06 10 2003 - Edizione delle 15:00  
 

A P P R O F O N D I M E N T I
Memorie operative

Attività di contrasto allo sfruttamento
della manodopera clandestina - 1

Cenni sull'evoluzione delle norme in materia di stranieri. Normativa applicata. La configurabilità del reato di riduzione in schiavitù
 
Premessa
La presente memoria operativa si riferisce ad un'attività volta a contrastare lo sfruttamento di manodopera clandestina intrapresa autonomamente dal Comando Tenenza Gorgonzola e condotta nei mesi di febbraio e marzo 2002. Posti gli indirizzi programmatici delineati per l'anno 2002 dal Comando Generale del Corpo, l'ambito operativo di riferimento del servizio è da ricondursi alla vasta attività di ricerca ed individuazione degli evasori totali e paratotali e, in specie, del lavoro in nero: l'attività di contrasto all'economia c.d sommersa.
Secondo il Rapporto presentato il 25 ottobre 2001 dalla Commissione Politiche del lavoro e Politiche sociali del Consiglio Nazionale dell'Economia e del lavoro, per economia sommersa deve intendersi "l'insieme delle attività legali di cui la Pubblica Amministrazione non ha conoscenza per diverse ragioni: evasione fiscale e contributiva, elusione della normativa lavoristica o mancato rispetto di altre norme amministrative".
In particolare la definizione "sommerso da lavoro" descrive la totale assenza di un rapporto di lavoro formalizzato, ovvero una regolarità soltanto formale a fronte di un salario e condizioni di lavoro totalmente differenti da quelle contrattuali".
Lo stesso rapporto informativo, sviluppando l'analisi anche in riferimento alle diverse tipologie di occupazione, tra le quattro categorie di posizioni di lavoro non regolare ne individua una concernente le posizioni di stranieri non residenti ed, in particolare, lavoratori stranieri clandestini privi del permesso di soggiorno.
La possibilità di trovare lavoro, anche se retribuito a basso costo, costituisce un incentivo al fenomeno dell'immigrazione clandestina alimentando continuamente i flussi migratori a vantaggio, in primis, delle organizzazioni criminali che predispongono i mezzi necessari per "importare" in Italia manodopera a basso costo e non qualificata; in secundis, dei datori di lavoro che riescono a diminuire sensibilmente i costi della produzione guadagnando un illecito vantaggio competitivo sul mercato; in tertiis, per gli stessi dipendenti che percepiscono una paga che, ciò avviene frequentemente, destinano alle proprie famiglie nei paesi di provenienza trattenendone un minimo, c.d., "vitale".
Questa ricchezza che proviene dall'Italia non costituisce altro che un forte richiamo all'emigrazione "per motivi di lavoro", in clandestinità e con l'appoggio di connazionali giunti in Italia in precedenza e già stabilitisi. Tale fenomeno di emulazione ha provocato nel tempo una concentrazione di extracomunitari, regolari e non, radicatisi ormai in una determinata località e non ha mancato di riverberare degli effetti sul piano tanto sociologico (si può constatare la tendenza a "ghettizzare" le aree in cui vivono ed operano stante il timore della popolazione residente) quanto criminologico per il semplice fatto che un'immigrazione non controllata può costituire un fattore criminogeno da non sottovalutare.

RIFERIMENTI NORMATIVI(1)
Cenni sull'evoluzione delle norme in materia di stranieri
La prima legge che ha regolato compiutamente l'ingresso, il collocamento, il trattamento dei lavoratori extracomunitari e l'immigrazione clandestina è stata la legge 30 dicembre 1986 n. 943(2). Successivamente è intervenuta la legge 28 febbraio 1990 n. 39(3) (c.d. legge Martelli) che ha cercato di arginare l'ingresso in Italia degli stranieri mediante una normativa più completa e dettagliata.
L'inadeguatezza della citata legge di fronte ad un fenomeno immigratorio crescente ha indotto il legislatore, nel rispetto degli accordi internazionali, alla promulgazione della legge 26 marzo 1998 n. 40(4) che ha introdotto una disciplina organica del fenomeno con la previsione di nuove e, in alcuni casi, abbastanza severe ipotesi di reato.
A tal fine l'Articolo 47 della legge 6 marzo 1998, n. 40 ha così disposto:
Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo contenente il Testo Unico delle disposizioni concernenti gli stranieri, nel quale devono essere riunite e coordinate fra loro e con le norme della presente legge, con le modifiche a tal fine necessarie:
a) le disposizioni vigenti in materia di stranieri non incompatibili con le disposizioni della presente legge contenute nel Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773;
b) le disposizioni della legge 30 dicembre 1986, n. 943, e quelle dell'articolo 3, comma 13, della legge 8 agosto 1995, n. 335, compatibili con le disposizioni della presente legge.


Normativa applicata
In relazione al servizio di cui si fornisce memoria operativa i militari operanti hanno circoscritto la normativa di riferimento alle previsioni del D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. In particolare le condotte materiali riscontrate sono apparse sussumibili alla figura criminosa del favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, di cui all'art. 12 del D.l.vo n. 286/98, a norma del quale:
  1. salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie attività dirette a favorire l'ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente Testo Unico è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 15.493 euro;
  2. fermo restando quanto previsto dall'articolo 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato;
  3. se il fatto di cui al comma 1 è commesso a fine di lucro o da tre o più persone in concorso tra loro, ovvero riguarda l'ingresso di cinque o più persone, e nei casi in cui il fatto è commesso mediante l'utilizzazione di servizi di trasporto internazionale o di documenti contraffatti, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni e della multa di 15.493 euro per ogni straniero di cui è stato favorito l'ingresso in violazione del presente Testo Unico. Se il fatto è commesso al fine di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione, ovvero riguarda l'ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni e della multa di 25.822 euro per ogni straniero di cui è stato favorito l'ingresso in violazione del presente Testo Unico;
  4. nei casi previsti dai commi 1 e 3 è obbligatorio l'arresto in flagranza ed è disposta la confisca del mezzo di trasporto utilizzato per i medesimi reati, anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti. Nei medesimi casi si procede comunque con giudizio direttissimo, salvo che siano necessarie speciali indagini;
  5. fuori dei casi previsti dai commi precedenti, e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell'ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente Testo Unico, è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a 15.493 euro.

L'indagine condotta da questo Comando ha in seguito consentito di accertare solo le condotte incriminate dal quinto comma dell'art. 12 in quanto la fattispecie delittuosa commessa non era riconducibile:

  1. né alla previsione di cui al comma 1 "attività dirette a favorire l'ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato";
  2. né alla previsione che incrimina le attività dirette a favorire l'ingresso degli stranieri "se il fatto comma è commesso al fine di lucro o da tre o più persone in concorso tra loro, ovvero riguarda l'ingresso di cinque o più persone, e nel caso in cui il fatto è commesso mediante l'utilizzazione di servizi di trasporto internazionali o di documenti contraffatti".

Secondo le risultanze delle indagini, in riferimento ai responsabili, non si è trattato di soggetti dediti a favorire il superamento clandestino delle frontiere.
Per tale ragione, quindi, la fattispecie concreta è stata inquadrata in un momento logico e cronologicamente successivo all'ingresso illegale nello Stato quando cioè l'attività delle organizzazioni criminali che gestiscono il flusso illegale in entrata è ormai conclusa.
Rebus sic stantibus la presenza in un'impresa di un numero consistente di lavoratori extracomunitari "in nero", a condizioni gravose o discriminatorie di orario e di retribuzione, integra la previsione del comma quinto dello citato art. 12 cioè la condotta del "favorire la permanenza nel territorio dello Stato al fine di trarre un ingiusto profitto dalla situazione d'illegalità dello straniero".
Appare pacifico che la disponibilità di manodopera sottopagata e senza alcuna regolarizzazione contributiva e previdenziale, costituisca un fattore destabilizzante i principi della libera concorrenza in quanto, a fronte di costi particolarmente contenuti, essa garantisce al datore di lavoro un profitto illecito confortato anche dalla tacita accettazione del lavoratore irregolare che, privo di altri mezzi di sostentamento, vede nella sua soggezione l'unico modo per sopravvivere e garantirsi la permanenza in Italia.
Queste considerazioni trovano puntuale riscontro nei principi elaborati in materia dalla giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui il reato di favoreggiamento dell'illegale presenza di stranieri extracomunitari nel territorio dello Stato previsto dall'art. 12, comma 5 del T. u. approvato con D.l.vo 25 luglio 1998, n. 286, non è configurabile per il solo fatto dell'assunzione al lavoro di immigrati clandestini, occorrendo anche la finalità di "ingiusto profitto" riconoscibile soltanto quando si esuli dall'ambito di un normale svolgimento del rapporto sinallagmatico di prestazione d'opera, come ad esempio, nel caso di impiego dei clandestini in attività illecite o in quello dell'imposizione al loro carico di condizioni gravose o discriminatorie di orario e di retribuzione; condizione queste in assenza delle quali può soltanto configurarsi il reato contravvenzionale di cui all'art. 22, comma 10 del citato D.l.vo n. 286/98(5).
La presenza di questo rapporto sinallagmatico costituisce quindi importante discrimen da considerare quando, pur in presenza di una fattispecie di reato, occorre sceverare tra il delitto di cui al quinto comma dell'articolo 12, fin ora analizzato, e la contravvenzione prevista all'articolo 22, comma 10 a norma del quale "il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno o con l'ammenda da 1.032 euro a 3.098 euro".
La precisazione operata riverbera importanti effetti anche sul piano procedurale in quanto, data la profonda differenza sul piano del disvalore della condotta, il legislatore ha opportunamente distinto il carico sanzionatorio sia in termini qualitativi che quantitativi: solo nell'ipotesi sub articolo 12 comma 5 si potrà infatti procedere all'arresto facoltativo di cui all'articolo 381 (proprio perché la pena comminata è superiore, nel massimo, ai tre anni di reclusione)(6) mentre in riferimento all'articolo 22, comma 10, data la natura di contravvenzione, non è possibile adottare la citata misura pre-cautelare di natura personale(7).

Nel caso di specie la situazione apparsa ai militari all'atto dell'intervento era così drammatica da integrare, senza ombra di dubbio, il concetto di condizioni gravose o discriminatorie di orario e di retribuzione, elemento indefettibile per poter determinare l'assenza delle condizioni sinallagmatiche caratterizzanti il rapporto di lavoro: da qui l'integrazione del reato di cui all'articolo 12, quinto comma, del D.lgs. n. 286/1998.

La configurabilità del reato di riduzione in schiavitù (600 c.p.)
In riferimento alle condizioni gravose o discriminatorie di orario e di retribuzione in cui versavano i lavoratori clandestini si ritiene opportuno segnalare come tra la fattispecie de qua e l'altra, ben più grave, prevista dall'articolo 600 c.p., Riduzione in schiavitù(8), possa sorgere un concorso apparente di norme.
Tale figura tipica del diritto penale appare degna di considerazione, anche in sede operativa, in quanto può spesso verificarsi il confluire di più norme incriminatici nei confronti di un medesimo fatto e la necessità, anche ai fini procedurali, di individuare il nomen iuris del reato per cui procedere. Tale concorso di norme non è reale bensì solo apparente e quindi anziché configurarsi un concorso di incriminazioni, si ha unicità di reato, essendo una sola la norma veramente applicabile all'ipotesi di specie(9): bisogna perciò individuare i criteri (specialità, sussidiarietà, assorbimento(10)) che consentano rispettivamente di accertare la realtà o l'apparenza di un concorso di reati.
L'ordinamento positivo è ispirato in materia di concorso apparente di norme, al principio della specialità consacrato nell'art. 15 c.p. Questo principio postula che una determinata norma incriminatrice (speciale) presenti in sé tutti gli elementi costitutivi di un'altra (generale), oltre a quelli caratteristici della specializzazione; è necessario, cioè, che le due disposizioni appaiano come due cerchi concentrici, di diametro diverso, per cui quello più ampio contenga in sé quello minore, ed abbia, inoltre, un settore residuo, destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità(11).
Il principio di specialità, che risponde ad uno schema logico-formale di rapporto di genere a specie, non è utilizzabile per la risoluzione del conflitto tra le norme de quibus sia perché l'espressione "condizione analoga alla schiavitù", integrando un elemento normativo della fattispecie, non indica una situazione disciplinata in tassative previsioni legislative(12), sia perché lo stesso legislatore delegato ha esplicitamente previsto, come vedremo, il criterio della sussidiarietà come canone ermeneutico per la risoluzione del concorso apparente tra l'articolo 12 comma quinto del D.lgs. n. 286/1998 e l'articolo 600 c.p. E' rivolta alla realizzazione di quest'ultima fattispecie delittuosa l'attività diretta a favorire l'ingresso clandestino di mendicanti nel territorio nazionale.
La norma, infatti, mira a prevenire e reprimere la costituzione e/o il mantenimento di rapporti di padronanza, per effetto dei quali una persona venga a trovarsi sotto l'altrui illegittima potestà.
La condotta delittuosa implica, da un lato, una restrizione della libertà personale del soggetto passivo e, dall'altro, un più o meno ampio assoggettamento a servizio, non importa se gratuito o retribuito.
L'eventuale consenso del soggetto passivo, o di chi esercita su di lui la potestà, non può mai essere idoneo a legittimare il fatto(13).
Dal punto di vista operativo un ragionevole convincimento in capo ai militari circa la presenza di tali condizioni estreme avrebbe comportato la configurabilità, anziché del reato di cui al quinto comma dell'articolo 12 del D.lgs. n. 286/1998, del reato di riduzione in schiavitù.
Tale possibilità risulta anche suffragata, come anticipato, dall'incipit dello stesso quinto comma, dalla dizione "salvo che il fatto non costituisca più grave reato", clausola che individua una fattispecie sussidiaria(14), applicabile allorché il fatto non costituisca un reato più grave, nella specie la riduzione in schiavitù(15). In quest'ultimo caso:

  1. bisognerà procedere, in caso di flagranza, all'arresto obbligatorio a norma dell'articolo 380, comma 2, lettera d);
  2. si potrà procedere alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni in quanto il limite di ammissibilità imposto dall'articolo 266 c.p.p. (delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni) viene superato dai limiti edittali previsti dall'articolo 600 c.p. (reclusione da cinque a quindici anni).

NOTE:

1 Alla data di realizzazione della presente memoria è stata approvata, ma non ancora pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, la legge c.d. BOSSI-FINI

2 L. 30 dicembre 1986, n. 943 Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine. A proposito la fattispecie prevista dall'art. 12 comma 2 L. n. 943 del 1986, che puniva l'assunzione di lavoratori extracomunitari sprovvisti dell'autorizzazione al lavoro, è stata espressamente abrogata dall'art. 46 comma 1 lett. c) L. 6 marzo 1998 n. 40. Trattasi, nella specie, di "abolitio criminis" e non di successione di leggi penali, giacché la nuova previsione dettata dall'art. 20 comma 8 L. n. 40 del 1998, profondamente innovando la materia, punisce l'assunzione di stranieri non più in quanto questi siano privi della semplice autorizzazione al lavoro, ma perché privi del permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Cassazione penale sez. I, 24 marzo 2000, n. 4893. La condotta costituita dall'assunzione di lavoratori extracomunitari privi di autorizzazione al lavoro, prevista e sanzionata dall'abrogato art. 12 della legge 30 dicembre 1986 n. 943, non può essere considerata tuttora punibile ai sensi dell'art. 22, comma 10, del t.u. approvato con D.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, in cui si prevede come reato l'assunzione di lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro. Tale ultima previsione si caratterizza, infatti, rispetto a quella precedente, non solo per il mutamento di struttura del fatto tipico, del procedimento autorizzatorio e dell'organo cui spetta il rilascio del "permesso" (questore e non più ufficio del lavoro e della massima occupazione), ma anche per la diversa prospettiva in cui la condotta punibile viene a collocarsi, avendosi di mira non più soltanto la tutela delle condizioni del lavoratore, ma anche l'obiettivo di impedire l'occupazione di cittadini extracomunitari ai di fuori dei flussi programmati di ingresso previsti dall'art. 21 del medesimo t.u. Cassazione penale sez. I, 3 aprile 2000, n. 2429.

3 L. 28 febbraio 1990, n. 39 Conversione in legge, con modificazioni del D.L. 30 dicembre 1989, n. 416, recante norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato. Disposizioni in materia di asilo.

4 L. 6 marzo 1998, n. 40 Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

5 Cass. Pen., Sez. I, 25.10.2000, n. 4700.

6 Nel giudizio di convalida dell'arresto facoltativo, la valutazione del giudice relativa alla legalità del provvedimento adottato dall'autorità di polizia, non può essere limitata al riscontro dell'osservanza delle condizioni formali dell'arresto (esistenza della flagranza, titolo del reato, osservanza dei termini), ma deve essere estesa al controllo della sussistenza delle condizioni di legittimità indicate dal comma 4 dell'art. 381 c.p.p. (gravità del fatto o pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità e dalle circostanze del fatto). A tale ultimo proposito, ancorché la citata disposizione non imponga alla polizia giudiziaria il dovere di indicare ex professo le ragioni poste a fondamento della propria scelta, tuttavia dal contesto descrittivo che precede o segue la coercizione personale, ovvero da atti ad essa complementari, devono risultare le ragioni che hanno determinato l'arresto, così da porre l'autorità giudiziaria - che non può sostituirsi alla polizia nell'onere motivazionale - in condizione di verificare l'osservanza dei parametri di fatto e di diritto legittimanti il provvedimento adottato. Cassazione penale sez. VI, 21 dicembre 1995, n. 4749. Si segnala anche Cassazione penale sez. VI, 29 ottobre 1993 per cui in tema di arresto facoltativo in flagranza non si richiede, per la legittimità dell'arresto, la presenza congiunta di entrambi i parametri della gravità del fatto e della pericolosità dell'agente desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto, essendo sufficiente - come appare dalla formulazione disgiuntiva della norma - la presenza di uno solo di essi.

7 Risulta evidente come, nel silenzio della norma, l'arresto per la condotta incriminata dal quinto comma sia facoltativo in quanto l'obbligatorietà della misura è contemplata dal quarto comma solo nei casi previsti dai commi 1 e 3.

8 L'articolo dispone che "Chiunque riduce una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni".

9 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale parte generale, pag. 629.

10 Tra questi criteri solo quello do specialità trova esplicito riconoscimento nel codice penale all'articolo 15 mentre gli altri due costituiscono un'elaborazione dottrinale.

11 Cassazione penale sez. VI, 12 gennaio 1993.

12 Diversamente la statuizione sarebbe "inutiliter data". La nozione indica quindi una situazione di fatto, parificabile al parametro legale di schiavitù, indicata nella convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, resa esecutiva in Italia con r.d. 26 aprile 1928, n. 1723 come lo "stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o di uno di essi"; situazione che la mutevole realtà può presentare con connotati volta a volta diversi ma fondamentalmente identici nell'ambito dei rapporti interpersonali, nei quali un individuo ha un potere pieno e incontrollato su un altro, assoggettato appunto al suo dominio Cassazione penale sez. III, 7 settembre 1999, ord. n. 2793. La nozione di condizione analoga alla schiavitù di cui agli art. 600 e 602 c.p. non si esaurisce con le descrizioni contenute nelle convenzioni di Ginevra del 1926 e del 1956, sussistendo tutte le volte in cui sia dato verificare l'esplicazione di una condotta alla quale sia ricollegabile l'effetto del totale asservimento di una persona al soggetto responsabile della condotta stessa. Tale totale asservimento equivale alla condizione di un individuo che venga a trovarsi (pur conservando nominalmente lo "status" di soggetto nell'ordinamento giuridico) ridotto nell'esclusiva signoria dell'agente, il quale materialmente ne usi, ne tragga profitto e ne disponga. Cassazione penale sez. III, 19/05/1998, n. 7929.

13 Nella fattispecie gli imputati avevano acquisito la padronanza su dei minori, li avevano tenuti in stato di soggezione, li avevano costretti a mendicare per loro ogni giorno con abiti laceri e strappati; a consegnare loro il denaro incassato; a sottostare a precise regole di comportamento in un clima di minaccia e violenza, da cui le vittime non potevano sottrarsi per timore verso gli sfruttatori e perché consapevoli di essere privi di mezzi di sostentamento alternativi, essendo clandestini in un Paese straniero Uff. Indagini preliminari Milano, 8 marzo 1999.

14 "Tradizionalmente annoverato tra i criteri più consolidati di risoluzione del conflitto apparente di norme il principio di sussidiarietà intercorrerebbe tra norme che prevedono stadi o gradi di offesa di un medesimo bene giuridico in modo che l'offesa maggiore assorba la minore e, di conseguenza, l'applicabilità di una norma sia subordinata alla non applicazione dell'altra". FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale, parte generale, 619.

15 Per completezza si segnala che il reato di violenza o minaccia di cui all'art. 611 c.p. "Violenza o minaccia per costringere a commettere reato", commesso in danno di persona trovantesi in condizione analoga alla schiavitù e indotta alla perpetrazione di reati, concorre con i reati di riduzione in schiavitù e di alienazione ed acquisto di schiavi, di cui agli art. 600 e 602 c.p. Cassazione penale, sez. V, 7 dicembre 1989.




Documento elaborato a cura del Comando Regionale Lombardia della Guardia di Finanza