza, che sembra l’unica via per risolverlo, si colloca a metà strada tra la commedia degli equivoci e il teatro dell'assurdo (tralasciando la malafede). Il problema riguarda il provvedimento che i giornali hanno definito "indultino" e che, tecnicamente, porta il nome di "Sospensione dell'esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di tre anni".

            Credo che sia urgente fare chiarezza su questo provvedimento che rischia di distruggere il delicato equilibrio dei percorsi di reinserimento sociale creato dal legislatore con l'ordinamento penitenziario del 1975 e soprattutto con la legge Gozzini nel 1986.

            Il termine "indultino" fa pensare ad una misura di clemenza di impatto minore dell'indulto. Si afferma che questa misura sarebbe in ogni caso una risposta alla richiesta di clemenza sostenuta da autorevoli voci (da quella del Papa a quella del Presidente della Repubblica). Queste voci hanno fatto seguito alle forme di protesta pacifica attuate dai detenuti nell’autunno scorso, al prezzo di sacrifici spesso immensi date le loro condizioni, per sollevare il problema del sovraffollamento carcerario. In alcuni casi, la situazione è così grave da costringere alcuni reclusi a dormire su delle brande che devono essere spostate durante il giorno per avere la possibilità di muoversi in cella. Quello approvato prima di Natale in Commissione Giustizia alla Camera non è però un provvedimento di clemenza, ma un provvedimento antirecidiva per di più tutto impostato sulla linea della repressione penale senza dare alcun rilievo al piano della prevenzione sociale.

            L'indulto è un provvedimento con il quale il Parlamento condona o commuta parte della pena per i reati commessi prima del momento in cui esso è approvato. La Costituzione richiede che l'indulto sia approvato con una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Dato che questa maggioranza potrebbe non essere raggiunta, si è pensato di ripiegare su un provvedimento adottabile con legge ordinaria e quindi a maggioranza semplice: quello che appunto viene chiamato "indultino". Dalla Commissione Giustizia della Camera è però uscito un provvedimento di clemenza, ma un provvedimento che accentua la repressione penale sui detenuti.

            I capisaldi del provvedimento sono i seguenti:

1) si sospende l'esecuzione della pena per tutti condannati che, non avendo commesso reati particolarmente gravi come strage, terrorismo, mafia, eccetera, abbiano scontato almeno un quarto della pena e che abbiano un residuo pena non superiore a tre anni (articoli 1 e 2);

2) la sospensione della pena viene revocata se, nel corso dei successivi 5 anni, il condannato commette un nuovo reato (punito con più di sei mesi di reclusione) oppure se viola le prescrizioni che gli vengono imposte al momento della sospensione (articoli 5 e 9). In caso di revoca la pena riprende a decorrere dal momento in cui è stata sospesa;

3) per i migranti irregolari la sospensione della pena comporta l'obbligo di abbandonare il territorio dello Stato entro un mese, se questo non avviene, anche in questo caso riprende a decorrere la pena dal momento della sospensione (articolo 7);

4) per tutto il periodo della sospensione i cittadini italiani, ai quali viene concessa la sospensione della pena, non possono allontanarsi dal territorio dello Stato, devono recarsi tutti i giorni alla polizia, hanno l'obbligo di non allontanarsi dal territorio di uno specifico comune, devono rientrare nel luogo in cui dimorano entro le 21 e non possono riuscirvi prima delle 7 del mattino. La polizia giudiziaria deve vigilare sul rispetto di questi obblighi (articoli 6 e 8);

5) passati 5 anni dalla concessione della sospensione, se tutte le prescrizioni sono state costantemente osservate e non sono stati commessi nuovi reati si estingue la pena.

            Per capire se queste misure rappresentino un atto di clemenza si devono confrontare con la situazione attuale dei detenuti. Il confronto mostra in modo lampante che siamo di fronte ad un barbaro atto che rende il reinserimento sociale dei detenuti ancora più impervio di quanto già non sia.

            Oggi il detenuto che ha una pena residua di tre anni (quattro se è tossicodipendente ed intende disintossicarsi) può chiedere di andare in affidamento. Quindi l'indultino non estende assolutamente il numero delle persone che possono uscire dal carcere (anzi per richiedere l'affidamento non è necessario aver scontato un quarto della pena). E' vero che l'affidamento, seppure largamente utilizzato, lascia in carcere molte persone perché richiede come requisiti per la sua concessione un luogo dove soggiornare e un lavoro (anche se nella pratica talvolta la magistratura di sorveglianza lo concede anche in presenza di un programma di attività di volontariato sociale e di qualcuno che garantisca il sostentamento del detenuto). Il problema è che il primo di questi requisiti, che è spesso quello che preclude l'affidamento, è richiesto implicitamente anche dall'indultino: quando si prevede l'obbligo di risiedere nella propria dimora dalle 21 alle 7 è evidente che una dimora in cui si possa risiedere deve esistere per la concessione della sospensione della pena. Per cui questa misura non permetterebbe di uscire dal carcere a quei soggetti, tossicodipendenti, sofferenti psichici e migranti irregolari (ma questi si espellono ed il problema non si pone più!), che sono talmente deboli e privi di aiuto da non riuscire ad usufruire dell'affidamento.

            Il punto centrale non è però la scarsa incidenza dell'indultino ma la sua logica perversa e repressiva. Chi va in affidamento oggi si vede dare delle prescrizioni di solito meno afflittive di quelle previste per la sospensione condizionale della pena, il controllo sulla loro osservanza è affidato al Centro servizi sociali e non alla polizia, e la loro violazione è valutata nel complessivo percorso di reinserimento del detenuto così che normalmente una singola violazione non comporta la revoca della misura. Ci sono due dati ancora più eclatanti. In primo luogo, in presenza di una revoca della misura, dato che la libertà del soggetto è stata limitata durante il periodo da questo trascorso in affidamento, il Tribunale di sorveglianza valuta quale parte di questo periodo debba essere considerato come pena scontata. Inoltre, una volta arrivato a fine pena, il detenuto riacquista la sua piena libertà, la pena si estingue, la sua libertà non è più sottoposta ad alcun vincolo e nessuna spada di Damocle di carcerazione residua da scontare pende sulla sua testa se commette un nuovo reato. Mentre secondo il fantomatico provvedimento di clemenza nel caso che venga commesso un reato o semplicemente sia violata una prescrizione (per esempio la polizia non abbia trovato il detenuto in casa alle 21 e 15) tutto il periodo trascorso in  sospensione pena, e quindi assoggettato a durissime limitazione della libertà personale, non ha alcun rilievo: la pena ricomincia a decorrere dal momento in cui è stata sospesa. Ma non basta: se il detenuto osserva le prescrizioni impostigli, la severissima limitazione della libertà personale si protrae anche dopo che la pena è formalmente scaduta. Si potrebbe verificare il caso assurdo di una persona che si vede sospesa una pena di un anno di reclusione per essere assoggettato per 5 anni al controllo della polizia e a severe limitazioni della sua libertà. Casomai dopo 4 anni e nove mesi, rientra in ritardo in casa, la polizia casualmente è passata quel giorno a fare il controllo e quindi al detenuto, che sarebbe una persona libera da 3 anni e nove mesi, viene imposto di fare l'anno di carcere che era stato sospeso.

            C'è un altro paradosso: dato che l'affidamento è una modalità alternativa di esecuzione della pena, esso presuppone che la pena sia in esecuzione e non sospesa. Per cui l'indultino, per quanto preveda un regime peggiore di quello dell'affidamento, prevale su questo. Potremmo arrivare al caso assurdo di un tossicodipendente da un anno in affidamento (potendogli questo essere concesso a 4 anni dalla conclusione della pena) che si vede sospendere la pena e revocare l'affidamento, venendo così sottoposto ad un regime di limitazione della libertà molto peggiore.

            Una parola sui migranti irregolari. Come è detto si prevede che entro un mese dalla concessione della sospensione della pena questi debbano lasciare il territorio dello Stato. E' facile immaginare che al momento della concessione della sospensione i migranti irregolari saranno portati nei cosiddetti Centri di permanenza temporanea, in realtà Centri di detenzione secondo la classificazione ufficiale del Consiglio di Europa. Se in un mese la loro espulsione non verrà effettuata saranno riportati in carcere dove riprenderanno a scontare la loro pena, con l'unico risultato di essersi fatti un mese in più di detenzione. Merita di essere sottolineato che la tanto vituperata legge Bossi-Fini prevede l'espulsione, da effettuarsi su iniziativa del magistrato di sorveglianza, dei migranti irregolari detenuti (e quindi, è bene sottolinearlo, non di quelli con pena sospesa e neppure di quelli in affidamento) a due anni dalla esecuzione della pena. Sembra che il legislatore si sia reso conto che questa misura comporterà l’espulsione di pochi migranti e cerchi un metodo più efficace per allontanarli. Come spesso accade le vittime del sovraffollamento saranno i soggetti più deboli: quei migranti che sono tanto disperati che preferiscono restare in carcere in Italia, pur con la consapevolezza che probabilmente a fine pena saranno espulsi, invece che ritornare subito al loro paese.

            L'unico aspetto clemenziale dell'indultino è che il detenuto può rinunciare ad usufruirne!

 

                                   Prof. Emilio Santoro

                                   direttore de "L'altro diritto.

                                   Centro di documentazione su carcere, marginalità e devianza"