COLLAGE DEI CONTRIBUTI PER IL RAPPORTO SUPPLEMENTARE AL RAPPORTO GOVERNATIVO
SULL’APPLICAZIONE IN ITALIA DEL PATTO INTERNAZIONALE SUI DIRITTI ECONOMICI,
SOCIALI E CULTURALI (1966) IN DISCUSSIONE PRESSO IL COMITATO DELLE NAZIONI
UNITE A GINEVRA DALL’ 8 AL 26 NOVEMBRE 2004
PREMESSA METODOLOGICA
EXECUTIVE SUMMARY
1. IMPLEMENTATION
OF THE RECOMMENDATIONS SET FORTH IN THE VIENNA DECLARATION AND PROGRAMME OF
ACTION OF 1993 (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.1)
2. NATIONAL
HUMAN RIGHTS INSTITUTION IN CONFORMITY WITH THE PARIS PRINCIPLES, GENERAL
ASSEMBLY RESOLUTION 48/134, ANNEX (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18
December 2003, n.2)
3. ENFORCEMENT
OF THE COVENANT IN THE DOMESTIC LEGAL ORDER AND RELEVANT CASE LAW (see list of
issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.3)
4. POSITION
OF ITALY ON THE DRAFT OPTIONAL PROTOCOL TO THE INTERNATIONAL COVENANT (see list
of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.4)
5. PARTECIPATION
OF NON-GOVERNMENTAL ORGANIZATIONS IN THE PREPARATION OF THE REPORT (see list of
issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.5)
6. LEGAL
RESPONSABILITY OF ENTERPRISES IN THE FULLFILMENT OF ECONOMIC, SOCIAL AND
CULTURAL RIGHTS
7. INTERNATIONAL
COOPERATION (ART. 2, PARA. 1), see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December
2003, n.7
8. NON-DISCRIMINATION
(ART. 2, PARA. 2)
extent to which migrant workers and refugees are
enjoying their economic, social and cultural rights; how applicants for refugee
status are afforded economic, social and cultural rights (see list of issue
E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.9).
10.
Trade union rights (art. 8).
See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18
December 2003, n.15: The
definition of essential services with regard to which the right to strike is
restricted appears to be too broad.
See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.18: On
what grounds divorce is permitted in the State party.
12. Protection of the family, mothers and
children (art. 10). See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.19: Forms
of discrimination against children born out of wedlock.
13. Protection of the family, mothers and
children (art. 10). See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.20: Family
violence.
14. Protection of the family, mothers and
children (art. 10). See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.21: Trafficking
in trafficking in women and children, child prostitution, child pornography.
15. Protection of the family, mothers and
children (art. 10). See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.22: Asylum-seekers
and entitlement to family reunification.
See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003,
n.28: There is very little information in the State party’s
report on the right to health. How medical security and health care are being
provided to all sectors of the Italian society, including the most vulnerable
groups of people, in accordance with the Committee’s general comment No. 14
(2000) on the right to the highest attainable standard of health.
See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December
2003, n.29: Problems of HIV/AIDS, drug abuse and
alcoholism.
18.
Right to education (arts. 13 and 14)
See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18
December 2003, n.30: Children of immigrants, refugees
and asylum-seekers equal access to free and compulsory education.
19.
Right to education (arts. 13 and 14). See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.31: Please
explain why, despite the considerable budgetary allocations to education, there
is a decrease in the number of school population, especially at pre-primary,
primary and lower secondary schools.
Is the drop in the birth rate the sole reason for this decrease? Please indicate whether school
attendance by children of immigrants has reversed this trend.
20.
Right to education (arts. 13 and 14). See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.32: How
serious is the problem of dropouts in the State party, especially at the
secondary level of education, and what effective measures have been taken to
combat it?
21.
Right to education (arts. 13 and 14). See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.33: Please
provide information on the extent of the phenomenon of functional illiteracy in
the State party.
See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.34: The State
party’s report states that the rights of linguistic and religious minority
groups are respected in education.
Please explain how these minority rights are actually
being implemented.
ALLEGATI
PREMESSA METODOLOGICA
EXECUTIVE SUMMARY
1. IMPLEMENTATION OF THE
RECOMMENDATIONS SET FORTH IN THE VIENNA DECLARATION AND PROGRAMME OF ACTION OF
1993 (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.1)
Vanna Palumbo:
L’autorizzazione alla ratifica è
l’atto giuridico con il quale il Parlamento italiano consente all’esplicazione
di effetti giuridici nell’ordinamento interno di obbligazioni assunte sul piano
internazionale attraverso la stipula di Accordi, Trattati, Convenzioni.
Normalmente la legge di ratifica
prevede la “piena ed intera esecuzione” di tale Atto internazionale e per far
ciò talvolta in essa sono contenute, oltre alle formule rituali, anche
specifiche disposizioni volte ad esempio ad eliminare ostacoli che si frappongono
alla piena applicazione di uno o più dei principi ovvero ad introdurre
disposizioni qualora l’ordinamento interno fosse in qualche punto carente.
Nel caso del Patto internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali, la legge di autorizzazione alla ratifica ,
legge 25 ottobre 1977, n. 881, con cui è stato anche attuato il Patto diritti
civili e politici ed il Protocollo facoltativo allo stesso, il legislatore
italiano non ha ritenuto di introdurre alcuna specifica disposizione e pertanto
le disposizioni del Patto, dalla sua entrata in vigore il 15 ottobre 1978, è
pienamente vincolante per l’Italia.
Probabilmente lo sarebbe comunque laddove si
invocasse l’articolo 10 della Costituzione, secondo il quale l’ordinamento
giuridico italiano “si conforma” alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute.
I principi contenuti nel Patto diritti economici,
sociali e culturali, come quelli del coevo Patto diritti civili e politici, in
quanto sviluppo e forma giuridicamente vincolante della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, sono di rango equivalente ai principi
costituzionali.
Nonostante quanto appena ricordato e considerato
anche il lungo tempo trascorso dall’entrata in vigore dei principi –oltre 25
anni- che l’Italia ha avuto per dare piena applicazione agli stessi, si nota
una quasi totale mancanza di conoscenza di tale strumento da parte di giudici
ed avvocati. Sono stati infatti pochissimi i casi in cui i giudici nel decidere
una controversia si sono basati ed hanno fatto riferimento anche alle rilevanti
disposizioni del Patto.
Se è pur vero che in larga misura può dirsi che
l’ordinamento italiano già contiene e tutela i diritti enunciati nel Patto,
tuttavia non sembra vi sia stata alcuna specifica attenzione a “leggere” tali diritti
alla luce delle disposizioni del Patto: una prova esemplare è la mancanza di
statistiche attendibili ed orientate al rispetto del Patto per rispondere in
modo preciso e documentato alle richieste di dati e cifre formulate da questo
Comitato/Commissione.
Le asserzioni del Governo italiano risultano quindi
altamente generiche e poco documentate: questo è ben evidenziato in particolare
dalla debolezza dell’impianto della risposta al punto 28 del IV Rapporto
periodico.
► Sembra quindi opportuno invitare il Governo
italiano a predisporre, in relazione ai singoli aspetti del Patto, dei
misuratori statistici che siano in grado di mostrare gli sforzi compiuti per
incrementare il tasso di adempimento ai principi, consentendo il raffronto con
le cifre fornite in precedenza.
Carola Carazzone:
2. NATIONAL HUMAN RIGHTS
INSTITUTION IN CONFORMITY WITH THE PARIS PRINCIPLES, GENERAL ASSEMBLY
RESOLUTION 48/134, ANNEX (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December
2003, n.2)
Vanna Palumbo:
In Italia non esiste tuttora una Istituzione
nazionale indipendente di promozione e protezione dei diritti umani come
prevista nella Risoluzione n. 48/134 dell’Assemblea generale delle Nazioni
unite e dai cd, principi di Parigi.
Tale Istituzione, laddove esistente, avrebbe
infatti il compito di “promuovere e assicurare l’armonizzazione e
l’implementazione della legislazione nazionale,delle pratiche e dei meccanismi
regolativi con gli strumenti internazionali dei diritti umani dei quali lo
Stato è parte” (principio 3b).
Ad essa, inoltre, come espresso nei principi 3f) e
3g) spetterebbe il rilevante ed incisivo ruolo di “assistere nella formulazione
di programmi di insegnamento e di ricerca sui diritti umani e prenedere parte
alla loro esecuzione nelle scuole, università e circoli professionali” e di “
pubblicizzare i diritti umani incrementando la consapevolezza collettiva
attraverso l’informazione e la l’educazione…”
La mancanza di una Istituzione nazionale siffatta
evidenzia ancor di più la situazione di vuoto in cui il rispetto e prima ancora
la stessa conoscenza dei diritti umani fondamentali è in Italia.
Vuoto che è facilmente riempibile se solo si voglia
riconoscere ai diritti umani il rango loro proprio, perché è evidente la
carente tutela apprestata in molti casi dal vigente ordinamento.
L’istituzione di Istituzioni di garanzia per il
cittadino, come prova la recente esperienza del Garante per la tutela dei dati
personali, dimostra il livello di attesa del cittadino per avere un
interlocutore cui rivolgersi in modo diretto ed efficace.
Come si è già detto è ben vero che esistono
principi costituzionali, leggi, regolamenti ed altre misure che coprono molti
degli spazi invidiati nei Patti internazionali. Ed è altrettanto vero che è
principio costituzionalmente garantito quello per cui il cittadino può
ricorrere al giudice per far valere i suoi diritti.
E’ però altrettanto da dire che nella copiosa
produzione legislativa e regolamentare italiana è facile perdersi tra
disposizioni anche a volte contraddittorie oltre che complesse e di difficile
lettura.
A questo si aggiunga che non appare completamente
risolto lo spazio di garanzie riconosciuto ai non cittadini, che siano
legalmente residenti o non.
Il fattore linguistico e quello economico sono
inoltre ulteriori aspetti che rendono più difficile l’accesso pieno alla
giustizia, in particolare come si è detto per i non italiani.
Sul piano amministrativo, ad eccezione del
ricordato Garante per la tutela dei dati personali, cui è conferito per legge
il compito di promuovere e proteggere in modo indipendente il diritto
fondamentale alla riservatezza delle persone (privacy), non esistono altre
strutture incaricate di un controllo indipendente sul rispetto dei principi in
materia di diritti umani. Vi sono proposte legislative nell’attuale parlamento
per l’istituzione di un Garante dei fanciulli e l’ormai ventennale tentativo di
istituire il difensore civico nazionale, ma finora non hanno avuto esito
alcuno.
Proposal of the network of 45 NGOs called Comitato
per la promozione e protezione dei Diritti Umani
Per quanto concerne la tutela dei
diritti umani in senso lato non esiste nulla di simile a quanto auspicato nella
Risoluzione delle Nazioni unite.
E’ per questo che nel 2001 è stato costituito un
Cartello di associazioni operanti nella società civile, sindacati, ong che, con
la denominazione di Comitato per la promozione e protezione dei diritti umani,
si è dato lo scopo di lavorare per l’istituzione in Italia di una Istituzione
nazionale indipendente.
Nel dicembre 2002 il Comitato ha presentato
pubblicamente una sua proposta –in allegato- ed ha quindi iniziato una
difficile opera di sollecitazione per far in modo che la proposta sia discussa
ed approvata.
La proposta di legge è modellata sui principi della
Risoluzione 48/134 e dei trinci pi di Parigi, di cui accoglie anche la parte
facoltativa, relativa alla possibilità di ricevere reclami e segnalazioni e
decidere sui casi sottoposti.
(aggiungere parte della relazione introduttiva)
ALLEGATO 1. TESTO DI LEGGE
ALLEGATO
2. RECOMMENDATION CRC COMMITTEE
3. ENFORCEMENT OF THE COVENANT
IN THE DOMESTIC LEGAL ORDER AND RELEVANT CASE LAW (see list of issue
E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.3)
CONTRIBUTO MARIA AUGUSTA ANELLI
Come segnalato anche dal 4° Rapporto Governativo il Patto
internazionale sui diritti economici, sociali e culturali stipulato a New York
nel 1966 è stato ratificato dall’Italia, e pertanto è divenuto normativa
nazionale, con la legge 25 ottobre 1977 n. 881, con la quale è stato ratificato
anche il Patto internazionale relativo ai diritti politici e civili ed il
relativo protocollo facoltativo.
Questa ratifica contestuale ha effettivamente creato delle
occasioni di confusione tra gli operatori del diritto (ad esempio in una
sentenza del Tribunale di Lagonegro del 1984 si cita erroneamente il Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici anziché il Patto
internazionale dei diritti economici, sociali e culturali), tuttavia nelle
motivazioni delle sentenze i giudici nella quasi totalità dei casi hanno fatto
riferimento ad uno dei due Patti in particolare e non soltanto genericamente
alla legge di ratifica, e nei casi restanti è comunque possibile stabilire a
quale Patto l’organo giudicante volesse riferirsi esaminando il testo della
decisione.
Dunque la giustificazione contenuta nel Rapporto, ossia
che non sarebbe possibile risalire a quali sentenze citino effettivamente il
Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, in quanto esse
farebbero genericamente riferimento alla sola legge di ratifica, è del tutto
inconsistente e priva di fondamento, ed invece denuncia la totale mancanza di
approfondimento del Governo italiano nella stesura del Rapporto.
Infatti, si è agevolmente verificato in quali casi la
giurisprudenza abbia effettivamente richiamato il Patto internazionale dei
diritti economici, sociali e culturali
o il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici:
quest’ultimo, ad esempio, è applicato prevalentemente in ambito penale, ove si
richiamano i principi a tutela dell’imputato contenuti nell’art. 14.
La ricerca è stato condotta tra le sentenze e le ordinanze
della Suprema Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, ed anche tra
alcune sentenze di merito di particolare rilevanza che sono state riportate
nelle raccolte giurisprudenziali. Non è stato materialmente possibile
effettuare una ricerca anche tra tutte le decisioni di primo e secondo grado in
quanto non esiste una raccolta organica di dette pronunce né una database che
consenta la ricerca tramite parole chiave. Si è però propensi ad escludere che
il numero di sentenze in applicazione del Patto internazionale dei diritti
economici sociali e culturali siano più numerose di quelle pronunciate dalle
Magistrature Superiori.
Nel periodo in esame (1980 – 2003) sono state rinvenute
solo 16 sentenze che richiamano espressamente il Patto internazionale sui
diritti economici, sociali e culturali, invocando il rispetto dei diritti ivi
sanciti negli artt. 1-15, e di queste ben 13 in materia di diritto del lavoro
citano l’art. 7 di suddetto Patto che sancisce, fra le altre cose, il principio
dell’equa retribuzione a parità di mansioni.
Tale netta predominanza non è casuale: infatti il Manuali
universitari e di preparazione alla carriere in magistratura o avvocatura
annoverano il Patto internazionale dei diritti economici, sociali e
culturali tra le fonti
internazionali del diritto del lavoro, il che comporta che esso è conosciuto e
normalmente utilizzato in ambito giuslavoristico.
Le sentenze in materia di diritto del lavoro, suddivise per
Organo emanante, sono le seguenti:
1.
Corte
Cost n. 103/1989
2. Cass.,
sez. lav., 18-08-2003, n. 12076
3.
Cass.
civ., sez. Lavoro, 05-06-2001, n. 7617 - Pres. Santojanni Md - Rel. Amoroso G -
P.M. Sepe Ea (diff.) - Lovaglio c. Ist. Poligrafico Zecca Stato
4.
Cass.
civ., sez. Lavoro, 08-07-1994, n. 6448 - Pres. De Rosa M - Rel. Vidiri G - P.M.
Tondi C (Conf.) - Iodice ed altri c. S.I.P. - Società Italiana per l'esercizio
Telefonico –
5.
Cass.
civ., sez. Unite, 29-05-1993, n. 6031 - Pres. Brancaccio A - Rel. Genghini M -
P.M. Di Renzo M (Conf) - Cirio, Bertolli, De Rica S.p.A. c. Strino
6.
Cass.
civ., sez. Unite, 29-05-1993, n. 6030 - Pres. Brancaccio A - Rel. Genghini M -
P.M. Di Renzo M (Conf) - Snam S.p.A. c. Ballali
7.
Cass.
civ., sez. Lavoro, 18-09-1991, n. 9695 - Pres. Ruperto C - Rel. Berni Canani U
- P.M. Visalli I (Parz diff) - Agueni ed altri c. Banca Nazionale del Lavoro
8.
Cass.
civ., sez. Lavoro, 07-02-1991, n. 1245 - Pres. Ruperto C - Rel. Putaturo M -
P.M. Cecere C (Conf) - S.p.A. RAI c. Scoti Patriarca
9.
Cass.,
18-11-1987, n. 8464
10.
Cass.
civ., sez. Lavoro, 25-03-1986, n. 2116 - Pres. Menichino G - Rel. Arena A -
P.M. Di Rienzo M (Conf) – Enna c.
C.I.S.
11.
Tribunale
Lagonegro, 17-07-1984 - Enel c. De Gennaro
12.
Pretura
Cosenza, 28-04-1983 - De Marco c. Cassa rurale artig. Cosenza
13.
Pretura
Portoferraio, 15-04-1980 – Grunzel
Sicuramente
più rilevanti sono le due sentenze della Corte Costituzionale n. 404/1988 e n, 559/1989 che, sulla base anche dei principi contenuti nell’art.
11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali
secondo i quali gli Stati riconoscono il diritto di ogni individuo ad un
livello di vita adeguato per se e per la sua famiglia, che includa
alimentazione, vestiario, ed alloggio adeguati, hanno dichiarato
l’illegittimità costituzionale la
prima di alcuni articoli della legge 27 luglio 1978, n. 392 sulle locazioni di
immobili urbani nella parte in cui non prevedeva tra i successibili nella
titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il
convivente more uxorio, il coniuge separato e l’ex convivente con prole
naturale e la seconda dell'art.
18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984,
n. 64 che disciplina le assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale
pubblica, nella parte in cui non prevedeva la cessazione della stabile
convivenza come causa di successione nella assegnazione ovvero come presupposto
della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della
prole.
Non può non rilevarsi che le due
sentenze hanno in comune lo stesso Giudice relatore, il quale è di norma anche
il materiale estensore della sentenza, a testimonianza del fatto che il Patto
non è comunemente conosciuto tra i magistrati e che la sua applicazione è
spesso subordinata alla preparazione personale dei singoli giudici.
Infine
la sentenza della Corte Costituzionale n. 376/2000, richiamando anche i
principi di protezione ed
assistenza da accordarsi alla famiglia specialmente quando essa abbia la
responsabilità del mantenimento e dell'educazione di figli a suo carico sanciti
dall’art. 10 del Patto, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.
19 del “Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero”, nella parte in cui non estendeva il divieto di
espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei
mesi successivi alla nascita del figlio.
Appare
di tutta evidenza che 16 pronunce nell’arco di oltre 20 anni sono del tutto
insufficienti a sostenere che il Patto internazionale dei diritti economici
sociali e culturali ha trovato ampia applicazione nella giurisprudenza
italiana, che anzi sembra non considerare proprio il Patto alla stregua delle
altre norme imperative vigenti in Italia. Questo desolante risultato non è
dovuto solo alla scarsa preparazione dei magistrati in materia, ma anche alla
disinformazione riscontrabile tra chi esercita la professione forense: infatti
anche se in Italia vige il principio Jura novit Curia, ciò non toglie che chi ha
interesse ha far valere un diritto in giudizio è tenuto ad illustrare
all’organo giudicante anche il fondamento giuridico delle proprie pretese.
Ciò
implica che la scarsa applicazione del Patto va attribuita anche al fatto che
gli avvocati lo utilizzano raramente per ottenere il rispetto dei diritti ivi
sanciti, che cercano di tutelare attraverso l’applicazione di altre norme
oppure, nell’ipotesi peggiore, rinunciano ad agire in giudizio per farli
rispettare ritenendo che tale diritti non sia riconosciuti dal diritto
nazionale italiano.
Corrisponde
comunque a verità che molti dei principi contenuti nel Patto sono stati già
trasfusi nella legislazione nazionale, ordinaria e costituzionale, e pertanto
essi trovano quotidiana applicazione nei nostri Tribunali. Sarebbe però stato
utile che il Rapporto invece di limitarsi a far riferimento ad una generica
attività di ricerca nel campo, probabilmente mai svolta, avesse invece
illustrato alla Commissione sui diritti economici, sociali e culturali quali
norme italiane applicassero o comunque fossero ispirate ai diritti sanciti
dagli artt. 1- 15 del Patto.
Vanna Palumbo:
Più in generale sembra necessario che i Patti
formino pienamente parte di quel tessuto di norme fondamentali la cui
conoscenza è indispensabile per l’esercizio di professioni legali e della
magistratura.
Il loro studio, a differenza di quanto accade
tuttora, dovrebbe formare parte integrante dei programmi formativi per corsi di
laurea che diano accesso alle già citate professioni ed ancora della formazione
dei funzionari e dirigenti del settore pubblico, in primis del Ministero
dell’Interno, Giustizia ed Affari Esteri, che dispongono di scuole di “alta”
formazione.
Sempre al fine di favorire la conoscenza e l’uso
dei principi ricordati, sembra da raccomandare una particolare attenzione nel
fare in modo che esista e sia di facile accesso almeno funzioni una banca dati
dei trattati ed accordi internazionali di cui l’Italia è parte; analoga
attenzione dovrebbe essere posta nella costruzione e selezione dei motori di
ricerca di legislazione, prevedendo apposite voci per la ricerca delle fonti di
diritto internazionale e delle leggi di ratifica ed entrata in vigore in
particolare dei trattati internazionali in materia di diritti umani,
attualmente mancanti.
CONTRIBUTO MARTA CIOFFI: indagine sui Codici
Marta Ciuffi: Indagine sull’insegnamento dei
diritti umani nelle Facoltà di Giurisprudenza e nelle Scuole di
Specializzazione per le professioni legali in Italia.
La Dichiarazione e il Programma d’Azione di Vienna
del 1993 hanno tra gli obiettivi principali quello di spronare gli Stati ad un
maggiore impegno nella promozione dei diritti umani anche attraverso una più
ampia educazione e la diffusione
dell’informazione pubblica nel settore.
L’indagine sull’insegnamento dei diritti umani
nelle Facoltà di Giurisprudenza e nelle Scuole di Specializzazione per le
professioni legali, ha appunto lo
scopo di fornire un quadro della
situazione in Italia e verificare il livello di preparazione e conoscenza degli
strumenti posti a tutela dei diritti umani da parte dei futuri operatori
giuridici internazionali, che in prima persona sono chiamati ad applicare le
normative relative alla loro protezione e altresì ad impegnarsi al
rafforzamento e allo sviluppo dell’insieme di tali strumenti giuridici.
L’analisi
effettuata sui piani di Studio delle 47 Facoltà di Giurisprudenza
selezionate in tutta Italia ha rivelato che solo nei corsi di laurea di 17
facoltà è presente l’insegnamento dei diritti umani. Sono stati analizzati i
corsi universitari triennali ( Scienze Giuridiche, Servizi Giuridici, Scienze
per operatori dei servizi giuridici), le lauree quadriennali in Giurisprudenza
(vecchio ordinamento) e i corsi di laurea biennali specialistici in
Giurisprudenza. L’insegnamento di
“ Tutela Internazionale dei diritti umani” – “Protezione Internazionale dei
diritti umani” – “Diritti dell’uomo” – “ Garanzia dei diritti fondamentali” – è
presente nei piani di studio di 17 facoltà di Giurisprudenza come materia
opzionale (a scelta dello studente) o come modulo negli insegnamenti di Diritto
Internazionale II o Avanzato, Diritto Internazionale Pubblico II o Diritto
Civile II, o negli insegnamenti fondamentali di Diritto Pubblico e Diritto
Costituzionale.
….
La successiva analisi dei programmi delle Scuole di
specializzazione per le professioni legali in Italia, disciplinate da alcune
Facoltà italiane di Giurisprudenza come percorso di specializzazione
post-laurea, rivela una totale mancanza dell’insegnamento dei diritti umani e
indica, quindi, la carenza di strumenti tecnici e di conoscenza necessari agli
operatori giudiziari e giuridici, alle figure legali che intendono operare in
uno scenario internazionale, in cui il rispetto dei diritti umani e la
conoscenza degli strumenti di tutela
e promozione sono imprescindibili da tale attività.
ALLEGATO 3 TABELLA INSEGNAMENTO DIRITTI UMANI
NEI CURRICULA UNIVERSITARI E POST UNIVERSITARI
4. POSITION OF ITALY ON
THE DRAFT OPTIONAL PROTOCOL TO THE INTERNATIONAL COVENANT (see list of issue
E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.4)
contributo Manfred ed Enrico
5. PARTECIPATION
OF NON-GOVERNMENTAL ORGANIZATIONS IN THE PREPARATION OF THE REPORT (see list of
issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.5)
Contributo Manfred su trasparenza del procedimento,
verbalizzazione
6.
LEGAL RESPONSABILITY OF ENTERPRISES IN THE
FULLFILMENT OF ECONOMIC, SOCIAL AND CULTURAL RIGHTS
Contributo Giuseppe Piras
CONTRIBUTO MARIA PAOLA TINI: Norme delle Nazioni
Unite sulle responsabilità delle imprese multinazionali ed altre imprese in
relazione ai diritti umani².
Da non poco tempo Organizzazioni non governative ed
Associazioni impegnate nei diritti umani hanno manifestato la necessità che
anche le imprese multinazionali e le altre imprese siano soggette alla
normativa internazionale a tutela e difesa dei diritti umani: non solo gli
Stati ma anche altri attori, in particolare le grandi imprese con attività che
superano i confini dei loro Stati di provenienza, sono soggetti di diritto
internazionale. Dalle loro attività infatti possono derivare gravissime, estese
e reiterate violazioni dei diritti umani, quali sanciti dalla dichiarazione
universale, dalle convenzioni (e i loro protocolli) internazionali, regionali e
multilatelari. Esse sono in grado di mettere in pericolo la vita e la salute di
comunità e di intere popolazioni; sono in grado di sottrarre loro le risorse,
di sconvolgere quell¹assetto ambientale che solo permette a comunità indigene
di continuare a vivere secondo la loro tradizione e la loro cultura; esse
possono gestire le loro iprese con intollerabili condizioni di lavoro; esse
provocano un crescente degrado ambientale da cui derivano diminuite capacità di
vita per le generazioni presenti e quelle future. E tutto ciò avviene senza
possibilità di ottenere da loro reintegrazioni né risarcimenti. Ed inoltre:
favoriscono governi corrotti, rallentando o impedendo i processi democratici,
fino ad arrivare all¹uso della forza armata per ridurre la resistenza. Le
multinazionali in quanto istituzioni private pretendono di non essere soggette
alla legislazione internazionale. Ma come può opporsi una pretesa del genere a
fronte di violazioni di diritti umani così gravi ed estese? Tale principio non
potrà più essere invocato. Le ³Norme² delle Nazioni Unite uscite nello scorso agosto
tagliano corto sulla pretesa delle Multinazionali e di ogni impresa di essere
esonerati da ogni responsabilità appunto perché istituzioni di diritto privato.
Le ³Norme² sono assai nette, precise e rigorose nel riassumere in un unico
testo i diritti fondamentali di cui debbono godere tutti le donne, tutti gli
uomini della terra e le responsabilità di cui le imprese debbono rendere conto
per averli violati. Potrà certo ancora essere che, a causa dell¹innegabile
strapotere delle multinazionali, del mistero che spesso avvolge la loro
proprietà, a causa del permanere della scarsa attenzione e controllo o
addirittura della connivenza degli Stati di origine o di quelli dove esse
svolgono la loro attività, le norme che finalmente determinano gli standards
internazionali sui diritti umani che si riferiscono alle imprese possano essere
ancora scarsamente osservate, le violazioni non punite, le riparazioni e i
reintegri non ottenuti dalle vittime. Ma è certo che le nuove ³Norme² sulle
responsabilità delle imprese, in quanto conosciute e largamente diffuse,
saranno assai efficaci e per quelle multinazionali che sentano la
responsabilità di cominciare ad attuarle, che vogliano preparare un piano per
farlo; e per quegli Stati che vogliano finalmente vigilare perché ciò avvenga,
come precisato dalle ³Norme²; e per le Organizzazioni che potranno dedicarsi
con orientamenti più chiari alla promozione dei diritti e alla loro tutela; e,
infine per quelle persone che, correndo il rischio di vedere violati propri
diritti fondamentali dalle attività delle imprese, potranno averne maggiore
consapevolezza e maggiore forza per difendersi con gli strumenti più
efficaci. E¹ per questo che chiediamo al Governo (?) Italiano di aderire alle
³Norme delle Nazioni Unite sulla Responsabilità delle Imprese Multinazionali e
altre Imprese riguardo ai Diritti Umani².Chiediamo inoltre che il Governo (?)
contribuisca a rafforzare la base giuridica di tali ³Norme². Chiediamo infine
che le diffonda e le applichi sia alle imprese nazionali o estere che facciano
attività nel nostro paese che a quelle italiane che facciano attività in paesi
stranieri. Qui si aggiunge la raccomandazione di Vanna sull¹inserimento
dell¹impatto sui DU per ogni deliberazione adottata.
7. INTERNATIONAL
COOPERATION (ART. 2, PARA. 1), see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December
2003, n.7
The
Committee on the Rights of the Child in its Concluding observation on Italy
(CRC/C/15/Add.198, 31/01/2003)expressed its concern for the fact that “the
Convention is not implemented to the “maximum extent of … available resources”
as stipulated by article 4 of the Convention”. Therefore the Committee
recommends “that the State party apply this principle in the activities carried
out by the Foreign Ministry’s international development aid and cooperation.”
Contributo Maurizio
8. NON-DISCRIMINATION
(ART. 2, PARA. 2) extent to which migrant workers and refugees are enjoying
their economic, social and cultural rights; how applicants for refugee status
are afforded economic, social and cultural rights (see list of issue
E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.9).
10.
Trade union rights (art. 8). See
list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.15: The
definition of essential services with regard to which the right to strike is
restricted appears to be too broad.
Contributo Alessandro Genovesi, CGIL
In Italia, dopo 5 anni di crescita occupazionale
sostenuta (1997-2002), si registra oramai una stasi nella creazione di nuovi
posti di lavoro, in particolare nel mezzogiorno (nel 2003 si sono registrati
saldi positivi per solo 11 mila unità, dati Isfol Giugno 2004). Al riguardo si
rinvia all’appendice per i commenti relativi agli ultimi dati disponibili nel
mercato del lavoro.
Al di la di una più generale congiuntura negativa
dell’economia americana e quindi di riflesso europea specifici interventi del
legislatore italiano hanno contribuito a deprimere il mercato del lavoro
nazionale, in particolare per quanto riguarda
a)
i
soggetti socialmente più deboli;
b)
le
donne.
Prima di tutto la recente riforma dei servizi
pubblici all’impiego è stata fortemente rallentata, con tagli alle
risorse destinate agli enti locali e con la completa liberalizzazione
dell’incontro domanda offerta.
La minore efficacia dei servizi pubblici ha reso
quindi più difficile inserire nel mondo del lavoro i soggetti più deboli (donne
uscite dal mercato, svantaggiati, giovani con basse qualifiche).
Più in generale il Governo italiano con la legge
30/03 e con il decreto attuativo 276/03 ha profondamente
precarizzato il mercato del lavoro italiano che conta oggi ben 48 tipi di
contratti di lavoro diversi dal contratto a tempo indeterminato, rendendo
più difficile la stipula di particolari contratti come il part-time
(utilizzato principalmente dalle donne) o come i contratti a valenza
formativa (mirati per i più giovani). La legge non è stata condivisa dalla
CGIL, il principale sindacato italiano.
Nello specifico sono state modificate le tutele
che permettevano ai lavoratori part-time di conciliare i tempi di lavoro con il
tempo libero (speso adibito a cura dei minori o di parenti più anziani) e
sono state ridotte le ore di formazione prima previste dalla legge 196/97
per i contratti di apprendistato.
Più in generale sono state abrogate quelle
maggiorazioni economiche o quegli inquadramenti contrattuali che a fronte di
maggiore flessibilità assicuravano maggiori redditi (secondo il principio,
costituzionalmente garantito, di un’ equa e giusta retribuzione proporzionata
alla qualità del lavoro).
Da segnalare poi le nuove norme per incentivare l’assunzione
di lavoratori svantaggiati (disoccupati di lunga durata, donne, giovani,
lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, ecc.): se questi lavoratori,
beneficiari di particolari sussidi, dovessero rifiutare qualsivoglia offerta
di lavoro (pagata anche il 20% in meno di quanto previsto dai contratti
collettivi di lavoro), verrebbe automaticamente tolto loro i sussidi di cui
sopra. Da notare come la norma preveda non solo che l’impresa possa beneficiare
di contributi pari alle indennità versate ai soggetti svantaggiati assunti, ma
anche che il lavoratore possa essere pagato il 20% in meno a parità di lavoro e
di inquadramento. Norma questa assolutamente discriminatoria ed inconciliabile con il principio
costituzionale, riconosciuto anche a livello di diritto comunitario per cui è
la mansione svolta che “fa il salario” e non “il tipo di persona che la
svolge”.
Da evidenziare poi il completo fallimento della
legge 383/01 del Governo in materia di lotta al contrasto al lavoro
irregolare che ha visto in più di un anno di vigenza emergere meno di 4 mila
lavoratori su una platea stimata di almeno 4 milioni di persone coinvolte (dati
Istat 2002).
Più in generale è da sottolineare lo scarso
interesse che il Governo in carica dal 2001 ha dimostrato nell’avviare un
dialogo costruttivo con i sindacati, più volte minacciati attraverso
proposte di legge miranti a ridurre il diritto di sciopero, giungendo a
riconoscere pari valore sia a sindacati vicini al Governo (anche se aventi
poche migliaia di lavoratori) che e a sindacati rappresentativi, come la Cisl,
la Uil e la Cgil (quest’ultima conta circa 6 milioni di iscritti).
Anche a partire da questo contesto si possono
quindi segnalare. come conseguenze di un modello di relazioni sindacali
praticamente assenti nel nostro paese. la legge 30 - che ha abolito la legge
196/97 (detta pacchetto Treu e caratterizzata da un buon equilibrio tra
flessibilità e sicurezza sociale) che invece viene richiamata nel documento per
l’Italia come l’asse portante del mercato del lavoro nostrano - e l’attuale decreto legislativo in
materia di sicurezza (in discussione in queste settimane) che rende più facile
- a detta di tutte le organizzazioni sindacali - non applicare le norme previste
dalla legge 626/94. Fatto assai grave alla luce di un tasso di incedenti sul
lavoro tra i più alti rispetto agli altri paesi UE, anche in conseguenza di un
altissimo tasso di lavoro irregolare.
Saldo
occupazionale:
nel gennaio 2004 l’offerta di lavoro ha avuto un aumento, in confronto allo
stesso mese del 2003, dello 0,3 % (+76.000 unità). Rispetto a ottobre 2003, al
netto dei fattori stagionali, l’offerta ha manifestato un moderato incremento
congiunturale pari allo 0,2 %.
Il
numero di occupati nel gennaio 2004 è risultato pari a 21.991.000 unità con una
crescita annua dello 0,8 % (+167.000 unità), segnando un’ulteriore riduzione
del tasso di crescita rispetto ai dati del 2003.
La nuova
occupazione rispetto al 2003 vede un importante contributo fornito dai
cittadini tra i 50 e i 59 anni con un numero di occupati che è passato da
3.831.000 unità di gennaio 2003 a 3.943.000 unità di gennaio 2004.
Si
registra ancora un calo occupazionale nell’agricoltura e nell'industria in
senso stretto con un rafforzamento della dinamica positiva nelle costruzioni e
nei servizi.
In
termini destagionalizzati e rispetto al mese di ottobre 2003, l'occupazione
nell’insieme del territorio nazionale ha registrato un lieve aumento pari allo
0,2 %.
Il
numero delle persone in cerca di occupazione è diminuito in gennaio, rispetto a
un anno prima, del 4,2 % (-91.000 unità). La riduzione ha interessato in misura
più accentuata il Mezzogiorno. Il tasso di
disoccupazione
è sceso dal 9,1 % del gennaio 2003 all'attuale 8,7%.
In gennaio, nei dati destagionalizzati,
però si deve registrare che il tasso di disoccupazione è rimasto all’8,5 %,
invariato rispetto a ottobre 2003 (i dati trimestrali non vanno confusi
con quelli annuali, che segnano una minima riduzione della disoccupazione, vedi
dopo).
Occupazione
femminile e classi di età: in gennaio la crescita su base annua dell'offerta di
lavoro ha visto un aumento dello 0,6% della componente femminile (+56.000
unità) e dello 0,1 % (+20.000 unità) di quella maschile.
Nella
classe di età tra 15 e 64 anni, la crescita delle forze di lavoro, a fronte
della sostanziale stabilità della corrispondente popolazione, ha comportato un
moderato aumento del tasso di attività passato dal 61,0 % di gennaio 2003 all'attuale
61,2 %.
Il
tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra 15 e 64 anni è
risultato nel gennaio 2004 pari al 55,8 %, 0,4 più elevato rispetto a un anno
prima. Il tasso di occupazione giovanile (15-24
anni)
è diminuito dal 24,6 % di gennaio 2003 all'attuale 23,5 %.
Tipologie
di assunzione:
a gennaio 2004 le posizioni lavorative dipendenti hanno rallentato la dinamica
espansiva segnalando un tasso di crescita tendenziale dello 0,9 %; quelle
indipendenti, dopo la battuta
d’arresto manifestata nella prima metà del 2003, hanno registrato un incremento
dello 0,5% (cioè quasi la metà della crescita del lavoro dipendente).
Con
riguardo all'occupazione dipendente, l’aumento in confronto a gennaio 2003 è
stato di 138.000 unità. Alla crescita di 78.000 unità della componente
permanente a tempo pieno si è associato l’incremento di 60.000 unità di quella
a termine e/o a tempo parziale.
In confronto a gennaio 2003 il lavoro a termine (con orario a
tempo pieno o parziale) ha registrato un incremento di 20.000 unità.
Ciononostante, l’incidenza sul totale dei dipendenti è rimasta pressoché
invariata, portandosi nel gennaio 2004 al 9,2 % dal 9,1 % di un anno prima.
Anche il lavoro a tempo parziale (con contratto a tempo
indeterminato o determinato) ha segnalato un aumento di 20.000 unità, che ha
indotto una marginale variazione dell’incidenza dal 9,0 % di gennaio 2003
all’attuale 9,1%.
Settori di attività: l'agricoltura ha manifestato nel
gennaio 2004 una nuova riduzione del numero di occupati che, rispetto a dodici
mesi prima, è stata pari all’1,3 % (-14.000 unità). Il risultato ha riflesso
esclusivamente il calo degli indipendenti.
L'industria in senso stretto ha registrato una significativa
contrazione. In gennaio, il livello dell’occupazione è risultato inferiore,
in confronto a un anno prima, dello 0,5 % (-26.000 unità). Vi ha concorso la
marcata riduzione del lavoro subordinato a fronte del
moderato aumento di quello autonomo.
Le costruzioni hanno consolidato la dinamica espansiva,
attenuatasi nella seconda parte dello scorso anno. In confronto a gennaio 2003
il numero di occupati è aumentato del 3,2 % (+58.000 unità), a sintesi della
crescita sia dei dipendenti sia degli indipendenti.
Il terziario ha confermato in gennaio una crescita costante.
L’incremento su base annua è risultato pari all’1,1 % (+149.000 unità), a
motivo di un apprezzabile accrescimento delle posizioni lavorative
dipendenti. La creazione netta di occupazione ha riguardato soprattutto il
commercio, alberghi e pubblici esercizi.
Dati sulla disoccupazione: con riguardo alle componenti della disoccupazione, alla flessione dei
disoccupati in senso stretto (-50.000 unità, pari a -5,9 %) e delle persone in
cerca di prima occupazione (-49.000 unità, pari a -5,6 %) si è contrapposto il
moderato aumento delle altre persone in cerca di occupazione (+8.000 unità,
pari a +1,7 %).
Nel
gennaio 2004 il tasso di disoccupazione si è attestato all’8,7 %,
quattro decimi di punto in meno rispetto a gennaio 2003. Nell’arco dei dodici
mesi, il tasso è passato dal 7,3 al 6,9 % per la componente maschile e
dall’11,9 all’11,5 % per quella femminile.
Occupazione
per aree territoriali: in gennaio le regioni del Nord-ovest hanno manifestato
una crescita occupazionale su base annua dell’1,0 % (+63.000 unità), in moderata
accelerazione in confronto al trimestre precedente. Alla riduzione
dell’agricoltura e dell’industria in senso stretto si è contrapposto il
significativo aumento delle costruzioni e dei servizi. Nelle regioni del
Nordest, dopo il rallentamento emerso nella seconda parte del 2003, il livello
complessivo dell’occupazione è rimasto invariato. Il risultato sintetizza il
modesto aumento del numero di occupati dell’agricoltura e dell’industria e il
calo del terziario.
Le
regioni del Centro hanno segnalato un ritmo di crescita annuo dell'occupazione
dell’1,3 % (+57.000 unità), in rallentamento rispetto al recente passato. A
fronte della flessione dell’agricoltura e della sostanziale stabilità
dell’industria in senso stretto, l’aumento della base occupazionale ha
interessato sia le costruzioni sia il terziario.
Fonti:
1.
Legge
n.898 del 1 dicembre 1970 “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”;
2.
Codice
civile (1942), Libro I, Titolo VI “Del matrimonio”, Capo V “Dello scioglimento
del matrimonio e della separazione dei coniugi”.
3.
Allegato
A “Elenco dei procedimenti interessati dall’applicazione della Convenzione
(pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.210 del 10 settembre 2003, in una nota
del Ministero degli Affari Esteri) alla legge 20 marzo 2003 n. 77: “Ratifica ed
esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli,
fatta a Strasburgo il 25 Gennaio 1996”pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
n. 91 del 18 aprile 2003- Supplemento Ordinario n. 66.
4.
Osservazioni
conclusive del Comitato sui diritti del fanciullo relativamente al rapporto
presentato dall’Italia sull’applicazione della Convenzione- XXXII Sessione-
(Punti 25 e 26).
________________________________________________________________________
L’ordinamento italiano ammette
esclusivamente il cessare degli effetti civili del matrimonio.
Il Codice civile ammette la
separazione personale dei coniugi, che può essere consensuale o giudiziale
(art.150 c.c.).
L’art. 151 c.c. stabilisce che la
separazione può esser chiesta quando si verificano fatti tali da rendere
intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio
alla educazione della prole.
La legge n.898/1970 precisa che il
giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio quando, esperito inutilmente
un tentativo di conciliazione, accerta che la comunione materiale e spirituale
tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita ( art.1) per l’esistenza
di una delle cause previste dall’art.3 della medesima legge.
L’art.3 asserisce che la cessazione
degli effetti civili del matrimonio può essere domandata da uno dei coniugi
quando:
1.
dopo
il matrimonio, l’altro coniuge venga condannato con sentenza passata in
giudicato (anche per fatti commessi in precedenza): a) all’ergastolo o ad una
pena superiore ad anni quindici, per delitti non colposi; b) a qualsiasi pena
detentiva per i delitti di incesto (art.564 c.p.), violenza carnale (art.519
c.p.), atti di libidine violenti (art.521 c.p.), ratto a fine di libidine
(art.523 c.p.), ratto di persona minore di anni quattordici o inferma, a fine
di libidine o di matrimonio (art.524 c.p.), induzione, costrizione,
sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione; c) a qualsiasi pena per
omicidio volontario di un figlio o tentato omicidio a danno del coniuge o di un
figlio; d) a qualsiasi pena detentiva per lesioni personali (art.582 c.p.),
violazione degli obblighi di assistenza familiare (art.570 c.p.),
maltrattamenti in famiglia e verso fanciulli (art.572 c.p.), circonvenzione di
persone incapaci (art.643 c.p.), in danno del coniuge o dei figli;
2.
a)
l’altro coniuge sia stato assolto per vizio totale di mente dai delitti di cui
al n.1 lettere b) e c) quando il giudice accerta l’inidoneità del convenuto a
mantenere o ricostituire la convivenza familiare; b) sia stata pronunciata con
sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale tra i coniugi o è stata
omologata la separazione consensuale o è intervenuta separazione di fatto
iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970. Le separazioni devono
essersi protratte ininterrottamente da almeno tre anni; c) quando il
procedimento penale promosso per i delitti di cui al n.1 lettere b) e c) si sia
concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando
il giudice ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e
le condizioni di punibilità dei delitti stessi; d) il procedimento penale per
incesto si sia concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che
dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo; e) l’altro
coniuge, cittadino straniero, abbia ottenuto all’estero l’annullamento o lo
scioglimento del matrimonio o abbia contratto all’estero nuovo matrimonio; f)
il matrimonio non sia stato consumato; g) sia passata in giudicato la sentenza
di rettificazione di attribuzione di sesso.
Il Comitato per i diritti del Fanciullo, già in occasione della sua
XXXII Sessione, aveva espresso la propria preoccupazione nelle Osservazioni conclusive
indirizzate all’Italia (punti 25 e 26) per il fatto che il principio del
diritto all’ascolto, sancito nella “Convenzione sui diritti dell’Infanzia del
1989” e ribadito nella “Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti
dei minori”, non venisse applicato nella pratica, raccomandando al nostro Paese
di garantire adeguatamente il diritto dei bambini ad essere ascoltati, nei
procedimenti aventi diretto impatto su di loro ed in particolare nei
procedimenti di separazione e divorzio, adozione, affidamento o relativamente
all’istruzione (punto 25).
12. Protection of the
family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.19: Forms
of discrimination against children born out of wedlock.
Fonti:
________________________________________________________________________
L’articolo 30 della Costituzione della Repubblica
Italiana (1948) recita “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed
educare i figli, anche se nati al di fuori dal matrimonio.
Nei casi di incapacità dei genitori, la legge
provvede a che siano assolti i loro compiti.
La legge assicura ai figli nati
fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti
dei membri della famiglia legittima.
La legge detta le norme e i limiti per la ricerca
della paternità”.
Come risulta evidente dal testo dell’articolo, se
al comma 1 è riconosciuta l’eguaglianza tra figli legittimi e figli naturali(
ovvero tra figli nati all’interno del vincolo matrimoniale e figli nati al di
fuori), al comma 3 si cerca di contemperare tale principio con “i diritti dei
membri della famiglia legittima”, il che equivale a svuotarlo del suo
significato.
Il fatto stesso che la condizione di figlio
naturale riconosciuto si acquisti in seguito ad apposito atto da rendersi in
forma pubblica (atto di riconoscimento) , nell’atto di nascita, in un
testamento o tramite dichiarazione davanti ad un ufficiale dello stato civile,
mentre quella di figlio legittimo si basa su un sistema di presunzioni, anche
se non assolute ( cioè che ammettono prova contraria), è indice del permanere
di una forma di discriminazione nei riguardi dei figli naturali.
Un primo passo in avanti è fatto con la legge n.151
del 1975 “Riforma del diritto di famiglia”, che mira ad adeguare le norme
dell’ordinamento italiano ai principi costituzionali e alla mutata coscienza
sociale.
In seguito alla riforma, il codice civile (1942) è
stato innovato e attualmente prevede che il figlio naturale possa essere
riconosciuto dal padre e/o dalla madre, sia congiuntamente che disgiuntamente e
che il riconoscimento non possa essere rifiutato ove risponda all’interesse del
figlio (art.250 c.c.), esso, inoltre, una volta effettuato è irrevocabile e
retroattivo (art.256 c.c.).
L’art.261 c.c. stabilisce che “il riconoscimento
comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i
diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi”.
Nonostante i buoni
propositi da cui era animata la riforma del 1975 può accadere che nè il padre
nè la madre riconoscano il figlio naturale: in questo caso un bambino nato al
di fuori del matrimonio non ha legalmente né padre né madre e sarà iscritto nei
Registri dello Stato Civile come nato da genitori ignoti, trovandosi in una
condizione di possibile adottabilità.
Nelle Osservazioni
conclusive il Comitato auspicava anche la ratifica da parte dell’Italia della
Convenzione europea sullo status legale dei bambini nati al di fuori del
matrimonio (Strasburgo, 1975), che il nostro Paese aveva firmato nel 1981 e che
afferma alcuni principi basilari, quali, appunto, il fatto che a ciascun
bambino sia legalmente garantito per lo meno il vincolo con la madre per il
solo fatto della nascita (art.2), mentre il diritto ad avere un padre sia
garantito attraverso il riconoscimento volontario da parte di quest’ultimo o
una sentenza dell’autorità giudiziaria (art.3).
Un articolo
fondamentale all’interno della Convenzione è il n.9, il quale assicura al
figlio nato al di fuori del matrimonio i medesimi diritti successori spettanti
ad un figlio legittimo, tema cruciale, come spiegheremo in seguito, data la
persistente disparità di trattamento in campo successorio tra figli legittimi e
naturali nel nostro ordinamento.
E’ anche possibile
che uno solo dei due genitori riconosca il figlio naturale: il riconoscimento
fatto da uno solo dei due non vale anche per l’altro; in proposito l’art.258
c.c. afferma che “il riconoscimento non produce effetti se non riguardo al
genitore da cui fu fatto”, ciò significa anche che non si crea un rapporto
giuridico tra il figlio naturale riconosciuto ed i parenti del genitore che ha
effettuato il riconoscimento, a parte nonni e bisnonni, i figli naturali
riconosciuti non possono, cioè, acquisire legalmente gli zii ed i cugini. Al
contrario, se il giudice con provvedimento di legittimazione attribuisce al
bambino nato fuori dal matrimonio lo status di figlio legittimo, quest’ultimo
acquisisce i normali legami di parentela con tutti i parenti dei genitori (lo
stesso accade in seguito a matrimonio dei genitori del figlio naturale)
(art.280 c.c.).
Come già
accennato, nell’ordinamento italiano ci sono degli ambiti in cui ancora prevale
il cosiddetto “favor legittimitatis”a discapito dello status di figlio
naturale: uno di essi riguarda l’inserimento del figlio naturale riconosciuto
nella famiglia legittima del genitore che ha effettuato il riconoscimento,
inserimento che avviene solo su autorizzazione del giudice, qualora ciò non sia
contrario all’interesse del minore, ed è subordinato al consenso dell’altro
coniuge e dei figli legittimi che abbiano compiuto sedici anni e siano
conviventi (art.252 c.c.)[2].
Un altro ambito
concerne la legge n.328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali”considerata discriminatoria in quanto
individua nel Comune la titolarità degli interventi assistenziali rivolti ai
cittadini ( e tra di loro, i figli legittimi), ma attribuisce alle Regioni la
facoltà di affidare ad altri Enti locali le funzioni assistenziali che erano
delle Province nei confronti dei minori nati al di fuori del matrimonio[3].
Tuttavia il campo
in cui si riscontrano le maggiori differenze di trattamento tra figli legittimi
e naturali è quello successorio.
Nonostante, in
seguito alla legge n.151/1975:
§
l’art. 566 c.c.,
, affermi che “al padre e alla madre succedono i figli legittimi e naturali, in
parti uguali”;
§
l’art.542 comma
2 precisi che “la divisione tra tutti i figli, legittimi e naturali, è
effettuata in parti uguali”;
§
l’art. 565
indichi che nella successione legittima l’eredità si devolve, nell’ordine, al
coniuge, ai discendenti legittimi e naturali, agli ascendenti legittimi, ai
collaterali, agli altri parenti e allo Stato[4]
;
§
l’art. 536 individui tra le persone cui
la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione, dopo
il coniuge e i figli legittimi, i figli naturali;
L’art.573
c.c. precisa che “le disposizioni relative alla successione dei figli naturali
si applicano [solo] quando la filiazione è stata riconosciuta o giudizialmente
dichiarata….”e ancor più l’art. 537 ricorda che la quota del patrimonio
riservata ai figli , siano essi legittimi o naturali, (comunemente chiamata
quota di legittima) è la medesima e consta dei 2/3 del patrimonio, essa va
divisa tra tutti i figli in parti
uguali: lo stesso articolo, all’ultimo comma, precisa che i figli legittimi
possono commutare in denaro o beni immobili ereditari la porzione spettante ai
figli naturali che non vi si oppongano; nel caso di opposizione decide il
giudice, valutate le circostanze personali e patrimoniali .
Il recente
passaggio di competenze anche in materia d’infanzia dallo Stato centrale alle
Regioni (con la modifica del Titolo V della Costituzione), ci porta a segnalare
come quest’ultime, con leggi e politiche regionali, potrebbero introdurre delle
norme discriminanti nei confronti dei figli naturali. A titolo di esempio gli
atti della Regione Lazio a Sostegno della Famiglia ( la legge n.32/2001[5]
e la delibera n. 862 del 28/6/2002[6]):
§
la legge
n.32/2001 qualifica espressamente la famiglia come “società naturale fondata
sul matrimonio e istituzione privilegiata per la nascita, la cura e
l’educazione dei figli”( Art.1);
§
la delibera n.
862/2002, nello stanziare dei fondi regionali a sostegno delle famiglie che versano in condizioni di
particolare disagio socio economico, si riferisce solo a nuclei di coppie che
abbiano contratto matrimonio o che abbiano intenzione di contrarlo entro
determinati termini (Allegato A,
alla DGR n. 862 del 28/07/2002: LINEE GUIDA PER LA EROGAZIONE DEGLI ASSEGNI
“UNA TANTUM” DA DESTINARE ALLE FAMIGLIE DEL LAZIO E CRITERI PER LA FORMAZIONE
DEI PUNTEGGI VALIDI PER LA IMMISSIONE NELLE GRADUATORIE
1. Per l’anno 2002, gli interventi a favore della famiglia, in applicazione
della legge regionale 7 dicembre 2001, n. 32 (interventi a sostegno della
famiglia) consistono in assegni “una tantum” del valore unitario di 1000 Euro
ciascuno, per le seguenti categorie di beneficiari:(…)
b) famiglie costituite, a seguito
di matrimonio, antecedentemente all’anno 2002, che versino in condizioni di
particolare disagio socio economico, quale contributo finalizzato
particolarmente alle spese che gravano sul bilancio familiare per l’assistenza
a minori, a disabili ed ad anziani.(…)”
13. Protection of the
family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.20: Family
violence.
Fonti:
1.
UNICEF
IRC, Innocenti Digest n.6, giugno 2000 “La violenza domestica contro le donne e
le bambine”;
2.
Osservazioni
conclusive del Comitato sui diritti del fanciullo relativamente al rapporto
presentato dall’Italia sull’applicazione della Convenzione- XXXII Sessione-
(Punti 37 e 38);
3.
Legge
n.154 del 4 aprile 2001 “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”.
Nel 2000, nell’ambito della
pubblicazione dell’Innocenti Digest n.6 sulla violenza domestica contro le
donne e le bambine, da parte dell’UNICEF Innocenti Research Centre di Firenze,
si stimava che tra il 20 ed il 50% delle donne avesse subito qualche vessazione
da parte di un membro della famiglia, nonostante le difficoltà di disporre di
dati statistici, a causa degli ostacoli psicologici e sociali legati alla
denuncia del fenomeno
Non esiste una definizione
universalmente accettata di violenza domestica: di norma essa consiste in un
concetto ampio che ricomprende i maltrattamenti fisici, le vessazioni sessuali,
psicologiche ed economiche perpetrate nei confronti delle donne e delle bambine
da parte di un membro del gruppo familiare, sia che la violenza avvenga
all’interno che al di fuori delle mura domestiche.
L’indagine dell’UNICEF
Innocenti Research Centre ha dimostrato il carattere di universalità del
fenomeno della violenza domestica contro le donne: una serie di studi ha
confermato il perpetrarsi della violenza domestica in tutte le parti del mondo.
L’Italia ha compiuto dei
passi avanti nel tutelare i minori dalla violenza domestica, in particolare con
l’istituzione di una Commissione nazionale per il coordinamento dell’azione in
relazione al maltrattamento, all’abuso e allo sfruttamento sessuale dei bambini
e l’adozione della legge n.66/1966 e della legge n.154/2001.
In particolare
quest’ultima, intitolata “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”
introduce:
-
nel
codice di procedura penale il provvedimento dell’allontanamento dell’imputato
dalla casa familiare e la prescrizione all’imputato di non avvicinamento ai
luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (art.282 bis c.p.p.);
-
nel codice civile e di procedura civile
gli “ordini di protezione contro gli abusi familiari” (artt.342 bis e ter c.c.
e 736 bis c.p.c.);
estendendo le disposizioni in essa
contenute, in quanto compatibili, alla condotta pregiudizievole tenuta da un
componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente.
Tuttavia il Comitato per i
diritti del fanciullo, in occasione della sua XXXII Sessione (gennaio 2003),
nelle Osservazioni conclusive indirizzate all’Italia si è mostrato preoccupato
per la mancanza di dati esaustivi relativi ai maltrattamenti sui minori e per
il fatto che la legislazione italiana in materia non assicura la stessa tutela
ai bambini di 14 anni e a quelli di 16, a seconda della relazione con
l’abusante, e ha auspicato l’adozione di adeguate campagne di sensibilizzazione
in materia con il coinvolgimento dei bambini stessi e la modifica della
legislazione relativamente ai differenti trattamenti di cui sopra, legati
all’età delle vittime (punti 37 e 38).
Issue 20 CONTRIBUTO DELLA WILPF- ITALIA, Patrizia Sterpetti , Antonia
Sani, Anita Fisicaro, con il
contributo dell’avv. Adriano Casellato: Protection of the family,
mothers and children (art.10) Violenze in famiglia ed extraconiugali (con il contributo
dell’associazione “Differenza Donna”)
I dati che seguono illustrano l’ampiezza delle violenze a
carico delle donne nel Comune di Roma e nella Provincia di Roma. Dal tasso di
richiesta di aiuto da parte delle donne che si registra nei 90 Centri dispersi
sull’intero territorio nazionale è evidente, sia l’insufficienza dei servizi a
garanzia della protezione delle donne, sia il permanere di comportamenti e
forme squilibrate nelle relazioni fra i due sessi. [ALLEGANO TABELLA DATI 18
PAG.]
14. Protection of the
family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.21: Trafficking
in trafficking in women and children, child prostitution, child pornography.
“The
recent Law 228 (8 August 2003) “Measures against trafficking of human beings”
introduced new instruments to fights this problem. This law, in particular,
provides for:
§
Penalties for perpetuators,;
§
Specific legal definition of reduction into
slavery and trafficking on human beings:
§
Victims rehabilitation through the creation of
a new fund to finance specific programmes. Specific attention will be paid to
the victims first assistance ( housing, health care, etc)
§
Prevention: this law gives to the Ministry of
Foreign Affairs the power to define cooperation policies on this issue, and to
organise international meetings and information campaigns also in countries of
origin.
Law
228/2003 provide for reclusion from 8 up to 20 years for perpetrators in
general, and longer reclusion if victims are minors or if perpetuators are
involved in criminal networks. All the penalties are increased (of 1/3 or ½)
for all the crimes targeted by the law, when the victims are below 18.
Dealing
with legal instrument providing protection for victims of trafficking, Law
n.40/1998 (article 18) provides a specific protection for victims of
trafficking: an expulsion order can be converted in a special permit of
residence for protecting victims of trafficking who cooperate whit judicial
system. Victims will participate to an assistance and social re-integration
programme. These measures are reinforced by Law 228/03, including first
assistance and long term reintegration.”[7]
“Secondo i dati diffusi dalla Direzione centrale
Immigrazione e Polizia delle frontiere
del Ministero dell’Interno, comunque, al 31 ottobre 2003 risultavano
essere stati rilasciati 3757 permessi di soggiorno per protezione sociale ai
sensi dell’art. 18 t.u. immigrazione.
Nel 2003 in Italia n.848 Permessi di soggiorno per protezione sociale
rilasciati alle vittime di tratta, ai sensi dell’art.18 Testo Unico
sull’Immigrazione, in prevalenza donne provenienti da Nigeria (222), Romania
(180), Moldavia (939, Ucraina (65), e Albania (64). (Fonte: Ministero
dell’Interno, Dipartimento Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della Polizia
Criminale).
L’Italia non ha ancora ratificato il Protocollo di
Palermo (Protocollo delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato
trasnazionale).” [8]
Juvenile prostitution *[9]
“The phenomenon of juvenile prostitution intersects
with both the complex world of prostitution in general, but also with child
trafficking.
In Italy, Nigerian girls started arriving at the
end of the 1980s, followed in the early 1990s by large numbers of Albanian
girls with extremely violent personal histories. More recently, girls began to
arrive from Eastern European (from the former U.S.S.R., Moldavia, Romania,
Poland, and Hungary). The different cultural backgrounds of the girls involved
has necessitated different approaches and systems of communications for each
individual ethnic group. However, the issue of prostitution should also be seen
within the wider framework of migration policies; in
this context, the introduction in Art. 18 of the consolidated Act (Testo Unico)
286/98[10]
of residence permits to provide social protection is a genuinely important
break-through for the protection of girl victims.
The public perception of juvenile prostitution in
Italy is informed by the presence of
girls walking the streets of almost all towns. However, in addition, there is a significant problem of male
child prostitution, and girls working in clubs, night clubs or private
apartments, although people are generally unaware of its existence.
Compiling data on the prevalence of children
engaged in prostitution on Italian streets is difficult, because it is a
constantly changing phenomenon involving the whole country and high levels of
mobility amongst those involved. What is evident is the higher incidence of
certain nationalities in the streets, primarily
Albanian girls, while Italian girls are seldom seen on the streets.
There is also difficulty in establishing the
real age of immigrant girls seen in the streets. Children
can easily look older than they are through elaborate use of make-up, clothes
and movements. Often apparently very young girls claim to be over 18:
conversely girls over 18 may claim to be under age in order to get help in
leaving the streets. As a result, there are conflicting views both as to the
percentage of girls under age in the streets and as to the trend. Different
commentators have claimed that it is increasing, decreasing and stable[11].
However, young girls are increasingly popular with many clients, because they
are deemed to be healthier. The only significant research undertaken estimates
that the presence of foreign girls under age in the streets ranges between 16%
and 30%[12],
while a more recent informal survey among practitioners in the field
established a percentage of approximately 10%. A further survey is currently
under way in the Emilia Romagna region by the Observatory on Juvenile
Prostitution of Rimini.
The mass media often
turn juvenile prostitution into a show by dramatizing it on television in ways
which distort the realities of the experience for children.
Many different private organizations, including
Catholic associations, women’s movements, emergency shelter communities and
grass-roots movements, are playing an important role in tackling the problem.
Services being developed include support and emergency shelters, prevention and
health protection, help in accessing alternative employment or assisted
repatriation, although this is impracticable for many girls. There is also a
strong social-political commitment by public institutions to provide effective
laws and regulations for the protection of these young girls and to help them
obtain residence and work permits. Finally, private social workers also act as
«antennas» operating as a conduit between the experience on the streets and
government institutions.
Public agencies, and
the Regions, Provinces and Municipalities in particular, normally intervene at
a later stage, but they play a significant role on a political level as they
coordinate, monitor, validate and support projects, in addition to financing
actions.
In respect of regional policies, one positive
example is the pilot experience of the Social Policy Department of the local
government of the Region Emilia-Romagna, which approved a regional project on
prostitution in 1996 and created the Osservatorio Regionale sulla Prostituzione
Minorile (Regional Observatory on Juvenile Prostitution) with the AUSL (local
health departments) of Rimini in 1999.” [from Supplementary Report to the CRC
Committee, Gruppo di lavoro per la CRC, 2001]
However it is at the moment very difficult to find
out if the Observatory is still operative and if and which plans they have for
the future. They only organized a conference in January 2004 to publicize the
result of a research conducted with the aim of analyzing the media attention
versus the juvenile prostitution for a period of 20 months.
Trafficking in children
Italy is affected by trafficking
in children as a destination country as well as a point of transit on the route
from Eastern Europe and North Africa towards central and northern Europe. At
the beginning of the 1990s, the arrival of women and children from Albania was
recorded. They were accompanied by parents and fictitious boyfriends and had
often been abducted in their own country. The mid-1990s saw the arrival of
women from Eastern Europe, especially Romania. This appears to be caused by the
Security Forces cracking down on Albanian organised crime, meaning that other
routes and recruiting areas for trafficking had to be found (countries on the
Albanian border: Kosovo, Romania, Moldavia). According to information recently
provided by workers in reception centres, the presence of Albanian minors is
falling, whilst that of women and children from Bosnia is rising. The major
national groups running this trafficking are Albanians and Romanians and, since
the 1990s, African and ex-Yugoslavian citizens.
The
only reliable and available data come from
the statistics made by the Equal Opportunity Department on the number of
permits for social protection issued under the umbrella of article 18,
Legislative Decree n°286/98. The Italian National Institute of Statistics
(Istat), in fact, when dealing with foreigners in Italy, disaggregates data on
the issue of residence permits only in categories such as work, family,
religion etc, while social protection permits are countered as “others”. In
particular, data coming from the Equal Opportunity Department, and elaborated
by the Inter-ministerial Commission for the implementation of article 18, shows
that in the period between March 2000 and February 2001 there were 240 cases of
underage girls entering social protection programmes, 134 of which coming from
Albania and Romania.[13]
In Italy
trafficking in children is strongly connected to sexual exploitation.
However during the last decade a number of other forms of exploitation and
abuse have clearly emerged in direct connection with child trafficking, such as
illegal labour exploitation, begging, international adoption,
and in a few instances the sale of organs. However, there are no official data
available on these types of exploitation.
The forms of sexual exploitation in Italy vary from
abusing children in the child pornography milieu involving child-actors, from
children being compelled into street prostitution to confinement in brothels.
The existence of networks
of individuals in Eastern European countries engaged in the business of buying
and selling victims for profit which could in part explain the high percentage
of victims from those countries. It seems that there is a very well organised
network of criminals operating in synergy to manage the entire process. The
network highlights the existence of illegal connections among different
criminal organisations.
The type
and duration of the travel period changes significantly from one case to
another, depending on the routes followed and the people encountered along the
way. However, there are a number of common features: violence, threats and
rape.
The first
East-West route is used by traffickers from Ukraine (the recruiters), Slovenia,
Yugoslavia and Italy, whose nationalities are indicative of the method adopted
by the traffickers. Ukraine, Russia, Moldova, Bulgaria and the Baltic States
are the preferred places of origin of the victims, while the border used for
illegal entry into Italy is the Italian-Slovenian one along the boundaries of
the provinces of Trieste and Gorizia. This is a geographical ‘loophole’: forest
paths are well hidden in the woods and difficult to access, and police controls
have been reinforced only recently.
- Albanian
crime groups manage the second East-West route. They recruit victims from among
their nationals in Albania, while also they taking victims from other Eastern
European countries. The last part of the journey from Albania to Italy is
common to both: the main departure points in Albania are Valona and Durazzo,
from where, after the well established motorboat services provided by Albanian passeurs
have been used, the victims are disembarked on the
Apulian coasts near the cities of Lecce, Brindisi and Bari.
The
Committee on the Rights of the Child in its
Concluding Observation on Italy (CRC/C/15/Add.198, 31/01/2003) remains
concerned at the numbers of children who are trafficked for sexual purposes in
Italy. Therefore the Committee “recommends that the State party:
(a) strengthen
its efforts to prevent and combat trafficking in children for sexual purposes
in accordance with the Declaration
and Agenda for Actions, and the Global Commitment adopted at the 1996
and 2001 World Congresses against Sexual Exploitation;
(b) … and
(c) ensure
that adequate resources, both human and financial, are allocated to policies
and programmes in this area.
The
extent of child pornography in Italy[14]
Analysing
the size of the child pornography problem in numeric terms is a hard task given
the lack of up-to-date data and detailed studies. In evaluating the dimensions
of child pornography, two aspects must be considered:
· The
number of children and adults who have been abused during the production of
child-pornographic material
· The
gamut of child pornography itself.
Sexual
abuse, in all its forms, is a hugely complex social problem that requires a
high level of professional expertise. It is also extremely difficult to provide
a detailed answer as to the size of the problem on the Internet as it is not
the subject of statistical analysis.[15]
The most indicative figures available regarding the child pornography phenomenon
in Italy are therefore those available from the Italian Public Prosecutor’s
Office (Table 2), from penal institutions and the Police.
The data
regarding article 600,3r is interesting as it shows that with a total of 255
cases under investigation it is the crime that is prosecuted most often.[16]
This article punishes those who exploit children in order to produce child
pornographic material, those who trade in it, those who distribute, publish or
advertise it telematically or those who pass it on free of charge.[17]
Number of people detained or subjected to
restrictive measures under article 600 commas 3 & 4 |
|||
CRIME |
Detained |
Alternative measures |
|
art.600,3* |
61
87 |
||
art 600,4 ** |
|||
|
|
||
*Child
pornography |
|||
**Possession
of pornographic material produced
through the sexual exploitation of children under the age of 18 |
|||
Table 3
Other data providing useful information is
that provided by the Department of Penitentiary Administration of the Ministry
of Justice (table 3) that shows how many people have been found guilty of
crimes under article 600 ,3 & ,4 of the Italian penal code. Even so, we
know that the data is subject to many variables, such as the fact that crimes
under article 600,4 may simply be punishable by a fine and not necessarily by imprisonment. Additional data is also supplied by the
State Police (table 4)
Results
of operations carried out by the Telematic Police since the coming into force
of Law 269/98 as of 30 September 2003 |
|
Searches |
1,625 |
Number
of people reported currently at liberty |
1,683 |
Investigated
people subject to restrictive measures |
101 |
Total
number of web sites monitored |
85,699 |
Total
number of web sites discarded |
24,242 |
Table 4[18]
The phrase “web sites cleared” is used to describe those that have been
investigated by the police who have subsequently deemed it unnecessary to
continue further enquiries (because already closed down, previously
investigated, operating legally etc.)
Diagram
2.[1]
As far as the reports made by the Telematic Police to foreign forces (Interpol
etc), by October 2003, since the coming into force of law 269/98 these numbered
some 5989.
Data
gathered directly by Stop-it, the project of Save the Children Italy against
child pornography, can be added to that supplied by the Public Authorities, and
this makes it possible to deduce the percentage of child-pornographic sites
registered on Italian servers. During Stop-it’s first 10 working months, of all
those reports made by them to the competent authorities, some 9.9% of those on
Italian servers contained child pornographic material. (see diagram 3)
From this brief description, it can be inferred just how difficult it is
to give precise figures regarding the extent of the size of the child
pornography problem in Italy. It is however easy to deduce how this phenomenon
is likely to increase with the use of Internet and result in even greater
risks.
15. Protection of the
family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.22: Asylum-seekers
and entitlement to family reunification.
Contributo sottogruppo bambini e adolescenti:
Applicants
for refugee status within the scope of 1951 Geneva Convention are admitted
reunification with their family members for the time their application is
handled,, as provided by 1990 Dublin Convention and the following EU regulation
no. 343/2003, February 18th, 2003.
Italian
legal system does not provide different or more specific norms in order to
enable asylum seekers to trace or to factually reach their family members. The
practice shows that reunification is very difficult to apply when family
members are in other EU Member States, due to lack of coordination among
offices of different states and difficulties for the police to perform the
necessary activities to grant entry clearance in another State. Procedures seem
not be set and organised in order to make the right to family right effective
when an applicant's family members live outside Italy.
Subsidiary
protection is granted by the law only in case of emergencies (art.20, Statute
no. 286, July 28th, 1998, UE directive 2001/55/CE, July 20th,
2001 and implementation decree April 7th, 2003 no. 85).
Extraordinary statutes may be adopted in connection with war events and the following
mass movements (e.g. 1999 war in Kosovo/Yugoslavia). Emergency decrees signed
by Italy's Prime Minister allowed the entry of thousends of asylum seekers,
partly claiming to have family members residing in Italy (P.M.decree March 26th,
1999 and Ministry of Internal Affairs order no. 2967 of March 26th).
Provisional residence permit allow asylum seekers and their family members to
access limited health care treatments and welfare benefits. After emergency
ceases, asylum seekers and their family members are granted a long-term
residence permit, if they can prove to dispose of adequate housing and
sufficient income.
I contributi
del gruppo salute vanno, oltre che sintetizzati, riorganizzati per
l’inserimento nei paragrafi 16 e 17. Possono essere creati altri paragrafi per
affrontare issues specifiche e non comprese nella 28 e 29 della list of issues.
CONTRIBUTO
LEGAMBIENTE E LIBERA, Nunzio Cirino: Ecomafia e criminalità ambientale
Il 2003 è stato caratterizzato da un deciso
incremento di tutti i principali parametri presi in esame dalla nostra
associazione: gli illeciti ambientali accertati dalle forze dell’ordine
sono stati 25.798, circa il 32,6% in più di quelli riscontrati nel 2002. E’
quasi raddoppiato in un anno il numero dei sequestri giudiziari, un
provvedimento che, com’è noto, segnala la particolare gravità dei reati su cui
s’indaga: sono stati ben 8.650 contro i 4.479 del 2002; aumenta anche il numero
delle persone denunciate, 19.665, il 18,1% in più rispetto al 2002; quasi
raddoppiato, invece, il numero degli arresti eseguiti: 160, contro gli 87 del
2002, un dato che risente, in modo particolare, delle operazioni compiute dal
Reparto operativo del Comando tutela ambiente dell’Arma dei carabinieri per
quanto riguarda i traffici di rifiuti, ma anche delle inchieste condotte dal
Corpo forestale dello Stato (in materia di rifiuti, di escavazioni abusive e di
bracconaggio) e della Guardia di finanza. Cresce il business complessivo
dell’ecomafia, che nelle stime di Legambiente supera nel 2003 i 18,9 miliardi
di euro, con un incremento del 14,2% rispetto al 2002. Aumenta anche il numero
dei clan
censiti: 11 in più rispetto al precedente Rapporto Ecomafia, per un totale di
169 clan.
A differenza di quanto affermato nel
rapporto governativo para 11, major envoromental issues affect persons health.
Anche sull’altro fronte caldo dell’ecomafia, quello
del ciclo dei rifiuti, le notizie raccolte sono particolarmente gravi.
L’introduzione, attraverso l’art.53 bis del decreto Ronchi, del delitto di
organizzazione di traffico illecito di rifiuti, ha portato nel giro di appena
due anni, alla scoperta di colossali traffici di rifiuti pericolosi, con
l’emissione di ben 133 ordinanze di custodia cautelare e alla denuncia di 463
persone. Sono, infine, 150 le aziende coinvolte e ben le 16 regioni italiane a
vario titolo interessare da questi traffici.
Eclatante è il fenomeno della “catena montuosa” dei
rifiuti speciali scomparsi, infatti alle tre montagne di rifiuti spariti nel
nulla e già denunciate nei precedenti Rapporti (rispettivamente di 1.150 metri
nel 1988, di 1.120 metri nel 1999, di 1.382 metri nel 2000), si aggiunge una
nuova “vetta” di 1.314 metri di altezza (se può consolare, 68 in meno rispetto
all’anno precedente) e tre ettari di base, pari a 13,1 milioni di tonnellate di
rifiuti speciali, anche pericolosi, di cui si stima la produzione ma non si
conosce l’effettivo smaltimento. Particolarmente inquietante è la difficoltà
incontrata nell’individuare un numero certo sulle quantità gestite dei rifiuti
nel “Rapporto rifiuti 2003” curato dall’Apat e dall’Osservatorio nazionale
rifiuti, in quanto la differenza tra rifiuti prodotti e rifiuti gestiti aiuterebbe
a comprendere meglio la dimensione dei traffici e degli smaltimenti illeciti
nel nostro Paese.
L’indicazione
dell’alta “specializzazione” e pericolisità raggiunta dalla criminalità nel
settore dei rifiuti è data da due casi esemplari: il primo ha riguardato i
territori dell’Agro aversano, (Caserta) e diversi comuni dell’area a nord di
Napoli (in particolare nel triangolo Qualiano, Giugliano, Villaricca), sono
stati ribattezzati la terra dei fuochi, per gli ingenti quantitativi di rifiuti
che si continuano a bruciare ogni notte con tecniche sempre più raffinate. Da
questi roghi, si sprigionano rilevanti quantità di diossina ed è molto
probabile che proprio questa sorta di “termocombustione” vadano ricondotti i
gravi fenomeni di contaminazione, che hanno portato al sequestro e
all’abattimento di alcune migliaia di capi bovini nonché alla recentissima
emanazione di ordinanze sindacali che vietano in alcune di queste aree il
pascolo, la raccolta di foraggio e la detenzione di animali da cortile.
L’altro caso ha riguardato, invece, il sistema di
smaltimento illecito al centro dell’operazione “Paddock” compiuta dal Corpo
forestale dello Stato e dalla Guardia di finanza. Le indagini hanno individuato
l’impiego di cavi elettrici tritati e mescolati con sabbia per “allestire” le
aree di allenamento dei cavalli in numerosi menegi nella provincia di Firenze
(ma il traffico ha interessato anche la Lombardia, l’Emilia Romagna e le
Marche). Il materiale, come rivela un comunicato stampa della stessa Arpat
Toscana, “conferisce una buona elasticità al fondo e non comporta la formazione
di polvere”; peccato che rientri nella categoria dei rifiuti pericolosi (!).
►Lo scenario non
confortante, tratteggiato nel Rapporto Ecomafia 2004, porta alla necessità di
attuare tutte quelle misure necessarie per contrastare in maniera adeguata i
“ladri di futuro”. Prima tra tutte l’introduzione dei delitti contro l’ambiente
nel Codice penale. Una riforma in linea con quanto è previsto anche dal
Consiglio d’Europa e dalla Commissione Europea in materia di tutela penale
dell’ambiente.
► raccomandazione su prevenire
ecomafia con educazione
Il diritto alla salute non è sufficientemente
tutelato all’interno delle carceri italiane.
Il sovraffollamento ( 31 dicembre 2003: n.° detenuti 54.237 a fronte di capienza n.° 41943 ) e le
conseguenti precarie condizioni igienico-sanitarie , la mancanza di movimento,
lo stato inadeguato di molte delle
strutture edilizie carcerarie costituiscono le cause della mancata attuazione
di una normativa, che assicura alle persone detenute livelli di prestazioni
analoghi a quelli dei cittadini in stato di libertà .
L’assistenza sanitaria in carcere risulta lacunosa per mancanza di
personale sufficiente e di attrezzature aggiornate. Medici e soprattutto
infermieri non riescono ad assicurare i turni di notte in molti istituti. In
meno della metà degli istituti una Guardia Medica è assicurata per 24 ore. Scarsa risulta la dotazione di farmaci,
carenti le visite specialistiche anche per i malati più gravi , difficoltosi i
ricoveri esterni e gli interventi d’urgenza .
Rispetto ai circa 17.000 detenuti tossicodipendenti , va segnalato che
dal 1°luglio 2003 i fondi necessari al funzionamento dei Presìdi Sanitari per
le tossicodipendenze sono
passati dal Ministero di Giustizia al Fondo Sanitario Nazionale .
In realtà è avvenuta una presa in carico da parte dei SerT di un numero
di detenuti tdp molto inferiore alla percentuale di tdp che entrano in carcere,
infatti i detenuti afidati ai SerT sono quasi esclusivamente quelli che hanno
problemi acuti in atto (astinenza)
e cui viene somministrato metadone.
Rispetto ai detenuti affetti da virus HIV va segnalato che il taglio
dei fondi rende difficile l’acquisto dei farmaci retrovirali ; inoltre i tempi
burocratici per ottenere il differimento di pena si prolungano eccessivamente
rispetto al degrado delle condizioni fisiche dei malati.
Va segnalato che nel 60% degli istituti non vi è alcunainiziativa di
prevenzione per virus HIV,
né viene distribuito alcun
materiale informativo di carattere sanitario.
Solo nel 27,7% degli istitui si consegnano opuscoli di educazione
sanitaria.
Circa 10.000 detenuti soffrono di forme di disagio mentale legate a
tossicod.ed etilismo; circa 10.000 sono colpiti da malattie infettive,
soprattutto epatiti ; tornano
scabbia, sifilide, tubercolosi , che sembravano appartenere al passato.
Dal 1995 ad oggi si è registrato un costante aumento delle morti in
carcere e in maggior parte di persone giovani : circa la metà dei 500 morti
aveva meno di quarant’anni .
Solo nel 2003 i suicidi in carcere sono stati 67, di cui due minorenni
.
Il decreto legge n.230 de
22/06/99 sul riordino della
medicina penitenziaria che prevede il passaggio graduale di essa al S.S.N. cioè
dal Ministero della Giustizia a quello della Salute è in via di attuazione, ma
solo sulla carta. Una prima
sperimentazione in sei Regioni (prima Toscana, Lazio e Puglie,poi
Emilia-Romagna. Molise e Campania), conclusasi nel giugno 2002 è stata valutata positivamente da un
apposito comitato, il cui documento finale, sottoscritto dalle Regioni, non è
ancora stato reso pubblico.
Intanto il Ministero della Giustizia ha progressivamente ridotto i
fondi per la sanità penitenziaria : 16 milioni di euro in meno nel 2003, pari
al 30% dello stanziamento del 2002, a sua volta già ridotto del 20% del 2001.
In concreto ciò comporta
la non attivazione di importanti strutture quali il “Presidio nuovi giunti” ,
che dovrebbe fornire un primo sostegno alle persone appena arrestate e spesso
più fragili ed esposte a gesti di autolesionismo o al suicidio ; quali le
Sezioni a “custodia attenuata” per i tossicod.
Si auspica….un’inversione di tendenza globale ! più risorse e più
rispetto delle normative.
Si auspica l’istituzione delle figure di garanti
nei luoghi di detenzione
CONTRIBUTO CITTADINANZA ATTIVA,
L’elaborazione delle segnalazioni e richieste di
intervento da parte dei cittadini consente di mettere a fuoco una fotografia
della situazione del servizio sanitario pubblico dal punto di vista dei
cittadini. In maniera molto sintetica e schematica, di segutio si elencano
alcune delle questioni di maggior rilievo e le possibili soluzioni per
garantire maggiore attenzione ai bisogni e alle priorità dei cittadini. E’ evidente che, in relazione alla
complessità delle questioni trattate, il documento non ha alcuna pretesa di
esaustività. Per analisi più dettagliate di argomenti affrontati
sinteticamente, per ragioni di spazio, all’interno del documento, si rinvia
alla consultazione dei rapporti prodotti periodicamente dal Tribunale per i
diritti del malato e dal Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati
Cronici.
Il sistema di tutela che abbiamo contribuito ad introdurre
e a mettere in pratica in tutti questi anni è messo seriamente in discussione,
sia pure in maniera non esplicitamente dichiarata. Si può verificare il
consolidamento ed aggravamento dei tagli alle prestazioni già evidenziato nel
2002 e nel 2003 e l’estensione di fenomeni di riduzione dell’accesso ad aree della
offerta prima interessate solo marginalmente.
La
stagione attuale sembra caratterizzata sempre di più da poche idee, molte
parole e un governo delle politiche pubbliche definitivamente demandato alle
competenze di bilancio.
I Lea
Il primo anno di applicazione effettiva dei Livelli
essenziali di assistenza avrebbe dovuto coincidere con l’avvio di un percorso
per legare il soddisfacimento dei bisogni di salute alle risorse disponibili,
conferendo a questa operazione un valore strategico elevato. Avrebbe dovuto
essere, in altre parole, una parte qualificante della riflessione sullo stato
del sistema di protezione sociale del paese in una fase particolarmente
delicata come quella attuale di transizione, vera o presunta, al federalismo. Una riflessione per il
riconoscimento della costituzionalizzazione definitiva del dirito alla salute
in maniera uniforme, su tutto il territorio nazionale, anche sotto il profilo
attuativo. Non è stato così. La congiuntura economica internazionale
sfavorevole ha fatto la sua parte, e le logiche economicistiche hanno occupato,
praticamente da sole, il centro della scena. Nessun argomento, bisogno, questione,
problema, denuncia, sia pur grave, sembra contare tanto quanto le questioni
economiche. I Livelli essenziali di assistenza sono interpretati sempre
più come i livelli “minimi” di
assistenza e, al contrario di quanto più o meno diffusamente si temeva al
momento della loro introduzione, il problama vero non sta tanto in ciò che è
rimasto fuori dalle prestazioni erogate dal Ssn, quanto piuttosto dalla forte disomogeneità con la quale essi
vengono erogati dalle Regioni.
1.
Liste
di attesa.
Il fenomeno si sta estendendo, progressivamente, dall’area, tradizionale, delle
prestazioni diagnostiche e specialistiche, a quella degli interventi chirurgici
programmati, con un ricorso più diffuso alle prestazioni in intramoenia anche
in aree specialistiche nelle quali ci si attenderebbe un intervento diretto e
sufficiente da parte del servizio sanitario pubblico, come per esempio quella
oncologica. La libera professione dei medici all’interno delle strutture
sanitarie, al centro di evidenti tentativi di smantellamento e liberalizzazione
totale da parte del Governo, resta una pietra dello scandalo per i cittadini
che se la vedono proporre come una modalità per aggirare, a proprie spese,
ritardi e inefficienze. Le modifiche recenti da parte del Parlamento, su proposta
del Governo, vanno, purtroppo, nella direzione del ritorno ad un passato fatto
di carriere pubbliche utilizzate per la realizzazione di lauti guadagni nel
privato.
E’ indispensabile
individuare risorse da mettere a disposizione di un programma per la riduzione
dei tempi di attesa per le principali prestazioni di diagnosi e terapia. Gli
accordi recenti tra Governo e Regioni difficilmente andranno a regime e
produrranno risultati significativi in assenza di un impegno specifico su
questo terreno, almeno nella fase di avvio del programma. E' necessario,
inoltre, riformulare le norme che regolamentano l’esercizio della libera
professione intramuraria per i medici, in maniera da tenere nel debito conto la
situazione dei tempi di attesa nel canale istituzionale e tetti per
l’espletamento della stessa attività. E’ indispensabile, infine, riportare
l’esercizio della libera professione all’interno delle strutture, realizzando
le infrastrutture necessarie, per le quali, peraltro, esistono stanziamenti
specifici
2.
Dimissioni
forzate. Si
consolida ulteriormente il fenomeno delle dimissioni forzate dalle strutture
ospedaliere, con l’estensione del problema ad altre aree, come quella
chirurgica, nelle quali si manifesta con caratteristiche ed impatti
relativamente nuovi, oltre quelle tradizionali (oncologica e delle patologie
croniche). Ciò mette a nudo, in maniera definitiva, la necessità di attrezzare
l’offerta di assistenza sul territorio, al di fuori degli ospedali, e presenta
un conto salato, sinora pagato dai cittadini, a quanti pensavano di poter
riconvertire travasando automaticamente risorse da un settore dell’assistenza
all’altro. E’ indispensabile individuare limiti precisi alla pratica delle
dimissioni forzate, che non dovrebbero essere mai consentite in assenza di
soluzioni idonee alternative alla ospedalizzazione. Non si possono scaricare
sui malati o sulle loro famiglie le conseguenze della mancata realizzazione di
strutture territoriali o della scarsità o assenza di programmi di assistenza a domicilio;
3.
Farmaci. Il primo anno di
sperimentazione del nuovo Prontuario farmaceutico nazionale si conclude con la
revisione delle note limitative da parte della Commisione Unica del Farmaco.
Alcuni farmaci riclassificati in classe C, per i quali è già in atto o si annuncia
una revisione della rimborsabiltà da parte del Ssn in seguito alle forti
pressioni esercitate dalle organizzazioni di tutela (antistaminici, farmaci per
la prevenzione delle microfratture per chi soffre di osteoporosi,
corticosteroidei per allegici e asmatici, adrenalina autoiniettabile, farmaci
per il morbo di Parkinson, farmaci e presidi di uso comune dei quali i malati
cronici fanno un uso particolarmente intenso) hanno messo a dura prova i
bilanci familiari. I cittadini sono costretti a fare i conti con le restrizioni
nelle prescrizioni di farmaci costosi da parte di specialisti e medici di
medicina generale, spesso all’insegna di comportamenti difensivi rispetto ai
controlli sulla spesa farmaceutica o a veri e propri accordi con le Regioni per
tenere sotto controllo i budget. Il nostro paese continua ad essere agli ultimi
posti nelle graduatorie internazionali sulla utilizzazione di farmaci per la
terapia del dolore.
4.
Presidi,
protesi, ausili, riabilitazione. Presidi, protesi ed ausili continuano a presentarsi, il
più delle volte, inadeguati, sia nella qualità che nella quantità, con iter
burocratici per il rilascio complessi, utilizzati, assai spesso, come modalità
per ridurre l’accesso. Le prestazioni di riabilitazione rimangono un buco nero,
difficili da ottenere in tempo utile a non creare danni e di qualità non sempre
adeguata. E’ necessario individuare un nuovo strumento, in sostituzione
del vecchio Nomenclatore
tariffario, in grado di garantire ai cittadini quanto di meglio la ricerca e la
innovazione tecnologica mettono potenzialmente a loro disposizione, evitando di
considerare tutta questa materia, ancora unavolta, solo un problema di finanza.
5.
La
medicina del territorio. Si fa meno assistenza domiciliare integrata, al di là
delle dichiarazioni in proposito da parte delle Regioni, tanto attraverso la
riduzione oraria di occupazione degli operatori impiegati al domicilio che con
la diminuzione del numero dei professionisti impegnati. La medicina del
territorio resta, al di là delle dichiarazioni di principio, la cenerentola del
sistema, finendo per richiedere ai diversi soggetti e livelli del Servizio
sanitario pubblico presenti, medici di famiglia, servizio di guardia medica,
posti di primo soccorso, l’esercizio di funzioni di supplenza rispetto d evidenti
carenze di carattere strutturale.
6.
Oncologia.
Mancano strutture di tipo hospice e unità di radioterapia In questo momento ci sono
nel nostro paese 67 hospice, per complessivi 658 posti letto, praticamente
tutti concentrati nelle regioni del centro-nord, a sottolineare, una volta di
più, la situazione drammatica nella quale versano le strutture assistenziali
nel meridione. Mancano all’incirca 50 unità di radioterapia nelle regioni
merdionali
7.
Unità
spinali.
In questo momento non si può contare, nel nostro paese, su una unità per
regione. E’ indispensabile mettere a punto e finanziare, su tutto il territorio
nazionale, un piano per la realizzazione di almeno una unità spinale per
regione.
8.
Terapia
del dolore. La
lotta al dolore non è ancora una priorità nel nostro Paese. E’ evidente che la
sensibilità intorno al tema sta crescendo, ma la strada è ancora lunga e i
progressi piuttosto lenti. In tre
anni dalla approvazione delle nuove norme, la prescrizione di farmaci oppiacei
è cresciuta di poco, e ancora oggi i medici di famiglia, spesso, non ritirano
nemmeno i ricettari speciali indispensabili per la prescrizione. In base agli
ultimi dati, i reparti di cure palliative sono, a tutt’oggi, 206, la gran parte
dei quali concentrati nelle regioni del centro-nord, poco meno del 10% al sud.
Per quanto riguarda le strutture ospedaliere, lo sforzo sostenuto per attivare
la rete di “ospedale senza dolore” non è stato, finora, supportato dagli
investimenti di risorse finanziarie indispensabili. Tra le tante ipotesi di
lavoro nell’immediato, tre proposte ci sembra rivestano priorità assoluta:
·
garantire la copertura della assistenza al dolore,
tanto per quanto riguarda il cancro che le patologie croniche, all’interno dei
livelli essenziali di assistenza;
·
rendere obbligatoria la rilevazione e la misurazione
del dolore, e quindi anche la sua cura, all’interno della cartelle clinica di
ogni paziente assistito;
·
rendere obbligatoria la formazione sulla terapia del
dolore per i medici di famiglia, gli specialisti più direttamente interessati e
gli infermieri nell’ambito dei programmi di ECM.
9.
Prevenzione
degli errori.
Il contenzioso in seguito a malpractice viene considerato sempre di più come
qualcosa a cui porre rimedio attraverso forme di conciliazione. In realtà
bisognerebbe intervenire sulla prevenzione della malpractice, rendendo
obbligatoria ai fini dell’accreditamento la introduzione di sistemi di
registrazione degli errori nella pratica medica ed assistenziale e di
prevenzione del rischio (risk management). Andrebbe istituito, inoltre, anche
nel nostro paese, un fondo per il risarcimento di quanti abbiano subito un
danno in seguito ad un trattamento medico o chirurgico, anche nel caso in cui
non si riesca ad individuarne il responsabile.
10.
Il
peso della burocrazia. Ci siamo
riabituati a convivere con i ticket, sui farmaci piuttosto che sulle
prestazioni di pronto soccorso, sulla diagnostica strumentale o sulla
specialistica. Resta lungo l’iter per il riconoscimento delle procedure di
invalidità o della indennità di accompagnamento, e anche quando si vede
confermato il proprio diritto, quasi mai ciò comporta la liquidazione del
beneficio economico in tempi rapidi e certi.
11.
La
questione risorse. L’accordo sui Lea è stato seguito dalla controversia in Conferenza
Stato-Regioni per il ripiano dei disavanzi pregressi, stimati in 12,7 miliardi
di euro, dello scorso mese di gennaio e la rimodulazione della quota capitaria
per la ripartizione del Fondo sanitario nazionale. La nuova legge di bilancio
non mette a disposizione del sistema risorse nuove, e prosegue, al contrario,
nella politica di riduzione dei trasferimenti finanziari agli enti locali,
confermando anche i provvedimenti limitativi della loro autonomia impositiva,
già introdotti lo scorso anno. Nel biennio 2001-2002 il deficit delle Regioni
per la sanità ammontava a 8,2 miliardi di euro. Il 2003 ha fatto registrare 4,5
miliardi di euro di nuovi debiti. Per il 2004 si stima un incremento
dell’indebitamento di altri 5 miliardi di euro. Troppi, e soprattutto poco
conciliabili con il contenuto del cosiddetto patto di stabilità tra Stato e
Regioni. Al di là degli sprechi e delle mancate razionalizzazioni, il sistema
appare con il suo 5,9% di spesa pubblica sul Pil (rispetto ad una percentuale
intorno al 7-8% di Francia e Germania) ampiamente sottofinanziato.
12.
La
tutela della non autosufficienza. Il tema delle risorse necessarie per garantire
l’esistenza di un Servizio sanitario pubblico all’altezza delle necessità del
Paese è stato e resta al centro del dibattito anche per quanto attiene al tema
specifico della tutela dalla perdita della non autosufficienza. In questo
momento è all’attenzione del Parlamento un progetto di legge apposito, che ha
fatto registare, peraltro, la convergenza delle forze politiche di entrambi gli
schieramenti, ma non sembra realistico immaginare che esso possa avere un
seguito, almeno nell’immediato, a causa della mancanza di risorse. Nessuno, o
quasi, in prossimità di una serie di tornate elettorali, ha voglia di proporre
impopolari aumenti della pressione fiscale, qualunque sia la loro forma, ma in
assenza di 10-15 milioni di euro è impensabile dare il via ad un fondo
specifico che colmi questa lacuna del nostro servizio sanitario.
13.
Cronicità.
Un
italiano su tre soffre di almeno una patologia cronica, uno su cinque rivela di
essere affetto da almeno due patologie croniche. All’incirca un malato cronico
su due dichiara di godere, comunque, di condizioni di salute buone. E ancora:
più di tre italiani su cento soffrono di diabete, dieci su cento dichiarano di
essere ipertesi, sei su cento sono affetti da bronchite cronica, quasi diciotto
da artrosi o artrite, cinque da osteoporosi, quattro da malattie cardiache,
quasi sette da malattie allergiche, quasi quattro da malattie nervose, tre da
ulcera gastrica o duodenale. 500.000 sono i malati di Alzheimer, 39.000 i
nefropatici, 50.000 coloro che soffrono di sclerosi multipla, quasi 2.800.000 i
disabili. Cifre che colpiscono, e che dovrebbero trasformarsi nella bussola
delle politiche della salute del paese. E’ stato effettivamente così nel corso
dell’anno che abbiamo alle spalle? A giudicare dai dati a nostra disposizione,
non sembra che ci siano molti elementi a sostegno di questa ipotesi.
14.
La
mancata attuazione della legge quadro sulla assistenza. Il Fondo nazionale per le
politiche sociali fa registrare un taglio, per il 2004, pari a sessanta milioni
di euro. A questa cifra si deve aggiungere il taglio del 6% delle risorse per i
Comuni, con punte talora più elevate per aree metropolitane e piccoli centri
(complessivamente 1.800.000 di euro). Risorse sottratte alle politiche
assistenziali che finiscono per svuotare, di fatto, la legge di riforma della
asssitenza, soprattutto nei suoi aspetti più innovativi legati alla
progettualità, alla integrazione e alla promozione di nuovi servizi da
realizzare con modalità all’avanguardia. Il consolidamento del deficit rispetto
ai servizi di sostegno alle persone rappresenta una delle ricadute più negative
della mancata attuazione della legge quadro, che non dispone, a tutt’oggi, neanche
della definizione dei “livelli essenziali di assistenza sociali”. La mancata
attuazione rallenta anche quell’orientamento ad una maggiore personalizzazione
dei percorsi assistenziali richiesto con forza da quanti fanno un uso intenso
dei servizi.
15.
La
tutela della salute mentale. Dopo anni di parziale o mancata attuazione della Legge
Basaglia, il Parlamento sta per discutere un nuovo testo di legge, la
cosiddetta Burani-Procaccini, che propone un salto indietro di anni, un ritorno
alla istituzionalizzazione. L’approvazione di questa legge rappresenterebbe, di
fatto, l’abbadono del tentativo di portare a compimento quel rinnovamento
culturale che portò alla chiusura dei manicomi e ad una nuova visione del
disagio mentale.
16.
Infertilità
e legge sulla procreazione medicalmente assistita. Dopo due anni di discussione e
ignorando il parere praticamente unanime di società scientifiche e
professionali, scienziati e ricercatori, bioeticisti, organizzazioni di tutela,
il Parlamento ha varato un testo di legge blindato sulla procreazione
medicalmente assistita. Si tratta di un testo che, a detta di taluni, sarà
difficile da applicare, e a detta dei più pone restrizioni pesanti alla pratica
della procreazione medicalmente assistita. Due elementi di particolare gravità su
tutti. Il primo. Con le nuove norme si impedisce, di fatto, la possibilità di
utilizzare le tecniche di procreazione medicalmente assistita per la diagnosi
prenatale a cittadini con particolari fattori di rischio per patologie
genetiche (come la fibrosi cistica o la talassemia) qualora la coppia non sia
infertile. Il secondo. Il Parlamento non ha tenuto in alcun conto nessuna delle
richieste di emendamento e modifica del testo di legge presentate nel corso
delle audizioni. Non si può dire che sia stato, al di là del merito, un gran
segnale per il Paese.
17.
Una
questione meridionale in sanità. Negli ultimi anni si sono consolidate in maniera
evidente le divisioni tra macro aree del paese con diverso grado di sviluppo.
Anche se le restrizioni dei budget e la penuria di risorse, in questo momento,
mettono a dura prova un po’ tutte le Regioni, il centro-sud del Paese è in
affanno evidente e sempre più chiamato a scelte dure e per nulla indolori, come
il ricorso a forme di cosiddetta “finanza creativa” attraverso la contrazione
di nuovi debiti con il sistema bancario, o la selezione e la riduzione delle
prestazioni. Quasi una questione meridionale in sanità, che meriterebbe di
essere trattata come tale. Ventidue milioni di cittadini per i quali i livelli
essenziali di assistenza sono altro rispetto a chi risiede nel nord del Paese
dovrebbero indurre ad una considerazione attenta del problema quanti hanno
responsabilità di governo.
Si può tenere conto della attuale congiuntura del
paese, e delle difficoltà alle quali si sta cercando di far fronte, puntando
con forza sulla efficienza del sistema come modalità per tenere nella massima
considerazione, concretamente, i bisogni dei cittadini e per garantire la
indispensabile sostenibilità economico-finanziaria. Insomma, si può decidere di
scommetere sulla efficienza come modalità per declinare in maniera piena quei
principi di equità, solidarietà, universalità, ai quali il nostro Servizio
sanitario pubblico si ispira. Ma bisogna esser certi che sia effettivamente
questa la strada imboccata, e percorrerla con determinazione e convinzione. E
non si può certo dire che, al momento, sia questa l’immagine che i diversi
livelli di governo del sistema offrono alla opinione pubblica del paese. Tre
nodi, ci sembra, necessitano di essere affrontati e sciolti con una certa
urgenza.
1. La questione dei finanziamenti per il
servizio sanitario nazionale. Il
tema è oggetto di continue diatribe, a tratti molto ideologiche, tra quanti
sostengono la necessità di rifinanziare il sistema e quanti negano questa
necessità o la ritengono, comunque, insostenibile per il paese. Su questo tema
è necessaria una operazione verità,
al di là e al di fuori degli interessi degli schieramenti politici
contrapposti, nell’interesse del paese. La questione meridionale in sanità,
sempre più evidente, non può essere scaricata sulle spalle dei cittadini
residenti in quelle regioni, come se non riguardasse che loro. Se è vero, come
è vero, che bisogna promuovere e sostenere l’autonoma capacità di gestione
delle regioni, è altrettanto vero che tutto ciò ha bisogno di gradualità e soprattutto di garanzie per la
copertura dei livelli essenziali di assistenza su tutto il territorio
nazionale. Servono più risorse per finanziare il sistema nel suo complesso,
soprattutto con riferimento ai nuovi bisogni, per esempio la tutela dalla
perdita dell’autosufficienza. Ed è necessario procedere al rifinanziamento, o
meglio al finanziamento effettivo, di alcuni fondi speciali, per esempio quello
ex art. 20, che in questo momento, come ha rilevato di recente anche la Corte
dei Conti, sono utilizzati impropriamente per la gestione ordinaria. Si tratta
di una questione ormai improcrastinabile, che non può ammettere ulteriori
rinvii.
2. Il modello di stato sociale. I sistemi di protezione sociale attraversano una
fase di transizione complessa e dagli esiti incerti in tutta Europa. Non è
ancora chiaro quali saranno gli sbocchi di questa crisi, ma di certo il
contesto attuale si presenta assai problematico un po’ dappertutto. Il
dibattito corrente sconta, soprattutto nel nostro paese, una attenzione
eccessiva nei confronti degli aspetti di carattere economico-finanziario, che
ha finito per relegare in secondo piano il sistema delle tutele e dei diritti.
La stessa fissazione dei livelli essenziali di assistenza è stata impostata e
gestita come una operazione per la
riduzione delle prestazioni garantite dal servizio pubblico, piuttosto che come
una occasione per interrogarsi su quali prestazioni debbano essere garantite a
tutti, su tutto il territorio nazionale. E’ necessario riportare al centro di
questo dibattito la riflessione sui diritti e sulla tutela, sforzandosi di
trovare soluzioni innovative per coniugare diritti e sostenibilità, ma
rivendicando la centralità e la primazia del diritto alla salute e alle
prestazioni socio-sanitarie.
3. Sussidiarietà, devoluzione,
partecipazione civica. Questi
termini, come è noto, non sono equivalenti e fanno riferimento a scenari e
contesti potenzialmente assai diversi tra loro. Le modifiche del titolo V della
Costituzione, peraltro ancora largamente inattuate, vengono di fatto messe in
discussione dai possibili scenari devolutivi che già si annunciano. Come è
noto, per il sistema sanitario pubblico, le conseguenze non sarebbero
certamente irrilevanti. Basti pensare alla completa autonomia, per ciascuna
regione, nella individuazione del modello di sistema sanitario al quale
ispirarsi, alla sparizione dei livelli essenziali di assistenza, alla
eliminazione del fondo di perequazione tra le regioni dopo due anni dalla
eventuale approvazione del progetto di riforma (le norme attuali prevedono la
esistenza del fondo sino al 2013 per dare la possibilità alle regioni con
maggiori problemi di gettare le basi per rendere sostenibili, sotto tutti i
profili, le nuove forme di autonomia). Ma al di là delle implicazioni evidenti
sul piano sociale, una delle questioni di maggior rilievo riguarda il ruolo dei
cittadini e della partecipazione civica nel governo allargato delle politiche
pubbliche. Dalla comprensione piena di questo tema da parte delle diverse
istituzioni di governo e degli stessi cittadini, probabilmente, dipende lo
stesso futuro delle politiche pubbliche del paese, e la possibilità di
realizzare un vero federalismo dei diritti, unica garanzia effettiva di livelli
di assistenza adeguati ed accessibili su tutto il territorio nazionale.
Al di là delle difficoltà evidenti che caratterizzano
il sistema in questo momento, ci sembra che le riflessioni sviluppate, sia pure
in maniera schematica e sintetica forniscano una serie di indicazioni molto
concrete sull’orientamento della agenda per i prossimi mesi, al di là delle
proposte via via già avanzate, sia pure schematicamente, nel corso della
riflessione.
1. Finanziamento della legge quadro sulla
assistenza. Si tratta di una
legge il cui valore risiede non solo nell’oggetto specifico, lo spettro
estremamente ampio delle prestazioni socio-sanitarie, ma anche nel metodo
ipotizzato per il raggiungimento dei diversi obiettivi. Una delle poche forme
di attuazione possibile, già codificata all’interno delle norme, del nuovo
articolo 118 della Costituzione.
2. Finanziamento della rete delle malattie
rare. Bisognerà concentrare
l’attenzione sul funzionamento della rete dei centri di riferimento, per
evitare che i contenuti delle norme in vigore rimangano lettera morte.
3. Integrazione del Regolamento di
individuazione delle malattie croniche ed invalidanti. E’ oramai possibile su iniziativa del Ministro della
sanità, evitando nuovi passaggi parlamentari. E sono molte, ancora oggi, come dimostra
anche questo Rapporto, le
patologie prive di qualunque riconoscimento e copertura.
4. Proposta di legge per il sostegno alla
ricerca sui farmaci orfani.
E’ la strada già seguita da altri paesi, per esempio il Giappone e gli Stati
Uniti, e che ha condotto al brevetto numerose molecole nuove da utilizzare
nella terapia delle malattie rare. Si possono immaginare sgravi fiscali per le
aziende che investono in questo settore, l’allungamento della validità del
periodo di esclusività del brevetto, ecc. In questo momento ci sono proposte
depositate presso i due rami del Parlamento, bisogna solo avere voglia
riavviarsi, una buona volta, su questa strada.
Problema riscontrato
Medici Senza Frontiere (Msf) ha riscontrato su tutto il territorio
nazionale molti casi di espulsione e diniego al rilascio del permesso di
soggiorno nei confronti di cittadini stranieri affetti da gravi patologie
(Hiv/Aids, insufficienze renali croniche e altre patologie renali che
richiedono dialisi, malattie oncologiche che richiedano un trattamento
chemioterapico e radioterapico, gravi patologie psichiatriche) e in trattamento
terapeutico presso strutture sanitarie italiane.
Normativa di riferimento
In base all’articolo 35, III comma del T.U. 286/98,
non modificato dalla legge 189/2002 (Bossi-Fini), agli stranieri presenti in
Italia “non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno
sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati “le cure ambulatoriali ed
ospedaliere urgenti ed essenziali, ancorché continuative per malattia o
infortunio..”
Per “cure continuative” possono senz’altro intendersi
tutte quelle prestazioni sanitarie necessarie a non vanificare i trattamenti
intrapresi con la prestazione iniziale e la cui interruzione potrebbe causare
grave pregiudizio per la salute e per la vita del malato.
Nonostante ciò, la prassi dimostra che lo straniero
“non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno” gode di una certa
“immunità” da eventuali controlli solo all’interno del presidio ospedaliero
(T.U. art. 35, V comma), mentre al di fuori della struttura sanitaria può
essere controllato, tradotto in Questura, in quanto irregolarmente presente sul
territorio, ed espulso.
Per queste ragioni, Medici Senza Frontiere chiede
che venga adeguatamente esplicitato il senso dell’art. 35, III comma e che
siano a tal fine apportate alcune modifiche alla legge 189/2002 in sede di
regolamento di attuazione.
Gli stranieri affetti da gravi patologie non
diagnosticate, non diagnosticabili o non curabili adeguatamente ed
effettivamente nel loro Paese di origine:
Le modifiche proposte che dipendono in modo
consequenziale da una corretta interpretazione del termine “continuative”
riferito alle cure di cui possono godere gli stranieri irregolarmente
soggiornanti, non rischiano di ingenerare un fenomeno di reazione a catena in
quanto incidono su situazioni particolari e limitate e sono volte unicamente a
impedire il verificarsi di situazioni gravemente lesive di diritti
costituzionalmente garantiti (vd.art.32 Cost.)
18. Right to education
(arts. 13 and 14) See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003,
n.30: Children of immigrants, refugees and asylum-seekers
equal access to free and compulsory education.
19.Right
to education (arts. 13 and 14). See list of issue
E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.31: Please
explain why, despite the considerable budgetary allocations to education, there
is a decrease in the number of school population, especially at pre-primary,
primary and lower secondary schools.
Is the drop in the birth rate the sole reason for this decrease? Please indicate whether school
attendance by children of immigrants has reversed this trend.
I contributi
sull’educazione vanno, oltre che sintetizzati, riorganizzati per l’inserimento
nei paragrafi 18, 19, 20, 21. Possono essere creati altri paragrafi per
affrontare issues specifiche e non comprese nella 30, 31, 32 e 33 della list of
issues.
CONTRIBUTO DELLA WILPF- ITALIA
30. Figli di immigrati, rifugiati, richiedenti
asilo.
Si denuncia la trasgressione della
Legge 40 Art.44 (Decreto presidenziale 384/99) di cui il documento governativo
non fa accenno: nelle scuole comunali dell’infanzia di città come Roma e Milano
i genitori - contrariamente a quanto previsto dal citato articolo nel rispetto
al diritto allo studio di tutti – sono tenuti a presentare, nella
documentazione di rito, il permesso di soggiorno.
Uno degli aspetti più qualificanti del rispetto del
diritto allo studio è quello realtivo all’integrazione degli alunni
portatori di handicap, che in Italia ha raggiunto a partire dagli Anni Settanta
notevoli risultati. Nel prossimo anno scolastico 2004-2005 si prevede un
drastico ridimensionamento di questo intervento a causa dei tagli negli organici
previsti per meri motivi economici. In particolare:
·
Non
è più previsto il limite massimo di alunni nelle classi dove sia presente un
alunno disabile. (Questo numero era limitato ad un massimo di 20).
·
In
una stessa classe possono essere presenti più alunni con handicap certificati.
·
I
posti di sostegno previsti dal Decreto sugli organici per il 2004-2005 saranno
diminuiti di 800 unità. Si fa presente la necessità inversa di aumento di
questi posti, in particolare nella scuola secondaria dove un alunno disabile
può disporre di un insegnante di sostegno soltanto per quattro ore settimanali.
·
Le
certificazioni dei casi particolarmente gravi di handicap sono state rese
particolarmente restrittive.
Contributo
sottogruppo bambini e adolescenti:
Fonti:
School for children living
in particularly difficult conditions
There are an increasingly high number of foreign
students in schools today. In the school year 2002/2003, 232.766 students of foreign
nationality attended Italian schools, that means a percentage of 2,96% on the total
number of students. They were just 30.000 in school year 1992/93, but also
compare with the past year there was a significant growth of 50.000 students.
Since ten years ago a lots of small and medium towns had never have a relevant
number of foreign students in their school.
This development has created, and is still creating, a
number of problems, partly due to the very recent nature of immigration, and
partly due to uneven distribution of migration across the country. Furthermore,
migrating children derive from very different experiences; some are «second
generation children», born in Italy, but to foreign parents, others arrived
only recently, either alone or with their families, and others have come to
join their family here.
The percentage of foreign students is highest in the
North of the country (66,6%), while is lower in the South (7%) and in the
Islands (3,1%).
Analysing the data it is interesting to note that even
if obviously the highest number of foreign students are in the city, such as Milan
(24.498) or Rome (12.990) or Turin (10.710)., the highest percentage is in the
medium town, so that in Prato is 7,85%, Mantova 7,65%, Reggio Emilia 7,15%,
Modena 7,01. In most of the
regions there is a high percentage
in the municipal districts than in the
capital of the district.
Other characteristic is that in Italian schools there
are now represented 189 nationalities. For example in Bergamo there are 110
nationalities, 109 in Padua, and 106 in Perugia.
The majority of the foreign students come from Albania
(40.482 ), Marocco (33.774 ), Former Yugoslavia (21.762 ), Romania (15.509),
China (13.447 ), Ecuador (7.273).[19]
Il 42,2% degli studenti stranieri frequenta la
scuola elementare, il 24,3% la scuola media inferiore, il 20,77% la scuola
dell’infanzia e solo il 13,2% la scuola superiore.
L’incidenza degli alunni stranieri sulla totalità degli
scolari è del 3% nelle scuole elementari, del 2,7% nelle scuole medie, del 2,6%
nelle scuole dell’infanzia e solo dell’1,1% nelle scuole superiori e questo è
un dato preoccupante.
Considering the percentage of foreign students in the
different school level in the year 2002/2003 we note that is highest in primary
and comprehensive school: .
Nursery school |
Primary school |
Middle Secondary school |
Secondary school |
20,77% |
42,2% |
24,3% |
13,2% |
The result of a research[20] find out that to support the reception of foreign
students it is generally preferred to meet their families, before putting the
new enrolled in the class, and awareness policy.
ITALY. Italian schools:
initiatives funded for the reception of foreign pupils (2001)
|
Number |
Percentage % |
Contact with families of new
pupils |
3,707 |
84,8 |
Informal meetings |
2,311 |
52,9 |
Awareness raising |
1,287 |
29,5 |
Supplementary language
classes |
635 |
14,5 |
Courses for teachers |
600 |
13,7 |
Meetings with Italian
families |
521 |
11,9 |
Contacts with immigrant
communities |
433 |
9,9 |
No response |
199 |
4,6 |
Italian language classes |
88 |
2,0 |
Interpreters |
55 |
1,3 |
Planned projects |
40 |
0,9 |
SOURCE: Immigrazione, Dossier Statistico 2002,
Roma, pag.188
The causes of the drop-out are
still different for Italian students and foreign students, in fact:
ITALY.
Causes of drop-out by Italian and foreign students (2001)
Causes |
Italian
pupils % |
Foreign pupils % |
School’s results not reached |
57,6 |
47,9 |
Lack of
student commitment |
54,6 |
24,4 |
Lack of interest of the family |
32,3 |
23,0 |
Frequency Inconstant |
24,4 |
24,9 |
Inadequate Teaching methodology |
9,7 |
24,0 |
Lack of integration |
4,3 |
18,2 |
SOURCE: Immigrazione, Dossier Statistico 2002,
Roma, pag.184
[21]“One
of the greatest problems lies in their poor
educational background, as a result of social disadvantage. According to some
sources, the rate of educational backwardness among immigrant children is about
30% in the elementary school and 56% in the scuola media [middle school: age
group 11-14][22]. Mother-tongue cultural intermediaries
to help children learn Italian are not yet widely available and their existence
depends on the resources available and commitment of the local authority. The number of children and adolescents
from the gypsy community in the compulsory
school age is around 30,000, 19,000 of whom should be attending primary school,
while 11,000 should be attending the scuola media . However, although Roma and
Sinti children are Italian citizens in all respects, only about 5,100 of them
go to primary school and about 1,700[23]
go to middle schools. The data provided by the Ministry of Public Education
confirm that the rate of school truancy or non-attendance is
very high, 73.2% for elementary schools and 84.6% for middle schools. The decision to introduce gypsy
children into mainstream classes
(implemented during the school year 1965-66) has not resolved the
problems, as has evidenced by their sporadic attendance rate and low school
performance. Life in nomadic camps cannot be easily
fitted around schooling. Children are reluctant to go to school partly because
they fear they may lose their cultural identity and partly because they do not
recognise the usefulness of school, as theirs is essentially an oral culture.
In consequence, the Italian school system is not currently capable of providing
an effective education for these children who are often defined as “too lively”
and sometimes do not speak good Italian.
Supportive initiatives are
still limited, in spite of the C.M. no. 207 of 1986 that introduced mandatory
education for gypsy children. Furthermore, given the hostility of the school
environment, their poor results and the fear of failing, these children develop
an attitude of mistrust of both teachers and other children in schools.
Integration into schools for disabled children
is still hindered by architectural and other physical barriers,
particularly in the South, in spite of the provisions contained in law 118/71[24]
to eliminate them and provide access to the public transport system.
For instance, a study[25]
of physical education teachers in 418 elementary and primary schools showed
that only one school in four had actually removed the barriers limiting access to the gym, and 50% of teachers
stated they were completely unprepared for teaching disabled pupils because
they had not received any specialised training. Some practitioners and organisations have argued that there
have been problems with the training of support teachers
over the last few years; in addition, there have been recent cuts in
expenditure for such staff, further exacerbating the difficulties. For example,
the last nationwide open-competition for teachers failed to give any
consideration to the key role played by support teachers in contributing to the
achievements of the whole school.”
Contributo WILPF ITALIA
Piuttosto che verificarsi un fenomeno di
diminuzione della popolazione scolastica si verifica in Italia una progressiva
diminuzione dell’impegno di spesa per finanziare la scuola pubblica. I dati
forniti dal MIUR (Ministero Istruzione Università Ricerca) relativi ad una
diminuzione netta degli alunni si sono dimostrati inattendibili a seguito di
un’analisi effettuata nelle Regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia,
Liguria, Lombardia, Piemonte, Veneto. In particolare nell’Emilia Romagna la
Direzione Regionale ha dovuto rettificare il numero degli iscritti fornito dal
Ministero. Gli ultimi dati fanno registrare un aumento di 10.000 studenti, con
un aumento di 5.717 unità alla secondaria superiore, a fronte di un taglio di
326 posti nell’organico. Sembra evidente una tendenza governativa a simulare
una diminuzione della popolazione studentesca per giustificare i tagli in
organico. Nelle Regioni citate le domande di tempo pieno nella scuola primaria
dimostrano un aumento di 48.000 alunni, a fronte di un taglio di 3.241
posti.
Appare evidente che in queste
condizioni non si può garantire la qualità della scuola pubblica, poiché non
saranno soddisfatte le richieste di tempo pieno e tempo prolungato in aumento
in tutte le Regioni del Centro-Nord; né sarà garantito il rispetto del Decreto
Ministeriale N° 331/98 che prevede un numero massimo di alunni per classe e
conseguentemente non saranno rispettate le norme sulla sicurezza (Decreto
Ministeriale dei Lavori Pubblici del 18/12/75, la Legge N°23 /96, la Legge
626/94). Infine con la disposizione di tutte le cattedre a diciotto ore si
renderanno più difficili le sostituzioni dei docenti assenti per un periodo
inferiori a dieci giorni e si reca danno alla continuità didattica.
20.
Right to education (arts. 13 and 14). See list of issue
E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.32: How
serious is the problem of dropouts in the State party, especially at the
secondary level of education, and what effective measures have been taken to
combat it?
Contributo sottogruppo bambini e
adolescenti
There have been limited inquiries into unlawful
child labour, using qualitative methodologies. These have found that material
poverty is usually associated with and exceeded by cultural poverty. Working
children tend to follow their parents’ or social environment’s behavioural
models which prioritise work over school training. At the root of child labour
there is a problem not so much of absolute poverty, but rather the rooted
culture of work as a normal path for the child, even as an alternative to
school. Growing consumer pressure
seems to be a further factor driving children to enter the labour market early
in their lives. There does not appear to be a link between child labour and
school non-attendance because working activities cover a time band of the day
that does not necessarily overlap with school hours. However, many young workers
do experience school as an irrelevant and unhelpful institution. And the more
significant the role of work for a child, the more likely s/he is to experience
difficulties with the school system. This is manifested in low school
performance levels, failure, non-attendance and reprimands. Even when they do
not drop out of school, under age
workers perceive school as a secondary activity compared to work. School is
viewed simply as necessary obtaining the minimum compulsory school-leaving
certificate (in Italy after 8 years of basic schooling).
However, young workers under 18 years of age
experience other types of difficulties: they are likely to lack the skills to
meet their future aspirations of a decent lifestyle or personal fulfillment.
They also lack developmental opportunities such as companionship at school,
spare time and family relationships, because work is often a time-consuming
experience and leaves little time for other activities. Child workers are
meeting immediate needs, without building a comprehensive life project.
Recent school reforms have introduced mandatory
training until 18 years of age. If this regulation were enforced effectively,
it would help children plan for their future professional and personal life.
The reforms should be accompanied by the appointment of a tutor from the
Employment Centre to support children who do not intend to continue their
studies and help them to obtain a
professional qualification which will enhance their career opportunities in the
labour market.”
The Committee
on the Rights of the Child in its Concluding observation on
Italy (CRC/C/15/Add.198, 31/01/2003) remained “concerned at the high rate of dropout in upper secondary
education; the variations in educational outcomes for children according to
their cultural and socio-economic background, and to other factors such as
gender (more girls than boys do obtain a degree in secondary education),
disability, and ethnic origin.”
1. Therefore
the Committee “recommends that the State party:
(a)
strengthen its efforts to curb
the rate of dropout in upper secondary education;
take all necessary measures to eliminate the
inequalities in educational achievement between girls and boys and between
children from different social, economic or cultural groups and to guarantee to
all children quality education;…”
CONTRIBUTO WILPF ITALIA
Nel campo del diritto allo studio i dati riportati
dal documento governativo (Art.13 par. 252, 278) registrano una realtà alla
quale il Governo tenta di portare rimedio con interventi che, imbellettati
dall’introduzione di nuove tecnologie, ripropongono una logica
pre-costituzionale. La dispersione scolastica, soprattutto della secondaria
superiore non è di per sé una novità. Le vie indicate dagli ultimi governi per
contrastare gli abbandoni nella secondaria superiore non differiscono molto fra
loro: scuola fino a 18 anni per chi è destinato a raggiungere livelli alti
nelle gerarchie sociali, per tutti gli altri un percorso più strutturato di
formazione professionale. Il precedente Governo aveva innalzato l’obbligo in
prospettiva di un biennio comune (Legge 9/99); poi tre anni di “obbligo
scolastico” da una parte, “obbligo formativo” dall’altra, sulla base della
Legge 144/99 che prevede percorsi di apprendistato etc. per un numero anche
inferiore a tre anni. L’attuale Governo ha riabassato il percorso comune
limitandolo alla scuola media e ha trasformato l’obbligo in un confuso
diritto-dovere.
Il diritto di tutti allo studio non è dunque più
un obiettivo; rendere un percorso scolastico fino a 18 anni appetibile e
praticabile per tutti, per creare quelle condizioni previste dall’Art. 3 della
Costituzione è stato un tentativo a mala pena avviato negli Anni Settanta, oggi
definitivamente tramontato con la riproposizione del doppio canale nella Legge
53/2003 del Ministro Letizia Moratti. Questa violazione del diritto allo studio
noi la denunciamo con forza, poiché mette nelle mani di coloro che 13 anni non
sono in grado di scegliere un percorso formativo a causa di condizionamenti di
diversa natura una decisione che peserà sulla loro formazione critica,
penalizzandoli forse per sempre.
Nel documento governativo rileviamo una riduzione
progressiva della spesa per l’istruzione dal (16% degli Anni Settanta al 4% di
oggi) che lascia alle Regioni l’iniziativa di attivare reti di imprese che
dovrebbero offrire ai giovani in alternativa ad un percorso formativo nella
scuola delle allettanti prospettive di esperienze lavorative; quindi, da un
diritto violato nasce un incentivo a scambiare con un sistema formativo una
sorta di avviamento professionale attualizzato da nuove tecnologie.
21.
Right to education (arts. 13
and 14). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003,
n.33: Please provide information on the extent of the
phenomenon of functional illiteracy in the State party.
See list of issue
E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.34: The State party’s report states
that the rights of linguistic and religious minority groups are respected in
education. Please
explain how these minority rights are actually being implemented.
CONTRIBUTO WILPF ITALIA
In materia di difesa dei diritti delle minoranze il
documento governativo elenca una serie di iniziative nel campo
dell’intercultura ma non considera affatto il problema delle tutela del diritto
alla libertà di coscienza delle minoranze. Per minoranze intendiamo non
soltanto i gruppi portatori di diverse culture e religioni ma anche coloro che,
cittadini del nostro paese, non si omologano alla religione praticata dalla
maggioranza.
Il Nuovo Concordato (Legge 124/85) ha introdotto
nella scuola pubblica (statale
degli Enti Locali) il principio della facoltatività della scelta
dell’insegnamento della religione cattolica. Si è passati così, dal regime di
obbligatorietà di questo insegnamento (Concordato mussoliniano 1929) a un
regime di libera scelta in conformità della Costituzione del 1948 che non
prevede alcuna religione di Stato.
Poteva essere questa – un’affermazione di libertà,
un passo avanti nell’attuazione dei principi costituzionali. Non fu così e a
tutt’oggi la situazione non è cambiata.
Queste le principali violazioni del diritto alla
libertà di coscienza (Art.8, 19 della Costituzione):
1.
L’insegnamento
della religione cattolica (irc) in contrasto col principio di facoltatività è
stato sottoposto a un meccanismo perverso per il quale chi non sceglie l’irc è
tenuto tuttavia a dichiarare di non sceglierlo.
2.
L’irc
è stato introdotto per la prima volta per ben due ore settimanali nella scuola
dell’infanzia con buona pace del rispetto per tutte le religioni e di tutte le
posizioni culturali, quando poi la stessa Chiesa cattolica non ritiene di dover
ammettere al catechismo bambini di età inferiore a 6 anni.
3.
la collocazione dell’irc rimasta
all’interno dell’orario scolastico obbligatorio ha dato origine a un’infinità
di problemi a tutt’oggi insoluti. Nonostante tre sentenze della Corte
Costituzionale che sanciscono il diritto al pieno rispetto della scelta dello
studente che non si avvale dell’irc, in realtà si assiste a un assoluto non
rispetto di tali diritti.
Le materie alternative (se
richieste) non vengono attivate per mancanza di spazi e di denaro, gli studenti
che non si avvalgono dell’irc non vengono fatti uscire dalla scuola, nonostante
ne abbiano diritto, per non ingenerare confusione, né vengono predisposti spazi
dove loro possano dignitosamente trascorrere quell’ora. Insomma nella maggior
parte dei casi essi si aggirano tra il banco dei bidelli e i bagni come ai
tempi dell’esonero. Spesso, specie nella scuola elementare media vengono mandati
in altre classi dove giungono da intrusi e sono costretti a seguire altre
lezioni , quando non vengono addirittura invitati a rimanere nella loro classe
per ascoltare un insegnamento rifiutato, ma che a detta dei capi di istituto
“certo male non fa”. Il giudizio che viene dato su di loro è quasi sempre
negativo come se si trattasse di ragazzi negligenti, “diversi” con tendenze riprovevoli. I genitori,
non di rado extracomunitari, soprattutto nella scuola elementare e media si
rivolgono alle nostre associazioni (in grado di produrre ricca documentazione
di cui siamo in possesso) per lamentare questa sopraffazione e discriminazione
nei confronti dei loro figli e figlie, colpevoli solo di non omologarsi alla
religione della maggioranza.
Le proteste e le denunce contro questa forma di
lesione di un diritto costituzionalmente garantito, quale la libertà di
coscienza, continuano anche se in molti casi si finisce col subire adeguandosi.
Solo una collocazione dell’irc fuori dell’orario
scolastico obbligatorio e impartito su effettiva richiesta può sanare questa
grave situazione.
ARCI SOLIDARIETÀ LAZIO, CONTRIBUTO CARLO
CHIARAMONTE: POPOLAZIONE ROM.
Nella seconda metà del novecento l’Italia è stata investita da due
importanti ondate migratorie di popolazione rom proveniente dall'area
balcanica, la prima a fine anni sessanta inizio settanta, la seconda tra gli
anni 1992 e 1995 in conseguenza della guerra nella ex-Jugoslavia.
Interventi positivi, volti a garantire agli immigrati rom, la
fruibilità dei diritti sociali, culturali ed economici sono stati attuati dagli
enti locali, principalmente Comuni, e da alcune Regioni. Si assiste, invece, ad
una totale mancanza di politiche specifiche da parte del Governo Nazionale, che
non ha mai individuato un organo con funzione di coordinamento che sia
riferimento per le varie amministrazioni pubbliche a livello centrale,
regionale e locale, per le associazioni e gli enti del privato sociale che da
anni cercano di garantire il pieno inserimento delle comunità rom nel tessuto socio-economico
italiano, e per le comunità dei Rom e Sinti.
A ciò si aggiunge che nella stesura della legge per
la tutela delle minoranze linguistiche (cfr. L. 482/99), in applicazione della
Convenzione Quadro Europea per la Protezione delle Minoranze Linguistiche, i
Rom e i Sinti, inseriti nella prima bozza del testo legislativo, sono stati
esclusi da quello definitivo. Il Governo italiano si impegnò a produrre una
Legge Stralcio per la salvaguardia della lingua romanì. A distanza di circa
quattro anni nulla è stato fatto.
Come risulta dai dati inseriti nel rapporto
governativo, alcuni Enti Locali, il Comune di Roma in particolare, hanno
investito ingenti risorse per finanziare progetti di scolarizzazione rivolti a
minori e adolescenti rom/sinti, finalizzati a rendere il diritto/dovere
all’istruzione fruibile da un elevato numero di ragazzi. Una volta acquisita la
licenza media, però, la possibilità di proseguire il percorso formativo diviene
reale solo per i ragazzi in possesso di regolare permesso di soggiorno, o in
pochi altri casi. I corsi di formazione professionale, infatti, sono
frequentabili solo dai ragazzi in possesso di permesso di soggiorno e il
conseguimento del diploma di maturità è consentito solo a coloro che al
compimento del diciottesimo anno di vita siano in posizione regolare rispetto
alle norme sull’immigrazione. Fanno eccezione i minori non accompagnati o
quelli che sono affidati ai servizi sociali, per i quali è prevista la
possibilità di raggiungere l’obiettivo dell’istruzione superiore. Occorre
precisare che i ragazzi rom appartenenti alle famiglie immigrate agli inizi
degli anni settanta che oggi desidererebbero poter frequentare corsi di
formazione professionale sono in massima parte nati e cresciuti in Italiano e
hanno sostanzialmente perso ogni rapporto con il paese di provenienza dei loro
genitori ma non hanno la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana a
causa del regime di “jus sanguinis” ancora vigente in materia nel nostro paese.
Le comunità rom sul territorio romano sono
insediate all’interno di “campi”, alcuni dei quali attrezzati dal Comune, altri
sorti spontaneamente in aree periferiche della città. La soluzione del campo
sembrava inizialmente ben rispondere all’esigenza di vita comunitaria propria
delle popolazioni rom, ma a distanza di 30 anni dai primi insediamenti una
grossa parte dei rom giunti in Italia è diventata stanziale ed ha, quindi,
modificato le proprie esigenze. Anche in questo caso, il governo centrale non è
stato in grado di adottare misure adeguate ad assicurare standard abitativi
dignitosi e ha delegato la soluzione delle urgenze abitative agli enti
territoriali, soprattutto i comuni, che ospitano queste comunità sul proprio
territorio, ma che nelle maggior parte dei casi non hanno gli strumenti per
affrontare una simile problematica.
In sintesi, in Italia si assiste ad un’immigrazione
di popolazione rom di lunga data, con un elevato numero di persone nate e
cresciute sul territorio nazionale che non avendo la possibilità di
regolarizzare la propria posizione si vedono negati diritti fondamentali quali
l’istruzione, il lavoro e la casa.
I contributi
sull’immigrazione vanno, oltre che sintetizzati, riorganizzati per
l’inserimento nei paragrafi 8, 15 e 18. Possono essere creati altri paragrafi
per affrontare issues specifiche e non comprese nella 9, 22 e 30 della list of
issues.
a) Nel suo complesso, la
legge Bossi – Fini ( L. 30 luglio 2002, n.189) risulta caratterizzata dalla preoccupazione di affrontare il fenomeno
dell'immigrazione soprattutto come una questione di ordine pubblico, ponendo in
primo luogo l’esigenza di allontanare gli immigrati irregolari e di contrastare
il traffico di clandestini. Tale intento emergeva chiaramente dalle prime righe
della relazione allegata al disegno di legge 795 del 2001, secondo la quale,
davanti al “pericolo di una vera invasione dell’Europa da parte di popoli che
sono alla fame, in preda ad una inarrestabile disoccupazione o a condizioni di
sottoccupazione” bisogna “affrontare il problema di fondo concernente
l’immigrazione clandestina.
In realtà la nuova legge -oltre ad
inasprire l’apparato sanzionatorio- riduce fortemente possibilità di ingresso
legale per lavoro, accentuando la precarietà dei lavoratori migranti, costretti
di fatto all’ingresso clandestino o a limitate possibilità di ingresso per
lavoro stagionale.
Aspetto centrale della nuova
disciplina, entrata in vigore nei primi giorni di settembre del 2002, è il
nuovo "contratto di soggiorno", la cui concessione è legata
all'esistenza di un contratto di di lavoro, con la conseguenza che lo status
giuridico
dell'immigrato dipende dalla persistenza del rapporto di lavoro. quindi, dalla
volontà del datore di lavoro.
La riforma del mercato del lavoro introdotta con la
legge Biagi nel 2003, a partire
dalla legge 30 e dal d. lgs. 276/2003, con la forte differenziazione dei rapporti di
lavoro che ne è seguita, dalle collaborazioni ai lavori a progetto, ha
accresciuto le difficoltà che incontrano gli immigrati in Italia nella stipula
di rapporti di lavoro che -in base al T.U. sull’immigrazione 286/98, come
modificato dalla legge 189/2002- dovrebbero essere caratterizzati dalla
rigidità, come nel caso del contratto di lavoro a tempo determinato o
indeterminato, uniche possibilità di accesso al permesso di soggiorno per
lavoro subordinato.
Legare la possibilità di soggiorno legale alla
stipula ( ed alla permanenza) di un contratto di lavoro tanto rigido, che
l’evoluzione del mercato tende a superare, significa esporre gli immigrati ad ogni sorta di pressioni,
che possono tradursi anche in comportamenti ricattatori a danno dei soggetti
più deboli ( come le donne o gli immigrati più anziani).
La conseguenza più evidente che ne deriva, anche tra
gli immigrati regolarmente residenti, è la diffusione ulteriore delle diverse
tipologie di lavoro informale, fino al vero e proprio lavoro nero.
La legge .189/2002 sancisce una
pericolosa precarizzazione di tutti gli
immigrati, anche di quelli in regola da anni nel nostro paese.
Con quest’ultima legge si allontana la prospettiva
della stabilizzazione dei permessi di lunga durata
( carta di soggiorno), dimezzando i tempi di durata
del permesso di soggiorno dopo il primo rinnovo ( da quattro a due anni) ed
allungando i tempi richiesti per conseguire la carta di soggiorno ( da cinque a
sei anni) con requisiti di reddito sempre più difficili da provare.
b) Alla luce del contesto normativo e delle prassi amministrative
attuali, non è facile rispondere a tutte le domande proposte dal questionario
UNHCHR perché in Italia non
ci sono osservatori indipendenti,
e dunque mancano dati attendibili sulla discriminazione razziale e sulla
xenofobia, né programmi nazionali coerenti con le raccomandazioni della
Dichiarazione di Vienna e del programma di azione, oltre che del più recente
programma di azione di Durban del 2001.
Non si riscontrano neppure istituzioni pubbliche
effettivamente operanti sul terreno del contrasto alla discriminazione razziale
ed alla xenofobia, a parte il nuovo comitato istituito presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri ( VEDI ALLEGATO)
Anche a livello locale la situazione non è migliore
ed un bilancio degli organismi preposti ad affrontare le problematiche
dell’integrazione degli immigrati nel nostro paese appare decisamente
sconfortante.
Molti Consigli territoriali sull’immigrazione
non si riuniscono da tempo, la Commissione per le politiche di integrazione ( art.
46 T.U.286/98) sembrerebbe ormai estinta, i nuovi comitati interministeriali,
come quello previsto dall’art. 2 bis del T.U. modificato dalla Bossi Fini si
limitano a concertare le misure di espulsione e di contrasto dell’immigrazione
clandestina, ma non si occupano di integrazione, nè rendono pubblici i loro
lavori.
Manca in questa situazione una casistica rilevante
della discriminazione razziale e della xenofobia, e le ricerche empiriche al
riguardo segnalano soltanto i casi che vengono “censiti” dalla stampa, con
notizie occasionali su singoli episodi.
Anche il dossier della Caritas e le pubblicazioni
delle associazioni consultate nella stesura del rapporto, come ASGI, ICS, ARCI,
Casa dei diritti sociali, CISS
danno un quadro molto limitato della discriminazione razziale e della
xenofobia in Italia.
Appare comunque evidente la condizione di particolare svantaggio dei richiedenti
asilo, nel periodo spesso molto lungo ( fino a due anni) di attesa per la
decisione sulla richiesta di asilo. Di recente a Roma, nel quartiere Tiburtino,
a Caserta ed a Palermo è esploso il disagio di questa categoria di migranti costretta
di fatto alla più totale precarietà a causa dei ritardi della Commissione
centrale
che ha accumulato un arretrato di oltre 17.000 istanze ( circa diciotto mesi),
e della totale mancanza di assistenza pubblica.
Come è
noto, infatti, la legge italiana proibisce la stipula di un contratto di lavoro
ed il ricongiungimento familiare per quei richiedenti asilo che sono ancora in
attesa di conoscere la decisione della Commissione centrale, con la conseguenza
che la maggior parte di loro, spesso isolata dal contesto familiare di
provenienza, rimane totalmente priva di un contributo pubblico di assistenza,
ed è costretta al lavoro nero ed a subire ogni tipo di ricatti per ottenere
beni primari come il cibo o l’alloggio.
Esemplare a tale riguardo è la vicenda dei profughi
sudanesi
giunti a Lampedusa, a partire dal 2001, immediatamente destinatari ad Agrigento
di provvedimenti di espulsione o di trasferimenti forzati in altre parti di
Italia, come a Crotone in strutture di detenzione amministrativa, e poi abbandonati
al loro destino nelle campagne di Caserta, nelle città siciliane, o costretti a
spostarsi a Roma, nella speranza di un esame più rapido delle loro istanze di
asilo. Soltanto adesso i media cominciano a parlare di genocidio nel Darfur, ma intanto la Commissione
centrale, ha respinto numerose
istanze presentate da questi asilanti, senza attribuire alcun rilievo a fatti documentati dalle grandi agenzie
umanitarie internazionali ed ormai del tutto evidenti .
In alcune interviste da parte della Commissione,
durate appena pochi minuti, ha assunto maggior rilievo la attività politica
svolta dai richiedenti asilo giunti in Italia, e i loro collegamenti con le
associazioni che li avevano accolti ed assistiti nel nostro paese. Altissima,
in questi casi, la percentuale dei dinieghi, anche nei riguardi di richiedenti
asilo ai quali erano state amputati gli arti inferiori.
c) In ordine al punto 9 degli issues si osserva
quanto segue.
L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione ONU del 1990 sulla
protezione dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. La condizione dei
migranti lavoratori in una condizione di irregolarità ( categoria
specificamente prevista da quella convenzione) rimane pertanto caratterizzata
dalla massima precarietà. Gli sforzi fatti da diverse associazioni per una
ratifica della Convenzione sono rimasti ancora senza effetti. Sembra prevalere il timore che qualsiasi
riconoscimento di diritti a migranti irregolari possa tradursi in un ostacolo
per le politiche di allontanamento forzato degli immigrati irregolari.
In realtà la presenza di lavoratori clandestini sul nostro
territorio è tollerata, i controlli delle autorità competenti, come gli
ispettorati del lavoro , sono molto scarsi, ed il caporalato è ormai
stabilmente presente tanto nelle piazze dei comuni del ricco Nord, quanto alla
periferia dei centri agricoli del meridione.
La normativa nazionale contro gli atti di discriminazione razziale
ha avuto una applicazione molto limitata
e dopo la attuazione
delle direttive comunitarie, prima con le leggi di delega e quindi con i
decreti legislativi n. 215 e 216 del 2003, le prospettive sembrano ancora peggiori, dal momento che
non si è realizzata la inversione dell’onere della prova, che incombe ancora
alla vittima degli atti discriminatori, e mancano agenzie indipendenti che
possano denunciare i casi di discriminazione, evitando alle vittime il rischio
di una successiva ritorsione. Non sono stati neppure costituiti gli osservatori
regionali contro la discriminazione razziale, previsti dalla legge 40 del 1998.
Ma l’aspetto più grave che si rileva nella
trasposizione delle direttive comunitarie contro la discriminazione e la
xenofobia nel nostro paese è costituito dalla clausola “omnibus”presente nei
decreti di attuazione.
Secondo la normativa interna di attuazione
“Il presente decreto legislativo non riguarda le
differenze di trattamento basate sulla nazionalita' e non pregiudica le
disposizioni nazionali e le condizioni relative all'ingresso, al soggiorno,
all'accesso all'occupazione, all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei
Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, ne' qualsiasi
trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica
dei predetti soggetti.
Nel rispetto dei principi di proporzionalita' e
ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio
dell'attivita' di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi
dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche
connesse alla razza o all'origine etnica di una persona, qualora, per la natura
di un'attivita' lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si
tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e
determinante ai fini dello svolgimento dell'attivita' medesima.
Non costituiscono, comunque, atti di
discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che,
pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate
oggettivamente da finalita' legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e
necessari.
Mentre la Convenzione ONU sui diritti dei
lavoratori migranti e il Piano di azione della Conferenza di Durban
sollecitavano i diversi paesi firmatari a modificare le legislazioni interne
che risultassero in contrasto con il divieto di discriminazione razziale, la
clausola appena richiamata inverte quasi del tutto la situazione e afferma la
intangibilità della legislazione interna in materia di condizione giuridica
degli immigrati, anche quando questa risulta direttamente o indirettamente
discriminatoria.
In questo modo si chiude quasi completamente la possibilità di
perseguire tanto il cd. razzismo istituzionale, spesso nella forma di atti o
comportamenti, posti in essere da pubblici ufficiali, riconducibili al concetto
di discriminazione indiretta, quanto le sempre più diffuse discriminazioni
verificate nell’ambito dei rapporti di lavoro.
Le forme di razzismo istituzionale sono le più diverse, e in alcune
occasioni sono state avallate dall’autorità giudiziaria che è intervenuta in sede
di controllo di legittimità degli atti della pubblica amministrazione.
La legge non stabilisce esplicitamente (pur non
vietandolo) che al detenuto straniero debba comunque essere rilasciato o
rinnovato un permesso di soggiorno. Si e’ assestata, in questi ultimi anni, una
prassi (Messaggio del Ministero dell’interno alla Questura di Vercelli del 4
Settembre 2001) secondo la quale l’istanza di rinnovo del permesso non puo’
essere accolta perche’ resa superflua dal provvedimento dell’Autorita’
giudiziaria in forza del quale lo straniero e’ detenuto. Recentemente, pero’,
una sentenza della Corte di Cassazione Penale (Sez. I, n. 30130/2003) ha
stabilito che l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale e alle
altre misure alternative extra-murarie e’ precluso allo straniero privo di
permesso di soggiorno, dal momento che comporterebbe la permanenza illegale di
uno straniero nel territorio dello Stato. Il mantenimento della prassi citata
rischia, alla luce di questa sentenza, di rendere impraticabili i percorsi di
recupero sociale del detenuto straniero.
a) La discriminazione
nell’accesso al lavoro
La normativa attuale impone, per l’ingresso
legale in Italia per motivi di lavoro, la dimostrazione di una preventiva
promessa di assunzione da parte di un datore di lavoro (art. 22 T.U.). L’impossibilita’ di dar
luogo a forme legali di incontro diretto tra domanda e offerta di lavoro
costringe, nei fatti, i lavoratori stranieri che aspirino a migrare in Italia
ad avvalersi di un periodo di soggiorno illegale che consenta loro di porre le
basi per la costituzione di un rapporto di lavoro, altrimenti irrealizzabile.
Questa situazione alimenta da anni il bacino di immigrazione illegale, che
viene periodicamente svuotato da provvedimenti di sanatoria. Si tratta di un
fenomeno tutt’altro che marginale: nel periodo 1988-2002 i permessi di
soggiorno per lavoro (non stagionale) rilasciati in seguito a un ingresso
formalmente successivo alla promessa di assunzione sono stati circa 285.000 (in
media, circa 19.000 per anno); quelli rilasciati in seguito a provvedimenti di
sanatoria, circa 1.360.000 (in media, circa 90.000 per anno). La condizione di
illegalita’ forzata e’ quindi un elemento strutturale dell’immigrazione per lavoro
in Italia, con le conseguenze facilmente immaginabili in termini di
compressione dei diritti dei migranti.
La
materia dei rapporti di lavoro degli immigrati presenta
molteplici aspetti di discriminazione razziale . In molti casi si verificano
discriminazioni insopportabili, ma queste derivano proprio dalle disposizioni
legislative o regolamentari contro le quali non è possibile azionare la tutela
introdotta dagli artt. 43 e 44 del T.U. 286 del 1998. Così ad esempio i
titolari di un permesso di soggiorno per motivi di salute non potrebbero
svolgere nel nostro paese alcuna attività lavorativa, trovandosi quindi nella
impossibilità di sostenere, o contribuire al sostentamento del proprio nucleo
familiare.
Con una importante decisione del Tribunale di Firenze
del 24 dicembre 2001, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2002, p168 con
nota di M.Pipponzi), e con altra decisione della Corte di Appello di Firenze
del 21 dicembre 2001, si afferma il principio di non discriminazione, tra chi
ha il permesso di soggiorno per motivi di salute e chi invece è titolare di un
permesso per motivi di famiglia, che consente pacificamente la prestazione di
una regolare attività lavorativa. In entrambi i casi dunque, solo grazie
all’intervento della giurisprudenza viene evitata una pesante discriminazione
istituzionale ai danni di immigrati in condizioni di particolare vulnerabilità,
perché malati, ed al contempo responsabili del mantenimento dei propri figli. I
giudici fiorentini richiamano anche la Convenzione dei diritti del fanciullo
del 1989, resa esecutiva in Italia con la legge n.176 del 1991, dalla quale si
ricava come i genitori possano adempiere ai propri doversi di assistenza nei
confronti dei figli solo se sono messi nella effettiva possibilità di
procurarsi i mezzi necessari prestando una attività lavorativa
La
vicenda che aveva preso le mosse
dal diniego frapposto dalla questura di rilasciare un permesso per motivi di
famiglia, in luogo del permesso per motivi di salute poi rilasciato, mette in
risalto la questione della difesa legale che costituisce l’unico strumento
in Italia, quando possa essere effettivamente esperita, per il riconoscimento e
la tutela dei diritti fondamentali degli immigrati.
b)Impossibilita’ di accesso a mezzi leciti di
sostentamento
In diversi casi e’ previsto dalla
legge che lo straniero possa soggiornare legalmente in Italia per motivi legati
alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti o al rispetto di obblighi
internazionali. Rientrano in quest’ambito il soggiorno per richiesta di asilo
(art. 1 L. 39/1990), il soggiorno per l’esercizio del diritto di difesa (art.
17 T.U.), quello che consegue alle situazioni di inespellibilita’ della donna
incinta o che abbia partorito recentemente (art. 19, co. 2 T.U.) e il soggiorno
del genitore autorizzato dal Tribunale per i minorenni a tutela dello sviluppo
del minore soggiornante in Italia (art. 31, co. 3). Per questi casi e’ escluso,
o non e’ stabilito esplicitamente, che lo straniero ammesso al soggiorno legale
possa svolgere attivita’ lavorativa, senza pero’ che siano tassativamente
previste misure atte a garantire che gli siano assicurati adeguati mezzi di
sostentamento.
I requisiti previsti per il rinnovo del permesso di
soggiorno del lavoratore subordinato straniero (e, in base all’art. 30, co. 3
T.U., dei suoi familiari) sono molto rigidi. In particolare, e’ necessaria,
ai fini del rinnovo, l’esistenza di un contratto di lavoro (art. 5, co. 5
T.U.).
Una certa elasticita’ e’ prevista in caso di perdita del posto di lavoro per
licenziamento o dimissioni: in questo caso, ove il permesso di soggiorno vada a
scadenza prima che siano trascorsi sei mesi dalla perdita del posto, il
lavoratore ottiene un limitato rinnovo mirato a consentirgli un periodo di
ricerca di nuova occupazione di durata complessiva non inferiore, appunto, a
sei mesi (art. 22, co. 11 T.U.). Salva questa modesta forma di tutela, quindi,
la perdita dell’occupazione puo’ facilmente tradursi per il lavoratore
straniero (e, conseguentemente, per i suoi familiari) nella perdita della
facolta’ di soggiornare in Italia.
La condizione e’ ulteriormente aggravata per i
lavoratori che abbiano stipulato un contratto a termine (invece che a tempo
indeterminato). La legge italiana non consente per questo tipo di contratti
licenziamenti o dimissioni, se non in casi eccezionali (art. 2119 c.c.). Non si
applicano quindi le disposizioni di cui all’art. 22, co. 11 T.U.. Inoltre, la
necessita’ di presentare la domanda di rinnovo almeno sessanta giorni prima
della scadenza del permesso preclude la possibilita’ che a sostegno della
richiesta sia esibito un nuovo contratto a tempo determinato con lo stesso
datore di lavoro (vietato dall’art. 5 D. Lgs. 368/2001). Stante allora la
difficolta’ di reperire, a rapporto di lavoro in corso, una possibilita’ di
impiego con un diverso datore di lavoro, l’unica possibilita’ per il lavoratore
e’ quella di ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro a termine in
rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Si vede allora come, a dispetto del principio di
parita’ di diritti tra lavoratore straniero legalmente soggiornante e
lavoratore italiano, sancito dalla Convenzione OIL n. 143/1975 e dall’art. 2,
co. 3 T.U., la rigidita’ delle disposizioni sul rinnovo del permesso di
soggiorno finisca con l’incatenare il lavoratore al proprio posto di lavoro. La
libera scelta dell’occupazione, sancita per il cittadino dall’art. 4 Cost., e’
gravemente sacrificata per il lavoratore immigrato, che perde cosi’ anche gran
parte della propria forza contrattuale nei confronti del datore di lavoro.
Le modifiche apportate recentemente al T.U. dalla
L. 189/2002 (Legge Bossi-Fini) hanno poi appesantito la posizione del datore di
lavoro che intenda stipulare un contratto di lavoro con un lavoratore
straniero: e’ previsto che il datore debba garantire il reperimento di un
alloggio, per il lavoratore, che soddisfi i requisiti previsti dalle leggi
regionali sull’edilizia residenziale pubblica, e che debba coprire le eventuali
spese di rimpatrio per lo stesso lavoratore. Se questi requisiti aggiuntivi non
contrastano con il principio di parita’ in sede di ammissione del lavoratore in
Italia (non si tratta ancora di un lavoratore legalmente soggiornante), essi
configurano una disciminazione inaccettabile se applicati ai contratti di
lavoro che lo straniero stipuli successivamente al suo ingresso. Costituiscono
infatti un deterrente per il datore di lavoro, e, di conseguenza, un fattore di
esclusione del lavoratore straniero che sia rimasto privo di occupazione dalla
possibilita’ di rientro nel mercato del lavoro. Tale applicazione estensiva non
e’, di per se’, stabilita dalla L. 189/2002, ma e’ prevista dall’art. 32 del
Regolamento di attuazione della stessa legge (art. 36-bis DPR 394/1999), approvato
dal Consiglio dei Ministri e attualmente all’esame del Consiglio di Stato in
vista della definitiva emanazione.
Questa forma di discriminazione rende
paradossalmente improponibile, nei fatti, l’accesso del lavoratore straniero
alle forme flessibili di contratto di lavoro recentemente introdotte o
potenziate dalla L. 30/2003 e dal D. Lgs. 276/2003 (soprattutto la
somministrazione di lavoro e il lavoro intermittente), mirate ad alleggerire
gli oneri per il datore di lavoro e a diminuire cosi’ lo squilibrio esistente,
nel mercato del lavoro, tra la condizione degli insider e quella degli outsider.
d)
Incertezza dei tempi per rilascio e rinnovo del permesso
Benche’ la legge stabilisca, per il rilascio o il
rinnovo del permesso, un termine di venti giorni dalla richiesta, la
corrispondente disposizione (art. 5, co. 9 T.U.) ha un carattere meramente
ordinatorio, non essendo assistita da alcuna sanzione ne’ da un principio di
silenzio-assenso. In pratica, l’immigrato resta per molti mesi privo di un
documento indispensabile sia per la stipula di un contratto di lavoro sia per
il godimento dei diritti associati alla titolarita’ del permesso (ad esempio, a
seconda dei casi, la possibilita’ di chiedere il ricongiungimento con i
familiari residenti all’estero o l’iscrizione in un corso di studio o di
formazione). Gli effetti negativi di questa situazione sono stati in parte
ridotti stabilendo esplicitamente che e’ lecito impiegare uno straniero
titolare di un permesso di soggiorno che abiliti al lavoro, per il quale sia
stato chiesto nei termini di legge il rinnovo (art. 22, co. 12 T.U.); restano
pero’ irrisolti i problemi relativi al godimento delle altre facolta’ e quelli
connessi al ritardo nel rilascio del primo permesso di soggiorno.
e)
Ostacoli allo svolgimento di una professione
A dispetto del principio di
parita’ tra lavoratore straniero legalmente soggiornante e lavoratore italiano
(Convenzione OIL n. 143/1975 e art. 2, co. 3 T.U.), lo svolgimento di una
professione da parte del lavoratore straniero legalmente soggiornante e in
possesso dei titoli abilitanti richiesti per quella professione e’ consentito
dalla legge solo entro i limiti numerici fissati annualmente dal Governo in
relazione agli ingressi di nuovi immigrati in Italia per motivi di lavoro autonomo
(art. 37, co. 3 T.U.). Tali limiti – comprensivi di tutte le attivita’ autonome
– sono stati, in questi anni, estremamente bassi (circa tremila per anno), e
senza che fosse stabilito esplicitamente un criterio di precedenza per i
lavoratori gia’ legalmente soggiornanti in Italia.
f) Discriminazioni nell’assistenza sociale
L’art. 41, co. 1 T.U. sancisce
formalmente la parita’ di diritti, ai fini del godimento delle misure di
assistenza sociale, tra cittadino italiano e straniero legalmente soggiornante
con un permesso di durata non inferiore a un anno. L’art. 80, co. 19 L.
388/2000 (legge finanziaria per il 2001) ha pero’ limitato drasticamente la
portata di questa disposizione, stabilendo, per la maggior parte delle
provvidenze economiche previste dalla legislazione in materia di assistenza
sociale, che la parita’ riguarda i soli titolari di carta di soggiorno. Questa
limitazione ha creato, in particolare, un grave circolo vizioso ai danni del
lavoratore straniero per il quale sopravvenga, mentre e’ ancora titolare di un
semplice permesso di soggiorno per lavoro, una condizione di invalidita’ civile
(ad esempio, in seguito a un incidente stradale). Tale condizione,
precludendogli la prosecuzione dell’attivita’ lavorativa, gli rende impossibile
il rinnovo del permesso di soggiorno (art. 5, co. 5 T.U.). La mancanza di un
reddito per se’ e per i propri familiari, poi, anche nell’ipotesi in cui il
lavoratore abbia gia’ maturato i sei anni di soggiorno legale in Italia, gli
impedisce di ottenere la carta di soggiorno (art. 9, co. 1 T. U.). La
condizione di indigenza sarebbe superabile, se solo lo straniero potesse
ottenere la pensione di invalidita’, per la quale e’ certamente in possesso dei
requisiti soggettivi. Ma tale pensione e’ riservata, appunto, tra gli stranieri,
ai titolari di carta di soggiorno. L’acquisizione della condizione di
invalidita’ diventa cosi’ motivo di perdita della facolta’ di soggiornare in
Italia.
3) La discriminazione e il diritto alla famiglia ( punto 22 issues)
Ai fini del ricongungimento
familiare, il lavoratore straniero deve dimostrare, tra le altre cose, la
disponibilita’ di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalle
leggi regionali per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 29, co.
3 T.U.). Allo stesso tempo, pero’, l’accesso agli alloggi di edilizia
residenziale pubblica e’ previsto, a parita’ di condizioni col cittadino
italiano, per i soli titolari di permesso di soggiorno di durata almeno
biennale e con regolari attivita’ di lavoro subordinato o autonomo in corso
(art. 40, co. 6 T.U.). Sono cosi’ esclusi i lavoratori stranieri che abbiano
ottenuto il permesso di soggiorno in relazione alla stipula di un contratto a termine;
per costoro, infatti, la durata del permesso di soggiorno non puo’ essere
superiore a un anno (art. 5, co. 3-bis T.U.). Tuttavia, questi stessi
lavoratori, purche’ dotati di un contratto di durata non inferiore a un anno,
possono chiedere il ricongiungimento familiare (art. 28, co. 1 T.U.). Per loro,
quindi, e a dispetto dell’art. 31 Cost., i parametri fissati dalle leggi
regionali a tutela del benessere delle famiglie, giocano paradossalmente il
ruolo opposto di ostacoli al godimento del diritto fondamentale all’unita’
familiare.
b ) Richiedenti asilo e ricongiungimento familiare.
I richiedenti asilo prima della decisione della Commissione centrale
non hanno diritto al ricongiungimento familiare, che viene negato anche ai
richiedenti lo status di protezione umanitaria o temporanea. Il ritardo nella approvazione dei regolamenti
di attuazione della legge Bossi- Fini, nella parte che disciplina la nuova
procedura di asilo sta comportando una situazione di paralisi nelle attività
amministrative che riguardano i richiedenti asilo, e da parte di questi si
notano recenti processi di autoorganizzazione ( soprattutto a Roma, in Campania
e in Sicilia) al fine di esprimere la propria disperazione e ottenere almeno il
modesto risultato di un esame della pratica a livello locale, da parte della
Commissione centrale ( prassi consentita da un decreto governativo dello scorso
anno e già sperimentata in Puglia ed in Calabria).
L’Italia deve dare ancora attuazione alle direttive comunitarie sul
ricongiungimento familiare, che dedica una attenzione particolare solo ai
rifugiati, ma non ai richiedenti asilo, e alle altre direttive sulle procedure
e sullo status di rifugiato, in corso di pubblicazione in queste settimane
( sembrerebbero già approvate definitivamente a livello di Consiglio
dell’Unione Europea).
L’assenza di dati normativi certi, sia a livello nazionale che a
livello comunitario, consegna i richiedenti asilo al potere discrezionale delle Questure e del Ministero
degli interni, e i familiari di questi soggetti, quando giungono in Italia
irregolarmente ( come avviene quasi sempre) sono spesso costretti a lunghi
periodi di clandestinità, anche per la difficoltà di documentare i rapporti
familiari, in caso di un successivo e separato ingresso dei diversi membri della
famiglia.
4) La discriminazione con riguardo ai minori ( punto 30 issues)
a) Profili generali
Se è vero che la legge 40 del 1998 accordava ai minori figli di
immigrati l’accesso al
sistema della istruzione pubblica a parità di condizione con i minori italiani,
anche quando si riscontrassero situazioni di irregolarità nel soggiorno, nei
fatti questo diritto è fortemente compresso dal contesto ambientale in cui i
minori stranieri sono costretti a vivere, contesto che è anche di forte
degrado, come nel caso dei bambini Rom, la cui partecipazione alle attività
scolastiche appare in costante diminuzione; anche per la maggiore mobilità alla
quale sono costretti queste categorie di immigrati, per effetto delle politiche
degli enti locali sempre più orientate alla loro espulsione dal territorio
comunale, ed anche per effetto del rischio sempre maggiore di espulsione con
accompagnamento immediato in frontiera; rischio che ha avuto come conseguenza
una costante mobilità di gruppo che prima vivevano periodi più lunghi in una
stessa città, e quindi potevano essere inseriti più facilmente in percorsi di
integrazione, proprio a partire dalla frequenza scolastica dei minori.
Anche i figli dei richiedenti asilo vivono una condizione di
particolare disagio, e non solo con riferimento al loro inserimento nelle
istituzioni scolastiche. La situazione di totale precarietà dei loro genitori
comporta infatti anche per loro una forte mobilità, e non si riesce mai a
seguire in uno stesso luogo, salvo forse che a Roma, il percorso di
integrazione di un gruppo di richiedenti asilo e delle loro famiglie, perché
durante la procedura cambiano città più volte.
b) Diritto di accesso ai corsi di studio
Il diritto ad accedere ai corsi di studio e’
positivamente garantito al minore straniero, a prescindere dalla regolarita’
del suo soggiorno, dall’art. 45 DPR 394/1999. La posizione del minore straniero iscritto ad un corso di studi e’
pero’, ove egli sia figlio di genitori illegalmente soggiornanti, assolutamente
precaria: benche’ sia vietata l’espulsione dei minori, salvo che per gravi
motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, e’ stabilito, ovviamente, il
diritto del minore di seguire il genitore o l’affidatario espulsi (art. 19, co.
2). Una forma di tutela e’ offerta dalla disposizione di cui
all’art. 31, co. 3 T.U., in base alla quale il Tribunale per i minorenni puo’
autorizzare, in deroga alle altre disposizioni di legge, il soggiorno dello
straniero quando questo si renda necessario per tutelare lo sviluppo
psico-fisico del minore soggiornante in Italia.
In questi anni, tuttavia,
l’orientamento dei Tribunali e’ stato molto disomogeneo, con incerta rilevanza
della condizione di iscrizione del minore stesso ad un corso di studi ai fini
dell’accoglimento dell’istanza relativa al soggiorno del genitore.
Paradossalmente, quindi, e a causa della accresciuta visibilita’, l’essere
iscritto a scuola puo’ tradursi, per il minore, in un maggior rischio di
allontanamento dal territorio dello Stato.
Si richiama a tale riguardo la
iniziativa assunta nel 2003 dalla Prefettura di Catania che ha chiesto ai dirigenti scolastici la comunicazione di eventuali
iniziative attuate mediante progetti, conferenze o convegni a favore dei figli degli immigrati di “religione
diversa dalla cattolica”. In conseguenza, il dirigente del provveditorato agli
studi di Catania ha inviato una circolare applicativa richiedendo ai presidi
delle singole scuole notizie sulle iniziative attuate a favore di alunni di
“religione diversa dalla cattolica”. Si è così realizzato da parte della
Prefettura, di un ufficio periferico del governo dunque, un censimento di tutti gli studenti
figli di immigrati di religione “diversa da quella cattolica”. Siccome in
Italia il diritto-dovere allo studio è riconosciuto anche ai figli di immigrati
irregolari, una semplice verifica attraverso i sistemi informatici permetterà
di scoprire i figli di immigrati privi di permesso di soggiorno, con domicilio
e generalità dei genitori, con il rischio di una loro espulsione e di un
allontanamento degli stessi figli minori da quel percorso formativo che avevano
intrapreso nel nostro paese. E questo solo perché si tratta di giovani di
religioni diverse, non solo quindi di musulmani, ma anche di protestanti , o
induisti.
Le conseguenze discriminatorie di una simile
iniziativa sono evidenti in quanto il primo effetto immediato è consistito nel
ritiro degli alunni figli di immigrati irregolari, costretti da questa
iniziativa ad una nuova e più umiliante clandestinizzazione.
c) Diritti dei minori ed espulsione dei genitori
Similmente, e piu’ in generale, la
mancanza di una previsione automatica di protezione del minore
dall’allontamento dal territorio dello Stato in seguito all’espulsione del
genitore o dell’affidatario fa si’ che perfino un minore nato e vissuto
per un numero rilevante di anni in Italia possa veder troncati improvvisamente
tutti i propri legami sociali. La cosa assume
un carattere particolarmente grave quando si tratti di minori figli di genitori
che abbiano scontato una pena detentiva di notevole durata in Italia:
l’espulsione che nella maggior parte dei casi accompagna la remissione in
liberta’ del genitore (art. 15, co. 1 e 1-bis e art. 16, co. 5 T.U.) aggiunge
un trauma grave alla condizione, gia’ fortemente provata, del minore.
d)Discriminazione ai danni del minore straniero non
accompagnato
Il minore straniero non accompagnato, al pari di
qualunque altro minore straniero, non è espellibile se non per gravi motivi di
ordine pubblico o sicurezza dello Stato (art. 19, co. 2 T.U.). Quando ne sia segnalata la presenza sul territorio dello
Stato, pero’, si da’ luogo ad una procedura finalizzata ad accertare se sia
effettuabile il suo rimpatrio in condizioni di sicurezza (art. 33, co.
2-bis T.U.). Nelle more della decisione relativa al
rimpatrio, al minore per il quale non sia disposto l’affidamento e’ rilasciato
un permesso di soggiorno per minore eta’ (art. 28, co. 1 DPR 394/1999). Una Circolare del Ministero
dell’interno (13 Novenbre 2000) ha disposto che tale permesso non sia
utilizzabile per lo svolgimento di attivita’ lavorativa. Questa disposizione, discriminando il minore straniero nelle
condizioni descritte rispetto al coetaneo nazionale (ma anche rispetto al
coetaneo straniero titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari o
per affidamento) appare in contrasto con il principio di non
discriminazione sancito dalla Convenzione ONU di New York del 1989 sui diritti
del fanciullo (ratificata con L. 176/1991).
Dati i tempi estremamente lunghi
delle procedure di accertamento, e’ frequente il caso di titolare di permesso
di soggiorno per minore eta’ che raggiunga la maggiore eta’ mentre e’ ancora in
attesa della decisione relativa al rimpatrio. La Circolare
del Ministero dell’interno del 13 Novenbre 2000 esclude la possibilita’ di conversione
del permesso per minore eta’ in un permesso per motivi di studio o di lavoro. Anche in questo caso si configura una discriminazione ai
danni del titolare di permesso per minore eta’, dal momento che e’ previsto che
il minore titolare di un permesso per motivi familiari o per affidamento possa
fruire invece di tale conversione (art. 30, co. 5 e art. 32, co. 1 T.U.).
5) La discriminazione e l’assistenza ai richiedenti asilo
a) Diritti fondamentali dei richiedenti asilo e delle
loro famiglie
Nel corso del
2002 le richieste di asilo In Italia sono state 9.608, mentre nel 2001 erano
state 17.600 e nel 2000 più di 18.000. Se consideriamo che la commissione
centrale respinge annualmente il 90 per cento delle richieste di asilo, si può
giungere facilmente alla conclusione che l’Italia non rispetta il fondamentale
diritto della persona umana all’asilo, e costringe decine di migliaia di
richiedenti asilo alla clandestinità, determinando problemi anche agli altri
paesi europei verso i quali rivolgono flussi sempre più consistenti di
potenziali richiedenti asilo respinti, espulsi o resi clandestini dal nostro
paese.
Chi viene rimpatriato senza avere neppure la
possibilità di presentare una domanda di asilo, pur avendo manifestato la
volontà di chiedere asilo in Italia, finisce per essere internato in carcere o
ucciso, come si teme che sia successo già nel caso della famiglia siriana, o di
un gruppo di kurdi rimpatriati nel 2001 direttamente in Turchia, e come avviene
anche per molti cingalesi disertori o tamil, riconosciuti dal console cingalese
e rimpatriati con un volo charter direttamente nel paese dal quale erano
fuggiti. Nel 2002 l’Italia ha effettuato 5 voli charter verso lo Sri Lanka per
rimpatriare persone molte delle quali, rinchiuse nei centri di detenzione
pugliesi, avevano manifestato l’intenzione di chiedere asilo; senza riuscire a
formalizzare la domanda, in assenza di interpreti o per il giudizio sommario da
parte delle autorità di polizia circa la strumentalità della richiesta. Altri
voli charter sono stati eseguiti nel 2003 e in questo primo scorcio del 2004.
In moltissimi casi i potenziali richiedenti
asilo sono stati trattenuti per settimane nei centri di permanenza temporanea,
o in centri di transito, comunque strutture chiuse ed inaccessibili per gli
operatori delle organizzazioni non governative, senza potere presentare domanda
di asilo, oppure anche dopo avere presentato domanda di asilo, prima della loro
identificazione.
Con i provvedimenti adottati nel settembre del
2002, nel marzo e adesso nel mese di maggio del 2003, con una ordinanza del
Presidente del Consiglio, si è consentito che la commissione centrale,
competente a decidere sulle domande di asilo, operasse anche senza la
collegialità prevista dalla legge, spostandosi nei centri di detenzione dove
restavano rinchiusi molti richiedenti asilo.
Ma i rappresentanti della commissione non sono
arrivati quasi mai in Sicilia. Più spesso i richiedenti asilo sono stati
deportati dalla Sicilia verso la Calabria, a Crotone, o nei centri
pugliesi. Adesso sembra
prossimo l’avvio dei nuovi centri di identificazione per richiedenti asilo,
come il centro di Salina Grande, vicino Trapani; con il nuovo “escamotage” dei
cd. centri a destinazione mista, già collaudato al Regina Pacis di Lecce, dove
è più facile spacciare per accoglienza quella che rimane soltanto detenzione
amministrativa, spesso anche al di là dei termini e delle procedure previste
dalla legge. Al riguardo
autorevoli fonti ministeriali
affermavano, fino a poche settimane fa, come nei nuovi centri di
identificazione i richiedenti asilo avrebbero sofferto solo di una limitazione
della libertà di circolazione, e non della libertà personale, restando
consentito in altri termini l’uscita giornaliera dal centro con rientro serale;
nell’ultima versione del decreto attuativo, sembra per le pressioni della Lega
nord, i centri di identificazione sono caratterizzati dal divieto assoluto di
allontanamento e di uscita: si tratterà dunque di veri e propri “centri
chiusi”, che porranno delicate questioni di gestione delle strutture e di compatibilità
delle prassi amministrative di trattenimento con le previsioni di legge e della
Costituzione in materia di asilo e di limitazione della libertà personale
(art.13).
Come si vede, continua a regnare l’incertezza, e non
si conosce ad oggi quale sarà l’esatto status dei richiedenti asilo in Italia;
anche se tra poco , a tale riguardo, dovrà darsi attuazione alla Direttiva
comunitaria n. 9 del 2003, che imporrà anche all’Italia la predisposizione di
nuove norme che rendano uniformi gli standard europei in materia di procedure
per i richiedenti asilo, garantendo soprattutto l’effettività del diritto di
ricorso riconosciuto al richiedente asilo dopo il diniego della sua istanza.
La stessa direttiva comunitaria n.9 del 2003 contiene
a tale riguardo previsioni che risultano in totale contrasto con quanto
previsto dalla legge Bossi Fini, e ancora di più con il nuovo regolamento di
attuazione non ancora entrato in vigore, che consente l’accompagnamento
immediato in frontiera anche in presenza di un ricorso non ancora esaminato dal
giudice.
b) Accoglienza ed assistenza ai richiedenti asilo
Il progetto nazionale asilo (PNA) avrebbe dovuto dare una risposta
ai gravissimi problemi derivanti dalla lunghezza delle procedura e dalla quasi
totale assenza di interventi pubblici di assistenza rivolti ai richiedenti
asilo. Non sembra però che le recenti scelte del Governo italiano e della
Commissione mista appositamente
istituita , che hanno determinato
il finanziamento di una trentina di progetti sparsi per l’Italia corrispondano
alle attese.
Innanzitutto lo stanziamento complessivo è irrisorio, considerato
anche il numero di richiedenti asilo ancora in attesa di una definizione della
loro pratica, il numero dei
posti offerti su base annua ( circa 1500) non raggiunge neppure un decimo dei
soggetti che vi avrebbero diritto, e si nota una forte penalizzazione di
alcune regioni che pure come la Sicilia sono uno snodo importante nell’ingresso
degli immigrati richiedenti asilo in Italia.
Dopo le decisioni della commissione nazionale competente a decidere
sulle richieste avanzate da parte degli enti locali e delle associazioni, solo
un progetto è stato finanziato in Sicilia, sembrerebbe nella provincia di
Ragusa, che, tra l’altro, riceve un numero di richiedenti asilo nettamente
inferiore rispetto alle provincie della Sicilia Occidentale, come Palermo,
Trapani ed Agrigento.
Queste scelte amministrative della Commissione che
ha deciso sulle richieste di finanziamento del PNA ed il ridotto impegno
politico finanziario sul terreno dell’accoglienza dei richiedenti asilo e
protezione umanitaria sono
direttamente responsabili del fallimento di molti sforzi da parte delle
associazioni umanitarie, e di un grave degrado della condizione di vita dei richiedenti
asilo, o protezione umanitaria, e delle loro famiglie, spesso costrette a
mendicare sulla strada, ad accettare lavori ad alto rischio, e ad abitare in
strutture fatiscenti, con grave rischio anche per la salute, e la vita, dei
soggetti più deboli, anziani, donne e bambini.
LA PARTE CHE SEGUE EVENTUALMENTE E’ DA TAGLIARE,
MA - SE VALE IL RIFERIMENTO CRONOLOGICO- RICORDO CHE LA DELEGA CONFERITA AL
GOVERNO E’ ANTERIORE DI DIVERSI MESI RISPETTO AI DECRETI DELEGATI N.215 e 216 ,
ANTICIPANDONE QUASI PER INTERO I CONTENUTI, E QUINDI RIENTRA NEL PERIODO DI
OSSERVAZIONE AL QUALE SI RIFERISCE IL RAPPORTO (2002).
6)La attuazione delle direttive comunitarie
43/2000/CE e 78/2000/CE
a) Il decreto legislativo n.215 del 2003 che recepisce la direttiva
2000/43/CE del 29 giugno 2000, che attua il principio di parità di
trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica
tradisce in numerosi punti le finalità e la lettera della corrispondente
direttiva comunitaria.
L’art.1 definisce l’oggetto del decreto legislativo, relativo
all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente
dalla razza e dall’origine etnica, disponendo le misure necessarie per impedire
che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione “
anche in un ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di
discriminazione possono avere su donne e uomini nonché dell’esistenza di forme
di razzismo a carattere culturale e religioso”.
La previsione tiene conto del 14 “considerando”
della Direttiva 2000/43/CE, secondo cui “
nell'attuazione del principio della parità di trattamento a prescindere
dalla razza e dall'origine etnica la Comunità dovrebbe mirare, conformemente all'articolo
3, paragrafo 2, del trattato CE, ad eliminare le inuguaglianze, nonché a
promuovere la parità tra uomini e donne, soprattutto in quanto le donne sono
spesso vittime di numerose discriminazioni”. Risulta invece innovativo,
rispetto al testo della corrispondente direttiva, il richiamo alla considerazione
delle “forme di razzismo a carattere culturale e religioso”.
L’art. 2 fornisce le nozioni di discriminazione, e definisce
innanzitutto i concetti di discriminazione diretta ed indiretta.
Si ha “discriminazione diretta quando, per la razza o l’origine
etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o
sarebbe trattata un'altra in situazione analoga”; ricorre una discriminazione
indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto
o un comportamento apparentemente neutri mettono persone di una razza o di una
determinata origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto
ad altre persone”.
Le previsioni appaiono corrispondenti a quanto disposto al riguardo
dalla direttiva comunitaria.
Si fa salvo il disposto dell’art. 43 commi 1 e 2 del decreto
legislativo n. 286 del 1998, comunemente inteso come Testo unico
sull’immigrazione.
Si precisa inoltre che sono considerate come discriminazioni anche
le molestie “ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per motivi
di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità
di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante e offensivo”.
La norma conclude infine che “ l’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine
etnica è considerata come una discriminazione” ai sensi del primo comma
dell’articolo in esame.
L’art.3 delimita il campo di applicazione del decreto di attuazione
e ha un contenuto corrispondente a quanto previsto dalla direttiva.
Il principio di parità di trattamento si applica a tutte le persone
nei settori pubblici e privati, per quanto concerne l’accesso all’occupazione,
al lavoro, all’orientamento ed alla formazione professionale, l’occupazione e
le condizioni di lavoro, le attività nelle organizzazioni di lavoratori e
datori di lavoro, la protezione sociale, l’assistenza sanitaria, le prestazioni
sociali, l’istruzione e l’accesso a beni e servizi.
Si prevedono
inoltre alcuni casi di differenze di trattamento che non costituiscono
discriminazioni ai sensi dell’art.2 : “Nel rispetto del principio di
proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o
nell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione
ai sensi dell’art.2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche
connesse alla razza o all’origine etnica di una persona , qualora si tratti di
caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai
fini dello svolgimento dell’attività lavorativa”.
Ma chi stabilisce la portata effettiva questa
importante fattispecie derogatoria? Probabilmente, tutto rimarrà affidato al
potere di organizzazione e di distribuzione del lavoro nell’impresa, proprio
del datore di lavoro, e la tutela delle vittime di discriminazione razziale o
etnica nei luoghi di lavoro non si potrà compiutamente realizzare. Ma sotto
questo profilo occorre tenere conto della coeva introduzione in Italia della
normativa derivata dalla direttiva 78/2000/CE, relativa alla discriminazione
nei luoghi di lavoro.
Nel decreto legislativo di recepimento sono fatte
salve tutte le norme vigenti in materia di ingresso, espulsioni e accesso al
lavoro ( art.3 comma 2).
In
questo modo, considerando la larga discrezionalità amministrativa esercitata in
questo ambito, si apre la strada per la immunità degli agenti statali che
pongono in essere comportamenti discriminatori ai danni degli immigrati per
quanto riguarda la libertà personale e di circolazione.
Sarà infatti sufficiente invocare una norma di
legge, per mettersi al riparo dalla prova, che rimane sempre in capo alla
vittima, di un comportamento discriminatorio.
Si trascura
peraltro di dare applicazione all’art. 14 della direttiva che imponeva agli
stati
membri di adottare le misure necessarie per
assicurare che “ tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative contrarie al principio
della parità di trattamento siano abrogate”.
L’art. 4 disciplina la tutela giurisdizionale
dei diritti.
Si ribadisce la possibilità di utilizzare la
specifica azione civile contro la discriminazione razziale già dettata
dall’art. 44 del T.U. n. 286 del 1998. Rimane fermo l’onere della prova in capo
alla vittima dell’atto o della prassi discriminatoria.
Il ricorrente, ”al fine di dimostrare la
sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno può dedurre in
giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il
giudice valuta nei limiti di cui all’art. 2729, primo comma, del codice civile.
In questo modo si contraddice la normativa
comunitaria che ne imponeva la modifica, stabilendo la inversione dell’onere
della prova che sarebbe dovuto toccare al convenuto e non alla vittima della
discriminazione parte attrice.
Viene completamente disatteso l’art. 8 della
Direttiva 2000/43/CE che assegnava alla parte accusata del comportamento
discriminatorio, e non alla vittima, l’onere della prova.
Non vi è traccia della
trasposizione nel nostro ordinamento del fondamentale art. 9 della direttiva,
che stabiliva la protezione delle vittime degli atti di discriminazione,
imponendo agli stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici
“ le disposizioni necessarie per proteggere le persone da trattamenti o
conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un azione volta ad
ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento”
Rispetto alla normativa già in vigore ( Testo Unico
sull’immigrazione n.286 del 1998), l’art. 4, comma terzo, non richiama il
fondamentale principio dell’inversione dell’onere della prova ma anzi aggrava
l’onere probatorio che aveva inficiato la effettività della norma già in vigore
( art.44): si precisa anzi che, come previsto dall’art. 2729 del codice civile,
“ il ricorrente al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento
discriminatorio a proprio danno può dedurre in giudizio elementi di fatto, in
termini gravi, precisi e concordanti”.
L’onere della prova rimane per intero a carico
della vittima della discriminazione.
Esattamente l’opposto di quanto intendeva la
direttiva comunitaria.
Rimane a questo punto di scarso impatto la possibilità
che il giudice ordini il risarcimento del danno anche non patrimoniale, oppure
impartisca disposizioni per fare cessare il comportamento discriminatorio (
tutela inibitoria), oppure, ancora, ordini l’adozione di un piano di rimozione
degli effetti del comportamento discriminatorio, di cui tenere conto in sede di
liquidazione dei danni.
Il giudice tiene conto ai fini della liquidazione del danno “ che l’atto o il
comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione
giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto
volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento”.
Può essere prevista la pubblicazione della sentenza
di condanna.
Possono agire in giudizio per denunciare casi di
discriminazioni razziale soltanto le associazione iscritte “in un apposito
elenco approvato con decreto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali
e del Ministro per le pari opportunità ed individuati in base delle finalità
programmatiche e della continuità d’azione”.
Il successivo art. 6 precisa i requisiti che devono possedere le associazioni che
intendono iscriversi nel Registro delle associazioni che intendono svolgere
attività nel campo della lotta alle discriminazioni, aggiungendo che la
Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità, “
provvede annualmente all’aggiornamento del registro”.
Altra previsione in contrasto frontale con la
direttiva, risulta essere l’art. 7 del decreto delegato secondo il quale “è
istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri dipartimento per le
pari opportunità” un “Ufficio per la promozione della parità di trattamento e
la rimozione delle discriminazione fondate sulla razza e sull’origine etnica”,
ufficio che dovrebbe fornire assistenza nei procedimento giurisdizionali o
amministrativi le vittime dei comportamenti discriminatori.
L’ufficio ha “la facoltà di richiedere ad enti,
persone ed imprese che ne siano in possesso, di fornire le informazioni e di
esibire i documenti utili” ai fini dell’espletamento dei propri compiti.
La direttiva 2000/43/CE prevedeva un agenzia
indipendente dal governo, mentre in Italia la normativa di attuazione stabilisce
che questo ufficio che dovrebbe promuovere la parità di trattamento è “ diretto
da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri
Tale ufficio si potrà avvalere anche di personale di amministrazioni
pubbliche “nonché di esperti e consulenti esterni” tutti rigorosamente scelti
in base al metodo della cooptazione.
Insomma un vero e proprio ufficio studi al servizio del governo.
Insomma tutto il
contrario di quanto previsto dalla direttiva comunitaria che prevedeva un
organismo indipendente
per la promozione della parità di trattamento ( art. 13).
VEDI ALLEGATO
Nel decreto delegato non vi è traccia del dialogo
con le organizzazioni non governative previsto dall’art. 12 della Direttiva
2000/43/CE, secondo il quale
gli stati membri” incoraggiano il dialogo con le competenti organizzazioni non
governative che... hanno un interesse legittimo a contribuire alla lotta contro
la discriminazione fondata sulla razza e sull’origine etnica”
Manca infine un adeguato quadro sanzionatorio, che
era invece imposto dall’art. 15
della direttiva,
ed al riguardo, in
particolare, non si fa alcuna menzione delle conseguenze che incombono al
soggetto autore del comportamento discriminatorio che non obbedisce all’ingiunzione del giudice di astenersi da tale comportamento. Non si vede in sostanza come le sanzioni proposte dal decreto possano risultare “ effettive, proporzionate e dissuasive.
b)Il testo di decreto delegato n.216 approvato
dal Consiglio dei ministri del 3 luglio 2003, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 187
del 13 agosto 2003.
La violazione più evidente
rispetto alla direttiva comunitaria riguarda le norme in materia di onere della
prova. In base al considerando n.31 della Direttiva comunitaria, queste
avrebbero dovuto “essere adattate quando vi sia una presunzione di discriminazione e, nel caso in cui tale
situazione si verifichi, l'effettiva applicazione del principio della parità di
trattamento richiede che l'onere della prova sia posto a carico del convenuto.
Non incombe tuttavia al convenuto provare la religione di appartenenza, le
convinzioni personali, la presenza di un handicap, l'età o l'orientamento
sessuale dell'attore”.
Altrettanto disatteso infine, come
si vedrà meglio dall’esame del testo articolato del decreto legislativo
approvato dal governo il 3 luglio
2003, il confronto con le parti sociali. Secondo il considerando 33 della
direttiva 2000/78/CE, “gli Stati membri dovrebbero promuovere il dialogo fra le
parti sociali e, nel quadro delle prassi nazionali, con le organizzazioni non
governative ai fini della lotta contro varie forme di discriminazione sul
lavoro”.
L’art. 1 del decreto ne definisce l’oggetto, individuato in “
disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone
indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap,
dall’età e dagli orientamenti sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le
condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinchè tali fattori non
siano causa di discriminazione, in un ottica che tenga conto anche del diverso
impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su uomini e donne.
In questo caso la previsione è più ampia del corrispondente articolo 1 della
direttiva, per il richiamo al diverso impatto che i vari fattori di
discriminazione possono avere tra uomini e donne, frutto di un intenso impegno
parlamentare di alcuni gruppi di opposizione.
L’art. 2 del decreto ripete la medesima formulazione dell’art. 2 della direttiva
comunitaria 78/2000, e quindi per "principio della parità di
trattamento" si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o
indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap,
dell’età o dell’orientamento sessuale, fornendo quindi una definizione di
discriminazione diretta ed indiretta conforme al modello comunitario. E’ molto
importante però la previsione di un ampio regime derogatorio, che è richiamato
dall’inciso “ salvo quanto disposto dall’art.3, commi da 3 a 6”..
Tale regime rischia di svuotare nella maggior parte
dei casi la portata sostanziale della nuova normativa, e ne analizzeremo le ragioni quando
tratteremo specificamente l’art.3.
Intanto si può affermare che sussiste sussiste discriminazione
diretta
quando, per religione,
per convinzioni personali, per handicap, per età o per
orientamento sessuale, una persona è
trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o
sarebbe trattata un’altra in una
situazione analoga.
Sussiste invece una discriminazione indiretta quando una disposizione,
un criterio,
una prassi , un atto, un patto, o un comportamento
apparentemente neutri possono mettere
le persone che professano una determinata religione o
ideologia di altra natura, le persone
portatrici di un
handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento
sessuale,
in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad
altre persone.
Sono altresì considerate come discriminazioni anche
le molestie, ovvero quei comportamenti
indesiderati posti in essere per uno dei motivi di
cui all'articolo 1 aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una
persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od
offensivo.
Per quanto riguarda la nozione di discriminazione
si può dunque rilevare una sostanziale corrispondenza tra la direttiva
comunitaria 78/2000 e la corrispondente normativa italiana che ne costituisce
attuazione.
Anche l’ambito di applicazione dei decreti
delegati corrisponde al “campo di applicazione” della direttiva 2000/78/CE.
In particolare il decreto delegato stabilisce che
il principio di parità di trattamento è suscettibile di tutela giurisdizionale
“secondo le forme di tutela del successivo art. 4 del decreto” , e qui risiede già
una potenziale delimitazione dell’efficacia della direttiva rispetto alla
formulazione più ampia della direttiva secondo cui questa si applica a tutte le
persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli
organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:
a) alle
condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo,
compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente
dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché
alla promozione;
b)all'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione
professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i
tirocini professionali;
c) all’occupazione e alle
condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la
retribuzione;
d)
all’affiliazione
e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in
qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione,
nonché alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.
La delimitazione del campo di
applicazione della direttiva appare poi in tutta la sua evidenza quando si
considera la previsione del secondo comma dell’art. 3, in base al quale la
disciplina contenuta nel decreto “ fa salve tutte le disposizioni vigenti in
materia di:
a) condizioni di ingresso,
soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei
cittadini dei paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato;
b) sicurezza e protezione
sociale
c) stato civile e prestazioni
che ne derivano
d) forze armate,
limitatamente ai fattori di età e di handicap
La direttiva 2000/78/CE prevedeva
soltanto che questa non riguardava “le differenze di
trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni
e le condizioni relative
all'ammissione e al soggiorno di cittadini di paesi terzi e di apolidi
nel territorio degli Stati membri,
né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei
cittadini dei paesi terzi o degli
apolidi interessati”.
L’art.4 della direttiva comunitaria risulta
riprodotto sempre nel corpo dell’art. 3 del decreto delegato al comma terzo,
laddove si prevede che “nel rispetto dei principi di proporzionalità e
ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o nell’esercizio dell’attività
di impresa, non costituiscono atti di discriminazione “quelle differenze di
trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni
personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona,
quualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa
viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini
dello svolgimento dell’attività medesima.”
Il regime derogatorio introdotto
dal legislatore italiano appare comunque più ampio e maggiormente rimesso nei
fatti alla discrezionalità amministrativa, rispetto a quanto invece prevedeva
la direttiva comunitaria nelle previsioni corrispondenti.
Sarà utile al riguardo confrontare
le prescrizioni analitiche contenute nella direttiva con le formule più sfumate
e volutamente generiche che caratterizzano le corrispondenti previsioni dei
decreti di attuazione.
Secondo la Direttiva 2000/78/CE
, a mente dell’art. 4 “gli Stati membri possono mantenere nella legislazione
nazionale in vigore alla data d'adozione della presente direttiva o prevedere
in una futura legislazione che riprenda prassi nazionali vigenti alla data
d'adozione della presente direttiva, disposizioni in virtù delle quali, nel
caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o
private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali,
una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni
personali non costituisca discriminazione laddove, per la natura di tali
attività, o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le
convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e
giustificato per lo svolgimento dell'attività lavorativa, tenuto conto dell'etica
dell'organizzazione. Tale differenza di trattamento si applica tenuto conto
delle disposizioni e dei principi costituzionali degli Stati membri, nonché dei
principi generali del diritto comunitario, e non può giustificare una
discriminazione basata su altri motivi”.
Secondo l’art.3 comma 6 del decreto delegato
invece non costituiscono,
comunque, atti di discriminazione “ quelle differenze di trattamento che, pur
risultando indirettamente discriminatorie, siano giuStificate oggettivamente da
finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”. La
genericità della previsione derogatoria rischia di svuotare di ogni contenuto
operativo la stessa categoria di discriminazione indiretta, pure formalmente
accolta dalla normativa italiana di attuazione.
Come
detto in precedenza, l’aspetto più lacunoso del decreto delegato che attua in
Italia la direttiva 2000/78/CE è
costituito dalla previsione dei mezzi di ricorso e delle procedure
giurisdizionali.
Gli artt. 9 e 10 della Direttiva ne costituivano infatti gli aspetti
essenziali perché miravano alla
effettiva applicazione della nuova
normativa, altrimenti destinata a rimanere del tutto inattuata, come era
successo in passato ad altri interventi legislativi dei competenti organi
nazionali che, come si è visto nel caso degli artt. 43 e 44 del T.U. n.286 del
1998, erano rimasti privi di una applicazione diffusa.
In base all’art 9 della
Direttiva
gli Stati membri avrebbero dovuto provvedere “affinché tutte le persone che si
ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del
principio della parità di trattamento, possano accedere, anche dopo la
cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure
giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le
procedure di conciliazione finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti
dalla presente direttiva”. Secondo il secondo comma dello stesso art. 9 “gli
Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche
che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni
nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della
presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via
giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si
ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all'esecuzione
degli obblighi derivanti dalla presente direttiva”.
Secondo il successivo art. 10
della Direttiva, gli stati membri avrebbero dovuto prendere “le misure necessarie,
conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che,
allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro
riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale
o a un'altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia
stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta
provare che non vi è stata violazione del principio della parità di
trattamento.
La direttiva invero lasciava una
“via di fuga” che è stata prontamente sfruttata dal legislatore italiano, circa
la delimitazione sostanziale del principio che stabiliva l’inversione
dell’onere della prova in danno del convenuto, l’agente accusato di avere
compiuto l’atto discriminatorio.
Nella direttiva si affermava
infatti che “gli Stati membri non sono tenuti ad applicare il paragrafo 1 ( che
stabilisce l’inversione del principio dell’onere della prova in capo
all’attore) ai procedimenti in cui spetta al giudice o all'organo competente
indagare sui fatti.
E così che il legislatore
italiano, con il decreto delegato approvato dal Consiglio dei Ministri il 3
luglio 2003 ha previsto che
l’onere della prova incombe all’attore, affermando a tale proposito che
“ il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento
discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di
dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti,
che il giudice valuta ai sensi dell’art. 2729, primo comma, del codice civile”.
Come a dire che l’onere della prova incombe tutto in capo all’attore. In
assenza di una prova convincente fornita dall’attore, vittima della
discriminazione, non incombe più in capo al convenuto l’onere di provare “ che
non vi è stata violazione del principio di parità di trattamento”, come invece
esplicitamente affermato dalla direttiva 2000/78/CE.
Il decreto delegato aggiunge poi,
in corrispondenza al testo della Direttiva comunitaria, che “ con il
provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se
richiesto, al risarcimento del danno non patrimoniale, ordina la cessazione del
comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora
sussistente, nonché la rimozione degli effetti”. Manca però la previsione di
adeguate misure anche a carattere patrimoniale a finalità compulsive, sul tipo
delle penali, per le ipotesi in cui malgrado l’ordine inibitorio del giudice,
gli atti di discriminazione continuino a verificarsi.
Significativamente omessa, nel
decreto delegato che attua in Italia la direttiva 78/2000/CE, il richiamo
specifico alla tutela delle vittime. In base all’art. 11 della Direttiva intitolato “
Protezione delle vittime”, gli Stati membri avrebbero dovuto introdurre “ nei rispettivi
ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere i dipendenti
dal licenziamento, o da altro trattamento sfavorevole da parte del datore di
lavoro, quale reazione a un reclamo interno all'impresa o a un'azione legale
volta a ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento”.
Nulla di questa previsione è stato trasposto nel
decreto di attuazione, forse nel convincimento che l’ordinamento giuridico
italiano già contenesse adeguati strumenti di tutela dei lavoratori ed a tale
riguardo è utile richiamare la strenua opposizione delle forze di governo, e
purtroppo anche di parte dell’opposizione, rispetto alla proposta di modifica
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, nella parte in cui consente
ancora , nelle imprese con meno di quindici dipendenti, il licenziamento
individuale in assenza di giusta causa.
Completamente assente, nel decreto delegato
approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 3 luglio, ogni previsione sulla
diffusione delle informazioni pure imposta dall’art. 12 della Direttiva 2000/78/CE,
secondo cui gli Stati membri avrebbero dovuto assicurare “che le disposizioni
adottate in virtù della presente direttiva, insieme alle pertinenti
disposizioni già in vigore, siano portate all'attenzione delle persone
interessate con qualsiasi mezzo appropriato, per esempio sui luoghi di lavoro,
in tutto il loro territorio”.
Per quanto riguarda la
legittimazione ad agire l’art. 5 del decreto delegato prevede che “ le rappresentanze
locali delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale,
in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata
autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’art. 4,
in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione,
contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto
discriminatorio. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì,
legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva, qualora non siano
individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla
discriminazione.
Un terzo della popolazione
detenuta è di nazionalità straniera , secondo dati della fine del 2003 : 17.467
pari al 32,2% .
Per gli stranieri si registra un
ricorso alla custodia cautelare proporzionalmente più ampio che per gli
italiani . Dei detenuti stranieri quasi il 60% ( 59,7%) sono in attesa di giudizio , mentre per gli italiani la percentuale è quasi del 40% (39,5%) .
Limitato è il ricorso al difensore
di fiducia, di difficile accesso per motivi economici.
Le difficoltà linguistiche e di
comunicazione, il ricorso a difensori d’uffici indeboliscono di fatto le
garanzie di difesa in sede istruttoria e processuale.
Non disponendo di un supporto
legale valido, alcune possibilità rimangono ignote.
A parità di imputazione e di
condanna la permanenza in carcere dei detenuti stranieri è mediamente più lunga
di quella degli italiani, sia in fase di custodia cautelare che dopo sentenza .
Questa differenza si attribuisce alla difficoltà di accedere a misure alternative alla detenzione
o agli arresti domiciliari per
mancanza di un domicilio certificato.
Ma
diverso è anche l’atteggiamento della
magistratura di sorveglianza , che risulta più chiuso rispetto alla concessione di percorsi penali alternativi al
carcere per detenuti stranieri,
anche in presenza di soluzioni di alloggi temporanei offerti dalla società
civile.
Il recente “ Regolamento di esecuzione” del 2000 affronta esplicitamente il problema dell’esecuzione penale e del
trattamento in carcere dei detenuti stranieri , imponendo alle istituzioni
carcerarie di tenere conto delle difficoltà linguistiche e delle differenze
culturali.
Si prevede la promozione di contatti con le autorità consolari dei
paesi d’origine e si sollecita l’intervento di figure di mediazione culturale (
art.35 del regolamento), che consentano una tutela giuridica e la comunicazione all’esterno della
propria condizione : non semplici mediatori linguistici, ma punti di
riferimento complessi.
Ma se sono ancora molto scarse le presenze dei mediatori, molto frequenti sono tuttora situazioni
in cui i detenuti rimangono isolati,
senza possibilità di usufruire di colloqui con i familiari , di fare telefonate nel paese
d’origine a causa di difficoltà
burocratiche , quali il
reperimento dell’interprete o le difficoltà di accertare effettivi
vincoli di parentela con i titolari delle utenze telefoniche indicate.
In molti istituti si verifica che le ASL ( in assenza di regole certe di applicazione della normativa sulla
sanità in carcere) non distribuiscano
terapia metadonica a stranieri tossicodipendenti detenuti, se non erano
già in carico al SERT( Servizi Territoriali Tossicdp.).
Da ricordare che la maggioranza degli episodi di autolesionismo , che
si verificano in carcere , riguardano detenuti stranieri . Ciò a testimonianza del disagio insostenibile
nel quale molti di essi versano.
Si auspica l’accelerazione dell’attuazione del Regolamento
di esecuzione in particolare per gli articoli relativi a “detenuti e internati stranieri”.
CONTRIBUTO MSF, Angela Oriti DIRITTO DI ASILO
In Italia chi presenta domanda di asilo attende più di un anno per
vedere esaminata la propria domanda e, durante questo periodo, non gli è
consentito lavorare. Il richiedente asilo ha diritto a ricevere un contributo
di circa 17 euro al giorno per quarantacinque giorni; allo stato attuale, per
carenza di fondi, il contributo non viene spesso erogato.
Al richiedente asilo viene rilasciato un permesso di soggiorno
rinnovabile ogni tre mesi fino al termine della procedura che termina con
l’audizione davanti alla Commissione Centrale per il riconoscimento dello
status di rifugiato.
La
Commissione, al termine dell’audizione individuale:
La situazione dell’accoglienza in Italia è
piuttosto drammatica; il PNA (programma nazionale asilo), sistema decentrato
per l’accoglienza e l’integrazione gestito dall’ANCI (associazione nazionale
comuni italiani) copre attualmente circa il 10% delle richieste di accoglienza.
Ciò vuol dire che in Italia una percentuale altissima di richiedenti asilo
dorme in strada e versa in condizioni di assoluta precarietà e marginalità
sociale.
Un caso emblematico è quello del cd. “Hotel Africa”
un gruppo di edifici occupati (di proprietà delle FS) nei pressi della Stazione
Tiburtina a Roma, dove vivono circa 500 richiedenti asilo in condizioni
igienico sanitarie particolarmente drammatiche.
In mancanza di una legge organica sull’asilo, (il
DDL è attualmente in fase di definizione) e del regolamento di attuazione della
189/2002 che contiene due articoli atti a disciplinare la procedura di asilo, la
legge di riferimento rimane la 39/1990 (legge Martelli) e il relativo
regolamento di attuazione DPR 15 maggio 1990.
Appare necessaria una istituzionalizzazione del sistema
dell’accoglienza in Italia, con ciò intendendosi sia una individuazione di
precise responsabilità statali, sia un apposito stanziamento di fondi. La
proposta di DDL 23 marzo 2004 non contiene al contrario alcun riferimento
preciso al tema dell’accoglienza, fatta eccezione per il PNA, con ciò delegando
all’iniziativa e alla disponibilità economica dei singoli Comuni la
predisposizione di politiche di accoglienza e integrazione per i richiedenti
asilo.
The system
of TDCs has been set up in 1998 by law n.40 and confirmed by the new law on
immigration n.189 in 2002. The system, as thought in 1998, has been mainly
confirmed except for the detention period which has been extended from 30 to a
maximum of 60 days.
The
temporary detention system has been set up in order to allow Italian
authorities to repatriate those foreign citizens (extra EU) caught by police
forces in the state-territory because not legally present in Italy. Foreign
citizens detained in such centres can spend up to 60 days in detention; such
period is needed by Italian authorities to identify the person through his/her
diplomatic authorities in Italy and issuing the necessary documents in order to
proceed to the repatriation.
The
extension of the detention period is not the only modification introduced by
law n.189. In fact, under the provisions of law n.40 foreign citizens in
temporary detention centres were mainly issued an invitation
to leave the country within 15 days; instead, an order
to leave the country was issued to a limited number of cases related to public
order and state security reasons. On the other hand, under the provisions of
law 189, the order to leave the country has become
the main option.
MSF-Mission
Italie (MI) has been monitoring the condition of assistance, reception and
respect of rights in those centres territorially close to Mission Italie
projects, namely Puglia and consequently Sicily. After almost three years of
monitoring activity, MI felt the need to have a closer and more in-depth look
at the detention system for foreigners as a whole. Therefore, Mission Italie
decided, during summer 2003, to undertake an evaluation report of TDC system
mainly focusing on:
The main
task of the report is, therefore, to draw a picture of detention system for
foreigners in Italy that could allow MSF to have a clearer view of:
MSF is the
first independent organisation that was authorised, by Ministry of Interior, to
enter all TDCs and undertake such a comprehensively evaluation study on the
system.
The report
do not aim at providing recommendations but rather conclusion that we report
here below:
CONTRIBUTO DELLA WILPF- ITALIA, Patrizia Sterpetti , Antonia
Sani, Anita Fisicaro, con il
contributo dell’avv. Adriano Casellato: Lavoratori migranti e rifugiati
In generale si può affermare, in
seguito ad osservazioni antropologiche, che la discriminazione nei confronti
della popolazione straniera in Italia è connessa ad un deficit di accoglienza e
di protezione. La regolamentazione governativa del fatto migratorio si basa su
una formulazione giuridico-tipologica degli aspiranti immigrati ( o immigrati
di fatto) che non aderisce alla complessità della realtà che questi
rappresentano. Di conseguenza le procedure e i criteri legali di accesso al
territorio italiano sono inadeguati e spesso incompatibili con le disponibilità
di chi è concretamente interessato ad abbandonare il proprio paese per
l’Italia. La primaria distinzione semplicistica tra “migranti economici” e “
migranti politici” implica una procedura differenziata per accedere al
territorio italiano, che ignora tutte le situazioni intermedie, estremamente
frequenti, inducendo molte persone vittime di oppressione politica a candidarsi
all’immigrazione come meri migranti economici per evitare gravi conseguenze
quali l’incriminazione immotivata di parenti rimasti in patria. Ciò è avvenuto,
ad esempio, in Marocco, dove, qualora un individuo si manifestava come
richiedente asilo all’estero, le persecuzioni erano attuate su base familiare e
non solo individuale ( per esempio, arresto di un genitore).
Spesso il requisito del possesso di documenti
regolari per l’espatrio quali il passaporto e il visto, hanno ignorato il
potere discrezionale e coercitivo nel loro rilascio dei Ministeri dell’Interno
dei paesi esportatori di immigrati.
Se l’essere privi di documenti ed autorizzazioni viene riconosciuto come
condizione tipica e distintiva dei richiedenti asilo, diviene invece spunto per
un’incriminazione nel caso in cui, sprovvisto di documenti e di visto d’ingresso,
è un presunto “immigrato economico”. In realtà molti apparenti “immigrati
economici” si sono allontanati dal loro paese in un esilio politico silenzioso,
camuffato: è il caso di moltissimi marocchini sopraggiunti in Italia durante la
reggenza di re Hassan II e il Ministero dell’Interno diretto da Driss Basri .
Se,quindi, le statistiche hanno annoverato tassi bassissimi di richiedenti
asilo di nazionalità marocchina nell’arco degli Anni Novanta ( dopo
l’eliminazione della riserva geografica ai soli rifugiati di origine europea) e
attualmente, ciò non significa affatto che si trattasse solo di migranti
economici. Tuttavia questi casi non sono contemplati nella definizione del
diritto di asilo. Gli studi qualitativi svelano, quindi, che anche la scelta di
presentarsi come richiedente asilo ha implicazioni e risvolti specifici per
ogni paese, quindi non è un’opzione adottata indifferentemente di fronte alle
stesse minacce, perché ogni Ministero dell’Interno, nei paesi illiberali ,
persegue strategie e tradizioni specifiche di oppressione che invogliano o
inibiscono la richiesta di asilo. Un altro fattore che ha scoraggiato persone
perseguitate o perseguibili politicamente a classificarsi come richiedenti
asilo e ad intraprendere l’iter per ottenerlo sono le lunghe attese e
l’impossibilità di lavorare. Ne consegue che un’alta percentuale di immigrati,
impossibile da stimare con precisione, è stata accolta e perseguitata in Italia
come “irregolare” dalle Forze dell’ordine, quando invece, oggettivamente, aveva
raggiunto l’Italia per trovare protezione ed affermazione in una democrazia
europea, come peraltro prevede l’art.10 comma 3 della Costituzione italiana del
1948. Si denuncia,quindi, la mancanza di una legge del Parlamento che
disciplini in concreto l’asilo politico previsto dall’art.10 della Costituzione
italiana.
Può sembrare un paradosso
pretendere che un pubblico ufficiale privo di istruzioni precise a questo
proposito possa differenziare a seguito di un controllo amministrativo avvenuto
alle frontiere dello Stato italiano o sul territorio nazionale, il trattamento
di un immigrato in base alla provenienza geografica, ma è innegabile che solo
una conoscenza competente e obiettiva delle situazioni politiche interne a
ciascuno Stato estero esportatore di immigrati può consentire l’adeguata
tutela, in Italia, di quanti decidono di immigrarvi. Allo stato attuale il
funzionario della Pubblica Sicurezza che affronta l’immigrato per il controllo
dei documenti non è dotato di una formazione specifica in questo senso.
L’adozione di queste categorie
definitorie imprecise e le conseguenti procedure di accoglienza sul territorio
italiano hanno negato il diritto ad una protezione sussidiaria (concessione di
permessi di soggiorno) a tutti coloro che non possono ottenere il diritto di
asilo e allo stesso tempo non possono essere rimpatriati pena la loro
incolumità . Sono state così favorite molteplici discriminazioni, situazioni di
disagio, ed è stato incoraggiato il ricorso ad attività illecite, come dimostra
l’alta percentuale di detenuti stranieri nelle carceri italiane.
Si denuncia la mancanza di una normativa specifica
sull’ effettiva protezione temporanea di chi richiede il riconoscimento dello
status di rifugiato (Convenzione
di Ginevra del 1951) in attesa che siano definite tutte le fasi relative alla
decisione , sia amministrativa (che termina con la decisione della Commissione
ministeriale), sia giurisdizionali ( che terminano con le sentenze dei giudici
sul diniego).
Si denuncia la mancanza di una distinzione, nella disciplina
dell’espulsione, tra il richiedente lo status di rifugiato ( in attesa della
definizione di tutte le fasi) e l’immigrato clandestino.
Si denuncia la mancanza della predisposizione di
una discrezionalità dell’autorità di P.S. nell’emettere il diniego di permesso
di soggiorno nei confronti del richiedente lo status di rifugiato ( che abbia
avuto decisione negativa dalla Commissione ministeriale) in attesa della
definizione della fase giurisdizionale : una maggiore autonomia di valutazione
da parte di tale autorità consentirebbe un più articolato utilizzo dello
strumento del permesso per motivi umanitari già previsto ma scarsamente
applicato.
Si denuncia la mancanza di una maggiore complessità
del procedimento davanti alla
Commissione ministeriale a tutela del contraddittorio e della certezza della
valutazione : assistenza al richiedente in corso di audizione (legale o esponente
di una associazione competente); possibilità di approfondimenti istruttori e
audizioni ulteriori dello stesso richiedente; possibilità di richiesta di
riesame della decisione negativa già presa.
In proposito sarebbe opportuna una normativa che
disciplini i criteri per l’inserimento di uno o più rappresentanti delle
associazioni competenti nella Commissione.
A Roma, sia nel giugno 2003 che nel gennaio 2004,
cittadini di nazionalità turca di
etnia curda hanno dovuto ricorrere
ad una forma di pressione estrema quale lo sciopero della fame per poter
ottenere di non essere rinviati in Turchia dopo aver visto rigettata la loro richiesta
di asilo politico. Solo in questo modo, sostenuti da varie associazioni della
società civile, hanno ottenuto dal Ministero dell’Interno italiano un permesso
di soggiorno per protezione umanitaria. Da quanto avvenuto emerge un
aggiornamento discutibile da parte dei membri della Commissione Centrale per il
riconoscimento dello status di rifugiato sulla situazione delle violazioni dei
diritti umani in Turchia.
Se l’accoglienza dei richiedenti asilo teoricamente
dovrebbe mirare a garantire alle persone condizioni dignitose in attesa
dell’esame della richiesta di protezione,
di fatto i posti disponibili nei Centri di
accoglienza di responsabilità degli Enti Locali generalmente non soddisfano
minimamente le esigenze di alloggio . A Roma sono disponibili solo 530 posti in
Centri Convenzionati con il Comune.
Un caso palese di mancata assistenza a cittadini
stranieri richiedenti asilo o rifugiati riconosciuti è quello concernente il
gruppo di persone che risiedono a Roma accampate negli ex magazzini di proprietà
della società delle Ferrovie dello Stato “Grandi Stazioni”, presso la Stazione
Tiburtina. Si tratta di circa 600 rifugiati di nazionalità sudanese, eritrea,
somala, libica, irachena, palestinese, che con dignità si sono adattati a
vivere in un posto senza riscaldamento, con scarsa illuminazione, fatto che
costringe al ricorso di candele che hanno già causato un terribile incendio (il
28/1/2004 ore 23.00), scarse condutture d’acqua, irregolare raccolta delle
immondizie. ( sono disponibili eventualmente foto).
Vistose carenze nel garantire il
diritto ad un alloggio convenente agli immigrati sono dimostrate dal caso della
baraccopoli di “ Casilino 900” ( ex “700”), situata sulla via omologa, e
abitata per anni da cittadini di origine nordafricana,regolari e irregolari
(Sono eventualmente disponibili foto). In seguito a due incendi nel gennaio e
nel febbraio 2002, l’Assessorato agli Affari Sociali del Comune di Roma,avendo
riconosciuto di non potere, secondo la legge, fornire ai residenti altro che
scarsi posti letto in Centri di accoglienza ( con orari di uscita e di entrata
che non ricalcano quelli di un alloggio normale), ha tentato un percorso
alternativo in collaborazione con un Ente universitario per individuare uno
stabile abbandonato da far ristrutturare agli stessi immigrati utilizzando le
loro abilità. La collaborazione,però, dei responsabili dell’Ufficio per
l’Emergenza Abitativa è stata tanto vaga che tutta l’iniziativa si è arenata
nell’autunno del 2002. Nell’inverno 2002 così si sono verificati tre decessi di cittadini marocchini
nella baraccopoli: due morti per overdose, di cui uno per rifiuto di assistenza
medica ospedaliera per timore di essere rimpatriato ; il terzo riguardante un
cittadino pensionato con regolare permesso di soggiorno, Salah Fennah, malato
di asma, morto a 58 anni qualche giorno prima dell’appuntamento con il medico
che doveva visitarlo per assegnargli la pensione di invalidità. Nel mese di
ottobre 2003 è avvenuto lo sgombero senza preavviso dei baraccati e la
distruzione delle baracche da parte dei vigili e il trasferimento provvisorio
nel Centro di accoglienza “Madre Teresa di Calcutta”.
Un altro caso da segnalare è stato lo sgombero del
10 marzo 2003 a Roma dela baraccopoli sul Lungotevere da Ponte Milvio a Tor di
Quinto, abitata da 200 moldavi e
rumeni irregolari . Responsabili dell’intervento di “bonifica” sono stati la
Polizia, i Carabinieri, l’AMA (società responsabile della raccolta dei
rifiuti), i Vigili Urbani (sono
eventualmente disponibili foto).
E’ evidente che queste procedure di “bonifica del
territorio” senza adeguata attenzione ai diritti degli immigrati adattatisi a
vivere in baracche dipende dalla scarsità di fondi che i Governi italiani
forniscono ai Comuni per provvedere al bisogno di alloggio di immigrati e
rifugiati. Tutto ciò incoraggia le occupazioni abusive di stabili disabitati di proprietà privata da
parte di cittadini italiani e stranieri senza casa che rifiutano l’idea di
abitare nelle baraccopoli.
Anche il personale educativo, gli/le assistenti sociali scarseggiano e quindi il rapporto tra
stranieri e istituzioni è sempre purtroppo in questi casi delegato alle Forze
della Polizia, spesso inadeguate e sommarie nel loro intervento.
ALLEGATI
ALLEGATO 1. TESTO DI LEGGE NATIONAL HUMAN RIGHTS
INSTITUTION
ALLEGATO
2. RECOMMENDATION CRC COMMITTEE NATIONAL HUMAN RIGHTS INSTITUTION
GENERAL FRAMEWORK WITHIN WHICH THE COVENANT IS IMPLEMENTED
The
Committee on the Rights of the Child in its
Concluding observation on Italy (CRC/C/15/Add.198, 31/01/2003)expressed its
concern for the fact that “ there is no central independent mechanism to monitor the implementation of the
Convention which is empowered to receive and address individual complaints of
children at the regional and national levels.”
Therefore the Committee recommends that “the State party complete its
efforts to establish a national independent ombudsman for children –if possible
part of a national independent human rights institution (See General Comment
No.2 on the role on independent human rights institutions), and established in
accordance with the Paris Principles relating to the status of national
institutions for the promotion and protection of human rights (General Assembly
resolution 48/134) to monitor and evaluate progress in the implementation of
the Convention. It should be accessible to children, empowered to receive and
investigate complaints of violations of child rights in a child-sensitive
manner, and equipped with the means to address them effectively. The Committee
further recommends that appropriate linkage between the national and regional
institutions be developed.”
Nel corso dell’attuale legislatura sono stati
presentati diversi disegni di legge per l’istituzione di un Garante Nazionale
per l’infanzia, qui di seguito riportiamo i riferimenti dei disegni di legge
(dei quali riportiamo soltanto i primi firmatari): n. 315 del 31/5/2001 dell’on. Mazzuca, n. 3667 del 10/2/2003 dell’on. Buontempo,
n.4242 del 30/7/2003 dell’on. Burani Procaccini, n. 2461 del 31/7/2003 del
Sen.Gubert, n.2469 del 1/8/2003 del Sen. Rollandin); o “Difensore civico del
minore” o “dell’infanzia”: n. 695 del 12/6/2001 dell’on. Turco; n. 818 del
13/6/2001 dell’on. Molinari; n. 1228 del 5/7/2001 dell’on. Pecoraro Scanio,
n.1916 del 10/1/2003 del Sen. Ripamonti; o “Pubblico tutore” n. 1999 del
20/11/2001 dell’on. Pisicchio. Queste diverse definizioni sono utilizzate per
definire uno stesso organismo nazionale a tutela e promozione dei diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza.
ALLEGATO 3 TABELLA INSEGNAMENTO DIRITTI UMANI
NEI CURRICULA UNIVERSITARI E POST UNIVERSITARI
[1] Vedi:
Allegato A “Elenco dei procedimenti interessati dall’applicazione della
Convenzione (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.210 del 10 settembre 2003,
in una nota del Ministero degli Affari Esteri) alla legge 20 marzo 2003 n. 77:
“Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti
dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 Gennaio 1996”pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 91 del 18 aprile 2003- Supplemento Ordinario n. 66.
Di seguito l’elenco dei procedimenti interessati che si riferiscono ai
seguenti articoli del codice civile:
-
art.145 c.c.
(intervento del giudice in caso di disaccordo fra i coniugi circa l’indirizzo
della vita familiare ).
-
art.244 ultimo
comma, c.c. (azione di disconoscimento promossa dal curatore speciale
dell’ultrasedicenne).
-
art.247 ultimo
comma, c.c.(legittimazione passiva nell’azione di disconoscimento, nel caso di
morte del presunto padre o madre o figlio)
-
art.264 comma 2,
c.c (autorizzazione del figlio ultrasedicenne ad impugnare il riconoscimento).
-
art.274 c.c.
(ammissibilità dell’azione giudiziale di paternità).
-
art. 322
c.c.(annullabilità degli atti compiuti dai genitori in nome e per conto del
figlio minore senza le autorizzazioni necessarie.
-
art.323 c.c.
(atti vietati ai genitori).
[2] Vedi anche “La Costituzione della
Repubblica Italiana”, Art.30, comma 3.
[3] Vedi: “I diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza in Italia. La prospettiva del Terzo settore” – Rapporto
supplementare alle Nazioni Unite del Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui
Diritti del Fanciullo, Italia 2001.
[4] Articolo dichiarato costituzionalmente
illegittimo dalla Corte Costituzionale, con sentenza n.55 del 4 luglio 1979,
nella parte in cui esclude dalla categoria dei successibili, in mancanza
d’altri e prima dello Stato, i fratelli e le sorelle riconosciuti o
dichiarati e con sentenza n.184
del 12 aprile 1990 nella parte in cui sono esclusi dalla categoria dei chiamati
alla successione legittima, in mancanza di altri successibili all’infuori dello
Stato, i fratelli e le sorelle naturali dei quali sia legalmente accertato lo
status di filiazione nei confronti del comune genitore.
[5] Vedi: Legge regionale n.32/2001 “
Interventi a sostegno della famiglia”.
[6] Vedi : Regione lazio,
Delibera n. 862 del 28 giugno 2002 “Art. 3, comma 3 della legge regionale 7
dicembre 2001, n. 32. Interventi a sostegno della famiglia. Individuazione
degli interventi prioritari e criteri per la loro attuazione”.
[7] UNICEF, European National Committees Research on Trafficking of children and women, (in preparazione)
[8] Ibidem
[9] Excerpt from the Supplementary Report to the CRC Committee: "The Rights of Children in Italy- The perspective of the third sector”, Gruppo di lavoro per la CRC, November 2001
[10] Art. 18 of the Consolidated Act of 1998 allows for the granting of a special residence permit for reasons of social protection, which is implemented whenever violent or severe exploitation situations are acknowledged to be to the detriment of a foreign person, involving serious dangers for his or her safety due to his or her attempts at abandoning criminal association environments that have exploited him or her or because the foreigner in question has disclosed important information to the Italian judicial authorities in the course of investigations. In these cases, a special residence permit is released to allow the person to escape from the violence and the exploitation by the criminal organization at the mercy of which he or she is being manipulated, and to be included in a support and social integration program.
[11] Source Censis –STOP Programme, European Commission,
2000
[12] Source Censis –STOP Programme, European Commission,
2000
[13] For a full description on national data
on residence permits and on the judicial activities see “Articolo 18: tutela
delle vittime del traffico di esseri umani e lotta alla crimininalità (l’Italia
e gli scenari europei)”, Rapporto di Ricerca, On the Road, 2002.
[14] Excerpt from Save the Children Italy, In the net: A year in the fight against child pornography. Stop-it first annual report, November 2003
[15] Research carried out as part of the University of Cork’s (Eire) COPINE project ( which has created the largest existing database of child pornographic material used to provide the competent authorities with material useful to their enquiries) has shown that of the 150,000 photographs present in the database, over half are of young girls and boys who have been sexually abused. That said, in recent years there has been a considerable increase in material featuring young boys aged 9-12. See M. Taylor, E.Quayle: Child Pornography, An Internet Crime. Brunner-Routledge. East Sussex 2003
[16] Also in respect of other criminal acts introduced under Law 269/98
[17] See: Uscire dal silenzio, lo stato
d’attuazione della legge 269/98 Quaderni del Centro nazionale di documentazione
per l’infanzia e l’adolescenza 2003
[18] Data supplied by the Department of Penitentiary Administration of the Ministry of Justice
[19] Source “Alunni con
cittadinanza non italiana - Scuole statali e non statali - a.s. 2002/2003”
MIUR.
[20] Immigrazione, Dossier Statistico 2002
[21] Excerpt from the Supplementary Report to the CRC Committee: "The Rights of Children in Italy- The perspective of the third sector”, Gruppo di lavoro per la CRC, November 2001
[22] Save the Children Italia’s Report on Racial Discrimination in Italy.
[23] Data of the Ministry of Public Education, October 2000, in Opera Nomadi , Notes on surveys on the students coming from the Rom community.
[24] ) Art. 27 Law 118/71.
[25] The study was carried out by La Fabbrica, an institute that operated for the promotion of educational services, in Italia Oggi, 19.06.2001.