MIGRACTION EUROPA

Bollettino trimestrale di analisi delle politiche migratorie in Europa

 

 

 

Prodotto dal CeSPI nel quadro del programma MIGRACTION

 

realizzato con il sostegno di

Compagnia di San Paolo

Ministero degli Affari Esteri

Monte dei Paschi di Siena

 


 


Questione kurda e domande d’asilo in Europa

 

La questione kurda rappresenta da almeno un decennio un nodo decisivo del problema dell’asilo in Europa. Nel periodo 1992-2001, turchi e iracheni – in massima parte appartenenti alle minoranze kurde dei due paesi – hanno costituito rispettivamente il secondo e il terzo gruppo nazionale tra i richiedenti asilo nell’insieme dei paesi industrializzati (allegato C.5, Statistical Yearbook 2001, www.unhcr.ch). Questa predominanza si è ulteriormente accentuata nel corso degli ultimi tre anni, durante i quali questi due gruppi hanno rappresentato stabilmente tra il 14 e il 15% del totale dei richiedenti asilo nei paesi più sviluppati. Se si restringe lo sguardo ai paesi membri dell’Unione europea, questi valori crescono ancora, arrivando al 18,8% del totale nel 2001 e al 19,1% nel 2002 (vd. Asylum Applications Lodged in Industrial Countries: Levels and Trends, 2000-2002, marzo 2003, reperibile anch’esso sul sito dell’Alto Commissariato).

Si raggiungono percentuali ancora più alte se, invece di guardare alle domande di asilo si considera il numero di coloro che sono stati autorizzati a rimanere, con status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra, oppure a titolo di protezione sussidiaria.

Indice

Questione kurda e domande d’asilo in Europa   p. 1

L’impatto migratorio della guerra                      p. 2

Le implicazioni per l’Europa?                           p. 3

Piccola bibliografia di riferimento                      p. 6

Se ci concentriamo sull'Italia, poi, vediamo che, nel 2001, le persone in provenienza dall’Iraq e dalla Turchia hanno rappresentato in assoluto i due gruppi principali di richiedenti asilo, rispettivamente con 1.985 e 1.690 domande, su un totale di 9.620 domande presentate. I valori per il 2002 sono più bassi: 1.170 richieste presentate da iracheni, che vengono doppiati in questa triste classifica dai cittadini di Sri Lanka (vd. comunicato stampa ACNUR Italia, 14 marzo 2003). Questo calo deve però essere collocato nel quadro di una contrazione complessiva delle domande di asilo depositate in Italia, scese da 9.620 a 7.281. Tale drastico ridimensionamento (pari a -24,3%) va molto al di là della impercettibile riduzione registrata a livello UE (-1,7%) e si deve certamente porre in relazione con gli orientamenti restrittivi sottesi alla legge 189/2002, che sono stati anticipati nella prassi, ben prima dell’entrata in vigore della "Bossi-Fini" stessa.

Fonti ufficiose del Ministero dell’Interno segnalano, tuttavia, che l’afflusso di richiedenti asilo dall’Iraq sarebbe nuovamente in crescita; si parla di un aumento del 35% nei primi mesi del 2003.

Ma la questione kurda ha un peso decisivo rispetto alla generale questione dell’asilo in Europa, non solo dal punto di vista quantitativo. L’emigrazione di questo popolo senza Stato presenta infatti una serie di specificità qualitative, che generano acuti dilemmi politici. Ancor più che per altre provenienze, la componente economica e quella politica dei flussi sono difficili da scindere. Ancor più che per altre provenienze, esiste un drammatico problema di accesso al territorio dell’Unione per coloro che sono davvero bisognosi di protezione. L’isolamento delle regioni a maggioranza kurda e l’assenza di strumenti di screening in loco obbligano infatti la grande maggioranza dei richiedenti asilo ad avvalersi di trafficanti professionisti.

Nel caso dell’Italia, questa situazione si è manifestata con grande evidenza, attraverso l’aumento costante negli ultimi quattro anni degli sbarchi sulle coste calabresi e siciliane. Mentre la rotta adriatica ha perso di importanza, anche grazie a una cooperazione più efficace con le autorità albanesi, la rotta ionica si è rafforzata e ramificata (con l’incremento delle partenze e dei transiti anche da paesi prima quasi indenni, come la Siria, il Libano, l'Egitto e la Libia).

Negli ultimi anni, si è quindi venuta strutturando una rete di trasporti clandestini tra il Medio Oriente – che dopo la relativa pacificazione dei Balcani occidentali emerge come il principale bacino di migrazioni forzate verso l’Europa – e il nostro paese.

 

L’impatto migratorio della guerra

 

Nella situazione descritta, è naturale che l’Europa si interroghi sui movimenti forzati di popolazione che potrebbero conseguire all’intervento armato statunitense e britannico in Iraq.

La questione va esaminata su due piani distinti che riguardano rispettivamente:

a) gli spostamenti di popolazione all’interno dei confini iracheni e nella regione circostante;

b) gli spostamenti di popolazione che potrebbero interessare direttamente il territorio dell’Unione europea.

Sul primo piano, è certo che si verificherà un impatto significativo. Anzi, movimenti indotti dalla prospettiva del conflitto sono già in corso da giorni. Si registra una fuga dalle città, da Baghdad in particolare, provocata dalla paura dei bombardamenti, ma anche – in particolare per la minoranza cristiana – dal timore di rappresaglie di matrice anti-occidentale durante i giorni, che si annunciano tragici, dell’assedio della capitale.

Spostamenti preventivi si osservano anche nel nord del paese, dove gli abitanti kurdi di città come Arbil, Dohuk e Suleimaniyah – situate alla portata dei missili di Saddam Hussein – fuggono sui monti temendo l’uso di armi chimiche da parte del regime in agonia. La memoria della brutale repressione dell’insurrezione del 1991 e il quindicesimo anniversario del massacro di Halabja (almeno 5.000 vittime) contribuiscono ad alimentare il panico e a innescare l’esodo. Alcune fonti dalla zona parlano di 1,5 milioni di persone già in moto, ma manca qualsiasi certezza e la situazione è ovviamente destinata a cambiare di ora in ora.

In prospettiva, movimenti massicci di popolazione si potrebbero produrre anche poco più a sud, con conseguenze gravi. Nella zona petrolifera ancora controllata dal regime, tra le città di Mosul e Kirkuk, è diffuso il timore che, appena caduto il tiranno, possano tornare a decine di migliaia i kurdi cacciati a nord negli anni scorsi, e sostituiti con insediamenti forzati di arabi sciiti, "trapiantati" dalle regioni paludose sopra Bassora. Le rassicurazioni fornite dagli uomini del KDP di Massud Barzani, che faranno il possibile per gestire questo flusso di ritorno in maniera ordinata e pacifica, non bastano a scacciare la paura di rappresaglie e vendette tra gli abitanti attuali dell’area.

Naturalmente, queste dinamiche già in corso non sono che poca cosa rispetto ai probabili movimenti di sfollati e profughi che verranno causati direttamente dal conflitto. Su questo piano regna la massima incertezza, a causa della segretezza dei piani statunitensi e della imprevedibilità delle reazioni di Saddam. Anche senza ipotizzare scenari apocalittici, peraltro possibili (bombe chimiche usate dal regime contro la sua stessa popolazione; nubi tossiche provocate dall’incendio di pozzi petroliferi), è certo che la guerra sconvolgerà un paese in cui 13-15 milioni di persone (più di metà della popolazione totale) sopravvivono attualmente grazie alle razioni governative.

In che modo emergenze ambientali e alimentari possano tradursi in esodi di massa è assai difficile da prevedere. La pianificazione dell’Alto Commissariato per i Rifugiati – che come è noto ha per oggetto l’assistenza ai profughi internazionali, non agli sfollati interni – si è basata finora su un target indicativo di 600.000 persone. Ma lo stoccaggio di cibo alle frontiere, avviato dal Programma alimentare mondiale (PAM), riguarda un numero ben più elevato di persone. Per quanto riguarda l'assistenza agli sfollati, la pianificazione delle Nazioni Unite si è finora basata su una soglia massima di tre milioni di internally displaced persons.

Come sottolineano numerosi funzionari internazionali, però, una cosa è la pianificazione operativa, sottoposta al vincolo delle risorse finanziarie messe a disposizione dai governi degli Stati membri (da questo punto di vista, l'ufficio delle NU per il coordinamento degli interventi umanitari - OCHA - lamenta che solo 40 milioni di euro dei 116 richiesti sono affluiti sinora); altra cosa sono le previsioni. E, a partire dal vertice interagenzie delle Nazioni Unite tenutosi a Ginevra a metà febbraio, circolano previsioni di 1,5-2 milioni di profughi, la maggioranza dei quali si riverserebbe sull’Iran, la Giordania e la Turchia (vedi, per esempio, The Guardian, 15 febbraio, www.guardian.co.uk/international/story/0,3604,896149,00.html; i testi di alcuni dei documenti riservati delle Nazioni Unite contenenti tali previsioni sono reperibili sul sito della ONG britannica Campaign Against Sanctions on Iraq: http://www.casi.org.uk/info/undocs/internal.html).

In questo scenario, una domanda-chiave è allora: come reagiscono a questa prospettiva i paesi confinanti?

La Turchia va predisponendo da mesi piani di “invasione tecnica” dell’Iraq settentrionale, finalizzata ufficialmente ad allestire in loco strutture di accoglienza per gli sfollati del conflitto. A prescindere da ogni valutazione sui secondi fini di natura geopolitica di una simile operazione da parte dell’esercito turco, va sottolineato che si tratterebbe di una macroscopica violazione sostanziale del divieto di refoulement enunciato dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra (ancorché formalmente non ci sarebbe respingimento alla frontiera, reso superfluo appunto dalla “invasione preventiva” del territorio iracheno). Ugualmente illegittimo sarebbe il comportamento di altri paesi limitrofi – il problema si pone, ad esempio, per l’Arabia Saudita – nel caso in cui non ottemperassero alle richieste di apertura delle frontiere presentate dalla comunità internazionale.

Particolarmente delicato, e tuttavia cruciale, sarà il comportamento dell’Iran, diviso da una lunga e sanguinosa ostilità dal vicino arabo e che inoltre ospita già 2,3 milioni di rifugiati iracheni e afgani. Finora, le autorità di Teheran hanno tenuto un discorso ambiguo, minacciando la chiusura delle frontiere ma assicurando nel contempo che queste rimarranno aperte selettivamente per “i rifugiati la cui vita fosse minacciata” (dichiarazione di Ahmat Hosseili, direttore dell’agenzia iraniana per i rifugiati, Le Monde, 12 marzo). La generosità e le garanzie offerte dalla comunità internazionale saranno in questo caso assolutamente decisive.

Per quanto riguarda la Giordania, infine, la Mezzaluna rossa locale e l’Alto Commissariato per i Rifugiati si stanno attrezzando per accogliere 30.000 persone nella prima fase del conflitto. Ma secondo le valutazioni della coordinatrice delle Nazioni Unite ad Amman, Christine McNab, si devono attendere oltre 100.000 arrivi, di cui metà di cittadini iracheni e l'altra metà di lavoratori stranieri (perlopiù egiziani) residenti in Iraq (Agence France Presse, 14 marzo). Anche in questo caso, il gap tra capacità di accoglienza e potenziale impatto migratorio è preoccupante. Nel caso del regno hashemita, inoltre, i timori che il piccolo paese – che per di più dipende integralmente dall’Iraq per i suoi rifornimenti energetici - possa venire destabilizzato da un afflusso massiccio di profughi non sono certo peregrini. Il regime di Baghdad potrebbe anche essere tentato di perseguire apertamente questo obiettivo, attraverso azioni militari mirate, in maniera simile a quanto fece Milošević nei confronti della Macedonia, nella primavera 1999.

Una prima valutazione dell'impatto migratorio del conflitto non può limitarsi alla fase di belligeranza strettamente intesa. Anche dopo la conclusione delle operazioni militari da parte delle forze anglo-statunitensi, è probabile che fattori espulsivi diversi, ma non meno potenti, continuino ad operare. Abbiamo già accennato ai timori di rappresaglie, che potrebbero spingere alla fuga non solo i quadri medi e bassi (quelli alti saranno già eliminati o al sicuro in qualche paese amico) della nomenklatura, ma anche fasce più vaste della minoranza araba e sunnita, fino a ieri dominante. Se poi il dopoguerra degenererà in uno scenario di tipo libanese - come molti osservatori, soprattutto occidentali, paventano - le ripercussioni migratorie della crisi saranno destinate a durare anni.

 

Le implicazioni per l’Europa

 

Per quanto sia difficile effettuare previsioni dettagliate, vi sono pochi dubbi che l’impatto migratorio della guerra nella regione circostante sarà forte. E' assai più controverso, invece, se e in che misura l’esodo possa raggiungere le frontiere esterne dell’Unione europea. In questi giorni circolano ipotesi tanto allarmanti quanto fantasiose, come quella che 1.200.000 profughi iracheni possano giungere in Europa occidentale passando per il Nord Africa, ventilata a margine di una recente riunione del Comitato parlamentare Schengen-Europol-Immigrazione (vd. Anticipazioni del “Dossier Statistico Immigrazione 2003” Caritas-Migrantes, disponibili su http://www.caritasroma.it/immigrazione/).

In realtà, il teatro di guerra è assai distante dal territorio comunitario e ne è separato da una “cintura” di paesi-cuscinetto, nonché da centinaia di miglia di mare, non sempre agevolmente navigabile in questa stagione e in cui, in queste settimane, incrociano numerose navi militari. Tuttavia, come si è detto, appare ormai strutturata una rete di traffici che lega non solo la Turchia, ma anche la Siria e il Libano, a Cipro, a Malta, alla Grecia e all’Italia. E’ plausibile, dunque, che le organizzazioni criminali operanti nella regione vedano la guerra come la loro “grande occasione” e che stiano attrezzandosi a questo fine. Non sarebbe la prima volta che un conflitto, generando una spinta migratoria straordinaria, consente ai soggetti criminali dediti allo smuggling di compiere un decisivo salto di qualità, in termini sia finanziari sia organizzativi.

Per evitare un simile, disastroso effetto collaterale, potrebbe essere utile creare “valvole di sfogo” a tale pressione migratoria straordinaria, mediante programmi di screening in loco e di successivo resettlement, sul modello dello Humanitarian Evacuation Programme realizzato congiuntamente da ACNUR e OIM, in Macedonia, tra aprile e giugno 1999.

Consapevole dell’importanza cruciale di questa modalità di intervento, la Commissione europea ha commissionato, nei mesi scorsi, due studi ad hoc:

i) uno sulla possibilità di sviluppare a livello europeo un sistema di off-shore asylum applications, del tipo di quello che gli Stati Uniti gestiscono nella Turchia orientale con l’ausilio dell’ACNUR;

ii) un altro riguardante la fattibilità di un programma europeo di resettlement di rifugiati o profughi riconosciuti, da paesi terzi verso il territorio dell’Unione.

Non disponiamo di informazioni aggiornate sullo stato di avanzamento di tali studi. In ogni caso, purtroppo, l'esplosione del conflitto vanifica tali tardivi sforzi di innovazione, paradossalmente proprio mentre ne dimostra l’enorme rilevanza.

L'emigrazione forzata e irregolare dall'Iraq e dai paesi circostanti è, d'altra parte, un terreno su cui questo décalage tra capacità di pianificazione e di intervento dell'Unione europea è particolarmente evidente. E' utile ricordare, a questo proposito, che proprio l'Iraq è stato il primo paese oggetto di un tentativo di pianificazione inter-pilastro in materia migratoria (Piano d'azione su "Afflusso di migranti provenienti dall'Iraq e dalle regioni limitrofe", approvato dal Consiglio affari generali del 26 gennaio 1998, doc. 5503/98). L'anno successivo, la stessa area è stata oggetto di uno dei sei piani d'azione del High Level Working Group su asilo e migrazioni (Consiglio UE, doc. 11425/99, del 30 settembre 1999). Purtroppo, questa intensa attività di pianificazione - non sorretta da una politica estera comune sufficientemente coerente, credibile e incisiva - non ha intaccato minimamente le cause profonde dell'anomala pressione migratoria nella regione.

Pur spaccata politicamente, l'Unione europea si trova oggi a dovere inevitabilmente fronteggiare i molteplici effetti collaterali dell'intervento armato, tra cui gli eventuali arrivi di massa ai suoi confini. Malgrado i ritardi descritti, alcuni strumenti nuovi esistono e occorrerà decidere se e come usarli. In primo luogo, si porrà il problema se attivare o meno una misura di protezione temporanea europea, ai sensi della direttiva 2001/55/CE del Consiglio, che attribuisce tale facoltà al Consiglio, il quale delibera a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione.

Le condizioni materiali affinché la protezione temporanea venga dichiarata sono definite elasticamente e potrebbero risultare soddisfatte nelle prossime settimane; è necessario infatti che si verifichi un "afflusso massiccio", definito come "l'arrivo nella Comunità di un numero

considerevole di sfollati [il testo italiano della direttiva utilizza questo termine, generalmente riferito a persone vittime di spostamenti forzati all'interno dei confini del paese di appartenenza; il termine 'profughi' sarebbe forse stato più appropriato], provenienti da un paese determinato o da una zona geografica determinata, sia che il loro arrivo avvenga spontaneamente o sia agevolato, per esempio mediante un programma di evacuazione".

Se una tale situazione dovesse prodursi, è auspicabile che il quadro europeo venga attivato (sebbene alcuni Stati membri, come l’Italia, non abbiano ancora completato il percorso di recepimento della direttiva), per evitare che gli Stati membri più esposti vengano abbandonati a se stessi, con il rischio che reagiscano ostacolando indebitamente i flussi.

E' essenziale sottolineare, però, che la protezione temporanea non è soltanto un quadro giuridico di riferimento. Essa deve necessariamente tradursi in uno sforzo congiunto di accoglienza e integrazione (ancorché temporanea). In base alle regole comunitarie, i profughi beneficiari hanno diritto a un alloggio adeguato, all'assistenza sanitaria, all'accesso al sistema educativo se minorenni; essi godono inoltre del diritto di "esercitare qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo". La protezione temporanea, dunque, ha un costo, non solo politico, ma anche organizzativo e finanziario. A tale proposito, la direttiva richiama espressamente la decisione istitutiva del Fondo europeo per i rifugiati-FER (2000/596/CE), che prevede anche la possibilità di finanziare misure di emergenza, con evidenti finalità di burden-sharing tra Stati membri (art. 6).

Purtroppo, le somme disponibili nel FER sono a tutt'oggi modeste e assolutamente inadeguate a fronteggiare un eventuale esodo massiccio e duraturo. Inoltre, quelle stesse risorse sono state recentemente oggetto di improprie e pericolose cupidigie: posti di fronte alla necessità - essenzialmente politica - di rendere operativo il piano europeo per i rimpatri recentemente approvato dal Consiglio (doc. 14673/02, 25 novembre 2002), gli Stati membri hanno ampiamente discusso della possibilità di dirottare a tal fine i fondi del FER. La politica dell'asilo dell'Unione europea soffre, insomma, di una drammatica carenza di risorse, che pregiudica a priori l'efficacia della reazione a qualsiasi eventuale emergenza.

Se però un afflusso straordinario dovesse effettivamente verificarsi e la protezione temporanea europea non venisse attivata, ciascun sistema di asilo nazionale reagirebbe in maniera autonoma, senza forme di coordinamento istituzionale preventivo.

Questa eventualità suscita preoccupazioni gravi, soprattutto con riferimento al possibile comportamento di paesi di frontiera, privi di una cultura radicata dell'accoglienza, come il nostro. Tali preoccupazioni sono purtroppo rese più acute da alcuni segnali recentissimi: dalle voci non smentite di piani di "quarantena" per profughi potenzialmente contaminati da bombardamenti chimici, alle improbabili informative del SISMI, fatte trapelare ai media, relative al rischio di infiltrazioni terroristiche tra i profughi. Segnali di questo tipo rischiano di produrre una inaccettabile distorsione preventiva dell'immagine delle vittime del conflitto, trasformate esse stesse in minaccia.

In questo clima, le dichiarazioni del ministro italiano per le riforme istituzionali ("…noi di profughi qui non ne vogliamo. Che se ne stiano a casa loro", La Repubblica, 20 marzo 2003) non esprimono solo brutale insensibilità, ma anche assoluta irresponsabilità istituzionale. Opinioni simili sono state espresse, nella stessa giornata, dal ministro leghista di Grazia e Giustizia, Roberto Castelli. In questo quadro, gli impegni (pieno rispetto della Convenzione di Ginevra; costituzione di un meccanismo di coordinamento con organizzazioni internazionali e non governative) assunti dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, in un incontro con il Rappresentante dell’ACNUR in Italia, Augustine Mahiga, sono indubbiamente importanti, ma rassicurano solo in parte (vd. Comunicato Stampa ACNUR, 20 marzo 2003).

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Piccola bibliografia di riferimento sui temi di questo bollettino

- Abdulkarim, A., 1998, Les Kurdes irakiens en Europe, nouveaux «Boat People», in Revue Européenne des Migrations Internationales, 1998 (14) 1, pp. 263-276.

- Berruti, D., Doru, E., Erle, E., Gianfelici, F., Khayati, Kh., 2002, Kurds in Europe. >From Asylum Right to Social Rights, final report of a research financed by the European Commission (DG Employment and Social Affairs).

- Doornbos, N., Kuijpers, A.M., Shalmashi, K., 2001, Refugees on their way to a safe country, paper sulle migrazioni di transito in Libano, Centre for Migration Law, Università di Nijmegen, www.jur.kun.nl/cmr.

- Elmas, H. B., 1998, L’intervention du facteur «immigration» dans les relations turco-européennes, in Revue Européenne des Migrations Internationales, 1998 (14) 3, pp. 77-101.

- Içduygu, A., 2003, Irregular Migration in Turkey, IOM Migration Research Series, International Organization for Migration, Ginevra, febbraio 2003, disponibile su www.iom.int.

- Kirisci, K., 2002a, UNHCR and Turkey: cooperating for improved implementation of the 1951 Convention relating to the status of refugees, in International Journal of Refugee Law, vol. 13, n. 1-2, pp. 71-97.

- Kirisci, K., 2002b, Immigration and Asylum Issues in EU-Turkish Relations: Assessing EU’s Impact on Turkish Policy and Practice, in S. Lavenex and E. Uçarer, a cura di, Externalities of Integration: the Wider Impact of the Developing EU Migration Regime, Lexington Books, Lanham-Boulder-New York-Oxford.

- Martin, P., Midgley, E., Teitelbaum, M., 2001, Migration and Development: Focus on Turkey, in International Migration Review, Vol. 35, n. 2 (estate 2001), pp. 596-605.

- Papadopoulou, A., 2002, Kurdish Asylum Seekers in Greece: the Role of Networks in the Migration Process, paper presented at the UNU/WIDER Conference on Poverty, International Migration and Asylum, 27-28 settembre 2002, Helsinki.

- Zucconi, M, 1999, The Kurdish Question and Migration in Turkey, Consiglio Italiano per le Scienze Sociali (CSS) – Centre for European Migration and Ethnic Studies (CEMES), Ethnobarometer Programme, Working Paper 4, maggio 1999.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il programma MIGRACTION è coordinato da Ferruccio Pastore (ferruccio.pastore@cespi.it) e Andrea Stocchiero (anstoc@edl.it).

Responsabile dell’osservatorio sulle migrazioni nei Balcani è Alessandro Rotta (alessandro.rotta@cespi.it).

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Bollettino a cura di Ferruccio Pastore; chiuso il 20 marzo 2003.