Il documento è stato spedito per e-mail a: Bassolino, Buffardi, Tufano per le regione Campania;

ai parlamentari Diliberto, Realacci, Rutelli, Russo Spena, Turco, Melandri, Cima,  Pecoraro Scanio, Boselli,Cossutta ,per le interrogazioni parlamentari; alle associazioni Legambiente Campania e nazionale, Tribunale per i diritti del malato Campania e nazionale, Emergency di Caserta, Pax Christi nazionale; alla CGIL Campania; alla stampa: Repubblica, Il Manifesto, L’Unità,La Nuova Ecologia

 

 

S.O.S. URGENTE: GIUSTIZIA PER LA MORTE DI UN INNOCENTE

( da Giulia Casella e M. Antonietta Rozzera– legambiente,Tribunale per i diritti del malato, TA.CO.CI.S.U.: Tavola per la convivenza civile e lo sviluppo umano, Pax Christi)

 

 

Mohammed Khaira Cisse è un cittadino della Guinea Konacri nato il 20 marzo 1970.

Si laurea in lettere.

Non trovando lavoro nel suo paese, nel 1998 decide di trasferirsi in Italia dove già si trova la sorella Kadiatou sposata con Ousmane Diabi da cui ha due figli, Fausta e Mohamed, nati in Italia.

La sorella risiede in Arzano, via Porzio n. 2.

Mohamed Khaira si trattiene presso di lei prestandosi a fare ogni tipo di lavoro, in nero, non solo per non essere di peso ma anche per aiutare i familiari.

Nel 2000 trova lavoro a Treviso, in fabbrica, regolarmente assunto e con permesso di soggiorno di cui era provvisto già dal ’98.

Lontano dalla famiglia, senza affetti, viene colto da crisi depressiva, per cui, nel mese di aprile di quest’anno chiede ospitalità temporanea alla sorella e si trasferisce ad Arzano.

La sorella lo porta presso il centro di igiene mentale di Arzano dove gli diagnosticano la depressione e gli prescrivono una cura.

All’inizio Mohamed Khaira si  cura, ma poi la depressione  diventa sempre più forte.

Il giovane comincia a rifiutare, oltre alle cure, il cibo, deperendo ogni giorno di più.

La sorella, disperata per il suo stato psico-fisico, chiede l’aiuto di un’amica italiana, Vanda Brandolani, che le fa conoscere anche una missionaria laica.

Questa passa ore intere a cercare di convincere il malato ad assumere cibo  riuscendovi, anche se solo a volte, perché ha conquistato la sua fiducia, tant’è vero che lo convince più volte ad andare in ospedale  perché  sia visitato e anche ricoverato.

In realtà Mohammed, pur consentendo a sottoporsi a visita, rifiuta il ricovero che, quindi, non gli può essere imposto.

La situazione, intanto, precipita cosicché, il 4 giugno scorso, la sorella si reca a Treviso per ritirare i documenti del fratello con l’intento di preparare il viaggio di ritorno dello stesso in Guinea, nella speranza che lì possa riprendersi.

Tornata a casa la sera dello stesso giorno, il marito le dice che lo stato di  Mohammed sta precipitando per il deperimento sia organico, sia picologico perché lo ha visto nascondere un coltello sotto il cuscino (ma successivamente sostiene di non averlo visto ma di averglielo sentito dire). Temendo che  potesse tentare il suicidio, aveva pregato l’amica italiana di telefonare al 118 per poterlo ricoverare, ma gli operatori del 118 rispondevano che, trattandosi di un ricovero coatto, la famiglia doveva avvisare i carabinieri.

(Nelle varie telefonate è stata sempre riferita la presenza di questo coltello, forse per indurre chi di dovere ad accelerare un intervento per il ricovero del Cisse, ma questo è stato il dato che ha fatto precipitare tutto, forse perché è stato riferito anche in maniera sbagliata, tenendo conto del livello culturale degli attori)

A questo punto Ousmane (marito) decide  di attendere il ritorno della moglie.

Il mattino dopo, la signora Cisse, partito il marito per Napoli,  verso le sette va a controllare il fratello e nota che è talmente debole da non avere neanche la forza di parlare.

Allarmata dalla sua  estrema prostrazione, telefona all’amica italiana, che si reca subito da lei, e la prega di chiamare il 118 perché è agitata e teme di non riuscire ad esprimersi bene in italiano,   paventando che il fratello possa venir meno da un momento all’altro. Nel frattempo arriva anche il cugino, Fato Cisse, che ogni giorno l’aiuta ad assistere il malato.

Intorno alle 7,30 l’amica chiama ancora una volta il 118, sentendosi ancora rispondere che loro non possono intervenire senza la presenza delle forze dell’ordine.

A questo punto telefonano al 113 che risponde di non avere la competenza e di rivolgersi al 112.

Chiamato il 112, spiegando ancora una volta che sollecitavano l’arrivo di un’ambulanza per lo stato di grave deperimento e di pericolo in cui versava il fratello, chiedono l’intervento dei carabinieri.

Intorno alle 9,45, bussano alla porta, la  signora Cisse apre e si trova di fronte due carabinieri, uno dei quali impugna la mitraglietta e chiede dove si trovi la persona ammalata.

La Cisse indica il fratello immobile sul letto nell’ingresso e chiede se è arrivata l’ambulanza con loro.

Uno dei due le risponde che deve chiamarla lei. La Cisse richiama il 118 e poi passa il telefono all’amica - che si trattiene ancora in casa per accudire il figlioletto della Cisse, di appena 13 mesi - per far spiegare bene l’indirizzo.

(N.B.: a questo punto in casa si trovano, oltre al malato, la signora Cisse, il figlioletto di 13 mesi, il cugino e l’amica italiana)

 I carabinieri, impongono di aprire tutte le porte, chiedendo chi si trovi in casa  e pretendono i documenti (quasi fossero lì per una retata e non per soccorrere un malato in gravissime condizioni), poi, puntando sempre l’arma contro il malato che non si è mai mosso dalla posizione in cui l’hanno trovato sul letto, gli intimano di esibire i documenti e di alzarsi perché lo devono portare in questura,  gli chiedono dov’è il coltello, che né la sorella né il cugino né l’amica avevano comunque visto.

Mohammed Cisse non reagisce in nessun modo, se non con qualche debole cenno di mano.

La signora Cisse, temendo che quell’aggressività spaventi il povero fratello, invita i carabinieri a parlare con lei, e precisa di averli chiamati per aiutarla a trasportare il congiunto in ospedale.

Si offre di andare a prendere i documenti che lei conserva in camera sua, chiedendo al cugino di accompagnarla perché, nello stato di agitazione in cui l’hanno indotta i carabinieri, teme di non riuscire a trovarli.

La signora Cisse e il cugino fanno appena a tempo ad entrare nella camera da letto, che sentono due spari in successione.

Gli spari vengono sentiti anche dall’amica che si trova sul balcone della cucina dove ha portato il piccolo impaurito dall’atteggiamento e dalla voce dei carabinieri.

Tutti si precipitano nell’ingresso dove trovano il corpo di Mohamed Khaira a terra, presso il letto.

L’amica, spaventata, scappa via portando con sé il bambino perché non veda quella scena angosciosa

“E’ morto?” chiede la sorella, notando una pozza di sangue:
E uno dei carabinieri, mentre l’altro va via, spingendo il corpo riverso con un piede “No, dorme” risponde.

La sorella abbraccia il corpo del fratello, poi ai carabinieri che arrivano in forze, chiede di telefonare, ma le viene impedito; chiede di restare ma viene minacciata con l’arma puntata, poi lei e il cugino vengono prelevati con la forza,  portati giù e chiusi nella macchina dei carabinieri,  senza alcuna possibilità di uscire, pur chiedendo lei ripetutamente di aprire.

I due vengono trattenuti in macchina per molto tempo, mentre i carabinieri,  si trattengono in casa per il medesimo tempo.

Dopo questo tempo i due vengono portati direttamente in caserma, quasi fossero  colpevoli di alcunché e la sorella, pur in evidente comprensibile stato di shock emotivo, viene invitata a deporre la sua versione dei fatti.

Lei comincia a parlare e dopo è invitata a firmare la dichiarazione. Lei sostiene di non aver completato,ma la fanno firmare ugualmente. Lei non dice di non saper leggere.

Al ritorno a casa, avvenuto intorno alle ore 15, trova l’abitazione in uno stato del tutto differente in confronto a quando ne è uscita.

Qualche ora dopo, un’amica le legge la dichiarazione da lei sottoscritta, e lei si rende conto che molte cose non sono esatte, soprattutto quando sente che avrebbe dichiarato che “certamente” il coltello era sotto il cuscino, cosa che lei non ha mai sostenuto.

Poi comincia la campagna stampa tesa ad accusare il povero Cisse, a cancellarne la memoria e la dignità.

La prima notizia passata all’ANSA è che all’entrata dei carabinieri, il Cisse si è scagliato contro di loro armato di coltello, e loro hanno sparato; tutto falso, come si deduce dai fatti esposti.

Il giorno seguente è apparso su “Il Mattino” di Napoli un articolo vergognosamente diffamatorio, con una versione dei fatti inventata di sana pianta, in cui la vittima viene dipinta come un invasato maniaco sessuale armato di coltello affilato sotto la minaccia del quale tentava di violentare una donna nell’appartamento. La donna gridava e i vicini hanno chiamato i carabinieri contro cui il presunto maniaco si sarebbe avventato con violenza, costringendoli a sparare. Anche contro il giornale bisogna chiedere giustizia per onorare la memoria di un povero malato inoffensivo.

Qualunque psichiatra può spiegare che la depressione è rifiuto di vivere, abbandono totale che, nel peggiore dei casi, può risolversi in un suicidio ma mai in violenza contro gli altri.

Naturalmente i carabinieri basano tutta la difesa sulla presunta presenza di un coltello che nessuno dei presenti ha visto ma che i carabinieri dicono di aver sequestrato nelle ore in cui sono stati nell’appartamento, dopo la morte del povero Mohamed Cisse.

Mohammed Khaira Cisse era una persona buona e tranquilla, trascorreva gli ultimi giorni sostanzialmente sul letto, in compagnia dei nipotini, Fausta di 7 anni e Mohamed di 13 mesi.

La sorella si è mossa per chiedere aiuto per il ricovero del fratello, nel tentativo di salvarlo dallo stato di deperimento psico-fisico in cui si trovava e si ritrova a dover curare il rientro della salma nel suo paese natio, senza un perché.

Sono molti i punti oscuri e le omissioni:

Può anche darsi che il coltello  (da cucina) stesse da qualche parte, ma c’era comunque una persona che stava morendo, ma, cosa importa, era un “fantoccio nero” senza alcuna possibilità di difendersi.

Nel nostro piccolo, autotassandoci, abbiamo affidato in 24 ore il caso a un avvocato penalista, Mario Fortunato, p,zza Bovio, 8 Napoli, che il 7 giugno mattina (sabato) ha reperito anche il medico legale per la parte offesa.

Sessa Aurunca, 7 giugno 2003                                  

Giulia Casella                                                                        M.Antonietta Rozzera

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