Documento di lavoro per la Conferenza di Catania, 21-22 marzo 2003

Spazio di Libertà, Giustizia e Sicurezza

Immigrazione e asilo

 

 


1.     L'immigrazione nell'Unione Europea

I dati statistici disponibili sul numero di cittadini di Paesi terzi residenti nel territorio dell'Unione Europea non sono del tutto aggiornati né totalmente attendibili. Secondo stime concordanti di diversi organismi, il totale può tuttavia essere valutato intorno ai 14 / 15 milioni di persone, con un'incidenza sulla popolazione residente di poco superiore al 4%. Di essi, circa 9.000.000 appartengono alla popolazione attiva (5,5% della popolazione attiva totale). In queste stime non rientrano, naturalmente, gli immigrati che abbiano acquisito la cittadinanza di uno Stato membro: si tratta di circa 700.000 persone ogni anno[1].

Per quanto riguarda la composizione della popolazione immigrata, senza entrare nel dettaglio statistico, si può sommariamente notare come essa si sia venuta caratterizzando, negli ultimi anni, per essere:

-       crescentemente "femminilizzata". Nella maggioranza degli Stati le donne o sono la maggioranza o costituiscono poco meno della metà (tra il 46 e il 49%) della popolazione immigrata.

-       Sempre più diversificata. Ai Paesi d'origine tradizionali si sono aggiunti, con flussi importanti, altri Paesi, inclusi quelli dell'Est europeo, ampliando notevolmente lo spettro delle nazionalità rappresentate.

-       Tendenzialmente stabile. I dati sulle acquisizioni di cittadinanza, così come quelli sulla crescita costante degli ingressi per ricongiungimento familiare, confermano che è in aumento l'incidenza sul totale di progetti migratori orientati a un insediamento di lunga durata.

-       Caratterizzata da un alto tasso di attività. La popolazione immigrata è mediamente più giovane della media della popolazione residente, sia nella componente femminile che in quella maschile.

-       Concentrata nei settori "inferiori" o maturi del mercato del lavoro, pur con piccole concentrazioni di altissima qualificazione. Le politiche di restrizione degli ingressi hanno di fatto limitato le politiche di selezione qualitativa, mentre hanno favorito il ricorso a manodopera temporanea, aumentando anche i rischi di permanenza in condizioni di disoccupazione.[2]


2.     Il dibattito sulle politiche di immigrazione

a) Il dibattito politico sull'immigrazione si è per lungo tempo concentrato quasi esclusivamente sulla ricerca di strumenti per prevenire, o comunque limitare, i flussi in entrata, a partire dai timori relativi alle conseguenze dell'immigrazione cosiddetta "incontrollata", ai rischi reali o presunti per la sicurezza, alle difficoltà di integrazione dei migranti. Tuttavia non sono mancati tentativi di affrontare il fenomeno da punti di vista diversi, in primo luogo legati alle dinamiche demografiche e del mercato del lavoro, così come a quella dei sistemi di welfare. Alla luce anche delle ulteriori acquisizioni sul piano della ricerca, appare ormai chiaro che, per costruire una politica comune in materia di immigrazione che risponda ai bisogni dell'Unione, non è in nessun modo sufficiente porsi l'obiettivo di rispondere ai sentimenti di (vera o presunta che sia) insicurezza[3] dei cittadini europei. Al contrario, occorre chiedersi, in primo luogo, in quale misura l'immigrazione possa essere una risorsa utile, se non necessaria, per aiutare l'Europa a rispondere ad alcune tendenze di fondo e di lungo periodo, che si possono riassumere, per brevità in un dato: mentre la media di figli per ogni donna in età fertile necessaria per mantenere l'attuale livello di popolazione nella UE è pari a 2,1, la media reale è pari a 1,53. Contemporaneamente, come è noto, cresce – fortunatamente! - l'attesa di vita. Anche considerando i limiti propri di ogni previsione demografica - e le obiezioni recentemente avanzate anche dalla Commissione Europea in relazione alle valutazioni delle Nazioni Unite - è dunque ragionevole attendersi una diminuzione della popolazione UE in età lavorativa pari a 40.000.000 di persone di qui al 2050. Sommandosi all'invecchiamento crescente della popolazione, questa tendenza potrebbe condurre all'insostenibilità del rapporto tra popolazione attiva e popolazione non attiva (è stato ipotizzato che il tasso di dipendenza degli anziani dalla popolazione in età di lavoro potrebbe raddoppiare, dall'attuale 24% al 49% nel 2050). In assenza di interventi, la restrizione della popolazione attiva condurrebbe inevitabilmente a una diminuzione rilevantissima delle risorse disponibili per i sistemi pensionistici e sanitari.[4]

In questo quadro l'immigrazione non è né potrebbe essere la risposta. Essa va piuttosto ricercata nelle politiche di innalzamento della partecipazione al mercato del lavoro (in particolare, in alcuni Stai membri inclusa l'Italia, delle donne e dei giovani) e di riduzione dell'esclusione sociale, così come in quelle di sostegno alla natalità e per la sostenibilità dei sistemi di sicurezza e protezione sociale.

Una intelligente politica di immigrazione può, tuttavia, costituire un fattore utile di riequilibrio, nel quadro dei cambiamenti demografici, e di "risposta flessibile" alle esigenze del mercato del lavoro, e in particolare alle difficoltà che esso incontra, che anche in una fase di bassa crescita, nel coprire alcuni settori della domanda. Nasce da qui l'estendersi della consapevolezza che il dibattito sulle politiche di immigrazione debba uscire dalla visione puramente restrittiva e di controllo che ne ha caratterizzato la fase più recente per indirizzarsi all'analisi del rapporto tra essa e le politiche generali dell'occupazione, della sicurezza e protezione sociale così come alle politiche esterne dell'UE.

 

b) Non per questo la questione del controllo degli ingressi e del contrasto del traffico di esseri umani cessa di essere un punto essenziale della discussione in Europa: si tratta di un argomento che non può essere ignorato né sottovalutato. Gli ingressi illegali nel territorio UE si calcolano – per quanto le stime si basino, necessariamente, in gran parte su ipotesi – in almeno 400.000 ogni anno, e il numero totale dei cittadini di Paesi terzi presenti in condizioni di irregolarità sarebbe compreso tra un minimo di 3 e un massimo di 8 milioni (l'ampiezza della forbice è qui dovuta non solo alle difficoltà nella raccolta dei dati, ma anche alle fluttuazioni legate ai frequenti provvedimenti di regolarizzazione in diversi Paesi); i profitti del traffico di persone sono saliti nel 2001, secondo l'IOM, a 10-15 milioni di dollari.

A queste ragioni generali e, per così dire, "oggettive" di attenzione agli strumenti di controllo si è aggiunta, dopo l'11 settembre 2001, l'accentuazione delle esigenze di sicurezza indotta dalla minaccia del terrorismo. Infine, un ruolo non marginale nell'orientare il dibattito hanno avuto aspetti di politica interna degli Stati membri, in relazione alle numerose scadenze elettorali degli ultimi due anni.

 

c) Accanto a questi, un ruolo via via più importante ha assunto nella discussione, se non nella concreta iniziativa politica, il tema delle politiche per l'integrazione[5] dei cittadini di Paesi terzi, ruolo evidenziato dalla scelta di tutte le più recenti Presidenze di turno di organizzare almeno un seminario europeo dedicato ai suoi vari aspetti e dalla decisione della Commissione Europea di preparare una specifica Comunicazione, attesa per febbraio 2003.

3.     Politica comune europea: un percorso discontinuo.

a) La consapevolezza della necessità di una politica comune europea in materia di immigrazione e asilo è ormai acquisita, e non solo come "impegno" da onorare nel rispetto delle indicazioni del Trattato di Amsterdam e delle Conclusioni del Consiglio (da Vienna a Tampere, da Laeken, a Siviglia). E' largamente condivisa l'analisi che individua la dimensione europea come l'unica che possa assicurare una risposta efficace alle sfide poste dai fenomeni migratori, una risposta che rafforzi e non indebolisca la coesione tra gli Stati membri su un tema che interessa trasversalmente quasi tutte le politiche economiche, sociali e culturali.

La "comunitarizzazione", d'altronde, rappresenta anche un bisogno economico e un'opportunità politica. Consente, infatti, da un lato di ripartire il peso finanziario delle politiche d'immigrazione e asilo, incluso il controllo delle frontiere esterne, in modo meno sbilanciato tra gli Stati membri; e, dall'altro, di ridurre l'impatto delle scelte meno popolari sull'elettorato interno.

Le Conclusioni del Consiglio Straordinario di Tampere e il Trattato di Amsterdam avevano lasciato intravedere una svolta significativa nelle politiche dell'Unione Europea. Se ne ricordano qui sinteticamente alcuni aspetti, rinviando per una descrizione estesa e un'analisi più dettagliata al dossier (settembre 2001) curato dal CIE per la delegazione italiana nel Gruppo PSE al Parlamento Europeo[6].

Sul piano istituzionale, si prefigurava il passaggio delle politiche di immigrazione e asilo dal terzo al primo pilastro, creando una vera e propria competenza comunitaria in materia, seppure rinviandone l'effettiva e definitiva entrata in vigore al maggio 2004 e vincolandola ad una decisione unanime del Consiglio.

Sul piano dei contenuti, equo trattamento dei cittadini di Paesi terzi, diritti umani e politiche di co-sviluppo nei confronti dei Paesi d'origine venivano indicati, insieme ad altri aspetti, come parte integrante delle politiche migratorie, a pari livello della gestione (integrata a livello europeo) dei flussi; in particolare le conclusioni del Consiglio di Tampere affermavano la necessità di riconoscere ai residenti di lungo termine "diritti uniformi il più possibile simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell'UE"[7].

Per quanto formalmente non collegato alla questione "migrazioni", il nuovo articolo 13 TCE[8] introdotto dal Trattato di Amsterdam costituiva inoltre – per la prima volta – una base giuridica chiara per le iniziative comunitarie volte a combattere le discriminazioni fondate su diversi terreni tra cui la razza o l'origine etnica.[9]

Su queste basi la Commissione ha presentato un'ampia serie di proposte. Lo spirito e gli orientamenti di fondo delle iniziative legislative sono esposti con chiarezza, in particolare, nelle tre Comunicazioni: "Verso una procedura comune in materia di asilo e uno status uniforme e valido in tutta l'Unione per le persone alle quali è stato riconosciuto il diritto d'asilo"[10], "Su una politica comunitaria in materia di immigrazione"[11], e "Relativa ad un metodo aperto di coordinamento della politica comunitaria in materia di immigrazione"[12].

Ad un primo sguardo, l'elenco delle iniziative legislative appare coprire coerentemente tutti i terreni indicati nelle Conclusioni e nel Titolo IV TCE: la Commissione, con la presentazione della proposta di Direttiva "Relativa alle condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi a fini di studio, di formazione professionale o di volontariato"[13] ha portato a termine i compiti che le erano assegnati dal "Quadro di Controllo" deciso a Tampere. Una considerazione più attenta, tuttavia, conduce a osservare come non si tratti di un processo fluido e uniforme: al contrario, ci sono rilevanti differenze nei tempi di presentazione e adozione, come anche nelle priorità espresse e nelle opzioni contenute.

In sintesi:

-       le iniziative più chiaramente rivolte alla migliore gestione dei flussi, all'integrazione dei cittadini di Paesi terzi e al riconoscimento dei loro diritti appartengono essenzialmente alla fase 2000-2001 (status degli stranieri residenti di lungo termine, ricongiungimenti famigliari, norme minime per l'accoglimento dei rifugiati, messa in opera del principio di equo trattamento);

-       le procedure di adozione seguono ritmi del tutto asimmetrici: per le proposte che si riferiscono a politiche di "contenimento e controllo" i tempi sono relativamente rapidi; le proposte orientate a politiche di valorizzazione e integrazione, al contrario, incontrano ostacoli apparentemente insormontabili (ad oggi, nessuna di esse è stata adottata[14]).

-       nell'ultimo scorcio del 2001 e nel corso del 2002 le proposte in materia di asilo e immigrazione sono apparse sempre più condizionate da esigenze di tipo securitario, nei contenuti e nella stessa scelta delle questioni da affrontare: è il caso, ad esempio, della Comunicazione e del Piano d'azione Su una politica comune sull'immigrazione illegale[15], della Comunicazione su una politica comune di rimpatrio dei residenti illegali[16], dei documenti di discussione sul rapporto tra terrorismo e asilo[17], delle iniziative già in opera per il controllo comune delle frontiere esterne, e l'elenco potrebbe essere ancora lungo, includendo anche le modifiche apportate a precedenti proposte.

La vicenda della proposta di Direttiva sul diritto al ricongiungimento famigliare è paradigmatica. La prima proposta avanzata dalla Commissione risale al dicembre 1999; nell'ottobre 2000 la Commissione ne presentava una versione modificata, sulla quale nel citato documento della delegazione italiana del PSE si esprimeva un parere complessivamente positivo, auspicandone un'adozione sollecita (Per quanto contenga previsioni talora insoddisfacenti la proposta di Direttiva costituisce un insieme accettabilmente equilibrato. (...) L'adozione della Direttiva ... rappresenterebbe anche un segnale politico importante di rifiuto della subordinazione di un diritto fondamentale ... a considerazioni di natura economica).

Oggi, a distanza di tre anni dalla prima proposta, non solo la Direttiva è lontana dall'adozione, ma sul tavolo del Consiglio c'è una nuova proposta emendata[18], di natura radicalmente diversa, anzi espressiva di una filosofia opposta, che subordina quel diritto sia a considerazioni di tipo economico che a preoccupazioni securitarie. Tanto da spingere il Coordinamento Europeo per il diritto a vivere in famiglia a chiedere formalmente alle reti di ONG europee di opporsi all'adozione.

Simile sorte, in un campo diverso ma certo non privo di affinità, sta conoscendo la proposta di Decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia[19]: presentata nel novembre 2001 e apparentemente destinata ad una rapida adozione, è stata rinviata di Presidenza in Presidenza a fronte delle numerosissime riserve tecniche e politiche (tra cui la "riserva generale" italiana, le cui ragioni non sono mai state rese esplicite). Il risultato non è solo un ritardo grave nell'adozione di uno strumento di armonizzazione della legislazione penale degli Stati Membri in un campo a cui i Trattati assegnano un ruolo cruciale nella costruzione dello spazio comune di libertà, giustizia e sicurezza; è anche una continua erosione dei contenuti, che rende legittimo dubitare dell'efficacia della decisione (se mai verrà adottata).

Non si tratta di casi isolati: considerazioni simili possono essere svolte in relazione allo svuotamento progressivo delle proposte normative in materia di asilo, dei ritardi nella messa in opera di decisioni adottate (ancora a titolo di esempio, la trasposizione della Direttiva 2000/43/CE contro le discriminazione "razziale" ed etnica è stata completata dal solo Belgio, ed esistono fondati dubbi che la scadenza del 19 luglio 2003 possa essere rispettata da più di 4/5 Stati Membri) e, in generale, al disequilibrio nella costruzione delle politiche comuni. Si possono condividere pienamente le osservazioni contenute in un recente mozione presentata al Parlamento Europeo: "[Il Parlamento] nota che entrambe le Presidenze nel 2002 sono state in grado di costruire molto più rapidamente un accordo su ... misure repressive di controllo della migrazione che sugli elementi di una politica comune di asilo o su una politica per i migranti legali, in particolare il conferimento di diritti legali, sociali e politici ai cittadini di paesi terzi residenti di lungo periodo; e che persino quando un accordo politico era stato raggiunto le negoziazioni del Consiglio venivano spesso riaperte con il risultato di un significativo annacquamento non solo della proposta originale della Commissione ma dello stesso accordo politico precedente"[20] così come sui conseguenti inviti al Consiglio e agli Stati Membri a mutare orientamento senza lasciare che l'ossessione dell'immigrazione economica illegale prenda il predominio su ogni altra considerazione.

Occorre dunque cercare di capire che cosa sia cambiato nelle priorità europee, e provare ad indagarne le possibili ragioni.

 

b) Il Consiglio di Laeken (dicembre 2001) ha tracciato un bilancio dello stato di avanzamento nella realizzazione delle indicazioni del Trattato, constatando il ritardo nella costruzione dello spazio comune di libertà sicurezza e giustizia e impegnandosi a promuovere un'accelerazione del processo di comunitarizzazione. Per ciò che riguarda asilo e immigrazione il Consiglio, pur riaffermando la fedeltà agli "obiettivi di Tampere", ha avviato un nuovo assetto delle priorità, auspicando innanzitutto una "migliore gestione" delle frontiere esterne, nel quadro della lotta contro il terrorismo e, naturalmente, contro l'immigrazione illegale e il traffico di persone umane.

La strategia scelta si articola su alcuni obiettivi (armonizzazione e rafforzamento del sistema comune di controllo, armonizzazione e miglior coordinamento dei sistemi nazionali di asilo, la creazione di programmi specifici in materia di lotta contro la discriminazione e il razzismo) che disegnano un "nucleo minimo" di priorità. Abbiamo già ricordato quale sia stato il seguito concreto dato agli obiettivi su asilo e lotta contro il razzismo, un mix di immobilismo e svuotamento; ma è macroscopica l'assenza nella lista di Laeken di ogni richiamo agli aspetti delle politiche migratorie che si collegano alle esigenze del mercato del lavoro europeo. L'ammissione di cittadini stranieri per lavoro, oggetto di una delle prime proposte legislative e elemento cruciale delle strategie della Commissione delineate nelle Comunicazioni già ricordate, è qui del tutto dimenticata. Il programma di attività invita la Commissione "a presentare, al più tardi il 30 aprile 2002, proposte modificate riguardanti le procedure d'asilo, il ricongiungimento familiare, il regolamento Dublino II" e sollecita il Consiglio "ad accelerare i lavori sugli altri progetti riguardanti le norme di accoglienza, la definizione del termine 'rifugiato' e le forme di protezione sussidiaria"[21] "Lo slancio riformista contenuto nelle Conclusioni di Tampere appare attenuato. La retorica europeista risulta trasferita altrove, come nella Dichiarazione sul futuro dell’Unione europea allegata alle Conclusioni di Laeken, dove però di migrazioni si parla soltanto con riferimento a un presunto auspicio del cittadino europeo che l’Unione svolga in futuro un ruolo crescente in materia di "controllo dei flussi migratori" e di "accoglienza dei richiedenti asilo e dei profughi provenienti da Regioni di conflitto periferiche". [22]

Il ri-orientamento diventa, se possibile, ancora più chiaro a Siviglia (giugno 2002). Già nella preparazione dell'agenda del Consiglio, il primo posto è assegnato alla lotta contro l'immigrazione clandestina, abbandonando ogni riferimento – per quanto retorico – al ruolo cruciale dell'integrazione e delle politiche rivolte ai migranti legali. E' noto il fallimento della proposta di maggiore impatto del Governo spagnolo (appoggiata dall'Italia e dalla Gran Bretagna, ma anche da Danimarca e Olanda): una strategia verso i Paesi d'origine dell'immigrazione illegale fondata sul condizionamento degli aiuti allo sviluppo, in qualunque forma erogati, alla cooperazione nel blocco dei flussi, sia in relazione ai controlli delle frontiere che agli accordi di riammissione. Ma al di là di questo aspetto, sul quale torneremo, Siviglia segna una svolta soprattutto nella selezione delle priorità attraverso la "Tabella di marcia"[23] approvata dal Consiglio. Il calendario legislativo del "Quadro di controllo" viene ridefinito ("entro dicembre 2002 il regolamento Dublino II; entro giugno 2003 le norme relative alle condizioni richieste per beneficiare dello status di rifugiato e al contenuto di tale status, le disposizioni sul ricongiungimento familiare e lo status dei residenti permanenti di lunga durata; entro il 2003 le norme comuni in materia di procedure d'asilo"), confermando la "irrilevanza" per il Consiglio delle norme relative all'ingresso per motivi di lavoro e la predominanza dell'attenzione alla regolazione di quelle forme d'ingresso (ricongiungimento famigliare, asilo) che fanno riferimento a diritti soggettivi anziché alle dinamiche economico-sociali. Non si tratta però di una apprezzabile (per quanto mai messa in pratica) tendenza a privilegiare il rispetto dei diritti umani: al contrario l'agenda è dettata soprattutto dal desiderio di alcuni Stati membri di limitare il ricorso a quei diritti, considerati ormai essenzialmente come un meccanismo di aggiramento dei vincoli all'ingresso di cittadini di Paesi terzi[24].

Che di questo si tratti è confermato dall'insieme delle decisioni assunte, che definiscono un progetto "di riforma e rafforzamento del sistema europeo di controllo migratorio"[25], testimoniato anche dall'impressionante accumulo di materiali prodotti in relazione a questi aspetti: oltre alla già citata Comunicazione COM(2001)672, il Piano d’azione del Consiglio per la lotta all’immigrazione clandestina e al traffico di esseri umani[26], la Comunicazione della Commissione "Verso una gestione integrata delle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea"[27], il Rapporto finale dello Studio di fattibilità per la messa in opera di una "Polizia europea di frontiera", promosso dai governi di Italia, Belgio, Francia, Germania e Spagna e presentato il 30 maggio 2002, il Piano per la gestione delle frontiere esterne[28], per citare solo i più rilevanti.

Dell'integrazione - e dei diritti "comparabili a quelli dei cittadini europei" da riconoscere ai cittadini di Paesi terzi – non vi è traccia se non nella retorica delle dichiarazioni ufficiali.

Né sembra di poter percepire novità di rilievo nel Programma operativo per il 2003 presentato congiuntamente dalle presidenze greca e italiana[29]. Immigrazione clandestina e controllo delle frontiere occupano ancora il primo posto, con un dettagliato elenco di obiettivi da raggiungere; l'immigrazione legale è – ancora una volta – destinataria dell'ennesimo richiamo all'esame delle proposte che sono, ormai, da anni sul tavolo del Consiglio e continuano a perdere, di Presidenza in Presidenza, i loro caratteri più innovativi.

 

c) L'approccio alle politiche comuni di asilo e immigrazione è dunque radicalmente cambiato, quasi rovesciato; ha cessato di essere "integrato" per divenire parcellizzato e condizionato dagli obiettivi di sicurezza, a scapito di libertà e giustizia, caratteristici di una gestione che è a sua volta per nulla integrata e dominata interamente dal punto di vista del Consiglio Giustizia e Affari Interni. Ma per quali ragioni la svolta è così marcata e inarrestabile?

L'11 settembre 2001, con il suo carico di paure – alcune reali, altre no – e il conseguente accentuarsi, ai limiti dell'ossessione, dell'attenzione alle questioni di sicurezza e, più in generale, alle esigenze della "guerra al terrorismo" ha pesantemente influenzato gli orientamenti in materia di libertà, giustizia e sicurezza. La visione dell'immigrato espressa a Siviglia è in qualche modo ancora quella, che si credeva in via di superamento, di un potenziale nemico; il migrante – il migrante arabo o mussulmano specialmente – va considerato innanzitutto, al di là di ogni sua personale caratteristica, per il suo essere un "potenziale terrorista" (o almeno un fiancheggiatore di terroristi). Il controllo torna a essere la priorità assoluta per la maggioranza dei Governi degli Stati Membri. Non si tratta di una visione assoluta: la consapevolezza del valore economico e sociale della popolazione immigrata contraddice questa visione e obbliga ad un maggiore realismo. Ciononostante la tendenza a contenere e controllare assai più che a integrare l'immigrazione nelle società europee è chiara.

Ma l'attacco alle Torri Gemelle non è l'unico fattore in gioco nell'abbandono degli "obiettivi di Tampere", e sarebbe ingenuo credere che costituisca da solo una spiegazione sufficiente degli orientamenti degli Stati Membri. Proveremo ad indicarne altri, tenendo presente il "principio di Anna Karenina"[30]: per garantire il successo occorre il concorso convergente e univoco di fattori diversi e numerosi; per provocare l'insuccesso è sufficiente che diverga uno solo, o un numero limitato, di quegli stessi fattori.

i. Il quadro politico complessivo.

Non sfugge a nessuno che la situazione politica nell'Unione Europea sia oggi assai diversa dal 1999. In quell'anno la maggioranza dei Governi degli Stati Membri era di centrosinistra; da allora il quadro è cambiato in molti Paesi (Austria, Francia, Italia, Olanda, Portogallo) e la maggioranza del Consiglio è chiaramente rappresentativa di coalizioni di centrodestra, che in alcuni casi comprendono forze politiche più o meno apertamente xenofobe. Altrettanto rilevante è, per quanto diremo nel prossimo punto, la presenza in alcuni Governi di partiti che non fanno mistero del loro euro-scetticismo. Per quanto l'influenza di questi cambiamenti non sia da sopravvalutare[31], essa è confermata dalla singolare (ma non certo sorprendente) analogia tra l'involuzione delle politiche europee e di quelle italiane: le recenti modifiche della legislazione in materia di immigrazione introdotte dal Governo di centrodestra hanno segnato il passaggio da un'impostazione focalizzata su un "patto di cittadinanza", che caratterizzò le norme emanate nel 1998, ad un approccio "meramente repressivo"[32] centrato sull'inasprimento dei controlli all'ingresso e sull'esasperazione della precarietà della condizione del lavoratore migrante, accompagnate dalla sostanziale cancellazione delle politiche d'integrazione e delle risorse, umane e finanziarie, ad esse destinate. Una combinazione che rischia di fare da paradigma per un Consiglio europeo "di centrodestra" così come, almeno in parte, la legislazione precedente fu presa a modello da un Consiglio europeo "di centrosinistra".

ii. Le resistenze alla "comunitarizzazione"

La difesa delle sovranità nazionali si esprime, da sempre, anche nel rallentamento dei processi di armonizzazione: il campo delle politiche di asilo e immigrazione non fa eccezione, e neppure questo sorprende. La scelta di opting out esercitata da tre degli Stati Membri segnalava fin dall'inizio che la resistenza attiva o passiva alla comunitarizzazione non sarebbe stata semplice da superare; essa sembra essersi rafforzata sia per l'ingresso di forze politiche euro-scettiche nel Governo di Paesi – come l'Italia – che hanno ruoli centrali nelle politiche migratorie europee, sia per il succedersi di appuntamenti elettorali caratterizzati da un dibattito di politica interna fortemente segnato dal valore simbolico (in relazione all'identità culturale nazionale ed europea, alle percezioni di insicurezza, al presunto "conflitto di civiltà") che le scelte in materia di immigrazione hanno assunto, e dal loro conseguente radicalizzarsi.

iii. Le ragioni strutturali

Alcuni studiosi[33] suggeriscono che ragioni strutturali della resistenza all'armonizzazione andrebbero ricercate nella profonda differenza che divide gli Stati Membri in relazione all'immigrazione: differenza nelle esperienze storiche, nell'esposizione ai flussi migratori, nei caratteri della domanda e offerta sul mercato del lavoro, che si traducono in modo del tutto naturale in differenze nella scelta delle priorità, con l'inevitabile conseguenza di una tendenza a bloccare i processi di comunitarizzazione per mantenere la più ampia autonomia nelle politiche nazionali. Non solo, quindi, una gelosia della propria sovranità, ma in qualche modo un'esigenza legata ai fondamenti economico-sociali. Politiche comuni sarebbero dunque possibili se realmente basate su un "approccio integrato" mirato non a gestire i flussi del momento, ma ad una prospettiva di lungo termine, di confronto con le radici del fenomeno: questo è però completamente mancato in un meccanismo che ha visto invece proposte separate su aspetti separati (al di là e a dispetto del quadro complessivo disegnato in dichiarazioni e comunicazioni), destinate a risolvere questioni del breve periodo; e l'apparente declino – se ancora non abbandono - della proposta di applicazione del "metodo aperto di coordinamento" alle politiche di immigrazione ne è, probabilmente, un sintomo.

Alcune di queste preoccupazioni sembrano confermate da un recente discorso pronunciato dal Commissario Antonio Vitorino[34] nel corso della discussione in plenaria del Rapporto Terrón i Cusí sulla proposta di Direttiva relativa agli ingressi per lavoro, rapporto che - pur con qualche infortunio nell'adozione finale - introduce numerosi emendamenti orientati ad un migliore equilibrio tra controllo e valorizzazione[35]. In quell'occasione il Commissario, nel quadro di una forte sottolineatura del ruolo predominante degli Stati Membri, ha ricordato che ".. nessuno oggi sa quale sia la politica di immigrazione dell'altro. Gran parte delle politiche nazionali d'immigrazione sono state condotte in passato, semplicemente, nell'invisibilità". Nel rivendicare il ruolo cruciale dell'armonizzazione vengono ribadite anche l'enfasi sulle questioni sicuritarie e la lentezza dei progressi per ciò che riguarda l'immigrazione come fattore economico-sociale: "Ciò che la pubblica opinione conosce è che chi entra illegalmente finisce per essere regolarizzato dagli Stati Membri in un modo o nell'altro. (...) Siamo delusi per il fatto che il Consiglio non abbia – finora – prestato sufficiente attenzione a questa proposta e che non siano ancora state lanciate discussioni di merito". Tuttavia, le proposte più innovative – l'introduzione di visti per ricerca di lavoro e della possibilità di richiedere un permesso di soggiorno dall'interno dell'UE per chi vi sia rimasto oltre la scadenza di un precedente permesso – vengono respinte: l'una perché "potrebbe diventare un facile strumento" per ingressi illegali, l'altra perché sarebbe "un segnale sbagliato" per la lotta contro l'immigrazione illegale.

Entrambe le motivazioni sono assai discutibili sul piano dell'analisi e anche, per quanto riguarda gli ingressi per ricerca di lavoro, su quello empirico alla luce dell'esperienza di Paesi come l'Italia. Ma ciò che qui è rilevante è – ancora una volta – la scelta di rispondere a proposte basate su presupposti di tipo economico-sociale strettamente correlati all'obiettivo di favorire l'integrazione dei residenti con argomentazioni che prendono in considerazione soltanto o prevalentemente gli aspetti di controllo e sanzione.

4.     Elementi di prospettiva

a) Uno dei cinque assi individuati nel quadro dell'"approccio integrato" era il partenariato con i paesi terzi di origine e transito, in particolare nella forma del co-sviluppo, " un’idea innovatrice che configura uno sviluppo parallelo e sinergico del Paese di origine e di quello di destinazione, in cui il migrante funge da scintilla iniziale e da fattore trainante"[36]; di questa idea poche tracce si trovano oggi nei documenti e nelle proposte della Commissione e del Consiglio. Anche quelle poche, del resto, sembrano muoversi in un'ottica affatto diversa: abbiamo già accennato alla proposta spagnola, avanzata a Siviglia, di trasformare il partenariato in una "condizionalità migratoria", come è stata definita[37], consistente nel subordinare gli aiuti per lo sviluppo alla cooperazione nel controllo delle migrazioni. Lo stesso Presidente della Commissione, intervenendo alla riunione del Consiglio, ribadiva la sua fiducia che "... troveremo una formulazione delle nostre conclusioni che trasmetta il messaggio che vogliamo inviare: i nostri partners devono capire che c'è stato un salto qualitativo nell'importanza che annettiamo alla componente "migrazione" nelle nostre relazioni. Non abbiamo ragione di credere che questo messaggio non sia compreso..." [38]. Come si è visto, a Siviglia non si raggiunse – fortunatamente – l'accordo su un'iniziativa che avrebbe pesantemente condizionato la possibilità di istituire un legame ("Il legame mancante", come ricorda il titolo della recente conferenza convocata dal Gruppo PSE)[39] concettualmente corretto e politicamente proficuo tra migrazione e sviluppo.

Su invito del Consiglio di Siviglia, la Commissione ha adottato una Comunicazione sulla Integrazione dei temi della migrazione nelle relazioni dell'UE con i Paesi Terzi[40], che conferma la priorità assegnata alle questioni dell'immigrazione illegale e degli accordi di riammissione, pur dichiarando di non voler penalizzare i Paesi che "non cooperano". I termini per affrontare positivamente la questione dovrebbero essere in realtà assai diversi, e fondarsi innanzitutto – e non solo per ragioni etiche – sul riconoscimento del ruolo e dei diritti dei migranti: "La migrazione può essere resa vantaggiosa per gli individui migranti, i paesi di origine e quelli di accoglienza, e può giocare un ruolo importante nello sviluppo. (...) i migranti devono essere sostenuti da uguaglianza di trattamento, garanzie di residenza, possibilità di movimento e di coinvolgimento nelle economie e nelle società dei Paesi di provenienza"[41].

In questo quadro assume una significativa importanza il richiamo al quadro della politica commerciale e degli accordi GATS, raramente presi in considerazione, nel discorso pubblico, per i loro aspetti legati alla libera circolazione delle persone, ma che hanno invece un'influenza assai concreta sulle politiche comunitarie. Influenza sottolineata anche nel già ricordato discorso del Commissario Vitorino.[42]

 

b) Da quanto abbiamo detto, emerge quale sia la questione centrale di questa fase: l'inaccettabilità di un orientamento che – partito dalla legittima esigenza di non ignorare gli aspetti di controllo e regolazione dei flussi e il diritto alla sicurezza dei cittadini europei – finisce per ridurre ad essi soli le politiche migratorie, rinunciando ad un'azione efficace sul piano della valorizzazione e inclusione dei cittadini stranieri residenti. In altri termini politiche "dell'immigrazione" (in qualche caso si direbbe contro l'immigrazione) e politiche "per i migranti"[43], entrambe necessarie, hanno un potenziale positivo per tutti gli attori e i soggetti interessati solo se tra di esse si mantiene un corretto bilanciamento. La rinuncia, di fatto quando non esplicita, alle politiche per i migranti è inefficace e inutilmente punitiva (come mostra, purtroppo, la recente esperienza italiana) oltre ad essere politicamente sbagliata.

 

c) Ciò non significa che non esistano altre prospettive. Abbiamo visto come la forza delle ragioni concrete e delle esigenze "strutturali" conduca ad una ripresa del dibattito sui temi dell'integrazione; i tempi sono, forse, maturi per una modifica dell'atteggiamento dominante pur se il quadro politico è tuttora sfavorevole. Il Parlamento Europeo, anche nei limiti delle procedure di consultazione a cui sono ancora soggette gran parte delle materie in esame, può svolgere ed ha svolto un ruolo importante: la già ricordata Risoluzione legislativa in materia di ingressi per lavoro dimostra una volta di più, seppure con qualche limite, la capacità degli eletti di formarsi un'opinione indipendente sia dal dibattito politico interno agli Stati che dagli interessi nazionali o di schieramento politico.

Il dibattito in corso nella Convenzione Europea conferma, ad un altro livello, le potenzialità positive ancora aperte. Per quanto asilo e migrazione non siano, in senso stretto, materia dei lavori - e nonostante la bozza dei primi 16 articoli preparata dal Praesidium presenti una certa sottovalutazione dei principi coinvolti - questioni come il diritto di asilo e l'uguaglianza di trattamento si sono imposte nell'agenda. Ne fanno fede da un lato gli emendamenti presentati sia dal PSE nel suo insieme che da singoli suoi rappresentanti e dall'altro la modifica "in corsa" dell'o.d.g. della plenaria del 27-28 febbraio, che ha aggiunto ai punti in discussione – anche, occorre dire, grazie alla pressione delle reti europee di ONG - il "campo di applicazione della clausola di non discriminazione" e la "definizione della cittadinanza e dei diritti connessi".

Le domande poste alla Convenzione riprendono, a ben vedere, due dei "capisaldi di Tampere": uguaglianza di trattamento e avvicinamento dei diritti dei cittadini di paesi terzi a quelli dei cittadini dell'Unione. Le richieste avanzate danno forma a quelle idee, in coerenza con i principi espressi nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE: inclusione dell'uguaglianza tra i valori dell'Unione e della non-discriminazione tra i suoi obiettivi; ri-definizione della cittadinanza europea in senso inclusivo – o quantomeno non-esclusivo – nei confronti dei cittadini di paesi terzi residenti da lungo tempo nel territorio degli Stati Membri.

 

d) Più in generale, a poco più di un anno dalla scadenza per la "comunitarizzazione" fissata dal TCE, si pone la questione di come costruire politiche comuni in materia di asilo[44] e immigrazione, bilanciate tra esigenze e spinte legittime e diverse. Nella ricerca di un tale, non facile, equilibrio, vanno mantenuti fermi alcuni cardini:

-       il rispetto dei diritti delle persone, incluso il diritto a non vivere in condizioni di eccessiva precarietà e di soggezione all'arbitrio e del mercato, come prefigurano le nuove legislazioni di alcuni Stati Membri, già in opera (Danimarca, Italia) o in preparazione;

-       il contrasto delle tendenze alla "rinazionalizzazione", dei tentativi cioè di ricondurre ad esclusiva competenza nazionale questioni cruciali delle politiche migratorie, riducendo la competenza comunitaria a fattore residuale (di questo fanno parte sia il rispetto scrupoloso del percorso tracciato dal Titolo IV TCE sia una valutazione attentamente critica delle proposte relative a sistemi di "quote" nazionali);

-       il riconoscimento delle diversità,non solo come opzione teorica ma anche e soprattutto come "pietra di paragone" dei contenuti legislativi non solo nel campo specifico.

5.     Conclusioni

Non è tra i compiti di questo documento la proposta di soluzioni o di opzioni politiche; può soltanto indicare alcune delle questioni che restano aperte, come si è cercato di fare nelle pagine precedenti. Può essere utile, in conclusione, richiamare alcuni aspetti rilevanti per il ruolo delle forze politiche e delle Istituzioni[45]. Ad esse, infatti, spetta una grande responsabilità negli orientamenti dell'opinione pubblica in materia di immigrazione.

 

a) Una ricerca condotta tra il 1996 e il 1999 in sei Stati Membri (Spagna, Grecia, Portogallo, Francia, Italia e Germania) ha mostrato come la negatività dell'atteggiamento della pubblica opinione sia stata pesantemente condizionata – e in parte, anzi, prodotta – dalle politiche restrittive introdotte tra la fine degli anni '70 e i primi anni '90[46]. L'impatto negativo della politica si è rafforzato con l'emergere in quasi tutti i Paesi europei di forze politiche che hanno favorito, per raccogliere consensi o per nascondere l'assenza di proposta politica, il radicarsi delle paure e la loro trasformazione in rivendicazioni identitarie e pregiudizi xenofobi.

Specularmente, "la politica" può avere un impatto positivo, se è capace di proporre argomenti validi e comprensibili, non puramente etici o ideali ma fondati sull'analisi delle esigenze di sviluppo economico e di coesione sociale, a sostegno dell'integrazione e del reciproco rispetto tra culture e identità diverse e multiple. Allo stesso tempo è necessario contrastare, anche sul piano concettuale, le derive identitarie che si richiamano a presunti valori "superiori" di altrettanto ipotetiche culture originarie europee. Non si tratta qui, è bene ricordare, soltanto del "conflitto di civiltà" evocato contro i migranti; l'identità europea, in questa rozza ma pericolosa versione, rifiuta il diritto ad ogni diversità, da quella religiosa a quelle di orientamento sessuale fino a rimettere in discussione aspetti dei diritti di genere. Un segnale da non sottovalutare è la proposta di includere tra i valori dell'UE, nel futuro Trattato Costituzionale, il richiamo a valori religiosi.

 

b) Liberare il dibattito europeo dai condizionamenti delle politiche interne e della ricerca del consenso elettorale è essenziale per raggiungere questi obiettivi: da questo punto di vista il processo di comunitarizzazione deve essere sostenuto non solo come spazio di armonizzazione legislativa e di futura competenza comunitaria, ma anche come parte della creazione di uno spazio pubblico nel quale il dialogo politico, civile e sociale trovi una sua autonomia rispetto alle scene pubbliche dei singoli Stati. Non si deve, peraltro, partire da zero: pur ciascuno con i suoi limiti, il Parlamento e la Convenzione così come in parte il Comitato Economico e Sociale Europeo sul versante istituzionale, le reti di ONG e il Forum Sociale Europeo su quello della società civile organizzata, rappresentano embrioni di uno spazio europeo che hanno segnato alcuni successi e presentano una straordinaria ricchezza potenziale.

 

c) Sul piano dei contenuti, è necessario che a una politica sostanzialmente segnata – nel male come nel bene – dalla predominanza dell'approccio, per così dire, di "giustizia e affari interni", teso alla costruzione di un quadro protettivo e sanzionatorio (anche, e positivamente, contro le discriminazioni) si affianchi un'iniziativa in positivo, mirata soprattutto alla promozione dell'uguaglianza di trattamento e di diritti e ad una integrazione che in quei diritti trovi radice e fondamento. La Commissione Europea può avere un ruolo importante, se sarà in grado di intervenire sulla scena pubblica non solo con pur importanti e necessari segnali contro il razzismo e la xenofobia ma anche con interventi che sappiano riportare in alto nelle priorità dell'agenda politica il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità. Questo può comportare un contrasto difficile con il Consiglio, come le vicende dello snaturamento della proposta di Direttiva sul ricongiungimento famigliare[47], dello svuotamento del diritto di asilo e dello stallo senza sbocchi positivi apparenti della Decisione quadro contro razzismo e xenofobia sembrano indicare; si tratta tuttavia di un rischio da assumere anche per rafforzare la dimensione europea nei confronti delle dimensioni nazionali.

L'integrazione non può essere pensata come una politica stand-alone: per essere efficace, i suoi obiettivi devono, al contrario, essere inclusi in tutte le politiche dell'Unione, e il principio di non discriminazione deve divenire un banco di prova ad ogni livello legislativo e regolamentare. Un esempio concreto può venire dalle esperienze di applicazione di equality schemes realizzate sia nel settore pubblico che in quello privato in diversi Stati Membri, Olanda e Regno Unito in particolare. Se, infatti, per integrazione si deve intendere l'opportunità offerta a tutti di una piena partecipazione civile, sociale, culturale e politica la conseguenza necessaria è il ripensamento delle politiche per garantire che l'opportunità esista e sia effettivamente praticabile.

 

d) E' da questo punto di vista (oltre che per il suo valore simbolico), infine, che si pone la questione della cittadinanza. Lo "sganciamento" sul piano concettuale della cittadinanza europea dall'appartenenza nazionale dei residenti (legali e di lungo periodo), e dunque l'apertura di possibilità concrete di estensione dei diritti di cittadinanza, possono essere strumenti potenti: da un lato per la battaglia culturale e dall'altro per la concreta partecipazione politica dei migranti, non confinata – come spesso accade nelle forme di partecipazione sperimentate nei Paesi del versante mediterraneo dell'UE – alle materie collegate all'immigrazione ma estesa all'intera vita democratica degli Stati Membri; e per questa via possono contribuire alla costruzione sia di un nuovo senso di appartenenza all'UE tra i migranti, sia di un'identità europea aperta ed inclusiva, coerente con la storia dell'Europa e con i suoi valori più profondi.

 

Torino, febbraio 2003



Note

 

[1] Si veda, per un'analisi dei dati e delle difficoltà nella loro raccolta e comparazione, John Salt, Current trends in international Migration in Europe,Consiglio d'Europa, CDMG(2001)33. Una sintesi recente degli stock e delle caratteristiche dell'immigrazione nel territorio dell'Unione Europea è contenuta in: Caritas - Migrantes, XII Rapporto sull'Immigrazione. Dossier statistico 2002, Roma 2002.

[2] Si vedano gli atti della Conferenza congiunta CE / OCSE su The economic and social aspects of migration, Bruxelles 21-22.1.2003; in particolare la comunicazione di M.Doudeijns e J-C. Dumont, Immigration and Labour Shortages: Evaluation of Needs and Limits of Selection Policies in the Recruitment of Foreigne Labour, paper, 2003.

[3] Si vedano, su questo aspetto, R.Bontempi, Documento di lavoro per la Conferenza "Diritto alla libertà, diritto alla sicurezza, Torino-Barcellona, 2002 e, a cura dello stesso autore, il Documento conclusivo della Conferenza..

[4] Jan Niessen, Yongmi Schiebel, Demographic changes and the consequences for Europe's future – Is immigration an option?, MPG (Migration Policy Group) 2003.

[5] Il termine "integrazione" è qui usato per ragioni di brevità.Si tratta di un termine ambiguo, che può assumere significati diversi in contesti storico-culturali differenziati quali sono quelli degli Stati Membri. L'accezione a cui si fa riferimento in questo documento è quella di "piena partecipazione e inclusione nella vita economica, sociale, civile e politica" attraverso un processo bi-direzionale, tra migranti e società di accoglienza, di adattamento e di riconoscimento delle diversità.

[6] R.Bontempi, L.Scagliotti, Unione Europea: politiche comuni di immigrazione e asilo, lotta contro il razzismo e la discriminazione, paper, Torino 2001.

[7] Conclusioni della Presidenza, Consiglio Europeo di Tampere, SN 200/99

[8] Versione consolidata del Trattato che istituisce la Comunità Europea, GUCE 2002/C 325/01.

[9]Occorre ricordare che la lotta contro la discriminazione è stata rafforzata – ed estesa nel campo di applicazione - dall'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE. Per quanto la Carta stessa non abbia, per ora, carattere vincolante, è noto che la Corte di Giustizia ne ha utilizzato il testo come riferimento in alcune sentenze. Inoltre, la Convenzione Europea ne ha proposto l'integrazione nel futuro Trattato Costituzionale dell'Unione.

[10] COM (2000) 755 def. del 22.11.2000

[11] COM (2000) 757 def. del 22.11.2000

[12] COM (2001) 387 def. dell'11.7.2001

[13] COM (2002) 548 def. del 7.10.2002

[14] Fanno eccezione le Direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE contro le discriminazioni, basate sull'art. 13 TCE. Si tratta però di un caso isolato, spiegabile con l'inopportunità di rinviarne o bloccarne l'adozione negli stessi mesi in cui 14 Stati Membri si schieravano per l'adozione di "soft sanctions" nei confronti del Governo austriaco a seguito della presenza tra i partiti della coalizione dell'FPOE di Jorg Haider, fortemente sospetto di inclinazioni razziste. Per converso, l'Austria non poteva certo rafforzare quei sospetti opponendosi alle Direttive citate.

[15] COM (2001) 672 def. del 15.11.2001

[16] COM(2002)564 def. del 14.10.2002

[17] Si veda in particolare: La relazione tra la salvaguardia della sicurezza interna ed il rispetto degli obblighi e strumenti internazionali in materia di protezione, Documento di lavoro della Commissione, COM(2001)743 def. del 5.12.2001

[18] COM(2002)0225 def. del 2.5.2002

[19] COM(2001)664 def. Del 28.11.2001

[20] Baroness Sarah Ludford, Motion for a resolution on progress in 2002 in implementation of an area of Freedom, Security and Justice, (PE 326.112) 31.1.2003

[21] Conclusioni del Consiglio, punto 41

[22] CESPI, MigrAction Europa, 2, febbraio 2002, www.cespi.it

[23] Tabella di marcia per il follow up delle conclusioni del Consiglio europeo di Siviglia - Asilo, immigrazione e controllo delle frontiere, Nota della Presidenza al COREPER 10525/2/02 Rev. 2, Bruxelles, 31.7.2002.

[24] Merita una attenta riflessione la considerazione che queste posizioni non sono limitate a Governi politicamente orientati "a destra": al contrario sono state sostenute con maggior forza da Paesi governati da coalizioni di centrosinistra quali, pur con alcune differenze, Germania e Regno Unito.

[25] La definizione è ripresa da CESPI, MigrAction Europa 3, luglio 2002, al quale rimandiamo per una dettagliata elencazione delle decisioni assunte a Siviglia. www.cespi.it

[26] Doc. 6621/1/02, Consiglio GAI del 28 febbraio 2002

[27] COM (2002) 233 def. del 7 maggio 2002

[28] Doc. 10019/02, Consiglio GAI del 14 giugno 2002

[29] Consiglio Europeo, Programma operativo del consiglio per il 2003 presentato dalle presidenze greca e italiana, doc. 15881/02 del 20.12.2002

[30] "Tutti i matrimoni felici si somigliano; ogni matrimonio infelice è infelice a modo suo", L.Tolstoi, Anna Karenina, incipit. Per la formulazione del "principio" si veda J.Diamond, Guns, Germs and Steel. The Fates of Human Societies, New York – London 1997.

[31] v., tra altri, F.Pastore, in CESPI, MigrAction Europe, Special issue, 2002 www.cespi.it

[32] La definizione è della Magistratura italiana.

[33] F.Pastore, cit. Uno sviluppo più completo delle idee proposte è annunciato in F. Pastore, G. Sciortino, “Immigration and European Immigration Policies: Myths and Realities”, in J. Apap (ed.), Extending the Area of Freedom, Security and Justice through Enlargement: Challenges for the European Union (titolo provvisorio), di prossima pubblicazione. Gli autori hanno presentato un paper così intitolato nel corso di una Conferenza internazionale ospitata nel luglio 2002 dall'Academy of European Law, Trier (Treviri).

[34] A.Vitorino "Asylum is a right, economic migration is an opportunity", speech/03/71, EP Strasbourg, 11.2.2003

[35] "Risoluzione legislativa del PE sulla proposta di Direttiva del Consiglio relativa alle condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi che intendono svolgere attività di lavoro subordinato o autonomo", PS_TA-PROV(2003)0050, 12.2.2003. Per un confronto si veda la proposta originale approvata dalla Commissione LIBE, PE 311.015/DEF.

[36] R.Bontempi, L.Scagliotti, cit.

[37] F. Pastore, cit.

[38] R.Prodi, "Intervento su asilo e immigrazione", speech/02/296, Consiglio Europeo, Siviglia, 21.6.2002

[39] Migration & Development – The missing link, Parlamento Europeo, Bruxelles, 20.2.2003

[40] COM(2002)703 def. del 3.12.2002

[41] J.Niessen, International migration and mobility on the EU foreign policy agenda. Is there a case to be made?, paper presentato alla Conferenza del Gruppo PSE, cit., 20.2.2003

[42] "Alcuni emendamenti (...) sono strettamente connessi a questioni di commercio internazionale. (...) Appare ragionevole attendere i risultati delle negoziazioni [GATS] prima di modificare il testo della Direttiva", A. Vitorino, cit.

[43] Riprendiamo questa distinzione, proposta da G.Zincone, per l'immediatezza semantica.

[44] Per un'analisi dettagliata della situazione in materia di asilo e delle prospettive dell'armonizzazione europea si rinvia alla nota (Allegato "B"), tratta da AA.VV., , Migranti e Diritti, paper presentato all'Assemblea Europea dei Migranti – Firenze, novembre 2002 e a R.Bontempi, L.Scagliotti, cit.

[45] Per una estesa analisi delle problematiche dell'integrazione e una dettagliata individuazione di "lezioni" e raccomandazioni" si suggerisce la lettura di A.Rudiger e S.Spencer, Social Integration of Immigrants and Ethnic Minorities. Policies to Combat Discrimination, paper, dicembre 2002.

[46] E.Reyneri et al., Inserimento dei migranti nell'economia informale, comportamenti devianti e impatto sulle società di arrivo, Milano 1997

[47] E' significativo che proprio in questi giorni (il 20.2.2003) lo "Standing Committee of experts on international immigration, refugee and criminal law" abbia inviato una lettera al Commissario Antonio Vitorino invitando lo a ritirare la proposta in quanto incompatibile, nell'attuale formulazione, con le norme minime stabilite dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani.