Matteo Piantedosi

 

LIBERTA’ FONDAMENTALI, MISURE DI POLIZIA E SISTEMA SANZIONATORIO NELLA LEGISLAZIONE SULL’IMMIGRAZIONE.

 

 

1. I principi costituzionali nella materia dell’immigrazione. 1

2. L’evoluzione storica della disciplina dell’immigrazione tra misure di polizia ed ispirazioni solidaristiche. 3

3. L'espulsione dello straniero tra le esigenze di legalita' e di sicurezza e il rispetto dei principi di inviolabilita' della liberta' personale e di garanzia della difesa: 8

A) Il quadro normativo delle espulsioni amministrative conseguente anche alla pronunce della Corte 8

B) Diritti fondamentali ed interessi dello stato: la difficile definizione di un punto di equilibrio 13

4. L'inosservanza dell'ordine del questore di lasciare il territorio dello stato e l'arresto obbligatorio dell'autore: 24

A) Il giudizio della Corte Costituzionale. 24

B) L’intervento successivo del legislatore. 27

C) Una nuova censura di illegittimità costituzionale all’orizzonte? 28

 

1. I principi costituzionali nella materia dell’immigrazione.

 

Con la definitiva conversione nella legge 12 novembre 2004, n. 271, del decreto legge 14 settembre 2004, n. 241, termina -  almeno per il momento - un lungo e articolato susseguirsi di interventi legislativi e giurisprudenziali sulla complessa problematica concernente la disciplina dell'immigrazione e la condizione dello straniero.

Le vicende principali di tale percorso, e del confronto tra le divergenti posizioni in campo, si sono sviluppate ed hanno riguardato le due direttrici naturali su cui non può che indirizzarsi una normativa organica sulla materia dell'immigrazione: da una parte, quella della necessità di garantire ai cittadini stranieri i diritti fondamentali della persona umana, nonché ogni possibile equiparazione ai cittadini italiani in tutti quegli ambiti che richiedono l'espressione di un ordinamento improntato a principi solidaristici. Dall'altra, quella di costituire i presupposti giuridici necessari per assicurare un controllo costante delle frontiere nazionali e del sistema di ingresso e soggiorno sul territorio nazionale, per irrinunziabili esigenze di vigilanza sulla composizione sociale e, particolarmente, di garanzia delle correlate esigenze di ordine pubblico e sicurezza.

E' soprattutto, quindi, dall’intreccio e dal contemperamento di questi due versanti di interesse – facenti capo a ben precisi e distinti principi dettati e salvaguardati dalla Costituzione – che è scaturito un serrato confronto tra il legislatore e la Corte Costituzionale. Il tutto, in una crescente dialettica finalizzata a trovare un punto di equilibrio tra la necessità di garantire ai cittadini stranieri pari dignità umana e sociale e, nel contempo, assicurare che da un indiscriminato ed incontrollato afflusso di questi sul territorio nazionale non ne derivino compromissioni per l'ordine pubblico e la sicurezza, di cui soffrirebbero anche gli stessi cittadini stranieri regolarmente soggiornanti.

Va evidenziato, del resto, che – mentre i principi riguardanti i diritti inviolabili della persona, di libertà e di pari dignità, sono presenti nella Carta Costituzionale sin dalla sua formulazione originaria – la recente riforma del Testo della Costituzione (conseguente all'approvazione della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) sembra aver costituzionalizzato anche le esigenze di regolamentazione dell'immigrazione anche a fini di tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza.

Ciò sembra desumersi, in primo luogo, dal fatto che entrambe le materie sono state (per la prima volta espressamente) enunciate tra quelle per le quali deve esplicarsi la competenza legislativa esclusiva dello Stato, con ciò adeguando il testo della Costituzione ad una incontrovertibile evoluzione del fenomeno immigratorio e delle conseguenti problematiche sociali [1].

Inoltre, la citata, recente riforma costituzionale, ha associato entrambi i predetti ambiti di materie (ordine pubblico e sicurezza, da un parte e, immigrazione, dall'altra) nella previsione di una necessità di una disciplina delle necessarie forme di coordinamento tra le funzioni statali e regionali su tali materie[2]: ciò nella consapevolezza della trasversalità dei due ambiti di materie rispetto a funzioni amministrative sia dello Stato che delle Regioni.

Prima di analizzare più da vicino i passaggi più recenti ed importanti su cui si è sviluppato, nei tempi più recenti, tale confronto, è opportuno un sintetico e preliminare excursus storico sulla materia dal punto di vista normativo.

 

2. L’evoluzione storica della disciplina dell’immigrazione tra misure di polizia ed ispirazioni solidaristiche.

 

La disciplina della condizione giuridica dello straniero e sulla regolamentazione dell'ingresso e soggiorno di questi sul territorio nazionale ha subito, negli anni, un'evoluzione sicuramente condizionata dalle dimensioni che il fenomeno immigratorio ha assunto nelle varie fasi storiche. Sino agli anni '90, infatti, la prevalente normativa di riferimento era rimasta quella del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R.D. 18 giugno 1931 n. 773, nonché quella del relativo Regolamento di esecuzione approvato con R.D. 6 maggio 1940 n. 635.

L'epoca ormai remota in cui tali normative furono approvate, la collocazione sistematica della normativa stessa all'interno di un Testo unico riguardante le leggi di pubblica sicurezza e, infine, la limitata articolazione della normativa medesima (n. 11 articoli del Testo unico ed altrettanti del Regolamento di esecuzione), lasciano chiaramente intendere il modo in cui il fenomeno immigratorio sia stato percepito e regolamentato per molti anni, fino ad un tempo abbastanza recente[3].

La possibilità della presenza dello straniero sul territorio nazionale, infatti, è stata a lungo intesa come una limitata eventualità, e gli aspetti di criticità che da essa potevano derivare implicavano esclusivamente problematiche di difesa interna del territorio, di sicurezza interna, tali da comportare una esclusiva competenza in materia dell'autorità di pubblica sicurezza.

In questo quadro, la normativa del Testo unico e del relativo Regolamento di esecuzione si curava esclusivamente di prevedere le modalità di autorizzazione del soggiorno degli stranieri e di sanzionare con il meccanismo delle espulsioni e del respingimento di ingressi irregolari, non disponendo alcunché – riguardo alla tutela dei diritti ed alla disciplina dei doveri degli stranieri.

Il primo tentativo del legislatore di disciplinare in maniera più organica l'immigrazione e la condizione giuridica dello straniero avviene con il D.L. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito nella Legge 28 febbraio 1990, n. 39.

Tale testo normativo risentiva sicuramente di una prima presa di coscienza del fenomeno come problema non più di marginale interesse, ma come tematica che avrebbe, negli anni a venire, interessato sempre maggiormente la collettività.

Sulla base di tali presupposti, la Legge n. 39/1990 si distingue sicuramente per un evidente tentativo di riconsiderare il fenomeno immigratorio come fenomeno di ristrutturazione sociale, piuttosto che esclusivamente un problema di pubblica sicurezza.

L'articolo 1 di tale legge, inoltre, - tuttora in vigore nella versione modificata ed integrata dalla recente Legge 30 luglio 2002 n. 189 – contiene la disciplina basilare della materia riguardante lo status di rifugiato, in precedenza inesistente nella legislazione nazionale.

E' solo, tuttavia, con la Legge 6 marzo 1998, n. 40, successivamente in gran parte recepita ed integrata nel d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) che l'immigrazione assume le caratteristiche di vera e propria materia, con una propria articolazione organica che, riguardando gli aspetti complessivi della presenza dello straniero sul territorio nazionale, si pone in termini di trasversalità ad altri più specifici ambiti normativi.

Il quadro normativo così formatosi, anche a seguito dell'approvazione del relativo Regolamento di attuazione con D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, e con le successive modificazioni ed integrazioni apportate dalla Legge 30 luglio 2002, n. 189, segna il concreto passaggio ad una disciplina organica della materia, all'individuazione di un vero e proprio statuto dei diritti e dei doveri dei cittadini stranieri extracomunitari anche a prescindere dalle pur persistenti implicazioni di sicurezza pubblica.

La normativa attuale del citato Testo unico sembra snodarsi sulla duplice direttrice della previsione di una serie di disposizioni ispirate ai principi umanitari, egualitari e solidaristici, da una parte, e da esigenze controllo della legalità e di tutela della sicurezza, dall'altra.

Nella parte iniziale (art. 2) vengono preliminarmente enunciati i diritti fondamentali riconosciuti allo straniero, principalmente in adesione al diritto interno ed al diritto internazionale: essi sono i diritti fondamentali della persona umana, i diritti in materia civile ed in materia di lavoro, il diritto alla partecipazione alla vita pubblica locale e la totale parità di accesso alla tutela giurisdizionale ed ai servizi della pubblica amministrazione.

Le successive disposizioni dell'articolo 3, inoltre, sembrano ispirare il complesso sistema di determinazione delle politiche migratorie dello Stato ad un fondamentale riconoscimento dell'elevato, ormai imprescindibile, valore del fattore immigrazione per la tenuta e lo sviluppo del sistema economico nazionale.

In tal senso può essere letta, infatti, la ragione della previsione di un articolato sistema di programmazione della politica dell'immigrazione (peraltro, non ancora compiutamente decollato) che si fonda sulla necessità di individuare periodicamente le quote dei cittadini stranieri da immettere sul territorio nazionale per le esigenze del mercato del lavoro.

Ma la più diretta ed evidente espressione dell'ispirazione solidaristica a cui si attiene la legislazione sull'immigrazione è contenuta nella previsione della casistica dei divieti di espulsione e di respingimento di cui all'art. 19 del d. lgs. n. 286/1998.

Al primo comma di tale articolo viene, infatti, stabilito il divieto di espulsione o respingimento dello straniero verso uno Stato in cui egli possa essere oggetto di persecuzione per vari motivi di discriminazione, in piena coerenza con il principio di cui all'art. 10, comma 3°, della Costituzione.

Al comma 2° viene sancita l'impossibilità di disporre l'espulsione nei confronti degli stranieri minorenni, degli stranieri conviventi con coniuge o parenti italiani e delle donne in stato di gravidanza o puerperio.

Per converso, nell'impianto complessivo della normativa sono stati mantenuti ampi riferimenti alle esigenze di tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza – e, più in generale, della legalità in termini di prevenzione – a partire dal permanere delle relative funzioni amministrative in capo alla autorità di pubblica sicurezza, ivi comprese quelle relative all'autorizzazione al soggiorno sul territorio nazionale.

Le espressioni più immediate di tali esigenze sono: il divieto di ingresso delle persone che siano considerate una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, o che risultino condannati per alcuni reati di particolare gravità o tipici della sfera d’azione della criminalità transnazionale (stupefacenti, prostituzione e favoreggiamento dell' immigrazione clandestina)[4]; la necessaria sottoposizione a rilievi fotodattiloscopici dello straniero che richiede il permesso di soggiorno[5]; il sistema sanzionatorio penale contro l'organizzazione ed il favoreggiamento dell'immigrazione illegale[6], ma, più evidentemente, il complessivo ed articolato sistema di espulsione dei cittadini stranieri[7], in particolar modo quello riguardante l'espulsione amministrativa, ove in maniera più netta emergono le esigenze di tutela della legalità.

 

3. L'espulsione dello straniero tra le esigenze di legalita' e di sicurezza e il rispetto dei principi di inviolabilita' della liberta' personale e di garanzia della difesa:

A) Il quadro normativo delle espulsioni amministrative conseguente anche alla pronunce della Corte

 

Il primo intervento della Corte Costituzionale sul meccanismo normativo relativo all'espulsione del cittadino straniero è avvenuto con la sentenza 10 aprile 2001 n. 105[8].

Nell'occasione fu sottoposta al vaglio della Corte la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 13, comma 2° e 3°, della Costituzione, dell'art. 13, commi 4°, 5° e 6°, e dell'art. 14, commi 4° e 5°, del d. lgs. n. 286/1998, nella formulazione di tali articoli di legge vigente all'epoca della pronuncia della Consulta[9].

In sintesi, in tale circostanza è stato sottoposto al giudizio della Corte il problema della compatibilità con il principio della riserva di giurisdizione - stabilito dall'art. 13, comma 2° e 3°, della Costituzione – del meccanismo dell'esecuzione dei provvedimenti di espulsione amministrativa mediante accompagnamento coattivo alla frontiera[10].

La Corte Costituzionale, con la sentenza in rassegna, pur attraverso un pronunciamento interpretativo di rigetto[11], ha per la prima volta affermato, tra l'altro, che:

a)              non solo il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza ex art. 14 del d. lgs. n. 286/1998, ma anche l'accompagnamento coattivo alla frontiera con la forza pubblica è misura che incide sulla libertà personale e, pertanto, beneficia delle garanzie di cui al comma 3° dell’articolo 13 della Costituzione. Secondo la Corte, infatti, «l'accompagnamento inerisce alla materia regolata dall'articolo 13 della Costituzione, in quanto presenta quel carattere di immediata coercizione che qualifica, per costante giurisprudenza costituzionale, le restrizioni della libertà personale e che vale a differenziarle dalle misure incidenti solo sulla libertà di circolazione»;

b)              pertanto, il controllo effettuato dal giudice in sede di convalida della misura del trattenimento presso il centro di permanenza temporanea è un «controllo giurisdizionale pieno, e non un riscontro meramente esteriore, quale si avrebbe se il giudice della convalida potesse limitarsi ad accettare l'esistenza di un provvedimento di espulsione purchèssia». Tale controllo, pertanto, «non può fermarsi ai margini del provvedimento di espulsione ma deve investire i motivi che hanno indotto l'amministrazione procedente a disporre quella peculiare modalità esecutiva dell'espulsione – l'accompagnamento alla frontiera – che è causa immediata della limitazione della libertà personale dello straniero e insieme fondamento della successiva misure del trattenimento»;

c)              pertanto, «non può dubitarsi che, nell'ipotesi in cui il giudice ritenga insussistenti o non congruamente motivate le ragioni per le quali l'autorità di polizia non si sia limitata ad adottare un provvedimento di espulsione con intimazione, ma abbia disposto l'esecuzione dell'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, il diniego di convalida travolgerebbe, insieme al trattenimento, anche la misura dell'accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica».

Pur avendo, nell'occasione, come detto, la Corte scelto la formula della sentenza interpretativa di rigetto e, per ragioni di rilevanza della questione sottopostale, evitato un pronunciamento diretto sulla disposizione normativa riguardante l'accompagnamento coattivo alla frontiera[12], era chiaro che veniva adombrata l'illegittimità costituzionale dell'accompagnamento stesso in quanto non sottoposto alla riserva di giurisdizione di cui all'art. 13, 3 comma, della Costituzione.

Pertanto il legislatore, per ovviare a future pronunce più dirette, con il Decreto Legge 4 aprile 2002, n. 51, convertito dalla Legge 7 gennaio 2002, n. 106, modificava l'art. 13 del d. lgs. n. 286/1998 inserendo il comma 5 bis: con esso si è attribuito all'autorità giudiziaria[13] il potere di convalida del provvedimento che dispone l'accompagnamento alla frontiera, ma si è disposto che il medesimo provvedimento sia immediatamente esecutivo.

In tale contesto, sono subentrate le modifiche disposte dalla legge 30 luglio 2002, n. 189: permanendo le caratteristiche di intangibilità dell'immediata esecutività delle misure dell’accompagnamento in frontiera anche in pendenza di un procedimento di convalida dinanzi all'autorità giudiziaria, è stato sancito il principio generale dell'immediata esecutività anche del decreto di espulsione.

Infatti, mentre nella precedente formulazione dell'articolo 13 del d. lgs. n. 286/1998 il metodo ordinario di esecuzione dell'espulsione era rappresentato dall'intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro 15 giorni[14], il disposto dell'articolo 13, comma 3°, attualmente afferma che l'espulsione amministrativa [15] «è disposta in ogni caso con decreto motivato immediatamente esecutivo, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell'interessato».

Inoltre, con la nuova formulazione del comma 4° dell'art. 13 del d. lgs. n. 286/1998 è stato stabilito che l'accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica costituisce la modalità ordinaria di esecuzione delle espulsioni amministrative da parte del Questore, ad eccezione di una limitata casistica riguardante gli stranieri trattenutisi sul territorio dello Stato con permesso di soggiorno scaduto di validità da più di sessanta giorni e non più rinnovabile, per i soli quali continua ad avere vigenza la regola dell'intimazione a lasciare il territorio nazionale[16].

Su tale contesto normativo si è recentemente abbattuta la scure della Corte Costituzionale che, con la sentenza 15 luglio 2004 n. 222, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 13, comma 5 bis, del d. lgs. n. 286/1998 - per contrarietà ai principi sanciti dagli articoli 13, comma 3°, 24, comma 2°, e 111, comma 2°, della Costituzione – nella parte in cui non prevede che il giudizio di convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera debba svolgersi in contraddittorio prima dell'esecuzione del medesimo, con le garanzie della difesa.

La Corte, in tale circostanza, riprendendo il percorso logico avviato con la precedente, citata sentenza n. 105 del 2001, ha affermato che:

a)  l'accompagnamento alla frontiera a mezzo di forza pubblica investe la libertà personale e, pertanto, è misura che deve essere assistita dalle garanzie previste dall'articolo 13, comma 3°, della Costituzione al pari di quella relativa al trattenimento ed anche allorquando viene disposta come autonoma misura non legata a quest'ultimo;

b)  il procedimento di cui all'articolo 13, comma 5 bis, del d.lgs. n.286/1998, prevedendo l'esecuzione dell' accompagnamento alla frontiera prima della convalida da parte dell'autorità giudiziaria, vanifica la garanzia contenuta nel comma 3° dell'articolo 13 della Costituzione, e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell'autorità giudiziaria nei termini di legge, non risultando più possibile ripristinare la situazione di fatto preesistente al provvedimento dell'autorità di polizia;

c)  il procedimento di convalida, così come previsto dall'art. 13, comma 5 bis, del d.lgs. n. 286/1998, viola anche «il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo insopprimibile» (art. 24, comma 2°, e 111, comma 2°, Cost.) non prevedendo la possibilità per questi di essere ascoltato dal giudice, con l'assistenza di un difensore.

 

Per ovviare alla dichiarazione di illegittimità costituzionale sancita dalla Corte, il legislatore è intervenuto con la legge 12 novembre 2004, n. 271, che ha convertito il decreto legge 14 settembre 2004, n. 241.

La modifica normativa – nell'ambito di un testo contenente una più complessiva modifica alla disciplina giuridica dell'immigrazione – ha interessato il comma 5 bis dell'art. 13 del d. lgs. n. 286/1998, prima di tutto nel senso che è stata attribuita al giudice di pace territorialmente competente la decisione sulla convalida dell'accompagnamento alla frontiera [17]. Ma, soprattutto, ottemperando specificatamente ai dettami della Corte, è ora disposto che l'«esecuzione del provvedimento del Questore di allontanamento dal territorio nazionale è sospesa fino alla decisione sulla convalida»[18].

Inoltre, all'udienza di convalida, in camera di consiglio, è prevista la partecipazione necessaria di un difensore dell'espulso che deve essere tempestivamente avvertito.

Sempre per ovviare a quei difetti di garanzia della difesa rilevati dalla Corte, viene disposto che «l'interessato è anch'esso tempestivamente informato e condotto nel luogo in cui il giudice tiene l'udienza» [19].

La convalida del giudice di pace deve avvenire entro le quarantotto ore successive e, in attesa della definizione del relativo procedimento, lo straniero espulso può essere trattenuto in uno dei centri di cui all'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998.

E' a questo proposito, infine, che l'intervento del legislatore ha prodotto una ulteriore, sensibile novità: per le esigenze di celerità nella definizione del procedimento di espulsione e della relativa esecuzione – che pure avevano ispirato il legislatore a prevedere quell'immediata esecutività censurata dalla Corte – è ora prevista la possibilità che la convalida possa essere definita «nel luogo in cui è stato adottato il provvedimento di allontanamento anche prima del trasferimento in uno dei centri disponibili» [20].

In buona sostanza l'aspirazione ad una tempestiva definizione di tutti gli adempimenti, amministrativi e giurisdizionali, necessari per portare all'esecuzione l'espulsione vengono soddisfatti fino al punto di prevedere che il procedimento di convalida dell'autorità giudiziaria possa avvenire negli stessi locali messi a disposizione dall'autorità amministrativa che provvede all'accompagnamento in frontiera, con una commistione logistica[21] che, è stata già da alcuni operatori interpretata come un fattore di persistenza dell’attenuazione della riserva di giurisdizione imposta dall'art. 13, comma 2°, della Costituzione.

 

 

B) Diritti fondamentali ed interessi dello stato: la difficile definizione di un punto di equilibrio

 

Il susseguirsi delle vicende sopra riassunte ed il quadro normativo  che ne è conseguito, in materia di disciplina delle espulsioni amministrative e di esecuzione delle medesime, offrono spunti di riflessione su alcuni temi che, probabilmente, non mancheranno di emergere nel dibattito a venire sulle delicate questioni connesse alla disciplina giuridica del fenomeno dell'immigrazione.

In primo luogo, il dato di maggiore evidenza è che la più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale abbia ormai affermato il principio che, non solo la misura del trattenimento del cittadino straniero in attesa di espulsione presso uno dei centri di cui all'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998, ma anche la misura di esecuzione dell'espulsione mediante accompagnamento coattivo alla frontiera costituisce ed implica una restrizione della libertà personale, per la quale opera la necessità di controllo giurisdizionale di cui all'art. 13, comma 3°, della Costituzione.

Tale affermazione – esplicitamente contenuta sia nella sentenza 10 aprile 2001, n. 105, e ribadita nella più recente sentenza 15 luglio 2004, n. 222 – parte dal presupposto, anch'esso consolidato nella giurisprudenza della Corte, che debbano ritenersi caratterizzati dalla natura giuridica di restrizione alla libertà personale, e, pertanto, assoggettati alla suddetta riserva di giurisdizione, tutti quei provvedimenti della pubblica amministrazione di tipo coercitivo.

Tali provvedimenti si caratterizzano per la particolarità del fatto che la relativa esecuzione viene fisicamente imposta al destinatario incidendo in modo diretto sulla sua persona (principio dell’”habeas corpus”).

Da tale categoria di atti, peraltro, vanno differenziati quelli avente natura meramente obbligatoria: quelli cioè che, pur imponendo comportamenti commissivi od omissivi al destinatario in maniera particolarmente prescrittiva – tale, cioè, da poter far configurare una limitazione in astratto della possibilità di esercitare anche libertà garantite dalla Costituzione – si caratterizzano per la circostanza che a fronte dell'eventuale inosservanza degli stessi viene normativamente prevista esclusivamente una sanzione a carico del destinatario inosservante[22].

Sulla base di tali premesse, l'assimilazione della misura dell'accompagnamento in frontiera alla più ampia gamma dei provvedimenti restrittivi della libertà personale non può che apparire condivisibile.

Non può non sfuggire, infatti, come attraverso l'esecuzione con accompagnamento coattivo, il cittadino straniero venga materialmente e fisicamente privato della piena capacità di disporre liberamente della propria persona.

A nulla  sembra rilevare, in proposito, una qualsiasi eccezione – pure da alcuni avanzata – fondata sulla considerazione della particolare finalizzazione della misura amministrativa in argomento, riguardante gli interessi dello Stato - altrettanto meritevoli ed in più punti tutelati dalla Costituzione - ad un efficace controllo dell'ingresso e del soggiorno sul territorio nazionale, a cui si collegano, peraltro, consistenti esigenze di tutela dell'ordine pubblico, della sicurezza e dell'incolumità dei cittadini.

Come efficacemente sostenuto dalla Corte nella citata sentenza n. 105/2001 non può sostenersi, infatti, «che le garanzie dell'articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell'immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi immigratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani»[23].

Al riguardo, va tuttavia evidenziato che la Corte Costituzionale non sempre ha espresso affermazioni di così estremo ed assoluto rigore relativamente al concetto di inviolabilità della libertà personale e di necessario assoggettamento alla riserva di giurisdizione di cui all'art. 13, comma 3°, della Costituzione, riguardo a misure amministrative comportanti, in qualche modo, una effettiva coercizione, e non una mera sanzione, per i destinatari.

Proprio riguardo ad un'altra ipotesi di accompagnamento coattivo disposto dall'Autorità di Pubblica Sicurezza, la Corte ebbe a pronunziarsi con affermazioni ispirate a tesi sostanzialmente opposte a quelle più recenti[24]: ciò avvenne riguardo alla disciplina dell'accompagnamento coattivo disposto dall'autorità di pubblica sicurezza a norma dell'art. 15, comma 2°, del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza che, come è noto, prevede la possibilità che venga disposto l'accompagnamento per mezzo della forza pubblica della persona invitata a comparire e non presentatasi nel termine prescritto dinanzi all'autorità di pubblica sicurezza stessa.

Nell’occasione, la Corte ha ritenuto tale potere legittimo allorquando sussistano effettive «ragioni che rendano necessaria ed urgente la comparizione dell'invitato», e questi vi si sia sottratto senza giustificato motivo.

Così delineato, l'accompagnamento coattivo ex art. 15 del T.u.l.p.s. si configura come strumento indispensabile dell'autorità amministrativa per svolgere efficacemente le proprie funzioni, alcune delle quali verrebbero vanificate dall'eventuale indisponibilità del potere stesso.

Ma l'aspetto più interessante di tale pronuncia è che, nell'occasione, la Corte non ha mancato di ricondurre preliminarmente la misura in argomento tra quelle che, per la particolare efficacia coercitiva, debbano essere ricondotte nell'ambito di quelle previste dall'art. 13, comma 3°, della Costituzione.

Essa, pertanto,è misura incidente sulla libertà personale, ma è conforme al dettato costituzionale in quanto fornita delle condizioni richieste per legittimare un intervento della pubblica amministrazione limitativo della libertà personale: tali condizioni consistono, appunto, nella adeguata specificità della fattispecie e nelle condizioni di necessità e urgenza che sono necessariamente sottese all'attivazione di tale misura.

Ciononostante, l'ulteriore aspetto più sorprendente – o interessante, a seconda dei punti di vista – di tale sentenza della Corte Costituzionale consiste nella circostanza che, dopo tale premessa, la Corte ha ritenuto che il giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15 del T.u.l.p.s. non fosse inficiato neanche dalla particolarità che in esso non è prevista alcuna procedura di convalida del provvedimento di polizia da parte dell'autorità giudiziaria, secondo quanto imposto dall'art. 13, comma 3°, della Costituzione.

Infatti, «tale procedura è necessaria solo quando si tratti di provvedimenti che danno luogo a restrizione duratura della libertà e, nel caso dell'accompagnamento coattivo, detta condizione non ricorre trattandosi di provvedimento che incide in modo del tutto temporaneo sulla libertà personale».

Inoltre, «in ogni caso l'interessato, sia pure a posteriori, potrà sempre provocare, coi normali rimedi giurisdizionali, una verifica, da parte dell'Autorità giudiziaria, della legittimità del provvedimento adottato dall'autorità di p.s: ed in ciò risiede la garanzia contro ogni abuso del potere a questa conferito».

In buona sostanza, a differenza di quanto successivamente affermato riguardo all'accompagnamento in frontiera dello straniero espulso, la Corte Costituzionale ebbe a ritenere che la sufficiente tassatività della fattispecie, la sussistenza dei requisiti di necessità ed urgenza, il particolare bilanciamento degli interessi in gioco, nonché la circostanza che, comunque, al destinatario della misura amministrativa di tipo coercitivo sia consentito una più generale possibilità di successiva tutela giurisdizionale dei propri diritti, siano condizioni di legittimità costituzionale di tale restrizione della libertà personale.

E' appena il caso di evidenziare che se tale requisiti sono da ritenere soddisfatti riguardo alla misura di cui all'art. 15 del T.u.l.p.s., essi apparirebbero ancor più presenti nell'accompagnamento coattivo di cui all'art. 13, comma 4°, del d. lgs. n. 286/1998.

Non può, infatti, non ritenersi soddisfatto il primo dei requisiti richiesti riguardante la tassatività della fattispecie, essendo la misura in argomento tassativamente prevista dalla legge per le esigenze di esecuzione delle espulsioni amministrative, in casi sufficientemente individuati dalla legge.

Può affermarsi, inoltre, che anche i requisiti di necessità ed urgenza siano sostanzialmente individuabili nella fattispecie.

Questi ultimi, peraltro, si possono ritenere ormai generalmente affermati da tutto il complesso della legislazione riguardante il meccanismo sanzionatorio dell'ingresso ed il soggiorno irregolare dei cittadini stranieri sul territorio nazionale.

Come sopra detto, infatti, la immediata esecutività delle espulsioni amministrative, nonché l'eseguibilità delle stesse a mezzo di accompagnamento coattivo in frontiera sono assurte a regola generale a seguito delle modifiche normative introdotte con la legge 30 luglio 2002, n. 189.

Tale precisa scelta del legislatore più recente – al di là di ogni giudizio che si voglia dare sul merito di tale scelta – poggia le sue basi sull'esigenza sempre più avvertita, da parte dello Stato, di perseguire un ordinato flusso migratorio sul proprio territorio, non potendo lo Stato stesso abdicare al compito ineludibile ed irrinunciabile di controllare le proprie frontiere.

Tale ineludibile necessità, peraltro, è stata sovente considerata dalla Corte Costituzionale radicata in un principio generale di difesa del territorio e, in termini più ampi, dell'ordinamento stesso, al punto da considerarla come presupposto di legittimità costituzionale di normative che prevedono specifiche limitazioni a diritti e libertà delle persone[25].

Più precisamente, allorquando la Corte è stata chiamata ad esprimersi circa il cd. "automatismo espulsivo"[26], ha ritenuto che lo stesso non fosse altro che «un riflesso del principio di stretta legalità che permea l'intera disciplina dell'immigrazione e che costituisce anche per gli stranieri presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell'Autorità amministrativa»"[27].

Inoltre, «le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco, di cui si è fatto carico il legislatore. Lo Stato non può infatti abdicare al compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere: le regole stabilite in funzione di un ordinato flusso migratorio e di una adeguata accoglienza vanno dunque rispettate, e non eluse, o anche soltanto derogate di volta in volta con valutazioni di carattere sostanzialmente discrezionale, essendo poste a difesa della collettività nazionale e, insieme, a tutela di coloro che le hanno osservate e che potrebbero ricevere danno dalla tolleranza di situazioni illegali» [28].

Le considerazioni sopra esposte introducono anche un ulteriore elemento di raffronto rispetto a quanto affermato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza sopra citata n. 13/1972, in merito all'opportunità che un giudizio di legittimità costituzionale di una normativa tenga conto della valutazione generale e del bilanciamento dei vari e più complessi interessi che la normativa stessa intende perseguire.

D'altra parte, a criteri di bilanciamento di interessi si è attenuta la Corte Costituzionale in altre precedenti occasioni in cui si è occupata della legittimità costituzionale della normativa riguardante l'immigrazione.

In un caso ben preciso, infatti, la Corte si è spinta ad affermare che «la mancanza nello straniero di un legame ontologico con la comunità nazionale e quindi di un nesso giuridico costitutivo con lo Stato italiano, conduce a negare allo stesso una posizione di libertà in ordine all'ingresso e alla permanenza nel territorio italiano, dal momento che egli può entrarvi e soggiornarvi solo conseguendo determinate autorizzazioni (revocabili in ogni momento) e, per lo più, per un periodo determinato» [29].

Tale diversa posizione dello straniero, secondo la Corte, trova il suo fondamento nella considerazione che «la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione. E tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario il quale possiede in materia un'ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli» [30].

Alla luce di tali considerazioni, si può operare un giudizio critico dell'estremo rigore con il quale la Corte ha censurato, con la sentenza n. 222/2004, l'art. 13, comma 5 bis, del d. lgs. n. 286/1998.

In tale ultima circostanza, la Corte avrebbe potuto fondare un diverso giudizio di conformità alla Costituzione del meccanismo di immediata esecutività dell'accompagnamento coattivo in frontiera – anche in pendenza del relativo giudizio di convalida – sulla base delle seguenti osservazioni, ricavabili dalla precedente giurisprudenza della stessa Corte:

§              la fattispecie dell'accompagnamento coattivo in frontiera dello straniero espulso non è sostanzialmente diversa da quella prevista dall'art. 15 del T.u.l.p.s.: entrambe sono effettivamente configurabili come misure restrittive della libertà personale.

Non vi sono differenze neanche riguardo ai requisiti della tassatività e delle condizioni di necessità ed urgenza che giustificano entrambe le misure;

§              in entrambi i casi, la previsione normativa della restrizione della libertà personale da parte dell'autorità amministrativa si giustifica in base ad una più generale ponderazione, ad un bilanciamento e ad un confronto degli interessi al cui perseguimento la previsione normativa stessa è finalizzata[31];

§              anche nella fattispecie dell'immediata esecuzione dell'accompagnamento coattivo in frontiera ricorrono le caratteristiche di restrizione della libertà personale del tutto temporanea e non duratura, a cui la Corte Costituzionale aveva ricondotto (con la citata sentenza n. 13/1972) la mancanza di necessarietà di sottoposizione alla procedura di convalida da parte dell'autorità giudiziaria, di cui al comma 3° dell'art. 13 della Costituzione, del provvedimento amministrativo ex art. 15 del T.u.l.p.s., sul presupposto che solo le privazioni durevoli della libertà personale debbano essere assoggettate alla predetta riserva di giurisdizione;

§              infine, sussiste anche per l'accompagnamento coattivo in frontiera quella possibilità di verifica a posteriori dell'autorità giudiziaria - attraverso i normali rimedi giurisdizionali - della legittimità del provvedimento adottato dall'autorità di P.S., sulla base della quale la Corte (sempre nella citata sentenza n. 13/1972) ha fondato il giudizio di non contrarietà al disposto del comma 3° dell'art. 13 della Costituzione per il provvedimento di cui all'art. 15 del T.u.l.p.s.

L'accompagnamento in frontiera, infatti, per la sua stretta inerenza al provvedimento espulsivo che ne costituisce il presupposto[32], beneficia innanzitutto della possibilità di verifica giurisdizionale che, su ricorso dell'interessato, può essere proposto ex art. 13, comma 8°, ed art. 13 bis del d. lgs. n. 286/1998.

Pertanto, si può ritenere che la stessa sottoposizione a convalida dell'autorità giudiziaria, successivamente all'esecuzione dell’accompagnamento in frontiera (secondo quanto previsto dalla formulazione abrogata dell'art. 13, comma 5 bis, del d. lgs. n. 286/1998), non necessariamente comportava un radicale annientamento della garanzia del controllo e della difesa giurisdizionale per l'interessato, consistendo in una più specifica ed ulteriore garanzia prevista nell'ambito di un sistema che, in buona sostanza, si compone di un doppio controllo della legittimità di tutti i provvedimenti restrittivi della libertà personale che riguardano lo straniero espulso (l'espulsione stessa e  l'accompagnamento ad essa conseguente).

Lo stretto legame tra i due provvedimenti amministrativi e la conseguente duplice possibilità di controllo giurisdizionale della legittimità degli stessi avrebbe potuto consentire alla Corte, pertanto, anche alla luce di una più generale considerazione degli interessi in gioco, di ritenere sufficientemente garantito anche il diritto di difesa di cui agli artt. 24 e 111 della Costituzione, atteso che il procedimento previsto dall'art. 13, comma 8°, e 13 bis del d. lgs. n. 286/1998 consente l'attuazione del contraddittorio e del diritto di difesa dello straniero, il quale, è ammesso all'assistenza legale di un patrocinatore di fiducia, nonché, nell'eventualità, al gratuito patrocinio a spese dello Stato ed all'assistenza di un difensore d'ufficio.

La possibilità che la Corte potesse giudicare non contrario al dettato costituzionale l'immediata esecutività dell' accompagnamento coattivo in frontiera, secondo il ragionamento sviluppato nella citata sentenza n. 13/1972, oltre che sulle suesposte riflessioni, si può fondare sull'ulteriore considerazione che la formulazione testuale dell'art. 15 del T.u.l.p.s., considerata legittima, neanche espressamente prevede una qualsivoglia forma di successiva convalida in sede giurisdizionale.

Per l'accompagnamento coattivo in frontiera, al contrario, la formulazione abrogata del comma 5 bis dell'art. 13 del d. lgs. n. 286/1998 quanto meno prevedeva il meccanismo della convalida, pur in presenza dell'immediata esecutività dell'accompagnamento stesso.

 

4. L'inosservanza dell'ordine del questore di lasciare il territorio dello stato e l'arresto obbligatorio dell'autore:

A) Il giudizio della Corte Costituzionale.

 

I recenti interventi correttivi della Corte Costituzionale hanno riguardato anche un'altra importante parte della normativa riguardante l'immigrazione, e più in particolare quella che era stata introdotta in tempi abbastanza recenti in materia di sanzioni di carattere penale della permanenza irregolare sul territorio nazionale dei cittadini stranieri.

Anche qui tornerà utile una brevissima sintesi del contesto normativo nell'ambito del quale è sopraggiunta la decisione della Corte, che parte dalla Legge 30 luglio 2002, n. 189, con la quale l'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998 è stato modificato con la previsione di una serie di misure sanzionatorie dell'inosservanza, da parte dello straniero espulso, dell'ordine del questore di lasciare il territorio nazionale.

In particolare, il nuovo testo del comma 5 bis dell’art. 14 del d. lgs. n. 286/1998 ha previsto la possibilità, per i casi in cui non sia possibile trattenere lo straniero presso un apposito centro, che il Questore ordini allo stesso di lasciare il territorio nazionale entro 5 giorni.

Il successivo comma 5 ter dell'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998 – anch'esso introdotto dalla Legge n. 189/2002 – aveva previsto che l'inosservanza, senza giustificato motivo, del predetto ordine del Questore, sia punita come reato di tipo contravvenzionale con l'arresto da 6 mesi ad 1 anno, a cui si accompagna una nuova espulsione con accompagnamento coattivo in frontiera.

La legge n. 189/2002, infine, aveva aggiunto anche i successivi commi 5 quater e 5 quinquies al citato art. 14 del d. lgs. n. 286/1998, con i quali erano stati previsti, rispettivamente, il reato – non più solo di natura contravvenzionale – riguardante l'ulteriore inosservanza dell'espulsione comminata ai sensi del precedente comma 5 ter da parte dello straniero successivamente trovato illegalmente sul territorio nazionale (punito con la reclusione da 1 a 4 anni), nonché l'arresto obbligatorio, con procedimento per direttissima e trattenimento presso un apposito centro, per gli autori di entrambi i reati previsti dai precedenti commi 5 ter e 5 quater.

E' proprio sul contenuto della disposizione di cui all'art. 14, comma 5 quinquies del d. lgs. n. 286/1998 che si sono appuntate le attenzioni della Corte Costituzionale con la sentenza 15 luglio 2004, n. 223.

In particolare, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità di tale disposizione di legge nella parte in cui stabilisce che per il reato previsto dal comma 5 ter del medesimo art. 14 è obbligatorio l'arresto dell'autore del fatto.

Nella circostanza, la decisione della Corte Costituzionale ha preso le mosse dalla considerazione che le misure coercitive, a norma del codice di procedura penale, possono essere applicate  solo allorquando si procede per un delitto, mentre, nella fattispecie in esame di inosservanza dell'ordine del Questore di lasciare il territorio nazionale, ci si trova di fronte ad un reato di natura contravvenzionale.

Tale reato contravvenzionale, inoltre, è sanzionato con una pena detentiva (arresto da 6 mesi a 1 anno) di gran lunga inferiore a quella per cui il codice ammette la possibilità di disporre di misure coercitive.

La conseguenza anomala rilevata dalla Corte è che, nella fattispecie, il giudice chiamato successivamente a pronunciarsi sulla convalida dell'arresto per i reati in argomento deve comunque ed obbligatoriamente disporre la liberazione immediata dell'arrestato ex art. 391, comma 6° del codice di procedura penale, «posto che per tale reato la legge gli preclude la possibilità di disporre la custodia cautelare in carcere e, più in generale, qualsiasi misura coercitiva».

L'illegittimità costituzionale, pertanto, dell'arresto obbligatorio previsto dall'art. 14, comma 5 quinquies, deriva, secondo la decisione della Corte, dalla palese violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione.

Esso, infatti, si sostanzia in una misura priva di qualsiasi sbocco sul terreno processuale e fine a se stessa, che non potrà mai trasformarsi nella custodia cautelare in carcere, né in qualsiasi altra misura coercitiva.

Per tali motivi, trattasi di misura rimessa all'autorità di polizia che non ha alcuna natura servente e strumentale rispetto alle esigenze processuali, esclusivamente per garantire le quali l'art. 13, comma 3°, della Costituzione ammette le restrizioni della libertà personale.

Né, a tale proposito, sono state ritenuti di soccorso ragionamenti circa la funzionalità dell'arresto obbligatorio rispetto alla necessità di assicurare l'espulsione amministrativa, poiché, per tale fine, anche per il caso di specie, la stessa formulazione dell'art. 5 quinquies censurato prevede, all'ultimo periodo, che a tal fine il Questore può disporre la misura del trattenimento in un centro: misura del tutto autonoma rispetto all’arresto.

Le caratteristiche di irragionevolezza di tale limitazione provvisoria della libertà personale, inutile processualmente, ne hanno comportato il giudizio di contrarietà, da parte della Corte, anche rispetto all'art. 3 della Costituzione.

E' appena il caso di evidenziare che le suddette motivazioni sono state ritenute, dalla Corte Costituzionale, assorbenti degli altri motivi di censura della disposizione normativa in esame, sollevati dai giudici remittenti, che prendevano anch'essi le mosse da questa valutazione di sostanziale inutilità dell'arresto obbligatorio.

Da essa, infatti, ne discenderebbe anche una contrarietà al disposto dell'art. 27, comma 2°, della Costituzione, per essere l'arresto obbligatorio in tale fattispecie un provvedimento di sostanziale anticipazione della sanzione, prima ancora della sentenza di condanna. Inoltre, l'inutile, sensibile aggravio di lavoro che esso comporta per l'attività di polizia giudiziaria determinerebbe anche un contrasto ai principi di buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione.

 

B) L’intervento successivo del legislatore.

 

Anche rispetto a tale sentenza della Corte Costituzionale il legislatore si è determinato ad un intervento correttivo della normativa censurata.

Con il medesimo D. L. 14 settembre 2004, n. 241, si era in un primo momento limitato ad una mera riscrittura del testo del comma 5 quinquies dell'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998 nei termini di cui alla sentenza di accoglimento della Corte Costituzionale n. 222/2004, limitando la possibilità dell'adozione della misura dell'arresto obbligatorio solo per il reato di cui al comma 5 quater del citato art. 14, e non più anche per quello di cui al comma 5 ter.

In sede di conversione, avvenuta, come detto, con la Legge 12 novembre 2004, n. 271, il legislatore ha scelto la strada di ottemperare ai dettami della Corte senza deflettere rispetto alle esigenze – evidentemente ritenute prioritarie ed irrinunziabili – di fronteggiare il fenomeno dell'ingresso e del soggiorno irregolare sul territorio nazionale con strumenti normativi di particolare rigore.

Pertanto, per rendere compatibile la misura dell'arresto obbligatorio con le caratteristiche di necessaria strumentalità processuale che esso deve avere – secondo quanto ricordato dalla Corte con la sentenza n. 223/2004 – il reato di cui al comma 5 ter dell'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998 è stato elevato al rango di delitto[33], prevedendone la sanzione della reclusione da 1 a 4 anni.[34]

Parallelamente, è stato disposto un inasprimento complessivo delle pene riguardanti le varie fattispecie di reato contenute nel d. lgs. n. 286/1998[35]:

§                    il reingresso illegale, senza la speciale autorizzazione del Ministero dell'Interno, dello straniero precedentemente espulso (art. 13, comma 13°, del d. lgs. n. 286/1998) è anch'esso punito non più con l'arresto da 6 mesi a 1 anno bensì con la reclusione da 1 a 4 anni;

§                    l'ulteriore reingresso illegale dello straniero denunziato per il reato di cui al punto precedente ed espulso (art. 13, comma 13 bis, II periodo, del d. lgs. n. 286/1998), è sanzionato con la pena della reclusione da 1 a 5 anni, e non più solo fino a 4 anni al massimo;

§                    per entrambi i reati di cui ai punti precedenti è previsto l'arresto obbligatorio dell'autore del fatto anche al di fuori dei casi di flagranza (art. 13, comma 13 ter, del d. lgs. n. 286/1998).

Inoltre, conseguentemente all'elevazione della gravità di cui al comma 5 ter dell'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998 anche la pena per il reato di cui al comma 5 quater è stata elevata da 1 a 5 anni.

 

C) Una nuova censura di illegittimità costituzionale all’orizzonte?

 

Nel sopraesposto, progressivo formarsi della normativa di modifica di alcuni punti degli articoli 13 e 14 del d. lgs. n. 286/1998 – come conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale 15 luglio 2004 n. 223 – abbiamo visto che l'intenzione del legislatore è passata da un originario intendimento di uniformarsi semplicemente alla pronunzia della Corte, ad una precisa volontà di mantenere la misura dell'arresto obbligatorio nei confronti dello straniero che non ottempera all'ordine del Questore di allontanarsi dal territorio dello Stato.

Per ottenere tale risultato, come detto, l'ipotesi di tale inottemperanza viene elevata al rango di fattispecie delittuosa, e non più solo contravvenzionale come in precedenza, e viene pesantemente sanzionata con la reclusione da uno a quattro anni, rispetto all’arresto da sei mesi ad un anno previsto in precedenza.

Sul punto, si impone una riflessione sui possibili sviluppi futuri del dibattito – ormai infinito – degli ulteriori profili di costituzionalità della disciplina legislativa dell'immigrazione e, in particolare, delle previsioni normative in argomento, recentemente introdotte.

Le prime perplessità sorgono in merito alla ragionevolezza della suddetta scelta del legislatore – inerente all'elevazione della pena per l'inosservanza all'ordine del Questore – in relazione alla pena prevista per altre figure di reato, di natura contravvenzionale, considerate in qualche modo affini a quella prevista dalla nuova formulazione del comma 5 ter del d. lgs. n. 286/1998.

La fattispecie che appare di più immediato raffronto, al riguardo, è quella prevista dall'art. 650 del codice penale che, com’è noto, punisce più in generale l'inosservanza dei provvedimenti legalmente dati dall'autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene.

Tale reato, caratterizzato dalla natura contravvenzionale, è punito con l'arresto fino a 3 mesi.

E’ del tutto presumibile che l’attenzione della Corte potrà essere, alla prima occasione, sollecitata proprio in merito alla evidente differenza tra la sanzione prevista per il reato di cui all’art. 650 del codice penale e quella - di gran lunga più severa e, pertanto, apparentemente sproporzionata - disposta con la nuova formulazione del comma 5 ter dell’art. 14 del d. lgs. n. 286/1998 per il reato di inosservanza dell’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale.

Le due figure di reato, infatti, appaiono in qualche modo legate da un rapporto di affinità che vede la seconda, in buona sostanza, nient’altro che una specificazione della prima.

Sulla possibilità che la Corte Costituzionale possa esprimere un sindacato di irragionevolezza in casi del genere, va ricordata un’evoluzione giurisprudenziale che ha riguardato soprattutto la sproporzione tra le sanzioni previste, rispettivamente, per i reati di oltraggio e quello di ingiuria, all’inizio della quale la Corte si era attestata sull’affermazione che spetta esclusivamente alla discrezionalità del legislatore ogni giudizio sulla congruenza della pena rispetto al fatto-reato, sfuggendo tale giudizio alla possibilità di ogni ulteriore vaglio del giudice delle leggi[36].

Più recentemente, tuttavia, la Corte - operando sulla obsoleta normativa penale militare - ha effettuato un’inversione di rotta, manifestando un’apertura rispetto all’affermazione del proprio compito di verificare che l’uso della discrezionalità legislativa – nella determinazione della qualità e quantità della sanzione penale – rispetti il limite della ragionevolezza[37].

Secondo tale ultimo orientamento, pur confermando la discrezionalità del legislatore in materia, il rispetto del principio di proporzionalità nel diritto penale «equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni»[38].

Peraltro, uno degli elementi che avevano indotto il giudice delle leggi – nella sua precedente giurisprudenza di segno contrario – a negare l’affermazione della propria possibilità di sindacare la ragionevolezza della sanzione prevista dalla norma penale con riferimento all’art. 27, comma 3°, della Costituzione (finalità rieducativa della pena) si fondava sul presupposto che il finalismo rieducativo della pena fosse limitato alla sola fase esecutiva della stessa, non anche a quella di previsione normativa[39].

Anche tale affermazione è stata successivamente rivista dalla Corte, sul convincimento che la finalità rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisca «una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue»,implicando, pertanto, un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra[40].

La sintesi di tali nuovi orientamenti hanno portato il giudice delle leggi, ancor più recentemente, a dichiarare l’illegittimità dell’art. 341 del codice penale, nella parte in cui prevedeva per il reato di oltraggio a un pubblico ufficiale[41] la pena minima di sei mesi di reclusione, per violazione:

·        dell’art 3 della Costituzione, per la rilevante ed ingiustificata differenza rispetto al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di ingiuria di cui all’art. 594 del codice penale;

·        dell’art. 27, 3° comma, della  Costituzione, poiché la sproporzione della pena rispetto all’effettivo disvalore del fatto-reato in questione vanificava la finalità rieducativa della pena stessa.[42]

Sono proprio questi ultimi i parametri attraverso i quali, è presumibile, potrà essere vagliata la legittimità costituzionale della disposizione introdotta con la nuova formulazione del comma 5 ter dell’art. 14 del d. lgs. N.286/1998, non senza considerare, tuttavia, che il giudizio di irragionevolezza della pena originariamente prevista per il reato di oltraggio era stato fondato dalla Corte anche su valutazioni di «definitiva affermazione, nella coscienza sociale, della convinzione della palese incongruenza della previsione sanzionatoria impugnata» [43].

Sarà molto interessante, nell’eventualità, verificare la trasposizione di tale ragionamento sulla problematica del c.d. “reato di clandestinità”

 

NOTE



[1] Art. 117, 2° comma, lettere b) e h), della Cost.

[2] Art. 118, 3° comma, della Cost.

[3] Circa la lunga sopravvivenza di una legislazione dell’immigrazione ispirata a concezioni autoritarie, cfr. V. CRISAFULLI, In tema di incolato dell’apolide, in Foro amm., 1957, I, IV, 10,nonché, più recentemente, G. SIRIANNI, La Polizia degli stranieri, Torino, 1999.

[4] Art. 4, comma 3°, d. lgs. n. 286/98

[5] Art. 5, comma 2 bis, d. lgs. n. 286/98

[6] Art. 12, d. lgs. n. 286/98

[7] Artt. 13-16, d. lgs. n. 286/98

[8] in Foro Italiano, 2001, I, 2701 e segg.

[9] Gli articoli in argomento sono stati successivamente modificati in maniera significativa dalla Legge n. 189/2002.

[10] Come vedremo, nella disciplina previdente alla Legge n.189/2002 il metodo ordinario di esecuzione dell’espulsione era rappresentato dall’intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro quindici giorni, salvo specifici casi in cui era possibile l’accompagnamento in frontiera (espulsione disposta dal  Ministro dell’Interno; casi di inottemperanza alla precedente intimazione,ovvero di concreta prevedibilità di inottemperanza futura alla medesima). Con le modifiche introdotte all’art.13 del d.lgs. n.286/1998 dalla Legge n.189/2002, l’ordine si inverte e l’immediata esecutività con accompagnamento in frontiera diventa la regola, a fronte di eccezionali casi di esecuzione con intimazione.

[11] Nel giudizio conclusosi con la sentenza n.105/2001, la Corte ha ritenuto di affermare il principio invocato dai giudici remittenti mediante una sentenza interpretativa di rigetto per evitare una sanzione di inammissibilità per difetto di rilevanza: pertanto, anziché ritenere che la censura propostale come principalmente diretta contro il provvedimento di accompagnamento in sé – anche indipendentemente dall’esistenza di un provvedimento di trattenimento da convalidare – ha interpretato le doglianze delle varie ordinanze di rimessione della questione nel senso che con esse ci si limitava a dolersi del fatto che, in sede di convalida del trattenimento presso il centro di permanenza, non fosse consentita al giudice la verifica della legittimità dell’accompagnamento alla frontiera.

Per una critica al percorso scelto dalla Corte, cfr. R. ROMBOLI, Immigrazione, libertà personale e riserva di giurisdizione: la Corte Costituzionale afferma importanti principi ma lo fa sottovoce, in Foro it., 2001, I, 2703 e segg.

 

[12] Circa la preferibilità e gli effetti, nel giudizio sfociato nella sentenza n.105/2001, di una pronuncia additiva di accoglimento in termini di illegittimità costituzionale consequenziale della norma impugnata, cfr. R.ROMBOLI op. cit.

[13] Nella originaria formulazione del testo del comma 5 bis dell’art. 13 del d. lgs. N.286/1998, contenuta nel D.L. n.51/2002, il potere di convalida era stato attribuito al pubblico ministero. In sede di conversione nella Legge n.106/2002, più opportunamente tale potere è stato attribuito al giudice monocratico.

 

[14] Facevano eccezione specifici casi per i quali era previsto l'accompagnamento alla frontiera come misura, tuttavia, eccezionale. Essi riguardavano l'esecuzione dell'espulsione disposta dal Ministro dell'Interno, nonché i casi di inottemperanza all'intimazione già disposta oppure di concreta previsione di non ottemperanza alla medesima.

[15] Sia quella disposta dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato a norma del 1° comma dell'art. 13, d. lgs. n. 286/1998, sia quella disposta dal Prefetto nei casi di cui al comma 2° del medesimo articolo.

[16] Il secondo periodo del comma 5 dell'articolo 13 del d. lgs. n. 286/1998, peraltro, mantiene ferma la possibilità che il Questore disponga l'accompagnamento alla frontiera anche in questi casi, qualora il Prefetto rilevi il concreto pericolo che l'interessato si sottragga all'esecuzione dell'espulsione.

[17] L'art. 1 del D. L. n. 241/2004, convertito nella Legge n. 271/2004, al comma 4, ha disposto l'attribuzione al giudice di pace territorialmente competente anche della decisione sulla convalida del trattenimento dello straniero espulso ex art. 14 del d. lgs. 286/1998. Il precedente comma 2 attribuisce al giudice di pace anche la competenza a decidere i ricorsi avverso le espulsioni.

[18] Art. 1, 1° comma, del D.L. n. 241/2004, convertito nella Legge n. 271/2004.

[19] Idem.

[20] Art. 1, 1° comma, del D.L. n. 241/2004, convertito nella Legge n. 271/2004.

[21] Art. 13, comma 5 bis,  5° periodo, del d. lgs. n. 286/1998, come modificato ed integrato dall'art. 1, 1° comma, D. L. 14 settembre 2004, n. 241, convertito dalla Legge 12 novembre 2004, n. 271.Secondo quanto previsto dal comma 5 ter dell’art. 13 del d. lgs. n. 286/98 – come modificato dalla Legge n. 271/2004 – inoltre, «le questure forniscono ai giudici di pace,…….. ,il supporto occorrente e la disponibilità di un locale idoneo».

[22] Sulla importante e sostanziale differenza tra atti della pubblica autorità obbligatori ed atti coercitivi, e sul modo differente di incidere sulla libertà personale del destinatario, la Corte Costituzionale ha mantenuto una costante uniformità di argomentazioni sin dalla sentenza 23 giugno 1956, n. 2, in Giur. Cost. 1956, 561 e segg.; sul medesimo argomento, più recentemente, cfr. Corte Costituzionale sentenza 31 maggio 1995, n. 210, in Giur. Cost. 1995, 1586 e segg. e, molto più significativamente, Corte Costituzionale sentenza 12 giugno 1996, n. 194, in Giur.Cost. 1996, 1767 e segg.

[23] Sulla titolarità da parte degli stranieri dei diritti fondamentali, cfr. E.GROSSO, Straniero (status costituzionale dello), in Digesto disc pubbl., XV, Torino, 1999, 162 e segg.; inoltre, A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, in Encicl. giur., X, Roma, 1989.

[24] Cfr. Corte Costituzionale sentenza 2 febbraio 1972, n. 13, in Foro italiano, 1972, I, 578.

[25] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 21 novembre 1997, n. 353, in Foro it., 1998, I, 711, e ordinanza 3 maggio 2002, n. 146, in Foro it., 2002, I, 2232.

[26] La Corte Costituzionale, con le pronunce di cui alla nota precedente, ha avuto modo di esprimersi in merito alla conformità ai principi di solidarietà, presenti nella nostra carta costituzionale, da parte, rispettivamente, sia dell'allora vigente art. 7, comma 2 del D.L. 30 dicembre 1999, n. 416 convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1990, n. 39, sia dell'art. 13, 2° comma, del d. lgs. n. 286/1998 (tuttora vigente), nella parte in cui le ipotesi in cui deve procedersi ad espulsione sono tassativamente previste senza possibilità di deroga da parte dell'autorità amministrativa, non essendovi  alcun poter discrezionale di questa di non provvedere  a fronte di situazioni di fatto particolarmente meritevoli.

[27] Cfr. ordinanza n. 146/2002 cit.

[28] Cfr. C. Cost. sentenza n.353/1997 cit.

[29] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 24 febbraio 1994, n. 62, in Giur. Cost. 1994, Milano, 350 e segg.,-che riprende, peraltro, affermazioni già contenute nella precedente sentenza 23 luglio 1974, n.244, in Giur.Cost. 1974, Milano, 2360 e segg.

[30] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza di cui alla precedente nota n. 28. In tale circostanza la Corte ebbe modo di pronunziarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 7 del citato D.L. n. 1416/1989, convertito dalla legge n. 39/1990 cit. limitatamente ai commi 12 bis e 12 ter, nella parte in cui consentiva al giudice procedente di disporre, su richiesta dello straniero o del suo difensore, l'immediata espulsione nello stato di appartenenza o in quello di provenienza degli stranieri extracomunitari sottoposti a custodia cautelare per uno o più delitti, consumati o tentati, diversi da quelli indicati nell'art., 275, 3° comma del codice di procedura penale, ovvero condannati con sentenza passata in giudicato ad una pena detentiva che, anche se costituente parte residua di una maggiore pena, non fosse stata superiore a 3 anni di reclusione.

Tra i motivi di non contrarietà al disposto dell'art. 3 della Costituzione (parità di trattamento tra cittadini italiani e cittadini stranieri), individuati in tale occasione dalla Corte in base ad una ponderazione e comparazione degli interessi in generale, sono stati ricompresi anche quelli connessi all' «interesse pubblico di ridurre l'enorme affollamento carcerario, di per sé difficilmente compatibile con l'efficace perseguimento della funzione rieducativa della pena, e di allontanare dal territorio dello Stato stranieri sottoposti a procedimento penale (ovvero condannati con sentenza definitiva)».

[31] Esigenze di funzionalità, efficacia ed immediatezza dei compiti assegnati all'autorità di pubblica sicurezza, nel caso di dell'art. 15 del T.U.L.P.S.; esigenze generali di efficace controllo delle frontiere e della legalità, nel caso dell'immediata esecutività dell'accompagnamento coattivo in frontiera dello straniero espulso di cui all'art. 13, comma 5 bis, del d. lgs. n. 286/1998, nella formulazione vigente prima della sentenza C. Cost. n. 222/2004 e delle modifiche introdotte dal D.L. n. 241/2004, convertito dalla Legge n. 271/2004.

[32] La stretta inerenza e connessione tra il provvedimento di espulsione, la misura dell'accompagnamento coattivo in frontiera e, eventualmente, quella del trattenimento presso uno dei centri di cui all'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998 sono state affermate dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza 10 aprile 2001, n. 105.

Lo stretto legame tra i suddetti provvedimenti amministrativi si rileva, secondo la Corte, dal controllo giurisdizionale pieno attribuito al giudice della convalida del trattenimento: controllo che si estende anche alla legittimità dell'espulsione e dell'accompagnamento coattivo in base a quanto si ricava dalla formulazione del 3°

comma dell'art. 14 del d. lgs. n. 286/1998, che impone al Questore che dispone il trattenimento la trasmissione al giudice della convalida di tutti gli atti del procedimento.

[33] Limitatamente ai casi di inosservanza dell'ordine del Questore di lasciare il territorio dello Stato conseguenti alle espulsioni disposte per ingresso illegale sul territorio nazionale ai sensi dell'art. 13, comma 2, lettere a) e c), ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto in assenza di cause di forza maggiore, ovvero per essere stato il permesso revocato o annullato.

[34] Articolo 1, comma 5 bis, della legge 12 novembre 2004, n. 271.

[35] Art. 1, comma 2 ter,  della legge 12 novembre 2004, n. 271.

[36] Cfr., fra tutte, Corte Costituzionale ordinanza n. 323/1988, in Giust. Cost., 1988, I, 1335.

[37] Cfr. Corte Costituzionale sentenza 18 luglio 1989, n. 409, in Foro italiano 1990, I, 36 e seguenti, e, più di recente, sentenza 3 dicembre 1993, n.422, in Foro it.1994, I, 341.

[38] Cfr., Corte Costituzionale, sentenza n. 409/1809 cit.

[39] Cfr. G. FIANDACA, Commento all’art.27, 3° comma, Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di BRANCA e PIZZORUSSO, Bologna, 1991, 330.

[40] Cfr, Corte Costituzionale sentenza 3 luglio 1990, n.313, in Giur. Cost., 1990, 1981 e segg., inoltre, sentenza 28 luglio 1993, n.343, in Foro it. 1994, Bologna, I,  342, nonché sentenza  3 dicembre 1993, n. 422, in Foro it. 1994, I, 341.

[41] L’art. 341 del codice penale è stato successivamente abrogato dall’art. 18 della Legge 25 giugno 1999, n. 205.

[42] Cfr. Corte costituzionale, sentenza 25 luglio 1994, n.341, in Foro it., 1994, I, 2585, con commento di G. FIANDACA.

[43] Corte Costituzionale, sentenza n.341/1994 cit.