COLLAGE DEI CONTRIBUTI PER IL RAPPORTO SUPPLEMENTARE AL RAPPORTO GOVERNATIVO SULL’APPLICAZIONE IN ITALIA DEL PATTO INTERNAZIONALE SUI DIRITTI ECONOMICI, SOCIALI E CULTURALI (1966) IN DISCUSSIONE PRESSO IL COMITATO DELLE NAZIONI UNITE A GINEVRA DALL’ 8 AL 26 NOVEMBRE 2004

 

TERZA BOZZA

 

INDICE

 

PREMESSA METODOLOGICA

 

 

EXECUTIVE SUMMARY

 

 

PART I

GENERAL FRAMEWORK WITHIN WHICH THE COVENANT IS IMPLEMENTED

 

1.   IMPLEMENTATION OF THE RECOMMENDATIONS SET FORTH IN THE VIENNA DECLARATION AND PROGRAMME OF ACTION OF 1993 (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.1)

 

2.   NATIONAL HUMAN RIGHTS INSTITUTION IN CONFORMITY WITH THE PARIS PRINCIPLES, GENERAL ASSEMBLY RESOLUTION 48/134, ANNEX (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.2)

 

3.   ENFORCEMENT OF THE COVENANT IN THE DOMESTIC LEGAL ORDER AND RELEVANT CASE LAW (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.3)

 

4.   POSITION OF ITALY ON THE DRAFT OPTIONAL PROTOCOL TO THE INTERNATIONAL COVENANT (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.4)

 

5.   PARTECIPATION OF NON-GOVERNMENTAL ORGANIZATIONS IN THE PREPARATION OF THE REPORT (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.5)

 

6.   LEGAL RESPONSABILITY OF ENTERPRISES IN THE FULLFILMENT OF ECONOMIC, SOCIAL AND CULTURAL RIGHTS

 

PART II

ISSUES RELATING TO THE GENERAL PROVISIONS OF THE COVENANT (arts. 1-5)

 

7.   INTERNATIONAL COOPERATION (ART. 2, PARA. 1), see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.7

 

8.   NON-DISCRIMINATION (ART. 2, PARA. 2)

extent to which migrant workers and refugees are enjoying their economic, social and cultural rights; how applicants for refugee status are afforded economic, social and cultural rights (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.9).

PART III

ISSUES RELATING TO SPECIFIC PROVISIONS OF THE COVENANT (arts. 6-15)

 

9.   Right to work (art. 6).

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.11: Unemployment in Italy is still high. The national plans to combat unemployment have failed to reduce the high unemployment rate, especially among women.

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.12: Problem of high participation of women in the informal labour market, especially in the south of the country.

 

10.        Trade union rights (art. 8).

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.15: The definition of essential services with regard to which the right to strike is restricted appears to be too broad.

11. Protection of the family, mothers and children (art. 10)

       See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.18: On what grounds divorce is permitted in the State party.

12. Protection of the family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.19: Forms of discrimination against children born out of wedlock.

13. Protection of the family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.20: Family violence.

14. Protection of the family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.21: Trafficking in trafficking in women and children, child prostitution, child pornography.

15. Protection of the family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.22: Asylum-seekers and entitlement to family reunification.

16. Right to physical and mental health (art. 12)

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.28: There is very little information in the State party’s report on the right to health. How medical security and health care are being provided to all sectors of the Italian society, including the most vulnerable groups of people, in accordance with the Committee’s general comment No. 14 (2000) on the right to the highest attainable standard of health.

17. Right to physical and mental health (art. 12)

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.29: Problems of HIV/AIDS, drug abuse and alcoholism.

18.         Right to education (arts. 13 and 14)

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.30: Children of immigrants, refugees and asylum-seekers equal access to free and compulsory education.

19.          Right to education (arts. 13 and 14). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.31: Please explain why, despite the considerable budgetary allocations to education, there is a decrease in the number of school population, especially at pre-primary, primary and lower secondary schools.  Is the drop in the birth rate the sole reason for this decrease?  Please indicate whether school attendance by children of immigrants has reversed this trend.

20.          Right to education (arts. 13 and 14). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.32: How serious is the problem of dropouts in the State party, especially at the secondary level of education, and what effective measures have been taken to combat it? 

21.          Right to education (arts. 13 and 14). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.33: Please provide information on the extent of the phenomenon of functional illiteracy in the State party.

22. Cultural rights (art. 15)

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.34: The State party’s report states that the rights of linguistic and religious minority groups are respected in education.  Please explain how these minority rights are actually being implemented. 

 

ALLEGATI

 

 

 


 

PREMESSA METODOLOGICA

 

 

 

 

 

 

 

 

EXECUTIVE SUMMARY

 

 

 

 

 

 

 

 

PART I

GENERAL FRAMEWORK WITHIN WHICH THE COVENANT IS IMPLEMENTED

 

 

1. IMPLEMENTATION OF THE RECOMMENDATIONS SET FORTH IN THE VIENNA DECLARATION AND PROGRAMME OF ACTION OF 1993 (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.1)

Vanna Palumbo:

L’autorizzazione alla ratifica è l’atto giuridico con il quale il Parlamento italiano consente all’esplicazione di effetti giuridici nell’ordinamento interno di obbligazioni assunte sul piano internazionale attraverso la stipula di Accordi, Trattati, Convenzioni.

Normalmente la legge di ratifica prevede la “piena ed intera esecuzione” di tale Atto internazionale e per far ciò talvolta in essa sono contenute, oltre alle formule rituali, anche specifiche disposizioni volte ad esempio ad eliminare ostacoli che si frappongono alla piena applicazione di uno o più dei principi ovvero ad introdurre disposizioni qualora l’ordinamento interno fosse in qualche punto carente.

Nel caso del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la legge di autorizzazione alla ratifica , legge 25 ottobre 1977, n. 881, con cui è stato anche attuato il Patto diritti civili e politici ed il Protocollo facoltativo allo stesso, il legislatore italiano non ha ritenuto di introdurre alcuna specifica disposizione e pertanto le disposizioni del Patto, dalla sua entrata in vigore il 15 ottobre 1978, è pienamente vincolante per l’Italia.

Probabilmente lo sarebbe comunque laddove si invocasse l’articolo 10 della Costituzione, secondo il quale l’ordinamento giuridico italiano “si conforma” alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

I principi contenuti nel Patto diritti economici, sociali e culturali, come quelli del coevo Patto diritti civili e politici, in quanto sviluppo e forma giuridicamente vincolante della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sono di rango equivalente ai principi costituzionali.

Nonostante quanto appena ricordato e considerato anche il lungo tempo trascorso dall’entrata in vigore dei principi –oltre 25 anni- che l’Italia ha avuto per dare piena applicazione agli stessi, si nota una quasi totale mancanza di conoscenza di tale strumento da parte di giudici ed avvocati. Sono stati infatti pochissimi i casi in cui i giudici nel decidere una controversia si sono basati ed hanno fatto riferimento anche alle rilevanti disposizioni del Patto.

Se è pur vero che in larga misura può dirsi che l’ordinamento italiano già contiene e tutela i diritti enunciati nel Patto, tuttavia non sembra vi sia stata alcuna specifica attenzione a “leggere” tali diritti alla luce delle disposizioni del Patto: una prova esemplare è la mancanza di statistiche attendibili ed orientate al rispetto del Patto per rispondere in modo preciso e documentato alle richieste di dati e cifre formulate da questo Comitato/Commissione.

Le asserzioni del Governo italiano risultano quindi altamente generiche e poco documentate: questo è ben evidenziato in particolare dalla debolezza dell’impianto della risposta al punto 28 del IV Rapporto periodico.

Sembra quindi opportuno invitare il Governo italiano a predisporre, in relazione ai singoli aspetti del Patto, dei misuratori statistici che siano in grado di mostrare gli sforzi compiuti per incrementare il tasso di adempimento ai principi, consentendo il raffronto con le cifre fornite in precedenza.

 

Carola Carazzone:

 

2. NATIONAL HUMAN RIGHTS INSTITUTION IN CONFORMITY WITH THE PARIS PRINCIPLES, GENERAL ASSEMBLY RESOLUTION 48/134, ANNEX (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.2)

 

Vanna Palumbo:

In Italia non esiste tuttora una Istituzione nazionale indipendente di promozione e protezione dei diritti umani come prevista nella Risoluzione n. 48/134 dell’Assemblea generale delle Nazioni unite e dai cd, principi di Parigi.

Tale Istituzione, laddove esistente, avrebbe infatti il compito di “promuovere e assicurare l’armonizzazione e l’implementazione della legislazione nazionale,delle pratiche e dei meccanismi regolativi con gli strumenti internazionali dei diritti umani dei quali lo Stato è parte” (principio 3b).

Ad essa, inoltre, come espresso nei principi 3f) e 3g) spetterebbe il rilevante ed incisivo ruolo di “assistere nella formulazione di programmi di insegnamento e di ricerca sui diritti umani e prenedere parte alla loro esecuzione nelle scuole, università e circoli professionali” e di “ pubblicizzare i diritti umani incrementando la consapevolezza collettiva attraverso l’informazione e la l’educazione…”

La mancanza di una Istituzione nazionale siffatta evidenzia ancor di più la situazione di vuoto in cui il rispetto e prima ancora la stessa conoscenza dei diritti umani fondamentali è in Italia.

Vuoto che è facilmente riempibile se solo si voglia riconoscere ai diritti umani il rango loro proprio, perché è evidente la carente tutela apprestata in molti casi dal vigente ordinamento.

L’istituzione di Istituzioni di garanzia per il cittadino, come prova la recente esperienza del Garante per la tutela dei dati personali, dimostra il livello di attesa del cittadino per avere un interlocutore cui rivolgersi in modo diretto ed efficace.

Come si è già detto è ben vero che esistono principi costituzionali, leggi, regolamenti ed altre misure che coprono molti degli spazi invidiati nei Patti internazionali. Ed è altrettanto vero che è principio costituzionalmente garantito quello per cui il cittadino può ricorrere al giudice per far valere i suoi diritti.

E’ però altrettanto da dire che nella copiosa produzione legislativa e regolamentare italiana è facile perdersi tra disposizioni anche a volte contraddittorie oltre che complesse e di difficile lettura.

A questo si aggiunga che non appare completamente risolto lo spazio di garanzie riconosciuto ai non cittadini, che siano legalmente residenti o non.

Il fattore linguistico e quello economico sono inoltre ulteriori aspetti che rendono più difficile l’accesso pieno alla giustizia, in particolare come si è detto per i non italiani.

Sul piano amministrativo, ad eccezione del ricordato Garante per la tutela dei dati personali, cui è conferito per legge il compito di promuovere e proteggere in modo indipendente il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone (privacy), non esistono altre strutture incaricate di un controllo indipendente sul rispetto dei principi in materia di diritti umani. Vi sono proposte legislative nell’attuale parlamento per l’istituzione di un Garante dei fanciulli e l’ormai ventennale tentativo di istituire il difensore civico nazionale, ma finora non hanno avuto esito alcuno.

 

Proposal of the network of 45 NGOs called Comitato per la promozione e protezione dei Diritti Umani

 

Per quanto concerne la tutela dei diritti umani in senso lato non esiste nulla di simile a quanto auspicato nella Risoluzione delle Nazioni unite.

E’ per questo che nel 2001 è stato costituito un Cartello di associazioni operanti nella società civile, sindacati, ong che, con la denominazione di Comitato per la promozione e protezione dei diritti umani, si è dato lo scopo di lavorare per l’istituzione in Italia di una Istituzione nazionale indipendente.

Nel dicembre 2002 il Comitato ha presentato pubblicamente una sua proposta –in allegato- ed ha quindi iniziato una difficile opera di sollecitazione per far in modo che la proposta sia discussa ed approvata.

La proposta di legge è modellata sui principi della Risoluzione 48/134 e dei trinci pi di Parigi, di cui accoglie anche la parte facoltativa, relativa alla possibilità di ricevere reclami e segnalazioni e decidere sui casi sottoposti.

 

(aggiungere parte della relazione introduttiva)

 

ALLEGATO 1. TESTO DI LEGGE

 

ALLEGATO 2. RECOMMENDATION CRC COMMITTEE

 

 

 

3. ENFORCEMENT OF THE COVENANT IN THE DOMESTIC LEGAL ORDER AND RELEVANT CASE LAW (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.3)

 

CONTRIBUTO MARIA AUGUSTA ANELLI

Come segnalato anche dal 4° Rapporto Governativo il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali stipulato a New York nel 1966 è stato ratificato dall’Italia, e pertanto è divenuto normativa nazionale, con la legge 25 ottobre 1977 n. 881, con la quale è stato ratificato anche il Patto internazionale relativo ai diritti politici e civili ed il relativo protocollo facoltativo.

Questa ratifica contestuale ha effettivamente creato delle occasioni di confusione tra gli operatori del diritto (ad esempio in una sentenza del Tribunale di Lagonegro del 1984 si cita erroneamente il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici anziché il Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali), tuttavia nelle motivazioni delle sentenze i giudici nella quasi totalità dei casi hanno fatto riferimento ad uno dei due Patti in particolare e non soltanto genericamente alla legge di ratifica, e nei casi restanti è comunque possibile stabilire a quale Patto l’organo giudicante volesse riferirsi esaminando il testo della decisione.

Dunque la giustificazione contenuta nel Rapporto, ossia che non sarebbe possibile risalire a quali sentenze citino effettivamente il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, in quanto esse farebbero genericamente riferimento alla sola legge di ratifica, è del tutto inconsistente e priva di fondamento, ed invece denuncia la totale mancanza di approfondimento del Governo italiano nella stesura del Rapporto.

Infatti, si è agevolmente verificato in quali casi la giurisprudenza abbia effettivamente richiamato il Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali  o il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici: quest’ultimo, ad esempio, è applicato prevalentemente in ambito penale, ove si richiamano i principi a tutela dell’imputato contenuti nell’art. 14.

La ricerca è stato condotta tra le sentenze e le ordinanze della Suprema Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, ed anche tra alcune sentenze di merito di particolare rilevanza che sono state riportate nelle raccolte giurisprudenziali. Non è stato materialmente possibile effettuare una ricerca anche tra tutte le decisioni di primo e secondo grado in quanto non esiste una raccolta organica di dette pronunce né una database che consenta la ricerca tramite parole chiave. Si è però propensi ad escludere che il numero di sentenze in applicazione del Patto internazionale dei diritti economici sociali e culturali siano più numerose di quelle pronunciate dalle Magistrature Superiori.

Nel periodo in esame (1980 – 2003) sono state rinvenute solo 16 sentenze che richiamano espressamente il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, invocando il rispetto dei diritti ivi sanciti negli artt. 1-15, e di queste ben 13 in materia di diritto del lavoro citano l’art. 7 di suddetto Patto che sancisce, fra le altre cose, il principio dell’equa retribuzione a parità di mansioni.

Tale netta predominanza non è casuale: infatti il Manuali universitari e di preparazione alla carriere in magistratura o avvocatura annoverano il Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali  tra le fonti internazionali del diritto del lavoro, il che comporta che esso è conosciuto e normalmente utilizzato in ambito giuslavoristico.

Le sentenze in materia di diritto del lavoro, suddivise per Organo emanante, sono le seguenti:

1.    Corte Cost n. 103/1989

2.    Cass., sez. lav., 18-08-2003, n. 12076

3.    Cass. civ., sez. Lavoro, 05-06-2001, n. 7617 - Pres. Santojanni Md - Rel. Amoroso G - P.M. Sepe Ea (diff.) - Lovaglio c. Ist. Poligrafico Zecca Stato

4.    Cass. civ., sez. Lavoro, 08-07-1994, n. 6448 - Pres. De Rosa M - Rel. Vidiri G - P.M. Tondi C (Conf.) - Iodice ed altri c. S.I.P. - Società Italiana per l'esercizio Telefonico –

5.    Cass. civ., sez. Unite, 29-05-1993, n. 6031 - Pres. Brancaccio A - Rel. Genghini M - P.M. Di Renzo M (Conf) - Cirio, Bertolli, De Rica S.p.A. c. Strino

6.    Cass. civ., sez. Unite, 29-05-1993, n. 6030 - Pres. Brancaccio A - Rel. Genghini M - P.M. Di Renzo M (Conf) - Snam S.p.A. c. Ballali

7.    Cass. civ., sez. Lavoro, 18-09-1991, n. 9695 - Pres. Ruperto C - Rel. Berni Canani U - P.M. Visalli I (Parz diff) - Agueni ed altri c. Banca Nazionale del Lavoro

8.    Cass. civ., sez. Lavoro, 07-02-1991, n. 1245 - Pres. Ruperto C - Rel. Putaturo M - P.M. Cecere C (Conf) - S.p.A. RAI c. Scoti Patriarca

9.    Cass., 18-11-1987, n. 8464

10.                 Cass. civ., sez. Lavoro, 25-03-1986, n. 2116 - Pres. Menichino G - Rel. Arena A - P.M. Di Rienzo M (Conf) – Enna  c. C.I.S.

11.                 Tribunale Lagonegro, 17-07-1984 - Enel c. De Gennaro

12.                 Pretura Cosenza, 28-04-1983 - De Marco c. Cassa rurale artig. Cosenza

13.                 Pretura Portoferraio, 15-04-1980 – Grunzel

Sicuramente più rilevanti sono le due sentenze della Corte Costituzionale n. 404/1988 e n, 559/1989 che, sulla base anche dei principi contenuti nell’art. 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali secondo i quali gli Stati riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per se e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario, ed alloggio adeguati, hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale  la prima di alcuni articoli della legge 27 luglio 1978, n. 392 sulle locazioni di immobili urbani nella parte in cui non prevedeva tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio, il coniuge separato e l’ex convivente con prole naturale e la seconda  dell'art. 18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 che disciplina le assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, nella parte in cui non prevedeva la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nella assegnazione ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della prole.

Non può non rilevarsi che le due sentenze hanno in comune lo stesso Giudice relatore, il quale è di norma anche il materiale estensore della sentenza, a testimonianza del fatto che il Patto non è comunemente conosciuto tra i magistrati e che la sua applicazione è spesso subordinata alla preparazione personale dei singoli giudici.

Infine la sentenza della Corte Costituzionale n. 376/2000, richiamando anche i principi  di protezione ed assistenza da accordarsi alla famiglia specialmente quando essa abbia la responsabilità del mantenimento e dell'educazione di figli a suo carico sanciti dall’art. 10 del Patto, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 19 del  “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, nella parte in cui non estendeva il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio.

Appare di tutta evidenza che 16 pronunce nell’arco di oltre 20 anni sono del tutto insufficienti a sostenere che il Patto internazionale dei diritti economici sociali e culturali ha trovato ampia applicazione nella giurisprudenza italiana, che anzi sembra non considerare proprio il Patto alla stregua delle altre norme imperative vigenti in Italia. Questo desolante risultato non è dovuto solo alla scarsa preparazione dei magistrati in materia, ma anche alla disinformazione riscontrabile tra chi esercita la professione forense: infatti anche se in Italia vige il principio Jura novit Curia, ciò non toglie che chi ha interesse ha far valere un diritto in giudizio è tenuto ad illustrare all’organo giudicante anche il fondamento giuridico delle proprie pretese.

Ciò implica che la scarsa applicazione del Patto va attribuita anche al fatto che gli avvocati lo utilizzano raramente per ottenere il rispetto dei diritti ivi sanciti, che cercano di tutelare attraverso l’applicazione di altre norme oppure, nell’ipotesi peggiore, rinunciano ad agire in giudizio per farli rispettare ritenendo che tale diritti non sia riconosciuti dal diritto nazionale italiano.

Corrisponde comunque a verità che molti dei principi contenuti nel Patto sono stati già trasfusi nella legislazione nazionale, ordinaria e costituzionale, e pertanto essi trovano quotidiana applicazione nei nostri Tribunali. Sarebbe però stato utile che il Rapporto invece di limitarsi a far riferimento ad una generica attività di ricerca nel campo, probabilmente mai svolta, avesse invece illustrato alla Commissione sui diritti economici, sociali e culturali quali norme italiane applicassero o comunque fossero ispirate ai diritti sanciti dagli artt. 1- 15 del Patto.

 

Vanna Palumbo:

Più in generale sembra necessario che i Patti formino pienamente parte di quel tessuto di norme fondamentali la cui conoscenza è indispensabile per l’esercizio di professioni legali e della magistratura.

Il loro studio, a differenza di quanto accade tuttora, dovrebbe formare parte integrante dei programmi formativi per corsi di laurea che diano accesso alle già citate professioni ed ancora della formazione dei funzionari e dirigenti del settore pubblico, in primis del Ministero dell’Interno, Giustizia ed Affari Esteri, che dispongono di scuole di “alta” formazione.

Sempre al fine di favorire la conoscenza e l’uso dei principi ricordati, sembra da raccomandare una particolare attenzione nel fare in modo che esista e sia di facile accesso almeno funzioni una banca dati dei trattati ed accordi internazionali di cui l’Italia è parte; analoga attenzione dovrebbe essere posta nella costruzione e selezione dei motori di ricerca di legislazione, prevedendo apposite voci per la ricerca delle fonti di diritto internazionale e delle leggi di ratifica ed entrata in vigore in particolare dei trattati internazionali in materia di diritti umani, attualmente mancanti.

 

CONTRIBUTO MARTA CIOFFI: indagine sui Codici

 

Marta Ciuffi: Indagine sull’insegnamento dei diritti umani nelle Facoltà di Giurisprudenza e nelle Scuole di Specializzazione per le professioni legali in Italia.

La Dichiarazione e il Programma d’Azione di Vienna del 1993 hanno tra gli obiettivi principali quello di spronare gli Stati ad un maggiore impegno nella promozione dei diritti umani anche attraverso una più ampia educazione  e la diffusione dell’informazione pubblica nel settore.

L’indagine sull’insegnamento dei diritti umani nelle Facoltà di Giurisprudenza e nelle Scuole di Specializzazione per le professioni legali, ha appunto  lo scopo di  fornire un quadro della situazione in Italia e verificare il livello di preparazione e conoscenza degli strumenti posti a tutela dei diritti umani da parte dei futuri operatori giuridici internazionali, che in prima persona sono chiamati ad applicare le normative relative alla loro protezione e altresì ad impegnarsi al rafforzamento e allo sviluppo dell’insieme di tali strumenti giuridici.

L’analisi  effettuata sui piani di Studio delle 47 Facoltà di Giurisprudenza selezionate in tutta Italia ha rivelato che solo nei corsi di laurea di 17 facoltà è presente l’insegnamento dei diritti umani. Sono stati analizzati i corsi universitari triennali ( Scienze Giuridiche, Servizi Giuridici, Scienze per operatori dei servizi giuridici), le lauree quadriennali in Giurisprudenza (vecchio ordinamento) e i corsi di laurea biennali specialistici in Giurisprudenza. L’insegnamento  di “ Tutela Internazionale dei diritti umani” – “Protezione Internazionale dei diritti umani” – “Diritti dell’uomo” – “ Garanzia dei diritti fondamentali” – è presente nei piani di studio di 17 facoltà di Giurisprudenza come materia opzionale (a scelta dello studente) o come modulo negli insegnamenti di Diritto Internazionale II o Avanzato, Diritto Internazionale Pubblico II o Diritto Civile II, o negli insegnamenti fondamentali di Diritto Pubblico e Diritto Costituzionale.

….

La successiva analisi dei programmi delle Scuole di specializzazione per le professioni legali in Italia, disciplinate da alcune Facoltà italiane di Giurisprudenza come percorso di specializzazione post-laurea, rivela una totale mancanza dell’insegnamento dei diritti umani e indica, quindi, la carenza di strumenti tecnici e di conoscenza necessari agli operatori giudiziari e giuridici, alle figure legali che intendono operare in uno scenario internazionale, in cui il rispetto dei diritti umani e la conoscenza degli strumenti di tutela  e promozione sono imprescindibili da tale attività.

 

ALLEGATO 3 TABELLA INSEGNAMENTO DIRITTI UMANI NEI CURRICULA UNIVERSITARI E POST UNIVERSITARI

 

 

4. POSITION OF ITALY ON THE DRAFT OPTIONAL PROTOCOL TO THE INTERNATIONAL COVENANT (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.4)

 

contributo Manfred ed Enrico

 

5.   PARTECIPATION OF NON-GOVERNMENTAL ORGANIZATIONS IN THE PREPARATION OF THE REPORT (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.5)

 

Contributo Manfred su trasparenza del procedimento, verbalizzazione

 

6.            LEGAL RESPONSABILITY OF ENTERPRISES IN THE FULLFILMENT OF ECONOMIC, SOCIAL AND CULTURAL RIGHTS

 

Contributo Giuseppe Piras

 

CONTRIBUTO MARIA PAOLA TINI: Norme delle Nazioni Unite sulle responsabilità delle imprese multinazionali ed altre imprese in relazione ai diritti umani².

Da non poco tempo Organizzazioni non governative ed Associazioni impegnate nei diritti umani hanno manifestato la necessità che anche le imprese multinazionali e le altre imprese siano soggette alla normativa internazionale a tutela e difesa dei diritti umani: non solo gli Stati ma anche altri attori, in particolare le grandi imprese con attività che superano i confini dei loro Stati di provenienza, sono soggetti di diritto internazionale. Dalle loro attività infatti possono derivare gravissime, estese e reiterate violazioni dei diritti umani, quali sanciti dalla dichiarazione universale, dalle convenzioni (e i loro protocolli) internazionali, regionali e multilatelari. Esse sono in grado di mettere in pericolo la vita e la salute di comunità e di intere popolazioni; sono in grado di sottrarre loro le risorse, di sconvolgere quell¹assetto ambientale che solo permette a comunità indigene di continuare a vivere secondo la loro tradizione e la loro cultura; esse possono gestire le loro iprese con intollerabili condizioni di lavoro; esse provocano un crescente degrado ambientale da cui derivano diminuite capacità di vita per le generazioni presenti e quelle future. E tutto ciò avviene senza possibilità di ottenere da loro reintegrazioni né risarcimenti. Ed inoltre: favoriscono governi corrotti, rallentando o impedendo i processi democratici, fino ad arrivare all¹uso della forza armata per ridurre la resistenza. Le multinazionali in quanto istituzioni private pretendono di non essere soggette alla legislazione internazionale. Ma come può opporsi una pretesa del genere a fronte di violazioni di diritti umani così gravi ed estese? Tale principio non potrà più essere invocato. Le ³Norme² delle Nazioni Unite uscite nello scorso agosto tagliano corto sulla pretesa delle Multinazionali e di ogni impresa di essere esonerati da ogni responsabilità appunto perché istituzioni di diritto privato. Le ³Norme² sono assai nette, precise e rigorose nel riassumere in un unico testo i diritti fondamentali di cui debbono godere tutti le donne, tutti gli uomini della terra e le responsabilità di cui le imprese debbono rendere conto per averli violati. Potrà certo ancora essere che, a causa dell¹innegabile strapotere delle multinazionali, del mistero che spesso avvolge la loro proprietà, a causa del permanere della scarsa attenzione e controllo o addirittura della connivenza degli Stati di origine o di quelli dove esse svolgono la loro attività, le norme che finalmente determinano gli standards internazionali sui diritti umani che si riferiscono alle imprese possano essere ancora scarsamente osservate, le violazioni non punite, le riparazioni e i reintegri non ottenuti dalle vittime. Ma è certo che le nuove ³Norme² sulle responsabilità delle imprese, in quanto conosciute e largamente diffuse, saranno assai efficaci e per quelle multinazionali che sentano la responsabilità di cominciare ad attuarle, che vogliano preparare un piano per farlo; e per quegli Stati che vogliano finalmente vigilare perché ciò avvenga, come precisato dalle ³Norme²; e per le Organizzazioni che potranno dedicarsi con orientamenti più chiari alla promozione dei diritti e alla loro tutela; e, infine per quelle persone che, correndo il rischio di vedere violati propri diritti fondamentali dalle attività delle imprese, potranno averne maggiore consapevolezza  e maggiore forza per difendersi con gli strumenti più efficaci. E¹ per questo che chiediamo al Governo (?) Italiano di aderire alle ³Norme delle Nazioni Unite sulla Responsabilità delle Imprese Multinazionali e altre Imprese riguardo ai Diritti Umani².Chiediamo inoltre che il Governo (?) contribuisca a rafforzare la base giuridica di tali ³Norme². Chiediamo infine che le diffonda e le applichi sia alle imprese nazionali o estere che facciano attività nel nostro paese che a quelle italiane che facciano attività in paesi stranieri. Qui si aggiunge la raccomandazione di Vanna sull¹inserimento dell¹impatto sui DU per ogni deliberazione adottata.

 

 

PART II

ISSUES RELATING TO THE GENERAL PROVISIONS OF THE COVENANT (arts. 1-5)

 

7.   INTERNATIONAL COOPERATION (ART. 2, PARA. 1), see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.7

 

The Committee on the Rights of the Child in its Concluding observation on Italy (CRC/C/15/Add.198, 31/01/2003)expressed its concern for the fact that “the Convention is not implemented to the “maximum extent of … available resources” as stipulated by article 4 of the Convention”. Therefore the Committee recommends “that the State party apply this principle in the activities carried out by the Foreign Ministry’s international development aid and cooperation.”

 

Contributo Maurizio

 

 

8.   NON-DISCRIMINATION (ART. 2, PARA. 2) extent to which migrant workers and refugees are enjoying their economic, social and cultural rights; how applicants for refugee status are afforded economic, social and cultural rights (see list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.9).

 

 

 

PART III

ISSUES RELATING TO SPECIFIC PROVISIONS OF THE COVENANT (arts. 6-15)

 

9.    Right to work (art. 6). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.11: Unemployment in Italy is still high. The national plans to combat unemployment have failed to reduce the high unemployment rate, especially among women.

 

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.12: Problem of high participation of women in the informal labour market, especially in the south of the country.

 

10.         Trade union rights (art. 8). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.15: The definition of essential services with regard to which the right to strike is restricted appears to be too broad.

Contributo Alessandro Genovesi, CGIL

In Italia, dopo 5 anni di crescita occupazionale sostenuta (1997-2002), si registra oramai una stasi nella creazione di nuovi posti di lavoro, in particolare nel mezzogiorno (nel 2003 si sono registrati saldi positivi per solo 11 mila unità, dati Isfol Giugno 2004). Al riguardo si rinvia all’appendice per i commenti relativi agli ultimi dati disponibili nel mercato del lavoro.

 

Al di la di una più generale congiuntura negativa dell’economia americana e quindi di riflesso europea specifici interventi del legislatore italiano hanno contribuito a deprimere il mercato del lavoro nazionale, in particolare per quanto riguarda

 

a)   i soggetti socialmente più deboli;

b)   le donne.

 

 

Prima di tutto la recente riforma dei servizi pubblici all’impiego è stata fortemente rallentata, con tagli alle risorse destinate agli enti locali e con la completa liberalizzazione dell’incontro domanda offerta.

 

La minore efficacia dei servizi pubblici ha reso quindi più difficile inserire nel mondo del lavoro i soggetti più deboli (donne uscite dal mercato, svantaggiati, giovani con basse qualifiche).

 

Più in generale il Governo italiano con la legge 30/03 e con il decreto attuativo 276/03 ha profondamente precarizzato il mercato del lavoro italiano che conta oggi ben 48 tipi di contratti di lavoro diversi dal contratto a tempo indeterminato, rendendo più difficile la stipula di particolari contratti come il part-time (utilizzato principalmente dalle donne) o come i contratti a valenza formativa (mirati per i più giovani). La legge non è stata condivisa dalla CGIL, il principale sindacato italiano.

 

Nello specifico sono state modificate le tutele che permettevano ai lavoratori part-time di conciliare i tempi di lavoro con il tempo libero (speso adibito a cura dei minori o di parenti più anziani) e sono state ridotte le ore di formazione prima previste dalla legge 196/97 per i contratti di apprendistato.

 

Più in generale sono state abrogate quelle maggiorazioni economiche o quegli inquadramenti contrattuali che a fronte di maggiore flessibilità assicuravano maggiori redditi (secondo il principio, costituzionalmente garantito, di un’ equa e giusta retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro).

 

Da segnalare poi le nuove norme per incentivare l’assunzione di lavoratori svantaggiati (disoccupati di lunga durata, donne, giovani, lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, ecc.): se questi lavoratori, beneficiari di particolari sussidi, dovessero rifiutare qualsivoglia offerta di lavoro (pagata anche il 20% in meno di quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro), verrebbe automaticamente tolto loro i sussidi di cui sopra. Da notare come la norma preveda non solo che l’impresa possa beneficiare di contributi pari alle indennità versate ai soggetti svantaggiati assunti, ma anche che il lavoratore possa essere pagato il 20% in meno a parità di lavoro e di inquadramento. Norma questa assolutamente  discriminatoria ed inconciliabile con il principio costituzionale, riconosciuto anche a livello di diritto comunitario per cui è la mansione svolta che “fa il salario” e non “il tipo di persona che la svolge”.

 

Da evidenziare poi il completo fallimento della legge 383/01 del Governo in materia di lotta al contrasto al lavoro irregolare che ha visto in più di un anno di vigenza emergere meno di 4 mila lavoratori su una platea stimata di almeno 4 milioni di persone coinvolte (dati Istat 2002).

 

Più in generale è da sottolineare lo scarso interesse che il Governo in carica dal 2001 ha dimostrato nell’avviare un dialogo costruttivo con i sindacati, più volte minacciati attraverso proposte di legge miranti a ridurre il diritto di sciopero, giungendo a riconoscere pari valore sia a sindacati vicini al Governo (anche se aventi poche migliaia di lavoratori) che e a sindacati rappresentativi, come la Cisl, la Uil e la Cgil (quest’ultima conta circa 6 milioni di iscritti).

 

Anche a partire da questo contesto si possono quindi segnalare. come conseguenze di un modello di relazioni sindacali praticamente assenti nel nostro paese. la legge 30 - che ha abolito la legge 196/97 (detta pacchetto Treu e caratterizzata da un buon equilibrio tra flessibilità e sicurezza sociale) che invece viene richiamata nel documento per l’Italia come l’asse portante del mercato del lavoro nostrano -  e l’attuale decreto legislativo in materia di sicurezza (in discussione in queste settimane) che rende più facile - a detta di tutte le organizzazioni sindacali - non applicare le norme previste dalla legge 626/94. Fatto assai grave alla luce di un tasso di incedenti sul lavoro tra i più alti rispetto agli altri paesi UE, anche in conseguenza di un altissimo tasso di lavoro irregolare.

 

Commento ai dati Istat  Gennaio 2004

 

 

Saldo occupazionale: nel gennaio 2004 l’offerta di lavoro ha avuto un aumento, in confronto allo stesso mese del 2003, dello 0,3 % (+76.000 unità). Rispetto a ottobre 2003, al netto dei fattori stagionali, l’offerta ha manifestato un moderato incremento congiunturale pari allo 0,2 %.

Il numero di occupati nel gennaio 2004 è risultato pari a 21.991.000 unità con una crescita annua dello 0,8 % (+167.000 unità), segnando un’ulteriore riduzione del tasso di crescita rispetto ai dati del 2003.

La nuova occupazione rispetto al 2003 vede un importante contributo fornito dai cittadini tra i 50 e i 59 anni con un numero di occupati che è passato da 3.831.000 unità di gennaio 2003 a 3.943.000 unità di gennaio 2004. 

Si registra ancora un calo occupazionale nell’agricoltura e nell'industria in senso stretto con un rafforzamento della dinamica positiva nelle costruzioni e nei servizi.

In termini destagionalizzati e rispetto al mese di ottobre 2003, l'occupazione nell’insieme del territorio nazionale ha registrato un lieve aumento pari allo 0,2 %.

Il numero delle persone in cerca di occupazione è diminuito in gennaio, rispetto a un anno prima, del 4,2 % (-91.000 unità). La riduzione ha interessato in misura più accentuata il Mezzogiorno. Il tasso di

disoccupazione è sceso dal 9,1 % del gennaio 2003 all'attuale 8,7%.

 In gennaio, nei dati destagionalizzati, però si deve registrare che il tasso di disoccupazione è rimasto all’8,5 %, invariato rispetto a ottobre 2003 (i dati trimestrali non vanno confusi con quelli annuali, che segnano una minima riduzione della disoccupazione, vedi dopo).

 

Occupazione femminile e classi di età: in gennaio la crescita su base annua dell'offerta di lavoro ha visto un aumento dello 0,6% della componente femminile (+56.000 unità) e dello 0,1 % (+20.000 unità) di quella maschile.

Nella classe di età tra 15 e 64 anni, la crescita delle forze di lavoro, a fronte della sostanziale stabilità della corrispondente popolazione, ha comportato un moderato aumento del tasso di attività passato dal 61,0 % di gennaio 2003 all'attuale 61,2 %.

Il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra 15 e 64 anni è risultato nel gennaio 2004 pari al 55,8 %, 0,4 più elevato rispetto a un anno prima. Il tasso di occupazione giovanile (15-24

anni) è diminuito dal 24,6 % di gennaio 2003 all'attuale 23,5 %.

 

Tipologie di assunzione: a gennaio 2004 le posizioni lavorative dipendenti hanno rallentato la dinamica espansiva segnalando un tasso di crescita tendenziale dello 0,9 %; quelle indipendenti,  dopo la battuta d’arresto manifestata nella prima metà del 2003, hanno registrato un incremento dello 0,5% (cioè quasi la metà della crescita del lavoro dipendente).

Con riguardo all'occupazione dipendente, l’aumento in confronto a gennaio 2003 è stato di 138.000 unità. Alla crescita di 78.000 unità della componente permanente a tempo pieno si è associato l’incremento di 60.000 unità di quella a termine e/o a tempo parziale.

In confronto a gennaio 2003 il lavoro a termine (con orario a tempo pieno o parziale) ha registrato un incremento di 20.000 unità. Ciononostante, l’incidenza sul totale dei dipendenti è rimasta pressoché invariata, portandosi nel gennaio 2004 al 9,2 % dal 9,1 % di un anno prima.

Anche il lavoro a tempo parziale (con contratto a tempo indeterminato o determinato) ha segnalato un aumento di 20.000 unità, che ha indotto una marginale variazione dell’incidenza dal 9,0 % di gennaio 2003 all’attuale 9,1%.

 

Settori di attività: l'agricoltura ha manifestato nel gennaio 2004 una nuova riduzione del numero di occupati che, rispetto a dodici mesi prima, è stata pari all’1,3 % (-14.000 unità). Il risultato ha riflesso esclusivamente il calo degli indipendenti.

L'industria in senso stretto ha registrato una significativa contrazione. In gennaio, il livello dell’occupazione è risultato inferiore, in confronto a un anno prima, dello 0,5 % (-26.000 unità). Vi ha concorso la marcata riduzione del lavoro subordinato a fronte del

moderato aumento di quello autonomo.

Le costruzioni hanno consolidato la dinamica espansiva, attenuatasi nella seconda parte dello scorso anno. In confronto a gennaio 2003 il numero di occupati è aumentato del 3,2 % (+58.000 unità), a sintesi della crescita sia dei dipendenti sia degli indipendenti.

Il terziario ha confermato in gennaio una crescita costante. L’incremento su base annua è risultato pari all’1,1 % (+149.000 unità), a motivo di un apprezzabile accrescimento delle posizioni lavorative dipendenti. La creazione netta di occupazione ha riguardato soprattutto il commercio, alberghi e pubblici esercizi.

 

Dati sulla disoccupazione: con riguardo alle componenti della disoccupazione, alla flessione dei disoccupati in senso stretto (-50.000 unità, pari a -5,9 %) e delle persone in cerca di prima occupazione (-49.000 unità, pari a -5,6 %) si è contrapposto il moderato aumento delle altre persone in cerca di occupazione (+8.000 unità, pari a +1,7 %).

Nel gennaio 2004 il tasso di disoccupazione si è attestato all’8,7 %, quattro decimi di punto in meno rispetto a gennaio 2003. Nell’arco dei dodici mesi, il tasso è passato dal 7,3 al 6,9 % per la componente maschile e dall’11,9 all’11,5 % per quella femminile.

 

Occupazione per aree territoriali: in gennaio le regioni del Nord-ovest hanno manifestato una crescita occupazionale su base annua dell’1,0 % (+63.000 unità), in moderata accelerazione in confronto al trimestre precedente. Alla riduzione dell’agricoltura e dell’industria in senso stretto si è contrapposto il significativo aumento delle costruzioni e dei servizi. Nelle regioni del Nordest, dopo il rallentamento emerso nella seconda parte del 2003, il livello complessivo dell’occupazione è rimasto invariato. Il risultato sintetizza il modesto aumento del numero di occupati dell’agricoltura e dell’industria e il calo del terziario.

Le regioni del Centro hanno segnalato un ritmo di crescita annuo dell'occupazione dell’1,3 % (+57.000 unità), in rallentamento rispetto al recente passato. A fronte della flessione dell’agricoltura e della sostanziale stabilità dell’industria in senso stretto, l’aumento della base occupazionale ha interessato sia le costruzioni sia il terziario.

Il Mezzogiorno ha segnato un aumento tendenziale dell'occupazione pari allo 0,8 % (+47.000 unità). Alla marginale contrazione dell’agricoltura e alla riduzione dell’industria ha fatto riscontro il sensibile incremento del numero di occupati dei servizi. Nel gennaio 2004, alla lieve crescita tendenziale del numero delle persone in cerca di occupazione nel Nord-ovest (+4.000 unità, pari al +0,7 %) si è contrapposta la flessione nel Nord-est (-7.000 unità, pari al -3,8 %), nel Centro (-30.000 unità, pari al -9,1 %) e soprattutto nel Mezzogiorno (- 58.000 unità, pari al -4,2 %).

 

11. Protection of the family, mothers and children (art. 10) See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.18: On what grounds divorce is permitted in the State party.

 

Fonti:

1.    Legge n.898 del 1 dicembre 1970 “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”;

2.    Codice civile (1942), Libro I, Titolo VI “Del matrimonio”, Capo V “Dello scioglimento del matrimonio e della separazione dei coniugi”.

3.    Allegato A “Elenco dei procedimenti interessati dall’applicazione della Convenzione (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.210 del 10 settembre 2003, in una nota del Ministero degli Affari Esteri) alla legge 20 marzo 2003 n. 77: “Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 Gennaio 1996”pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 91 del 18 aprile 2003- Supplemento Ordinario n. 66.

4.    Osservazioni conclusive del Comitato sui diritti del fanciullo relativamente al rapporto presentato dall’Italia sull’applicazione della Convenzione- XXXII Sessione- (Punti 25 e 26).

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L’ordinamento italiano ammette esclusivamente il cessare degli effetti civili del matrimonio.

Il Codice civile ammette la separazione personale dei coniugi, che può essere consensuale o giudiziale (art.150 c.c.).

L’art. 151 c.c. stabilisce che la separazione può esser chiesta quando si verificano fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole.

La legge n.898/1970 precisa che il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio quando, esperito inutilmente un tentativo di conciliazione, accerta che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita ( art.1) per l’esistenza di una delle cause previste dall’art.3 della medesima legge.

L’art.3 asserisce che la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandata da uno dei coniugi quando:

1.    dopo il matrimonio, l’altro coniuge venga condannato con sentenza passata in giudicato (anche per fatti commessi in precedenza): a) all’ergastolo o ad una pena superiore ad anni quindici, per delitti non colposi; b) a qualsiasi pena detentiva per i delitti di incesto (art.564 c.p.), violenza carnale (art.519 c.p.), atti di libidine violenti (art.521 c.p.), ratto a fine di libidine (art.523 c.p.), ratto di persona minore di anni quattordici o inferma, a fine di libidine o di matrimonio (art.524 c.p.), induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione; c) a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio o tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio; d) a qualsiasi pena detentiva per lesioni personali (art.582 c.p.), violazione degli obblighi di assistenza familiare (art.570 c.p.), maltrattamenti in famiglia e verso fanciulli (art.572 c.p.), circonvenzione di persone incapaci (art.643 c.p.), in danno del coniuge o dei figli;

2.    a) l’altro coniuge sia stato assolto per vizio totale di mente dai delitti di cui al n.1 lettere b) e c) quando il giudice accerta l’inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare; b) sia stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale tra i coniugi o è stata omologata la separazione consensuale o è intervenuta separazione di fatto iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970. Le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno tre anni; c) quando il procedimento penale promosso per i delitti di cui al n.1 lettere b) e c) si sia concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando il giudice ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi; d) il procedimento penale per incesto si sia concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo; e) l’altro coniuge, cittadino straniero, abbia ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o abbia contratto all’estero nuovo matrimonio; f) il matrimonio non sia stato consumato; g) sia passata in giudicato la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso.

 

Per quanto riguarda la legge italiana n.77/2003 di "Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996" segnaliamo, invece, che tra i procedimenti interessati dall’applicazione della Convenzione di Strasburgo sono esclusi i procedimenti di separazione e divorzio[1].

 

Il Comitato per i diritti del Fanciullo, già in occasione della sua XXXII Sessione, aveva espresso la propria preoccupazione nelle Osservazioni conclusive indirizzate all’Italia (punti 25 e 26) per il fatto che il principio del diritto all’ascolto, sancito nella “Convenzione sui diritti dell’Infanzia del 1989” e ribadito nella “Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori”, non venisse applicato nella pratica, raccomandando al nostro Paese di garantire adeguatamente il diritto dei bambini ad essere ascoltati, nei procedimenti aventi diretto impatto su di loro ed in particolare nei procedimenti di separazione e divorzio, adozione, affidamento o relativamente all’istruzione (punto 25).

 

12. Protection of the family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.19: Forms of discrimination against children born out of wedlock.

Fonti:

  1. Costituzione della Repubblica Italiana (1948), Art.30;
  2. Codice civile (1942), Libro I, Titolo VII “Della filiazione”, Capo II “Della filiazione naturale e della legittimazione”: artt. da 250 a 290; artt.536-537-542-565-566-573;
  3. Legge n.151/1975 “Riforma del diritto di famiglia” (artt.29-30-100-101-102-104-106-107-108-110-111-121-122-124-173-185-195);
  4. Legge regionale n.32/2001 (Regione Lazio) “Interventi a sostegno della famiglia”;
  5. Delibera 862 del 28/6/2002 (Regione Lazio) “Art. 3, comma 3 della legge regionale 7 dicembre 2001, n. 32. Interventi a sostegno della famiglia. Individuazione degli interventi prioritari e criteri per la loro attuazione”;
  6. Rapporto supplementare alle Nazioni Unite  del Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti del fanciullo (Art.2)- Italia 2001;
  7. Osservazioni conclusive del Comitato sui diritti dell’infanzia relativamente al rapporto presentato dall’Italia sull’applicazione della Convenzione- XXXII Sessione- (Punti 27 e 28);
  8. Convenzione europea sullo status legale dei bambini nati al di fuori del vincolo matrimoniale( Strasburgo,1975).

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L’articolo 30 della Costituzione della Repubblica Italiana (1948) recita “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati al di fuori dal matrimonio.

Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.

La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.

La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”.

Come risulta evidente dal testo dell’articolo, se al comma 1 è riconosciuta l’eguaglianza tra figli legittimi e figli naturali( ovvero tra figli nati all’interno del vincolo matrimoniale e figli nati al di fuori), al comma 3 si cerca di contemperare tale principio con “i diritti dei membri della famiglia legittima”, il che equivale a svuotarlo del suo significato.

Il fatto stesso che la condizione di figlio naturale riconosciuto si acquisti in seguito ad apposito atto da rendersi in forma pubblica (atto di riconoscimento) , nell’atto di nascita, in un testamento o tramite dichiarazione davanti ad un ufficiale dello stato civile, mentre quella di figlio legittimo si basa su un sistema di presunzioni, anche se non assolute ( cioè che ammettono prova contraria), è indice del permanere di una forma di discriminazione nei riguardi dei figli naturali.

Un primo passo in avanti è fatto con la legge n.151 del 1975 “Riforma del diritto di famiglia”, che mira ad adeguare le norme dell’ordinamento italiano ai principi costituzionali e alla mutata coscienza sociale.

In seguito alla riforma, il codice civile (1942) è stato innovato e attualmente prevede che il figlio naturale possa essere riconosciuto dal padre e/o dalla madre, sia congiuntamente che disgiuntamente e che il riconoscimento non possa essere rifiutato ove risponda all’interesse del figlio (art.250 c.c.), esso, inoltre, una volta effettuato è irrevocabile e retroattivo (art.256 c.c.).

L’art.261 c.c. stabilisce che “il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi”.

Nonostante i buoni propositi da cui era animata la riforma del 1975 può accadere che nè il padre nè la madre riconoscano il figlio naturale: in questo caso un bambino nato al di fuori del matrimonio non ha legalmente né padre né madre e sarà iscritto nei Registri dello Stato Civile come nato da genitori ignoti, trovandosi in una condizione di possibile adottabilità.

Nelle Osservazioni conclusive il Comitato auspicava anche la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione europea sullo status legale dei bambini nati al di fuori del matrimonio (Strasburgo, 1975), che il nostro Paese aveva firmato nel 1981 e che afferma alcuni principi basilari, quali, appunto, il fatto che a ciascun bambino sia legalmente garantito per lo meno il vincolo con la madre per il solo fatto della nascita (art.2), mentre il diritto ad avere un padre sia garantito attraverso il riconoscimento volontario da parte di quest’ultimo o una sentenza dell’autorità giudiziaria (art.3).

Un articolo fondamentale all’interno della Convenzione è il n.9, il quale assicura al figlio nato al di fuori del matrimonio i medesimi diritti successori spettanti ad un figlio legittimo, tema cruciale, come spiegheremo in seguito, data la persistente disparità di trattamento in campo successorio tra figli legittimi e naturali nel nostro ordinamento.

E’ anche possibile che uno solo dei due genitori riconosca il figlio naturale: il riconoscimento fatto da uno solo dei due non vale anche per l’altro; in proposito l’art.258 c.c. afferma che “il riconoscimento non produce effetti se non riguardo al genitore da cui fu fatto”, ciò significa anche che non si crea un rapporto giuridico tra il figlio naturale riconosciuto ed i parenti del genitore che ha effettuato il riconoscimento, a parte nonni e bisnonni, i figli naturali riconosciuti non possono, cioè, acquisire legalmente gli zii ed i cugini. Al contrario, se il giudice con provvedimento di legittimazione attribuisce al bambino nato fuori dal matrimonio lo status di figlio legittimo, quest’ultimo acquisisce i normali legami di parentela con tutti i parenti dei genitori (lo stesso accade in seguito a matrimonio dei genitori del figlio naturale) (art.280 c.c.).

Come già accennato, nell’ordinamento italiano ci sono degli ambiti in cui ancora prevale il cosiddetto “favor legittimitatis”a discapito dello status di figlio naturale: uno di essi riguarda l’inserimento del figlio naturale riconosciuto nella famiglia legittima del genitore che ha effettuato il riconoscimento, inserimento che avviene solo su autorizzazione del giudice, qualora ciò non sia contrario all’interesse del minore, ed è subordinato al consenso dell’altro coniuge e dei figli legittimi che abbiano compiuto sedici anni e siano conviventi (art.252 c.c.)[2].

Un altro ambito concerne la legge n.328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”considerata discriminatoria in quanto individua nel Comune la titolarità degli interventi assistenziali rivolti ai cittadini ( e tra di loro, i figli legittimi), ma attribuisce alle Regioni la facoltà di affidare ad altri Enti locali le funzioni assistenziali che erano delle Province nei confronti dei minori nati al di fuori del matrimonio[3].

Tuttavia il campo in cui si riscontrano le maggiori differenze di trattamento tra figli legittimi e naturali è quello successorio.

Nonostante, in seguito alla legge n.151/1975:

§       l’art. 566 c.c., , affermi che “al padre e alla madre succedono i figli legittimi e naturali, in parti uguali”;

§       l’art.542 comma 2 precisi che “la divisione tra tutti i figli, legittimi e naturali, è effettuata in parti uguali”;

§       l’art. 565 indichi che nella successione legittima l’eredità si devolve, nell’ordine, al coniuge, ai discendenti legittimi e naturali, agli ascendenti legittimi, ai collaterali, agli altri parenti e allo Stato[4] ;

§        l’art. 536 individui tra le persone cui la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione, dopo il coniuge e i figli legittimi, i figli naturali;

 L’art.573 c.c. precisa che “le disposizioni relative alla successione dei figli naturali si applicano [solo] quando la filiazione è stata riconosciuta o giudizialmente dichiarata….”e ancor più l’art. 537 ricorda che la quota del patrimonio riservata ai figli , siano essi legittimi o naturali, (comunemente chiamata quota di legittima) è la medesima e consta dei 2/3 del patrimonio, essa va divisa tra tutti  i figli in parti uguali: lo stesso articolo, all’ultimo comma, precisa che i figli legittimi possono commutare in denaro o beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si oppongano; nel caso di opposizione decide il giudice, valutate le circostanze personali e patrimoniali .

Il recente passaggio di competenze anche in materia d’infanzia dallo Stato centrale alle Regioni (con la modifica del Titolo V della Costituzione), ci porta a segnalare come quest’ultime, con leggi e politiche regionali, potrebbero introdurre delle norme discriminanti nei confronti dei figli naturali. A titolo di esempio gli atti della Regione Lazio a Sostegno della Famiglia ( la legge n.32/2001[5] e la delibera n. 862 del 28/6/2002[6]):

§       la legge n.32/2001 qualifica espressamente la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio e istituzione privilegiata per la nascita, la cura e l’educazione dei figli”( Art.1);

§       la delibera n. 862/2002, nello stanziare dei fondi regionali a sostegno delle famiglie  che versano in condizioni di particolare disagio socio economico, si riferisce solo a nuclei di coppie che abbiano contratto matrimonio o che abbiano intenzione di contrarlo entro determinati termini (Allegato A,
alla DGR n. 862 del 28/07/2002: LINEE GUIDA PER LA EROGAZIONE DEGLI ASSEGNI “UNA TANTUM” DA DESTINARE ALLE FAMIGLIE DEL LAZIO E CRITERI PER LA FORMAZIONE DEI PUNTEGGI VALIDI PER LA IMMISSIONE NELLE GRADUATORIE
1. Per l’anno 2002, gli interventi a favore della famiglia, in applicazione della legge regionale 7 dicembre 2001, n. 32 (interventi a sostegno della famiglia) consistono in assegni “una tantum” del valore unitario di 1000 Euro ciascuno, per le seguenti categorie di beneficiari:(…)
 b) famiglie costituite, a seguito di matrimonio, antecedentemente all’anno 2002, che versino in condizioni di particolare disagio socio economico, quale contributo finalizzato particolarmente alle spese che gravano sul bilancio familiare per l’assistenza a minori, a disabili ed ad anziani.(…)”

 

13. Protection of the family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.20: Family violence.

Fonti:

1.    UNICEF IRC, Innocenti Digest n.6, giugno 2000 “La violenza domestica contro le donne e le bambine”;

2.    Osservazioni conclusive del Comitato sui diritti del fanciullo relativamente al rapporto presentato dall’Italia sull’applicazione della Convenzione- XXXII Sessione- (Punti 37 e 38);

3.    Legge n.154 del 4 aprile 2001 “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”.

 

 

Nel 2000, nell’ambito della pubblicazione dell’Innocenti Digest n.6 sulla violenza domestica contro le donne e le bambine, da parte dell’UNICEF Innocenti Research Centre di Firenze, si stimava che tra il 20 ed il 50% delle donne avesse subito qualche vessazione da parte di un membro della famiglia, nonostante le difficoltà di disporre di dati statistici, a causa degli ostacoli psicologici e sociali legati alla denuncia del fenomeno

Non esiste una definizione universalmente accettata di violenza domestica: di norma essa consiste in un concetto ampio che ricomprende i maltrattamenti fisici, le vessazioni sessuali, psicologiche ed economiche perpetrate nei confronti delle donne e delle bambine da parte di un membro del gruppo familiare, sia che la violenza avvenga all’interno che al di fuori delle mura domestiche.

L’indagine dell’UNICEF Innocenti Research Centre ha dimostrato il carattere di universalità del fenomeno della violenza domestica contro le donne: una serie di studi ha confermato il perpetrarsi della violenza domestica in tutte le parti del mondo.

L’Italia ha compiuto dei passi avanti nel tutelare i minori dalla violenza domestica, in particolare con l’istituzione di una Commissione nazionale per il coordinamento dell’azione in relazione al maltrattamento, all’abuso e allo sfruttamento sessuale dei bambini e l’adozione della legge n.66/1966 e della legge n.154/2001.

In particolare quest’ultima, intitolata “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari” introduce:

-        nel codice di procedura penale il provvedimento dell’allontanamento dell’imputato dalla casa familiare e la prescrizione all’imputato di non avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (art.282 bis c.p.p.);

-         nel codice civile e di procedura civile gli “ordini di protezione contro gli abusi familiari” (artt.342 bis e ter c.c. e 736 bis c.p.c.);

estendendo le disposizioni in essa contenute, in quanto compatibili, alla condotta pregiudizievole tenuta da un componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente.

Tuttavia il Comitato per i diritti del fanciullo, in occasione della sua XXXII Sessione (gennaio 2003), nelle Osservazioni conclusive indirizzate all’Italia si è mostrato preoccupato per la mancanza di dati esaustivi relativi ai maltrattamenti sui minori e per il fatto che la legislazione italiana in materia non assicura la stessa tutela ai bambini di 14 anni e a quelli di 16, a seconda della relazione con l’abusante, e ha auspicato l’adozione di adeguate campagne di sensibilizzazione in materia con il coinvolgimento dei bambini stessi e la modifica della legislazione relativamente ai differenti trattamenti di cui sopra, legati all’età delle vittime (punti 37 e 38).

 

Issue 20 CONTRIBUTO DELLA WILPF-  ITALIA, Patrizia Sterpetti , Antonia Sani, Anita Fisicaro,  con il contributo dell’avv. Adriano Casellato: Protection of the family, mothers and children (art.10) Violenze in famiglia ed extraconiugali (con il contributo dell’associazione “Differenza Donna”)

I dati che seguono illustrano l’ampiezza delle violenze a carico delle donne nel Comune di Roma e nella Provincia di Roma. Dal tasso di richiesta di aiuto da parte delle donne che si registra nei 90 Centri dispersi sull’intero territorio nazionale è evidente, sia l’insufficienza dei servizi a garanzia della protezione delle donne, sia il permanere di comportamenti e forme squilibrate nelle relazioni fra i due sessi. [ALLEGANO TABELLA DATI 18 PAG.]

 

14. Protection of the family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.21: Trafficking in trafficking in women and children, child prostitution, child pornography.

“The recent Law 228 (8 August 2003) “Measures against trafficking of human beings” introduced new instruments to fights this problem. This law, in particular, provides for:

§       Penalties for perpetuators,;

§       Specific legal definition of reduction into slavery and trafficking on human beings:

§       Victims rehabilitation through the creation of a new fund to finance specific programmes. Specific attention will be paid to the victims first assistance ( housing, health care, etc)

§       Prevention: this law gives to the Ministry of Foreign Affairs the power to define cooperation policies on this issue, and to organise international meetings and information campaigns also in countries of origin.

Law 228/2003 provide for reclusion from 8 up to 20 years for perpetrators in general, and longer reclusion if victims are minors or if perpetuators are involved in criminal networks. All the penalties are increased (of 1/3 or ½) for all the crimes targeted by the law, when the victims are below 18.

Dealing with legal instrument providing protection for victims of trafficking, Law n.40/1998 (article 18) provides a specific protection for victims of trafficking: an expulsion order can be converted in a special permit of residence for protecting victims of trafficking who cooperate whit judicial system. Victims will participate to an assistance and social re-integration programme. These measures are reinforced by Law 228/03, including first assistance and long term reintegration.”[7]

“Secondo i dati diffusi dalla Direzione centrale Immigrazione e Polizia delle frontiere  del Ministero dell’Interno, comunque, al 31 ottobre 2003 risultavano essere stati rilasciati 3757 permessi di soggiorno per protezione sociale ai sensi dell’art. 18 t.u. immigrazione.

Nel 2003 in Italia n.848 Permessi di soggiorno per protezione sociale rilasciati alle vittime di tratta, ai sensi dell’art.18 Testo Unico sull’Immigrazione, in prevalenza donne provenienti da Nigeria (222), Romania (180), Moldavia (939, Ucraina (65), e Albania (64). (Fonte: Ministero dell’Interno, Dipartimento Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della Polizia Criminale).

L’Italia non ha ancora ratificato il Protocollo di Palermo (Protocollo delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato trasnazionale).” [8]

 

Juvenile prostitution *[9]

“The phenomenon of juvenile prostitution intersects with both the complex world of prostitution in general, but also with child trafficking.

In Italy, Nigerian girls started arriving at the end of the 1980s, followed in the early 1990s by large numbers of Albanian girls with extremely violent personal histories. More recently, girls began to arrive from Eastern European (from the former U.S.S.R., Moldavia, Romania, Poland, and Hungary). The different cultural backgrounds of the girls involved has necessitated different approaches and systems of communications for each individual ethnic group. However, the issue of prostitution should also be seen within the wider framework of migration policies; in this context, the introduction in Art. 18 of the consolidated Act (Testo Unico) 286/98[10] of residence permits to provide social protection is a genuinely important break-through for the protection of girl victims.

The public perception of juvenile prostitution in Italy is informed by the presence of  girls walking the streets of almost all towns.  However, in addition, there is a significant problem of male child prostitution, and girls working in clubs, night clubs or private apartments, although people are generally unaware of its existence.

Compiling data on the prevalence of children engaged in prostitution on Italian streets is difficult, because it is a constantly changing phenomenon involving the whole country and high levels of mobility amongst those involved. What is evident is the higher incidence of certain nationalities in the streets, primarily Albanian girls, while Italian girls are seldom seen on the streets.

There is also difficulty in establishing the real age of immigrant girls seen in the streets. Children can easily look older than they are through elaborate use of make-up, clothes and movements. Often apparently very young girls claim to be over 18: conversely girls over 18 may claim to be under age in order to get help in leaving the streets. As a result, there are conflicting views both as to the percentage of girls under age in the streets and as to the trend. Different commentators have claimed that it is increasing, decreasing and stable[11]. However, young girls are increasingly popular with many clients, because they are deemed to be healthier. The only significant research undertaken estimates that the presence of foreign girls under age in the streets ranges between 16% and 30%[12], while a more recent informal survey among practitioners in the field established a percentage of approximately 10%. A further survey is currently under way in the Emilia Romagna region by the Observatory on Juvenile Prostitution of Rimini.

The mass media often turn juvenile prostitution into a show by dramatizing it on television in ways which distort the realities of the experience for children.

Many different private organizations, including Catholic associations, women’s movements, emergency shelter communities and grass-roots movements, are playing an important role in tackling the problem. Services being developed include support and emergency shelters, prevention and health protection, help in accessing alternative employment or assisted repatriation, although this is impracticable for many girls. There is also a strong social-political commitment by public institutions to provide effective laws and regulations for the protection of these young girls and to help them obtain residence and work permits. Finally, private social workers also act as «antennas» operating as a conduit between the experience on the streets and government institutions.

Public agencies, and the Regions, Provinces and Municipalities in particular, normally intervene at a later stage, but they play a significant role on a political level as they coordinate, monitor, validate and support projects, in addition to financing actions.

In respect of regional policies, one positive example is the pilot experience of the Social Policy Department of the local government of the Region Emilia-Romagna, which approved a regional project on prostitution in 1996 and created the Osservatorio Regionale sulla Prostituzione Minorile (Regional Observatory on Juvenile Prostitution) with the AUSL (local health departments) of Rimini in 1999.” [from Supplementary Report to the CRC Committee, Gruppo di lavoro per la CRC, 2001]

However it is  at the moment very difficult to find out if the Observatory is still operative and if and which plans they have for the future. They only organized a conference in January 2004 to publicize the result of a research conducted with the aim of analyzing the media attention versus the juvenile prostitution for a period of 20 months.

Trafficking in children

 

Italy is affected by trafficking in children as a destination country as well as a point of transit on the route from Eastern Europe and North Africa towards central and northern Europe. At the beginning of the 1990s, the arrival of women and children from Albania was recorded. They were accompanied by parents and fictitious boyfriends and had often been abducted in their own country. The mid-1990s saw the arrival of women from Eastern Europe, especially Romania. This appears to be caused by the Security Forces cracking down on Albanian organised crime, meaning that other routes and recruiting areas for trafficking had to be found (countries on the Albanian border: Kosovo, Romania, Moldavia). According to information recently provided by workers in reception centres, the presence of Albanian minors is falling, whilst that of women and children from Bosnia is rising. The major national groups running this trafficking are Albanians and Romanians and, since the 1990s, African and ex-Yugoslavian citizens.

The only reliable and available data come from the statistics made by the Equal Opportunity Department on the number of permits for social protection issued under the umbrella of article 18, Legislative Decree n°286/98. The Italian National Institute of Statistics (Istat), in fact, when dealing with foreigners in Italy, disaggregates data on the issue of residence permits only in categories such as work, family, religion etc, while social protection permits are countered as “others”. In particular, data coming from the Equal Opportunity Department, and elaborated by the Inter-ministerial Commission for the implementation of article 18, shows that in the period between March 2000 and February 2001 there were 240 cases of underage girls entering social protection programmes, 134 of which coming from Albania and Romania.[13]

In Italy trafficking in children is strongly connected to sexual exploitation. However during the last decade a number of other forms of exploitation and abuse have clearly emerged in direct connection with child trafficking, such as illegal labour exploitation, begging, international adoption, and in a few instances the sale of organs. However, there are no official data available on these types of exploitation.

The forms of sexual exploitation in Italy vary from abusing children in the child pornography milieu involving child-actors, from children being compelled into street prostitution to confinement in brothels.

The existence of networks of individuals in Eastern European countries engaged in the business of buying and selling victims for profit which could in part explain the high percentage of victims from those countries. It seems that there is a very well organised network of criminals operating in synergy to manage the entire process. The network highlights the existence of illegal connections among different criminal organisations.

The type and duration of the travel period changes significantly from one case to another, depending on the routes followed and the people encountered along the way. However, there are a number of common features: violence, threats and rape.

The first East-West route is used by traffickers from Ukraine (the recruiters), Slovenia, Yugoslavia and Italy, whose nationalities are indicative of the method adopted by the traffickers. Ukraine, Russia, Moldova, Bulgaria and the Baltic States are the preferred places of origin of the victims, while the border used for illegal entry into Italy is the Italian-Slovenian one along the boundaries of the provinces of Trieste and Gorizia. This is a geographical ‘loophole’: forest paths are well hidden in the woods and difficult to access, and police controls have been reinforced only recently.

- Albanian crime groups manage the second East-West route. They recruit victims from among their nationals in Albania, while also they taking victims from other Eastern European countries. The last part of the journey from Albania to Italy is common to both: the main departure points in Albania are Valona and Durazzo, from where, after the well established motorboat services provided by Albanian passeurs have been used, the victims are disembarked on the Apulian coasts near the cities of Lecce, Brindisi and Bari.

The Committee on the Rights of the Child in its Concluding Observation on Italy (CRC/C/15/Add.198, 31/01/2003) remains concerned at the numbers of children who are trafficked for sexual purposes in Italy. Therefore the Committee “recommends that the State party:

(a)  strengthen its efforts to prevent and combat trafficking in children for sexual purposes in accordance with the Declaration  and Agenda for Actions, and the Global Commitment adopted at the 1996 and 2001 World Congresses against Sexual Exploitation;

(b) and

(c)  ensure that adequate resources, both human and financial, are allocated to policies and programmes in this area.

The extent of child pornography in Italy[14]

Analysing the size of the child pornography problem in numeric terms is a hard task given the lack of up-to-date data and detailed studies. In evaluating the dimensions of child pornography, two aspects must be considered:

·       The number of children and adults who have been abused during the production of child-pornographic material

·       The gamut of child pornography itself.

Sexual abuse, in all its forms, is a hugely complex social problem that requires a high level of professional expertise. It is also extremely difficult to provide a detailed answer as to the size of the problem on the Internet as it is not the subject of statistical analysis.[15]

 

The most indicative figures available regarding the child pornography phenomenon in Italy are therefore those available from the Italian Public Prosecutor’s Office (Table 2), from penal institutions and the Police.

Text Box: Cases under investigation by the Italian Public Prosecutor’s Office relating to criminal acts as per art. 600 commas 3 & 4 of Law 269/98 as of March 2002
CRIME	NORTH	CENTRAL	SOUTH &
ISLANDS	TOTAL
Child pornography (art. 600,3 of penal code)
The exploitation of children in the production of child pornographic material. Production, commercialisation, distribution, publication and supplyof child pornographic material.	61	87	107	255
Possession of pornographic material (art 600,4 of penal code)
Produced through the sexual exploitation of children under the age of 18	25	55	88	168
Total	81	142	195	423
Table 2

The data regarding article 600,3r is interesting as it shows that with a total of 255 cases under investigation it is the crime that is prosecuted most often.[16] This article punishes those who exploit children in order to produce child pornographic material, those who trade in it, those who distribute, publish or advertise it telematically or those who pass it on free of charge.[17]

Number of people detained or subjected to restrictive measures under

article 600 commas 3 & 4

CRIME

Detained

Alternative measures

art.600,3*

 

61                  87

art 600,4 **

 

 

*Child pornography

**Possession of pornographic material

produced through the sexual exploitation of children under the age of 18

 

 

 

 

Table 3

 
Other data providing useful information is that provided by the Department of Penitentiary Administration of the Ministry of Justice (table 3) that shows how many people have been found guilty of crimes under article 600 ,3 & ,4 of the Italian penal code. Even so, we know that the data is subject to many variables, such as the fact that crimes under article 600,4 may simply be punishable by a fine and not necessarily by imprisonment.  Additional data is also supplied by the State Police (table 4)

 

Results of operations carried out by the Telematic Police since the coming into force of Law 269/98 as of 30 September 2003

Searches

1,625

Number of people reported currently at liberty

1,683

Investigated people subject to restrictive measures

101

Total number of web sites monitored

85,699

Total number of web sites discarded

24,242

Table 4[18]

The phrase “web sites cleared” is used to describe those that have been investigated by the police who have subsequently deemed it unnecessary to continue further enquiries (because already closed down, previously investigated, operating legally etc.)

Diagram 2.[1]

 

As far as the reports made by the Telematic Police to foreign forces (Interpol etc), by October 2003, since the coming into force of law 269/98 these numbered some 5989.

Data gathered directly by Stop-it, the project of Save the Children Italy against child pornography, can be added to that supplied by the Public Authorities, and this makes it possible to deduce the percentage of child-pornographic sites registered on Italian servers. During Stop-it’s first 10 working months, of all those reports made by them to the competent authorities, some 9.9% of those on Italian servers contained child pornographic material. (see diagram 3)

 

 

 

From this brief description, it can be inferred just how difficult it is to give precise figures regarding the extent of the size of the child pornography problem in Italy. It is however easy to deduce how this phenomenon is likely to increase with the use of Internet and result in even greater risks.

 

15. Protection of the family, mothers and children (art. 10). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.22: Asylum-seekers and entitlement to family reunification.

Contributo sottogruppo immigrazione

 

 

 

 

Contributo sottogruppo bambini e adolescenti:

Applicants for refugee status within the scope of 1951 Geneva Convention are admitted reunification with their family members for the time their application is handled,, as provided by 1990 Dublin Convention and the following EU regulation no. 343/2003, February 18th, 2003.

Italian legal system does not provide different or more specific norms in order to enable asylum seekers to trace or to factually reach their family members. The practice shows that reunification is very difficult to apply when family members are in other EU Member States, due to lack of coordination among offices of different states and difficulties for the police to perform the necessary activities to grant entry clearance in another State. Procedures seem not be set and organised in order to make the right to family right effective when an applicant's family members live outside Italy.

 

Subsidiary protection is granted by the law only in case of emergencies (art.20, Statute no. 286, July 28th, 1998, UE directive 2001/55/CE, July 20th, 2001 and implementation decree April 7th, 2003 no. 85). Extraordinary statutes may be adopted in connection with war events and the following mass movements (e.g. 1999 war in Kosovo/Yugoslavia). Emergency decrees signed by Italy's Prime Minister allowed the entry of thousends of asylum seekers, partly claiming to have family members residing in Italy (P.M.decree March 26th, 1999 and Ministry of Internal Affairs order no. 2967 of March 26th). Provisional residence permit allow asylum seekers and their family members to access limited health care treatments and welfare benefits. After emergency ceases, asylum seekers and their family members are granted a long-term residence permit, if they can prove to dispose of adequate housing and sufficient income.

 

 

16. Right to physical and mental health (art. 12) See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.28: There is very little information in the State party’s report on the right to health. How medical security and health care are being provided to all sectors of the Italian society, including the most vulnerable groups of people, in accordance with the Committee’s general comment No. 14 (2000) on the right to the highest attainable standard of health.

 

 

17. Right to physical and mental health (art. 12) See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.29: Problems of HIV/AIDS, drug abuse and alcoholism.

 

I contributi del gruppo salute vanno, oltre che sintetizzati, riorganizzati per l’inserimento nei paragrafi 16 e 17. Possono essere creati altri paragrafi per affrontare issues specifiche e non comprese nella 28 e 29 della list of issues.

CONTRIBUTO LEGAMBIENTE E LIBERA, Nunzio Cirino: Ecomafia e criminalità ambientale

Il 2003 è stato caratterizzato da un deciso incremento di tutti i principali parametri presi in esame dalla nostra associazione: gli illeciti ambientali accertati dalle forze dell’ordine sono stati 25.798, circa il 32,6% in più di quelli riscontrati nel 2002. E’ quasi raddoppiato in un anno il numero dei sequestri giudiziari, un provvedimento che, com’è noto, segnala la particolare gravità dei reati su cui s’indaga: sono stati ben 8.650 contro i 4.479 del 2002; aumenta anche il numero delle persone denunciate, 19.665, il 18,1% in più rispetto al 2002; quasi raddoppiato, invece, il numero degli arresti eseguiti: 160, contro gli 87 del 2002, un dato che risente, in modo particolare, delle operazioni compiute dal Reparto operativo del Comando tutela ambiente dell’Arma dei carabinieri per quanto riguarda i traffici di rifiuti, ma anche delle inchieste condotte dal Corpo forestale dello Stato (in materia di rifiuti, di escavazioni abusive e di bracconaggio) e della Guardia di finanza. Cresce il business complessivo dell’ecomafia, che nelle stime di Legambiente supera nel 2003 i 18,9 miliardi di euro, con un incremento del 14,2% rispetto al 2002. Aumenta anche il numero dei clan censiti: 11 in più rispetto al precedente Rapporto Ecomafia, per un totale di 169 clan.

 

A differenza di quanto affermato nel rapporto governativo para 11, major envoromental issues affect persons health.

Anche sull’altro fronte caldo dell’ecomafia, quello del ciclo dei rifiuti, le notizie raccolte sono particolarmente gravi. L’introduzione, attraverso l’art.53 bis del decreto Ronchi, del delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti, ha portato nel giro di appena due anni, alla scoperta di colossali traffici di rifiuti pericolosi, con l’emissione di ben 133 ordinanze di custodia cautelare e alla denuncia di 463 persone. Sono, infine, 150 le aziende coinvolte e ben le 16 regioni italiane a vario titolo interessare da questi traffici.

Eclatante è il fenomeno della “catena montuosa” dei rifiuti speciali scomparsi, infatti alle tre montagne di rifiuti spariti nel nulla e già denunciate nei precedenti Rapporti (rispettivamente di 1.150 metri nel 1988, di 1.120 metri nel 1999, di 1.382 metri nel 2000), si aggiunge una nuova “vetta” di 1.314 metri di altezza (se può consolare, 68 in meno rispetto all’anno precedente) e tre ettari di base, pari a 13,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, anche pericolosi, di cui si stima la produzione ma non si conosce l’effettivo smaltimento. Particolarmente inquietante è la difficoltà incontrata nell’individuare un numero certo sulle quantità gestite dei rifiuti nel “Rapporto rifiuti 2003” curato dall’Apat e dall’Osservatorio nazionale rifiuti, in quanto la differenza tra rifiuti prodotti e rifiuti gestiti aiuterebbe a comprendere meglio la dimensione dei traffici e degli smaltimenti illeciti nel nostro Paese.

L’indicazione dell’alta “specializzazione” e pericolisità raggiunta dalla criminalità nel settore dei rifiuti è data da due casi esemplari: il primo ha riguardato i territori dell’Agro aversano, (Caserta) e diversi comuni dell’area a nord di Napoli (in particolare nel triangolo Qualiano, Giugliano, Villaricca), sono stati ribattezzati la terra dei fuochi, per gli ingenti quantitativi di rifiuti che si continuano a bruciare ogni notte con tecniche sempre più raffinate. Da questi roghi, si sprigionano rilevanti quantità di diossina ed è molto probabile che proprio questa sorta di “termocombustione” vadano ricondotti i gravi fenomeni di contaminazione, che hanno portato al sequestro e all’abattimento di alcune migliaia di capi bovini nonché alla recentissima emanazione di ordinanze sindacali che vietano in alcune di queste aree il pascolo, la raccolta di foraggio e la detenzione di animali da cortile.

L’altro caso ha riguardato, invece, il sistema di smaltimento illecito al centro dell’operazione “Paddock” compiuta dal Corpo forestale dello Stato e dalla Guardia di finanza. Le indagini hanno individuato l’impiego di cavi elettrici tritati e mescolati con sabbia per “allestire” le aree di allenamento dei cavalli in numerosi menegi nella provincia di Firenze (ma il traffico ha interessato anche la Lombardia, l’Emilia Romagna e le Marche). Il materiale, come rivela un comunicato stampa della stessa Arpat Toscana, “conferisce una buona elasticità al fondo e non comporta la formazione di polvere”; peccato che rientri nella categoria dei rifiuti pericolosi (!).

Lo scenario non confortante, tratteggiato nel Rapporto Ecomafia 2004, porta alla necessità di attuare tutte quelle misure necessarie per contrastare in maniera adeguata i “ladri di futuro”. Prima tra tutte l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel Codice penale. Una riforma in linea con quanto è previsto anche dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione Europea in materia di tutela penale dell’ambiente.

raccomandazione su prevenire ecomafia con educazione

 

CONTRIBUTO ANTIGONE, Donatelli Panzieri: SALUTE IN CARCERE

Il diritto alla salute non è sufficientemente tutelato all’interno delle carceri italiane.

Il sovraffollamento ( 31 dicembre 2003:  n.° detenuti 54.237 a fronte di capienza n.° 41943 ) e le conseguenti precarie condizioni igienico-sanitarie , la mancanza di movimento, lo stato inadeguato di molte  delle strutture edilizie carcerarie costituiscono le cause della mancata attuazione di una normativa, che assicura alle persone detenute livelli di prestazioni analoghi a quelli dei cittadini in stato di libertà .

L’assistenza sanitaria in carcere risulta lacunosa per mancanza di personale sufficiente e di attrezzature aggiornate. Medici e soprattutto infermieri non riescono ad assicurare i turni di notte in molti istituti. In meno della metà degli istituti una Guardia Medica è assicurata per 24 ore.  Scarsa risulta la dotazione di farmaci, carenti le visite specialistiche anche per i malati più gravi , difficoltosi i ricoveri esterni e gli interventi d’urgenza .

Rispetto ai circa 17.000 detenuti tossicodipendenti , va segnalato che dal 1°luglio 2003 i fondi necessari al funzionamento dei Presìdi Sanitari per le tossicodipendenze   sono passati dal Ministero di Giustizia al Fondo Sanitario Nazionale .

In realtà è avvenuta una presa in carico da parte dei SerT di un numero di detenuti tdp molto inferiore alla percentuale di tdp che entrano in carcere, infatti i detenuti afidati ai SerT sono quasi esclusivamente quelli che hanno problemi acuti in atto  (astinenza) e cui viene somministrato metadone.

Rispetto ai detenuti affetti da virus HIV va segnalato che il taglio dei fondi rende difficile l’acquisto dei farmaci retrovirali ; inoltre i tempi burocratici per ottenere il differimento di pena si prolungano eccessivamente rispetto al degrado delle condizioni fisiche dei malati.

Va segnalato che nel 60% degli istituti non vi è alcunainiziativa di prevenzione per virus HIV,

  viene distribuito alcun materiale informativo di carattere sanitario.

Solo nel 27,7% degli istitui si consegnano opuscoli di educazione sanitaria.

Circa 10.000 detenuti soffrono di forme di disagio mentale legate a tossicod.ed etilismo; circa 10.000 sono colpiti da malattie infettive, soprattutto epatiti ;  tornano scabbia, sifilide, tubercolosi , che sembravano appartenere al passato.

Dal 1995 ad oggi si è registrato un costante aumento delle morti in carcere e in maggior parte di persone giovani : circa la metà dei 500 morti aveva meno di quarant’anni .

Solo nel 2003 i suicidi in carcere sono stati 67, di cui due minorenni .

Il  decreto legge n.230 de 22/06/99  sul riordino della medicina penitenziaria che prevede il passaggio graduale di essa al S.S.N. cioè dal Ministero della Giustizia a quello della Salute è in via di attuazione, ma solo sulla carta. Una prima  sperimentazione in sei Regioni (prima Toscana, Lazio e Puglie,poi Emilia-Romagna. Molise e Campania), conclusasi  nel giugno 2002 è stata valutata positivamente da un apposito comitato, il cui documento finale, sottoscritto dalle Regioni, non è ancora stato reso pubblico.

Intanto il Ministero della Giustizia ha progressivamente ridotto i fondi per la sanità penitenziaria : 16 milioni di euro in meno nel 2003, pari al 30% dello stanziamento del 2002, a sua volta già ridotto del 20% del 2001.

In concreto  ciò comporta la non attivazione di importanti strutture quali il “Presidio nuovi giunti” , che dovrebbe fornire un primo sostegno alle persone appena arrestate e spesso più fragili ed esposte a gesti di autolesionismo o al suicidio ; quali le Sezioni a “custodia attenuata” per i tossicod.

Si auspica….un’inversione di tendenza globale ! più risorse e più rispetto delle normative.

Si auspica l’istituzione delle figure di garanti nei luoghi di detenzione

CONTRIBUTO CITTADINANZA ATTIVA,

L’elaborazione delle segnalazioni e richieste di intervento da parte dei cittadini consente di mettere a fuoco una fotografia della situazione del servizio sanitario pubblico dal punto di vista dei cittadini. In maniera molto sintetica e schematica, di segutio si elencano alcune delle questioni di maggior rilievo e le possibili soluzioni per garantire maggiore attenzione ai bisogni e alle  priorità dei cittadini. E’ evidente che, in relazione alla complessità delle questioni trattate, il documento non ha alcuna pretesa di esaustività. Per analisi più dettagliate di argomenti affrontati sinteticamente, per ragioni di spazio, all’interno del documento, si rinvia alla consultazione dei rapporti prodotti periodicamente dal Tribunale per i diritti del malato e dal Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici.

Il sistema di tutela che abbiamo contribuito ad introdurre e a mettere in pratica in tutti questi anni è messo seriamente in discussione, sia pure in maniera non esplicitamente dichiarata. Si può verificare il consolidamento ed aggravamento dei tagli alle prestazioni già evidenziato nel 2002 e nel 2003 e l’estensione di fenomeni di riduzione dell’accesso ad aree della offerta prima interessate solo marginalmente.

La stagione attuale sembra caratterizzata sempre di più da poche idee, molte parole e un governo delle politiche pubbliche definitivamente demandato alle competenze di bilancio.

I Lea

Il primo anno di applicazione effettiva dei Livelli essenziali di assistenza avrebbe dovuto coincidere con l’avvio di un percorso per legare il soddisfacimento dei bisogni di salute alle risorse disponibili, conferendo a questa operazione un valore strategico elevato. Avrebbe dovuto essere, in altre parole, una parte qualificante della riflessione sullo stato del sistema di protezione sociale del paese in una fase particolarmente delicata come quella attuale di transizione,  vera o presunta, al federalismo. Una riflessione per il riconoscimento della costituzionalizzazione definitiva del dirito alla salute in maniera uniforme, su tutto il territorio nazionale, anche sotto il profilo attuativo. Non è stato così. La congiuntura economica internazionale sfavorevole ha fatto la sua parte, e le logiche economicistiche hanno occupato, praticamente da sole, il centro della scena. Nessun argomento, bisogno, questione, problema, denuncia, sia pur grave, sembra contare tanto quanto le questioni economiche. I Livelli essenziali di assistenza sono interpretati sempre più  come i livelli “minimi” di assistenza e, al contrario di quanto più o meno diffusamente si temeva al momento della loro introduzione, il problama vero non sta tanto in ciò che è rimasto fuori dalle prestazioni erogate dal Ssn, quanto piuttosto dalla  forte disomogeneità con la quale essi vengono erogati dalle Regioni.

1.    Liste di attesa. Il fenomeno si sta estendendo, progressivamente, dall’area, tradizionale, delle prestazioni diagnostiche e specialistiche, a quella degli interventi chirurgici programmati, con un ricorso più diffuso alle prestazioni in intramoenia anche in aree specialistiche nelle quali ci si attenderebbe un intervento diretto e sufficiente da parte del servizio sanitario pubblico, come per esempio quella oncologica. La libera professione dei medici all’interno delle strutture sanitarie, al centro di evidenti tentativi di smantellamento e liberalizzazione totale da parte del Governo, resta una pietra dello scandalo per i cittadini che se la vedono proporre come una modalità per aggirare, a proprie spese, ritardi e inefficienze. Le modifiche recenti da parte del Parlamento, su proposta del Governo, vanno, purtroppo, nella direzione del ritorno ad un passato fatto di carriere pubbliche utilizzate per la realizzazione di lauti guadagni nel privato.

E’ indispensabile individuare risorse da mettere a disposizione di un programma per la riduzione dei tempi di attesa per le principali prestazioni di diagnosi e terapia. Gli accordi recenti tra Governo e Regioni difficilmente andranno a regime e produrranno risultati significativi in assenza di un impegno specifico su questo terreno, almeno nella fase di avvio del programma. E' necessario, inoltre, riformulare le norme che regolamentano l’esercizio della libera professione intramuraria per i medici, in maniera da tenere nel debito conto la situazione dei tempi di attesa nel canale istituzionale e tetti per l’espletamento della stessa attività. E’ indispensabile, infine, riportare l’esercizio della libera professione all’interno delle strutture, realizzando le infrastrutture necessarie, per le quali, peraltro, esistono stanziamenti specifici

2.    Dimissioni forzate. Si consolida ulteriormente il fenomeno delle dimissioni forzate dalle strutture ospedaliere, con l’estensione del problema ad altre aree, come quella chirurgica, nelle quali si manifesta con caratteristiche ed impatti relativamente nuovi, oltre quelle tradizionali (oncologica e delle patologie croniche). Ciò mette a nudo, in maniera definitiva, la necessità di attrezzare l’offerta di assistenza sul territorio, al di fuori degli ospedali, e presenta un conto salato, sinora pagato dai cittadini, a quanti pensavano di poter riconvertire travasando automaticamente risorse da un settore dell’assistenza all’altro. E’ indispensabile individuare limiti precisi alla pratica delle dimissioni forzate, che non dovrebbero essere mai consentite in assenza di soluzioni idonee alternative alla ospedalizzazione. Non si possono scaricare sui malati o sulle loro famiglie le conseguenze della mancata realizzazione di strutture territoriali o della scarsità o assenza  di programmi di assistenza a domicilio;

3.    Farmaci. Il primo anno di sperimentazione del nuovo Prontuario farmaceutico nazionale si conclude con la revisione delle note limitative da parte della Commisione Unica del Farmaco. Alcuni farmaci riclassificati in classe C, per i quali è già in atto o si annuncia una revisione della rimborsabiltà da parte del Ssn in seguito alle forti pressioni esercitate dalle organizzazioni di tutela (antistaminici, farmaci per la prevenzione delle microfratture per chi soffre di osteoporosi, corticosteroidei per allegici e asmatici, adrenalina autoiniettabile, farmaci per il morbo di Parkinson, farmaci e presidi di uso comune dei quali i malati cronici fanno un uso particolarmente intenso) hanno messo a dura prova i bilanci familiari. I cittadini sono costretti a fare i conti con le restrizioni nelle prescrizioni di farmaci costosi da parte di specialisti e medici di medicina generale, spesso all’insegna di comportamenti difensivi rispetto ai controlli sulla spesa farmaceutica o a veri e propri accordi con le Regioni per tenere sotto controllo i budget. Il nostro paese continua ad essere agli ultimi posti nelle graduatorie internazionali sulla utilizzazione di farmaci per la terapia del dolore.

4.    Presidi, protesi, ausili, riabilitazione. Presidi, protesi ed ausili continuano a presentarsi, il più delle volte, inadeguati, sia nella qualità che nella quantità, con iter burocratici per il rilascio complessi, utilizzati, assai spesso, come modalità per ridurre l’accesso. Le prestazioni di riabilitazione rimangono un buco nero, difficili da ottenere in tempo utile a non creare danni e di qualità non sempre adeguata. E’ necessario individuare un nuovo strumento, in sostituzione del  vecchio Nomenclatore tariffario, in grado di garantire ai cittadini quanto di meglio la ricerca e la innovazione tecnologica mettono potenzialmente a loro disposizione, evitando di considerare tutta questa materia, ancora unavolta, solo un problema di finanza.

5.    La medicina del territorio. Si fa meno assistenza domiciliare integrata, al di là delle dichiarazioni in proposito da parte delle Regioni, tanto attraverso la riduzione oraria di occupazione degli operatori impiegati al domicilio che con la diminuzione del numero dei professionisti impegnati. La medicina del territorio resta, al di là delle dichiarazioni di principio, la cenerentola del sistema, finendo per richiedere ai diversi soggetti e livelli del Servizio sanitario pubblico presenti, medici di famiglia, servizio di guardia medica, posti di primo soccorso, l’esercizio di funzioni di supplenza rispetto d evidenti carenze di carattere strutturale.

6.    Oncologia. Mancano strutture di tipo hospice e unità di radioterapia In questo momento ci sono nel nostro paese 67 hospice, per complessivi 658 posti letto, praticamente tutti concentrati nelle regioni del centro-nord, a sottolineare, una volta di più, la situazione drammatica nella quale versano le strutture assistenziali nel meridione. Mancano all’incirca 50 unità di radioterapia nelle regioni merdionali

7.    Unità spinali. In questo momento non si può contare, nel nostro paese, su una unità per regione. E’ indispensabile mettere a punto e finanziare, su tutto il territorio nazionale, un piano per la realizzazione di almeno una unità spinale per regione.

8.    Terapia del dolore. La lotta al dolore non è ancora una priorità nel nostro Paese. E’ evidente che la sensibilità intorno al tema sta crescendo, ma la strada è ancora lunga e i progressi piuttosto lenti. In  tre anni dalla approvazione delle nuove norme, la prescrizione di farmaci oppiacei è cresciuta di poco, e ancora oggi i medici di famiglia, spesso, non ritirano nemmeno i ricettari speciali indispensabili per la prescrizione. In base agli ultimi dati, i reparti di cure palliative sono, a tutt’oggi, 206, la gran parte dei quali concentrati nelle regioni del centro-nord, poco meno del 10% al sud. Per quanto riguarda le strutture ospedaliere, lo sforzo sostenuto per attivare la rete di “ospedale senza dolore” non è stato, finora, supportato dagli investimenti di risorse finanziarie indispensabili. Tra le tante ipotesi di lavoro nell’immediato, tre proposte ci sembra rivestano priorità assoluta:

·       garantire la copertura della assistenza al dolore, tanto per quanto riguarda il cancro che le patologie croniche, all’interno dei livelli essenziali di assistenza;

·       rendere obbligatoria la rilevazione e la misurazione del dolore, e quindi anche la sua cura, all’interno della cartelle clinica di ogni paziente assistito;

·       rendere obbligatoria la formazione sulla terapia del dolore per i medici di famiglia, gli specialisti più direttamente interessati e gli infermieri nell’ambito dei programmi di ECM.

9.    Prevenzione degli errori. Il contenzioso in seguito a malpractice viene considerato sempre di più come qualcosa a cui porre rimedio attraverso forme di conciliazione. In realtà bisognerebbe intervenire sulla prevenzione della malpractice, rendendo obbligatoria ai fini dell’accreditamento la introduzione di sistemi di registrazione degli errori nella pratica medica ed assistenziale e di prevenzione del rischio (risk management). Andrebbe istituito, inoltre, anche nel nostro paese, un fondo per il risarcimento di quanti abbiano subito un danno in seguito ad un trattamento medico o chirurgico, anche nel caso in cui non si riesca ad individuarne il responsabile.

10.   Il peso della burocrazia.  Ci siamo riabituati a convivere con i ticket, sui farmaci piuttosto che sulle prestazioni di pronto soccorso, sulla diagnostica strumentale o sulla specialistica. Resta lungo l’iter per il riconoscimento delle procedure di invalidità o della indennità di accompagnamento, e anche quando si vede confermato il proprio diritto, quasi mai ciò comporta la liquidazione del beneficio economico in tempi rapidi e certi.

11.   La questione risorse. L’accordo sui Lea è stato seguito dalla controversia in Conferenza Stato-Regioni per il ripiano dei disavanzi pregressi, stimati in 12,7 miliardi di euro, dello scorso mese di gennaio e la rimodulazione della quota capitaria per la ripartizione del Fondo sanitario nazionale. La nuova legge di bilancio non mette a disposizione del sistema risorse nuove, e prosegue, al contrario, nella politica di riduzione dei trasferimenti finanziari agli enti locali, confermando anche i provvedimenti limitativi della loro autonomia impositiva, già introdotti lo scorso anno. Nel biennio 2001-2002 il deficit delle Regioni per la sanità ammontava a 8,2 miliardi di euro. Il 2003 ha fatto registrare 4,5 miliardi di euro di nuovi debiti. Per il 2004 si stima un incremento dell’indebitamento di altri 5 miliardi di euro. Troppi, e soprattutto poco conciliabili con il contenuto del cosiddetto patto di stabilità tra Stato e Regioni. Al di là degli sprechi e delle mancate razionalizzazioni, il sistema appare con il suo 5,9% di spesa pubblica sul Pil (rispetto ad una percentuale intorno al 7-8% di Francia e Germania) ampiamente sottofinanziato.

12.   La tutela della non autosufficienza. Il tema delle risorse necessarie per garantire l’esistenza di un Servizio sanitario pubblico all’altezza delle necessità del Paese è stato e resta al centro del dibattito anche per quanto attiene al tema specifico della tutela dalla perdita della non autosufficienza. In questo momento è all’attenzione del Parlamento un progetto di legge apposito, che ha fatto registare, peraltro, la convergenza delle forze politiche di entrambi gli schieramenti, ma non sembra realistico immaginare che esso possa avere un seguito, almeno nell’immediato, a causa della mancanza di risorse. Nessuno, o quasi, in prossimità di una serie di tornate elettorali, ha voglia di proporre impopolari aumenti della pressione fiscale, qualunque sia la loro forma, ma in assenza di 10-15 milioni di euro è impensabile dare il via ad un fondo specifico che colmi questa lacuna del nostro servizio sanitario.

13.   Cronicità. Un italiano su tre soffre di almeno una patologia cronica, uno su cinque rivela di essere affetto da almeno due patologie croniche. All’incirca un malato cronico su due dichiara di godere, comunque, di condizioni di salute buone. E ancora: più di tre italiani su cento soffrono di diabete, dieci su cento dichiarano di essere ipertesi, sei su cento sono affetti da bronchite cronica, quasi diciotto da artrosi o artrite, cinque da osteoporosi, quattro da malattie cardiache, quasi sette da malattie allergiche, quasi quattro da malattie nervose, tre da ulcera gastrica o duodenale. 500.000 sono i malati di Alzheimer, 39.000 i nefropatici, 50.000 coloro che soffrono di sclerosi multipla, quasi 2.800.000 i disabili. Cifre che colpiscono, e che dovrebbero trasformarsi nella bussola delle politiche della salute del paese. E’ stato effettivamente così nel corso dell’anno che abbiamo alle spalle? A giudicare dai dati a nostra disposizione, non sembra che ci siano molti elementi a sostegno di questa ipotesi.

14.   La mancata attuazione della legge quadro sulla assistenza. Il Fondo nazionale per le politiche sociali fa registrare un taglio, per il 2004, pari a sessanta milioni di euro. A questa cifra si deve aggiungere il taglio del 6% delle risorse per i Comuni, con punte talora più elevate per aree metropolitane e piccoli centri (complessivamente 1.800.000 di euro). Risorse sottratte alle politiche assistenziali che finiscono per svuotare, di fatto, la legge di riforma della asssitenza, soprattutto nei suoi aspetti più innovativi legati alla progettualità, alla integrazione e alla promozione di nuovi servizi da realizzare con modalità all’avanguardia. Il consolidamento del deficit rispetto ai servizi di sostegno alle persone rappresenta una delle ricadute più negative della mancata attuazione della legge quadro, che non dispone, a tutt’oggi, neanche della definizione dei “livelli essenziali di assistenza sociali”. La mancata attuazione rallenta anche quell’orientamento ad una maggiore personalizzazione dei percorsi assistenziali richiesto con forza da quanti fanno un uso intenso dei servizi.

15.   La tutela della salute mentale. Dopo anni di parziale o mancata attuazione della Legge Basaglia, il Parlamento sta per discutere un nuovo testo di legge, la cosiddetta Burani-Procaccini, che propone un salto indietro di anni, un ritorno alla istituzionalizzazione. L’approvazione di questa legge rappresenterebbe, di fatto, l’abbadono del tentativo di portare a compimento quel rinnovamento culturale che portò alla chiusura dei manicomi e ad una nuova visione del disagio mentale.

16.   Infertilità e legge sulla procreazione medicalmente assistita. Dopo due anni di discussione e ignorando il parere praticamente unanime di società scientifiche e professionali, scienziati e ricercatori, bioeticisti, organizzazioni di tutela, il Parlamento ha varato un testo di legge blindato sulla procreazione medicalmente assistita. Si tratta di un testo che, a detta di taluni, sarà difficile da applicare, e a detta dei più pone restrizioni pesanti alla pratica della procreazione medicalmente assistita. Due elementi di particolare gravità su tutti. Il primo. Con le nuove norme si impedisce, di fatto, la possibilità di utilizzare le tecniche di procreazione medicalmente assistita per la diagnosi prenatale a cittadini con particolari fattori di rischio per patologie genetiche (come la fibrosi cistica o la talassemia) qualora la coppia non sia infertile. Il secondo. Il Parlamento non ha tenuto in alcun conto nessuna delle richieste di emendamento e modifica del testo di legge presentate nel corso delle audizioni. Non si può dire che sia stato, al di là del merito, un gran segnale per il Paese.

17.   Una questione meridionale in sanità. Negli ultimi anni si sono consolidate in maniera evidente le divisioni tra macro aree del paese con diverso grado di sviluppo. Anche se le restrizioni dei budget e la penuria di risorse, in questo momento, mettono a dura prova un po’ tutte le Regioni, il centro-sud del Paese è in affanno evidente e sempre più chiamato a scelte dure e per nulla indolori, come il ricorso a forme di cosiddetta “finanza creativa” attraverso la contrazione di nuovi debiti con il sistema bancario, o la selezione e la riduzione delle prestazioni. Quasi una questione meridionale in sanità, che meriterebbe di essere trattata come tale. Ventidue milioni di cittadini per i quali i livelli essenziali di assistenza sono altro rispetto a chi risiede nel nord del Paese dovrebbero indurre ad una considerazione attenta del problema quanti hanno responsabilità di governo.

Si può tenere conto della attuale congiuntura del paese, e delle difficoltà alle quali si sta cercando di far fronte, puntando con forza sulla efficienza del sistema come modalità per tenere nella massima considerazione, concretamente, i bisogni dei cittadini e per garantire la indispensabile sostenibilità economico-finanziaria. Insomma, si può decidere di scommetere sulla efficienza come modalità per declinare in maniera piena quei principi di equità, solidarietà, universalità, ai quali il nostro Servizio sanitario pubblico si ispira. Ma bisogna esser certi che sia effettivamente questa la strada imboccata, e percorrerla con determinazione e convinzione. E non si può certo dire che, al momento, sia questa l’immagine che i diversi livelli di governo del sistema offrono alla opinione pubblica del paese. Tre nodi, ci sembra, necessitano di essere affrontati e sciolti con una certa urgenza.

1.  La questione dei finanziamenti per il servizio sanitario nazionale. Il tema è oggetto di continue diatribe, a tratti molto ideologiche, tra quanti sostengono la necessità di rifinanziare il sistema e quanti negano questa necessità o la ritengono, comunque, insostenibile per il paese. Su questo tema è necessaria una operazione verità, al di là e al di fuori degli interessi degli schieramenti politici contrapposti, nell’interesse del paese. La questione meridionale in sanità, sempre più evidente, non può essere scaricata sulle spalle dei cittadini residenti in quelle regioni, come se non riguardasse che loro. Se è vero, come è vero, che bisogna promuovere e sostenere l’autonoma capacità di gestione delle regioni, è altrettanto vero che tutto ciò ha bisogno di gradualità  e soprattutto di garanzie per la copertura dei livelli essenziali di assistenza su tutto il territorio nazionale. Servono più risorse per finanziare il sistema nel suo complesso, soprattutto con riferimento ai nuovi bisogni, per esempio la tutela dalla perdita dell’autosufficienza. Ed è necessario procedere al rifinanziamento, o meglio al finanziamento effettivo, di alcuni fondi speciali, per esempio quello ex art. 20, che in questo momento, come ha rilevato di recente anche la Corte dei Conti, sono utilizzati impropriamente per la gestione ordinaria. Si tratta di una questione ormai improcrastinabile, che non può ammettere ulteriori rinvii.

2.  Il modello di stato sociale. I sistemi di protezione sociale attraversano una fase di transizione complessa e dagli esiti incerti in tutta Europa. Non è ancora chiaro quali saranno gli sbocchi di questa crisi, ma di certo il contesto attuale si presenta assai problematico un po’ dappertutto. Il dibattito corrente sconta, soprattutto nel nostro paese, una attenzione eccessiva nei confronti degli aspetti di carattere economico-finanziario, che ha finito per relegare in secondo piano il sistema delle tutele e dei diritti. La stessa fissazione dei livelli essenziali di assistenza è stata impostata e gestita  come una operazione per la riduzione delle prestazioni garantite dal servizio pubblico, piuttosto che come una occasione per interrogarsi su quali prestazioni debbano essere garantite a tutti, su tutto il territorio nazionale. E’ necessario riportare al centro di questo dibattito la riflessione sui diritti e sulla tutela, sforzandosi di trovare soluzioni innovative per coniugare diritti e sostenibilità, ma rivendicando la centralità e la primazia del diritto alla salute e alle prestazioni socio-sanitarie.

3.  Sussidiarietà, devoluzione, partecipazione civica. Questi termini, come è noto, non sono equivalenti e fanno riferimento a scenari e contesti potenzialmente assai diversi tra loro. Le modifiche del titolo V della Costituzione, peraltro ancora largamente inattuate, vengono di fatto messe in discussione dai possibili scenari devolutivi che già si annunciano. Come è noto, per il sistema sanitario pubblico, le conseguenze non sarebbero certamente irrilevanti. Basti pensare alla completa autonomia, per ciascuna regione, nella individuazione del modello di sistema sanitario al quale ispirarsi, alla sparizione dei livelli essenziali di assistenza, alla eliminazione del fondo di perequazione tra le regioni dopo due anni dalla eventuale approvazione del progetto di riforma (le norme attuali prevedono la esistenza del fondo sino al 2013 per dare la possibilità alle regioni con maggiori problemi di gettare le basi per rendere sostenibili, sotto tutti i profili, le nuove forme di autonomia). Ma al di là delle implicazioni evidenti sul piano sociale, una delle questioni di maggior rilievo riguarda il ruolo dei cittadini e della partecipazione civica nel governo allargato delle politiche pubbliche. Dalla comprensione piena di questo tema da parte delle diverse istituzioni di governo e degli stessi cittadini, probabilmente, dipende lo stesso futuro delle politiche pubbliche del paese, e la possibilità di realizzare un vero federalismo dei diritti, unica garanzia effettiva di livelli di assistenza adeguati ed accessibili su tutto il territorio nazionale.

Al di là delle difficoltà evidenti che caratterizzano il sistema in questo momento, ci sembra che le riflessioni sviluppate, sia pure in maniera schematica e sintetica forniscano una serie di indicazioni molto concrete sull’orientamento della agenda per i prossimi mesi, al di là delle proposte via via già avanzate, sia pure schematicamente, nel corso della riflessione.

1.    Finanziamento della legge quadro sulla assistenza. Si tratta di una legge il cui valore risiede non solo nell’oggetto specifico, lo spettro estremamente ampio delle prestazioni socio-sanitarie, ma anche nel metodo ipotizzato per il raggiungimento dei diversi obiettivi. Una delle poche forme di attuazione possibile, già codificata all’interno delle norme, del nuovo articolo 118 della Costituzione.

2.    Finanziamento della rete delle malattie rare. Bisognerà concentrare l’attenzione sul funzionamento della rete dei centri di riferimento, per evitare che i contenuti delle norme in vigore rimangano lettera morte.

3.    Integrazione del Regolamento di individuazione delle malattie croniche ed invalidanti. E’ oramai possibile su iniziativa del Ministro della sanità, evitando nuovi passaggi parlamentari. E sono molte, ancora oggi, come dimostra anche questo Rapporto, le patologie prive di qualunque riconoscimento e copertura.

4.    Proposta di legge per il sostegno alla ricerca sui farmaci orfani. E’ la strada già seguita da altri paesi, per esempio il Giappone e gli Stati Uniti, e che ha condotto al brevetto numerose molecole nuove da utilizzare nella terapia delle malattie rare. Si possono immaginare sgravi fiscali per le aziende che investono in questo settore, l’allungamento della validità del periodo di esclusività del brevetto, ecc. In questo momento ci sono proposte depositate presso i due rami del Parlamento, bisogna solo avere voglia riavviarsi, una buona volta, su questa strada.

 

CONTRIBUTO MSF, Angela Oriti

Problema riscontrato

Medici Senza Frontiere (Msf) ha riscontrato su tutto il territorio nazionale molti casi di espulsione e diniego al rilascio del permesso di soggiorno nei confronti di cittadini stranieri affetti da gravi patologie (Hiv/Aids, insufficienze renali croniche e altre patologie renali che richiedono dialisi, malattie oncologiche che richiedano un trattamento chemioterapico e radioterapico, gravi patologie psichiatriche) e in trattamento terapeutico presso strutture sanitarie italiane.

Normativa di riferimento

In base all’articolo 35, III comma del T.U. 286/98, non modificato dalla legge 189/2002 (Bossi-Fini), agli stranieri presenti in Italia “non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati “le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti ed essenziali, ancorché continuative per malattia o infortunio..”

Per “cure continuative” possono senz’altro intendersi tutte quelle prestazioni sanitarie necessarie a non vanificare i trattamenti intrapresi con la prestazione iniziale e la cui interruzione potrebbe causare grave pregiudizio per la salute e per la vita del malato.

Nonostante ciò, la prassi dimostra che lo straniero “non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno” gode di una certa “immunità” da eventuali controlli solo all’interno del presidio ospedaliero (T.U. art. 35, V comma), mentre al di fuori della struttura sanitaria può essere controllato, tradotto in Questura, in quanto irregolarmente presente sul territorio, ed espulso.

Proposta di modifica

Per queste ragioni, Medici Senza Frontiere chiede che venga adeguatamente esplicitato il senso dell’art. 35, III comma e che siano a tal fine apportate alcune modifiche alla legge 189/2002 in sede di regolamento di attuazione.

Gli stranieri affetti da gravi patologie non diagnosticate, non diagnosticabili o non curabili adeguatamente ed effettivamente nel loro Paese di origine:

  1. devono essere considerati categoria inespellibile (come attualmente lo sono le donne in stato di gravidanza);
  2. devono poter ottenere un permesso di soggiorno che consenta loro di dimostrare immediatamente il loro particolare status qualora fermati e sottoposti a controllo, considerato peraltro che la legge attuale prevede l’accompagnamento immediato in frontiera per tutti i casi di espulsione;
  3. potranno avere altresì facoltà di lavorare in modo da contribuire alla spesa pubblica e quindi al pagamento delle cure cui sono sottoposti.

Le modifiche proposte che dipendono in modo consequenziale da una corretta interpretazione del termine “continuative” riferito alle cure di cui possono godere gli stranieri irregolarmente soggiornanti, non rischiano di ingenerare un fenomeno di reazione a catena in quanto incidono su situazioni particolari e limitate e sono volte unicamente a impedire il verificarsi di situazioni gravemente lesive di diritti costituzionalmente garantiti (vd.art.32 Cost.)

 

18. Right to education (arts. 13 and 14) See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.30: Children of immigrants, refugees and asylum-seekers equal access to free and compulsory education.

19.Right to education (arts. 13 and 14). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.31: Please explain why, despite the considerable budgetary allocations to education, there is a decrease in the number of school population, especially at pre-primary, primary and lower secondary schools.  Is the drop in the birth rate the sole reason for this decrease?  Please indicate whether school attendance by children of immigrants has reversed this trend.

I contributi sull’educazione vanno, oltre che sintetizzati, riorganizzati per l’inserimento nei paragrafi 18, 19, 20, 21. Possono essere creati altri paragrafi per affrontare issues specifiche e non comprese nella 30, 31, 32 e 33 della list of issues.

CONTRIBUTO DELLA WILPF-  ITALIA

30. Figli di immigrati, rifugiati, richiedenti asilo.

Si denuncia la trasgressione della Legge 40 Art.44 (Decreto presidenziale 384/99) di cui il documento governativo non fa accenno: nelle scuole comunali dell’infanzia di città come Roma e Milano i genitori - contrariamente a quanto previsto dal citato articolo nel rispetto al diritto allo studio di tutti – sono tenuti a presentare, nella documentazione di rito, il permesso di soggiorno.

 

Uno degli aspetti più qualificanti del rispetto del diritto allo studio è quello realtivo all’integrazione degli alunni portatori di handicap, che in Italia ha raggiunto a partire dagli Anni Settanta notevoli risultati. Nel prossimo anno scolastico 2004-2005 si prevede un drastico ridimensionamento di questo intervento a causa dei tagli negli organici previsti per meri motivi economici. In particolare:

·                            Non è più previsto il limite massimo di alunni nelle classi dove sia presente un alunno disabile. (Questo numero era limitato ad un massimo di 20).

·                            In una stessa classe possono essere presenti più alunni con handicap certificati.

·                            I posti di sostegno previsti dal Decreto sugli organici per il 2004-2005 saranno diminuiti di 800 unità. Si fa presente la necessità inversa di aumento di questi posti, in particolare nella scuola secondaria dove un alunno disabile può disporre di un insegnante di sostegno soltanto per quattro ore settimanali.

·                            Le certificazioni dei casi particolarmente gravi di handicap sono state rese particolarmente restrittive.

 

Contributo sottogruppo bambini e adolescenti:

Fonti:

  1. XIII Rapporto sull’Immigrazione 2003 - Caritas/Migrantes;
  2. Osservazioni conclusive del Comitato sui diritti dell’infanzia relativamente al rapporto presentato dall’Italia sull’applicazione della Convenzione- XXXII Sessione- (Punti 43 e 44).

School for children living in particularly difficult conditions

There are an increasingly high number of foreign students in schools today.  In the school year 2002/2003, 232.766 students of foreign nationality attended Italian schools, that means a percentage of 2,96% on the total number of students. They were just 30.000 in school year 1992/93, but also compare with the past year there was a significant growth of 50.000 students. Since ten years ago a lots of small and medium towns had never have a relevant number of foreign students in their school.

This development has created, and is still creating, a number of problems, partly due to the very recent nature of immigration, and partly due to uneven distribution of migration across the country. Furthermore, migrating children derive from very different experiences; some are «second generation children», born in Italy, but to foreign parents, others arrived only recently, either alone or with their families, and others have come to join their family here.

The percentage of foreign students is highest in the North of the country (66,6%), while is lower in the South (7%) and in the Islands (3,1%).

Analysing the data it is interesting to note that even if obviously the highest number of foreign students are in the city, such as Milan (24.498) or Rome (12.990) or Turin (10.710)., the highest percentage is in the medium town, so that in Prato is 7,85%, Mantova 7,65%, Reggio Emilia 7,15%, Modena 7,01. In  most of the regions there is a  high percentage in the municipal districts than in the  capital of the district.

Other characteristic is that in Italian schools there are now represented 189 nationalities. For example in Bergamo there are 110 nationalities, 109 in Padua, and 106 in Perugia.

The majority of the foreign students come from Albania (40.482 ), Marocco (33.774 ), Former Yugoslavia (21.762 ), Romania (15.509), China (13.447 ), Ecuador (7.273).[19]

Il 42,2% degli studenti stranieri frequenta la scuola elementare, il 24,3% la scuola media inferiore, il 20,77% la scuola dell’infanzia e solo il 13,2% la scuola superiore.

L’incidenza degli alunni stranieri sulla totalità degli scolari è del 3% nelle scuole elementari, del 2,7% nelle scuole medie, del 2,6% nelle scuole dell’infanzia e solo dell’1,1% nelle scuole superiori e questo è un dato preoccupante.

 

 

 

Fonte: XIII Rapporto sull’Immigrazione  2003 – Caritas/Migrantes

 

Considering the percentage of foreign students in the different school level in the year 2002/2003 we note that is highest in primary and comprehensive school: .

 

Nursery school

Primary school

Middle Secondary school

Secondary school

20,77%

42,2%

 

24,3%

 

13,2%

 

 

The result of a research[20] find out that to support the reception of foreign students it is generally preferred to meet their families, before putting the new enrolled in the class, and awareness policy.

 

ITALY. Italian schools: initiatives funded for the reception of foreign pupils (2001)

 

 

Number

Percentage %

Contact with families of new pupils

3,707

84,8

Informal meetings

2,311

52,9

Awareness raising

1,287

29,5

Supplementary language classes

635

14,5

Courses for teachers

600

13,7

Meetings with Italian families

521

11,9

Contacts with immigrant communities

433

9,9

No response

199

4,6

Italian language classes

88

2,0

Interpreters

55

1,3

Planned projects

40

0,9

SOURCE: Immigrazione, Dossier Statistico 2002, Roma, pag.188

 

The causes of the drop-out are still different for Italian students and foreign students, in fact:

 

ITALY. Causes of drop-out by Italian and foreign students (2001)

Causes

Italian pupils %

Foreign pupils %

School’s results not reached

57,6

47,9

Lack of student commitment

54,6

24,4

Lack of interest of the family

32,3

23,0

Frequency Inconstant

24,4

24,9

Inadequate Teaching methodology

9,7

24,0

Lack of integration

4,3

18,2

SOURCE: Immigrazione, Dossier Statistico 2002, Roma, pag.184

 

[21]“One of the greatest problems lies in their poor educational background, as a result of social disadvantage. According to some sources, the rate of educational backwardness among immigrant children is about 30% in the elementary school and 56% in the scuola media [middle school: age group 11-14][22].  Mother-tongue cultural intermediaries to help children learn Italian are not yet widely available and their existence depends on the resources available and commitment of the local authority.  The number of children and adolescents from the gypsy community in the compulsory school age is around 30,000, 19,000 of whom should be attending primary school, while 11,000 should be attending the scuola media . However, although Roma and Sinti children are Italian citizens in all respects, only about 5,100 of them go to primary school and about 1,700[23] go to middle schools. The data provided by the Ministry of Public Education confirm that the rate of school truancy or non-attendance is very high, 73.2% for elementary schools and 84.6% for middle schools.  The decision to introduce gypsy children into mainstream classes  (implemented during the school year 1965-66) has not resolved the problems, as has evidenced by their sporadic attendance rate and low school performance. Life in nomadic camps cannot be easily fitted around schooling. Children are reluctant to go to school partly because they fear they may lose their cultural identity and partly because they do not recognise the usefulness of school, as theirs is essentially an oral culture. In consequence, the Italian school system is not currently capable of providing an effective education for these children who are often defined as “too lively” and sometimes do not speak good Italian.  Supportive initiatives are still limited, in spite of the C.M. no. 207 of 1986 that introduced mandatory education for gypsy children. Furthermore, given the hostility of the school environment, their poor results and the fear of failing, these children develop an attitude of mistrust of both teachers and other children in schools.

Integration into schools for disabled children is still hindered by architectural and other physical barriers, particularly in the South, in spite of the provisions contained in law 118/71[24] to eliminate them and provide access to the public transport system. For instance, a study[25] of physical education teachers in 418 elementary and primary schools showed that only one school in four had actually removed the  barriers limiting access to the gym, and 50% of teachers stated they were completely unprepared for teaching disabled pupils because they had not received any specialised training.  Some practitioners and organisations have argued that there have been problems with the training of support teachers over the last few years; in addition, there have been recent cuts in expenditure for such staff, further exacerbating the difficulties. For example, the last nationwide open-competition for teachers failed to give any consideration to the key role played by support teachers in contributing to the achievements of the whole school.”

 

Contributo WILPF ITALIA

Piuttosto che verificarsi un fenomeno di diminuzione della popolazione scolastica si verifica in Italia una progressiva diminuzione dell’impegno di spesa per finanziare la scuola pubblica. I dati forniti dal MIUR (Ministero Istruzione Università Ricerca) relativi ad una diminuzione netta degli alunni si sono dimostrati inattendibili a seguito di un’analisi effettuata nelle Regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Veneto. In particolare nell’Emilia Romagna la Direzione Regionale ha dovuto rettificare il numero degli iscritti fornito dal Ministero. Gli ultimi dati fanno registrare un aumento di 10.000 studenti, con un aumento di 5.717 unità alla secondaria superiore, a fronte di un taglio di 326 posti nell’organico. Sembra evidente una tendenza governativa a simulare una diminuzione della popolazione studentesca per giustificare i tagli in organico. Nelle Regioni citate le domande di tempo pieno nella scuola primaria dimostrano un aumento di 48.000 alunni, a fronte di un taglio di 3.241 posti. 

Appare evidente che in queste condizioni non si può garantire la qualità della scuola pubblica, poiché non saranno soddisfatte le richieste di tempo pieno e tempo prolungato in aumento in tutte le Regioni del Centro-Nord; né sarà garantito il rispetto del Decreto Ministeriale N° 331/98 che prevede un numero massimo di alunni per classe e conseguentemente non saranno rispettate le norme sulla sicurezza (Decreto Ministeriale dei Lavori Pubblici del 18/12/75, la Legge N°23 /96, la Legge 626/94). Infine con la disposizione di tutte le cattedre a diciotto ore si renderanno più difficili le sostituzioni dei docenti assenti per un periodo inferiori a dieci giorni e si reca danno alla continuità didattica.

20. Right to education (arts. 13 and 14). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.32: How serious is the problem of dropouts in the State party, especially at the secondary level of education, and what effective measures have been taken to combat it?

Contributo sottogruppo bambini e adolescenti

There have been limited inquiries into unlawful child labour, using qualitative methodologies. These have found that material poverty is usually associated with and exceeded by cultural poverty. Working children tend to follow their parents’ or social environment’s behavioural models which prioritise work over school training. At the root of child labour there is a problem not so much of absolute poverty, but rather the rooted culture of work as a normal path for the child, even as an alternative to school.  Growing consumer pressure seems to be a further factor driving children to enter the labour market early in their lives. There does not appear to be a link between child labour and school non-attendance because working activities cover a time band of the day that does not necessarily overlap with school hours. However, many young workers do experience school as an irrelevant and unhelpful institution. And the more significant the role of work for a child, the more likely s/he is to experience difficulties with the school system. This is manifested in low school performance levels, failure, non-attendance and reprimands. Even when they do not drop out of  school, under age workers perceive school as a secondary activity compared to work. School is viewed simply as necessary obtaining the minimum compulsory school-leaving certificate (in Italy after 8 years of basic schooling).

However, young workers under 18 years of age experience other types of difficulties: they are likely to lack the skills to meet their future aspirations of a decent lifestyle or personal fulfillment. They also lack developmental opportunities such as companionship at school, spare time and family relationships, because work is often a time-consuming experience and leaves little time for other activities. Child workers are meeting immediate needs, without building a comprehensive life project.

Recent school reforms have introduced mandatory training until 18 years of age. If this regulation were enforced effectively, it would help children plan for their future professional and personal life. The reforms should be accompanied by the appointment of a tutor from the Employment Centre to support children who do not intend to continue their studies  and help them to obtain a professional qualification which will enhance their career opportunities in the labour market.”

 

The Committee on the Rights of the Child in its Concluding observation on Italy (CRC/C/15/Add.198, 31/01/2003) remained  concerned at the high rate of dropout in upper secondary education; the variations in educational outcomes for children according to their cultural and socio-economic background, and to other factors such as gender (more girls than boys do obtain a degree in secondary education), disability, and ethnic origin.”

1.    Therefore the Committee “recommends that the State party:

(a)                strengthen its efforts to curb the rate of dropout in upper secondary education;

take all necessary measures to eliminate the inequalities in educational achievement between girls and boys and between children from different social, economic or cultural groups and to guarantee to all children quality education;…”

CONTRIBUTO WILPF ITALIA

Nel campo del diritto allo studio i dati riportati dal documento governativo (Art.13 par. 252, 278) registrano una realtà alla quale il Governo tenta di portare rimedio con interventi che, imbellettati dall’introduzione di nuove tecnologie, ripropongono una logica pre-costituzionale. La dispersione scolastica, soprattutto della secondaria superiore non è di per sé una novità. Le vie indicate dagli ultimi governi per contrastare gli abbandoni nella secondaria superiore non differiscono molto fra loro: scuola fino a 18 anni per chi è destinato a raggiungere livelli alti nelle gerarchie sociali, per tutti gli altri un percorso più strutturato di formazione professionale. Il precedente Governo aveva innalzato l’obbligo in prospettiva di un biennio comune (Legge 9/99); poi tre anni di “obbligo scolastico” da una parte, “obbligo formativo” dall’altra, sulla base della Legge 144/99 che prevede percorsi di apprendistato etc. per un numero anche inferiore a tre anni. L’attuale Governo ha riabassato il percorso comune limitandolo alla scuola media e ha trasformato l’obbligo in un confuso diritto-dovere.

Il diritto di tutti allo studio non è dunque più un obiettivo; rendere un percorso scolastico fino a 18 anni appetibile e praticabile per tutti, per creare quelle condizioni previste dall’Art. 3 della Costituzione è stato un tentativo a mala pena avviato negli Anni Settanta, oggi definitivamente tramontato con la riproposizione del doppio canale nella Legge 53/2003 del Ministro Letizia Moratti. Questa violazione del diritto allo studio noi la denunciamo con forza, poiché mette nelle mani di coloro che 13 anni non sono in grado di scegliere un percorso formativo a causa di condizionamenti di diversa natura una decisione che peserà sulla loro formazione critica, penalizzandoli forse per sempre.

 

Nel documento governativo rileviamo una riduzione progressiva della spesa per l’istruzione dal (16% degli Anni Settanta al 4% di oggi) che lascia alle Regioni l’iniziativa di attivare reti di imprese che dovrebbero offrire ai giovani in alternativa ad un percorso formativo nella scuola delle allettanti prospettive di esperienze lavorative; quindi, da un diritto violato nasce un incentivo a scambiare con un sistema formativo una sorta di avviamento professionale attualizzato da nuove tecnologie.

21.         Right to education (arts. 13 and 14). See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.33: Please provide information on the extent of the phenomenon of functional illiteracy in the State party.

 

 

22. Cultural rights (art. 15)

See list of issue E/C.12/Q/ITA/2, 18 December 2003, n.34: The State party’s report states that the rights of linguistic and religious minority groups are respected in education.  Please explain how these minority rights are actually being implemented.

 

CONTRIBUTO WILPF ITALIA

In materia di difesa dei diritti delle minoranze il documento governativo elenca una serie di iniziative nel campo dell’intercultura ma non considera affatto il problema delle tutela del diritto alla libertà di coscienza delle minoranze. Per minoranze intendiamo non soltanto i gruppi portatori di diverse culture e religioni ma anche coloro che, cittadini del nostro paese, non si omologano alla religione praticata dalla maggioranza.

Il Nuovo Concordato (Legge 124/85) ha introdotto nella scuola pubblica (statale  degli Enti Locali) il principio della facoltatività della scelta dell’insegnamento della religione cattolica. Si è passati così, dal regime di obbligatorietà di questo insegnamento (Concordato mussoliniano 1929) a un regime di libera scelta in conformità della Costituzione del 1948 che non prevede alcuna religione di Stato.

Poteva essere questa – un’affermazione di libertà, un passo avanti nell’attuazione dei principi costituzionali. Non fu così e a tutt’oggi la situazione non è cambiata.

Queste le principali violazioni del diritto alla libertà di coscienza (Art.8, 19 della Costituzione):

1.                         L’insegnamento della religione cattolica (irc) in contrasto col principio di facoltatività è stato sottoposto a un meccanismo perverso per il quale chi non sceglie l’irc è tenuto tuttavia a dichiarare di non sceglierlo.

2.                         L’irc è stato introdotto per la prima volta per ben due ore settimanali nella scuola dell’infanzia con buona pace del rispetto per tutte le religioni e di tutte le posizioni culturali, quando poi la stessa Chiesa cattolica non ritiene di dover ammettere al catechismo bambini di età inferiore a 6 anni.

3.                          la collocazione dell’irc rimasta all’interno dell’orario scolastico obbligatorio ha dato origine a un’infinità di problemi a tutt’oggi insoluti. Nonostante tre sentenze della Corte Costituzionale che sanciscono il diritto al pieno rispetto della scelta dello studente che non si avvale dell’irc, in realtà si assiste a un assoluto non rispetto di tali diritti.

Le materie alternative (se richieste) non vengono attivate per mancanza di spazi e di denaro, gli studenti che non si avvalgono dell’irc non vengono fatti uscire dalla scuola, nonostante ne abbiano diritto, per non ingenerare confusione, né vengono predisposti spazi dove loro possano dignitosamente trascorrere quell’ora. Insomma nella maggior parte dei casi essi si aggirano tra il banco dei bidelli e i bagni come ai tempi dell’esonero. Spesso, specie nella scuola elementare media vengono mandati in altre classi dove giungono da intrusi e sono costretti a seguire altre lezioni , quando non vengono addirittura invitati a rimanere nella loro classe per ascoltare un insegnamento rifiutato, ma che a detta dei capi di istituto “certo male non fa”. Il giudizio che viene dato su di loro è quasi sempre negativo come se si trattasse di ragazzi negligenti, “diversi”  con tendenze riprovevoli. I genitori, non di rado extracomunitari, soprattutto nella scuola elementare e media si rivolgono alle nostre associazioni (in grado di produrre ricca documentazione di cui siamo in possesso) per lamentare questa sopraffazione e discriminazione nei confronti dei loro figli e figlie, colpevoli solo di non omologarsi alla religione della maggioranza.

Le proteste e le denunce contro questa forma di lesione di un diritto costituzionalmente garantito, quale la libertà di coscienza, continuano anche se in molti casi si finisce col subire adeguandosi.

Solo una collocazione dell’irc fuori dell’orario scolastico obbligatorio e impartito su effettiva richiesta può sanare questa grave situazione.

 

ARCI SOLIDARIETÀ LAZIO, CONTRIBUTO CARLO CHIARAMONTE: POPOLAZIONE ROM.

Nella seconda metà del novecento l’Italia è stata investita da due importanti ondate migratorie di popolazione rom proveniente dall'area balcanica, la prima a fine anni sessanta inizio settanta, la seconda tra gli anni 1992 e 1995 in conseguenza della guerra nella ex-Jugoslavia.

Interventi positivi, volti a garantire agli immigrati rom, la fruibilità dei diritti sociali, culturali ed economici sono stati attuati dagli enti locali, principalmente Comuni, e da alcune Regioni. Si assiste, invece, ad una totale mancanza di politiche specifiche da parte del Governo Nazionale, che non ha mai individuato un organo con funzione di coordinamento che sia riferimento per le varie amministrazioni pubbliche a livello centrale, regionale e locale, per le associazioni e gli enti del privato sociale che da anni cercano di garantire il pieno inserimento delle comunità rom nel tessuto socio-economico italiano, e per le comunità dei Rom e Sinti.

A ciò si aggiunge che nella stesura della legge per la tutela delle minoranze linguistiche (cfr. L. 482/99), in applicazione della Convenzione Quadro Europea per la Protezione delle Minoranze Linguistiche, i Rom e i Sinti, inseriti nella prima bozza del testo legislativo, sono stati esclusi da quello definitivo. Il Governo italiano si impegnò a produrre una Legge Stralcio per la salvaguardia della lingua romanì. A distanza di circa quattro anni nulla è stato fatto.

 

Come risulta dai dati inseriti nel rapporto governativo, alcuni Enti Locali, il Comune di Roma in particolare, hanno investito ingenti risorse per finanziare progetti di scolarizzazione rivolti a minori e adolescenti rom/sinti, finalizzati a rendere il diritto/dovere all’istruzione fruibile da un elevato numero di ragazzi. Una volta acquisita la licenza media, però, la possibilità di proseguire il percorso formativo diviene reale solo per i ragazzi in possesso di regolare permesso di soggiorno, o in pochi altri casi. I corsi di formazione professionale, infatti, sono frequentabili solo dai ragazzi in possesso di permesso di soggiorno e il conseguimento del diploma di maturità è consentito solo a coloro che al compimento del diciottesimo anno di vita siano in posizione regolare rispetto alle norme sull’immigrazione. Fanno eccezione i minori non accompagnati o quelli che sono affidati ai servizi sociali, per i quali è prevista la possibilità di raggiungere l’obiettivo dell’istruzione superiore. Occorre precisare che i ragazzi rom appartenenti alle famiglie immigrate agli inizi degli anni settanta che oggi desidererebbero poter frequentare corsi di formazione professionale sono in massima parte nati e cresciuti in Italiano e hanno sostanzialmente perso ogni rapporto con il paese di provenienza dei loro genitori ma non hanno la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana a causa del regime di “jus sanguinis” ancora vigente in materia nel nostro paese.

 

Le comunità rom sul territorio romano sono insediate all’interno di “campi”, alcuni dei quali attrezzati dal Comune, altri sorti spontaneamente in aree periferiche della città. La soluzione del campo sembrava inizialmente ben rispondere all’esigenza di vita comunitaria propria delle popolazioni rom, ma a distanza di 30 anni dai primi insediamenti una grossa parte dei rom giunti in Italia è diventata stanziale ed ha, quindi, modificato le proprie esigenze. Anche in questo caso, il governo centrale non è stato in grado di adottare misure adeguate ad assicurare standard abitativi dignitosi e ha delegato la soluzione delle urgenze abitative agli enti territoriali, soprattutto i comuni, che ospitano queste comunità sul proprio territorio, ma che nelle maggior parte dei casi non hanno gli strumenti per affrontare una simile problematica.

 

In sintesi, in Italia si assiste ad un’immigrazione di popolazione rom di lunga data, con un elevato numero di persone nate e cresciute sul territorio nazionale che non avendo la possibilità di regolarizzare la propria posizione si vedono negati diritti fondamentali quali l’istruzione, il lavoro e la casa.

 

 

I contributi sull’immigrazione vanno, oltre che sintetizzati, riorganizzati per l’inserimento nei paragrafi 8, 15 e 18. Possono essere creati altri paragrafi per affrontare issues specifiche e non comprese nella 9, 22 e 30 della list of issues.

CONTRIBUTO SERGIO BRIGUGLIO E ASGI

1)   Premessa

a) Nel suo complesso, la legge Bossi – Fini ( L. 30 luglio 2002, n.189) risulta caratterizzata dalla preoccupazione di affrontare il fenomeno dell'immigrazione soprattutto come una questione di ordine pubblico, ponendo in primo luogo l’esigenza di allontanare gli immigrati irregolari e di contrastare il traffico di clandestini. Tale intento emergeva chiaramente dalle prime righe della relazione allegata al disegno di legge 795 del 2001, secondo la quale, davanti al “pericolo di una vera invasione dell’Europa da parte di popoli che sono alla fame, in preda ad una inarrestabile disoccupazione o a condizioni di sottoccupazione” bisogna “affrontare il problema di fondo concernente l’immigrazione clandestina.

In realtà la nuova legge -oltre ad inasprire l’apparato sanzionatorio- riduce fortemente possibilità di ingresso legale per lavoro, accentuando la precarietà dei lavoratori migranti, costretti di fatto all’ingresso clandestino o a limitate possibilità di ingresso per lavoro stagionale.

Aspetto centrale della nuova disciplina, entrata in vigore nei primi giorni di settembre del 2002, è il nuovo "contratto di soggiorno", la cui concessione è legata all'esistenza di un contratto di di lavoro, con la conseguenza che lo status giuridico dell'immigrato dipende dalla persistenza del rapporto di lavoro. quindi, dalla volontà  del datore di lavoro.

La riforma del mercato del lavoro introdotta con la legge Biagi nel 2003,  a partire dalla legge 30 e dal d. lgs. 276/2003, con la forte differenziazione dei rapporti di lavoro che ne è seguita, dalle collaborazioni ai lavori a progetto, ha accresciuto le difficoltà che incontrano gli immigrati in Italia nella stipula di rapporti di lavoro che -in base al T.U. sull’immigrazione 286/98, come modificato dalla legge 189/2002- dovrebbero essere caratterizzati dalla rigidità, come nel caso del contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato, uniche possibilità di accesso al permesso di soggiorno per lavoro subordinato.

Legare la possibilità di soggiorno legale alla stipula ( ed alla permanenza) di un contratto di lavoro tanto rigido, che l’evoluzione del mercato tende a superare,  significa esporre gli immigrati ad ogni sorta di pressioni, che possono tradursi anche in comportamenti ricattatori a danno dei soggetti più deboli ( come le donne o gli immigrati più anziani).

La conseguenza più evidente che ne deriva, anche tra gli immigrati regolarmente residenti, è la diffusione ulteriore delle diverse tipologie di lavoro informale, fino al vero e proprio lavoro nero.

La legge .189/2002 sancisce una pericolosa precarizzazione di tutti gli immigrati, anche di quelli in regola da anni nel nostro paese.

Con quest’ultima legge si allontana la prospettiva della stabilizzazione dei permessi di lunga durata

( carta di soggiorno), dimezzando i tempi di durata del permesso di soggiorno dopo il primo rinnovo ( da quattro a due anni) ed allungando i tempi richiesti per conseguire la carta di soggiorno ( da cinque a sei anni) con requisiti di reddito sempre più difficili da provare.

b) Alla luce del contesto normativo e delle prassi amministrative attuali, non è facile rispondere a tutte le domande proposte dal questionario UNHCHR perché in Italia non ci sono  osservatori indipendenti, e dunque mancano dati attendibili sulla discriminazione razziale e sulla xenofobia, né programmi nazionali coerenti con le raccomandazioni della Dichiarazione di Vienna e del programma di azione, oltre che del più recente programma di azione di Durban del 2001.

Non si riscontrano neppure istituzioni pubbliche effettivamente operanti sul terreno del contrasto alla discriminazione razziale ed alla xenofobia, a parte il nuovo comitato istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ( VEDI ALLEGATO)

Anche a livello locale la situazione non è migliore ed un bilancio degli organismi preposti ad affrontare le problematiche dell’integrazione degli immigrati nel nostro paese appare decisamente sconfortante.

Molti Consigli territoriali sull’immigrazione non si riuniscono da tempo, la Commissione per le politiche di integrazione ( art. 46 T.U.286/98) sembrerebbe ormai estinta, i nuovi comitati interministeriali, come quello previsto dall’art. 2 bis del T.U. modificato dalla Bossi Fini si limitano a concertare le misure di espulsione e di contrasto dell’immigrazione clandestina, ma non si occupano di integrazione, nè rendono pubblici i loro lavori.

Manca in questa situazione una casistica rilevante della discriminazione razziale e della xenofobia, e le ricerche empiriche al riguardo segnalano soltanto i casi che vengono “censiti” dalla stampa, con notizie occasionali su singoli episodi.

Anche il dossier della Caritas e le pubblicazioni delle associazioni consultate nella stesura del rapporto, come ASGI, ICS, ARCI, Casa dei diritti sociali, CISS  danno un quadro molto limitato della discriminazione razziale e della xenofobia in Italia.

Appare comunque evidente  la condizione di particolare svantaggio dei richiedenti asilo, nel periodo spesso molto lungo ( fino a due anni) di attesa per la decisione sulla richiesta di asilo. Di recente a Roma, nel quartiere Tiburtino, a Caserta ed a Palermo è esploso il disagio di questa categoria di migranti costretta di fatto alla più totale precarietà a causa dei ritardi della Commissione centrale che ha accumulato un arretrato di oltre 17.000 istanze ( circa diciotto mesi), e della totale mancanza di assistenza pubblica.

 Come è noto, infatti, la legge italiana proibisce la stipula di un contratto di lavoro ed il ricongiungimento familiare per quei richiedenti asilo che sono ancora in attesa di conoscere la decisione della Commissione centrale, con la conseguenza che la maggior parte di loro, spesso isolata dal contesto familiare di provenienza, rimane totalmente priva di un contributo pubblico di assistenza, ed è costretta al lavoro nero ed a subire ogni tipo di ricatti per ottenere beni primari come il cibo o l’alloggio.

Esemplare a tale riguardo è la vicenda dei profughi sudanesi giunti a Lampedusa, a partire dal 2001, immediatamente destinatari ad Agrigento di provvedimenti di espulsione o di trasferimenti forzati in altre parti di Italia, come a Crotone in strutture di detenzione amministrativa, e poi abbandonati al loro destino nelle campagne di Caserta, nelle città siciliane, o costretti a spostarsi a Roma, nella speranza di un esame più rapido delle loro istanze di asilo. Soltanto adesso i media cominciano a parlare di genocidio nel Darfur, ma intanto la Commissione centrale,  ha respinto numerose istanze presentate da questi asilanti, senza attribuire alcun rilievo a  fatti documentati dalle grandi agenzie umanitarie internazionali ed ormai del tutto evidenti .

In alcune interviste da parte della Commissione, durate appena pochi minuti, ha assunto maggior rilievo la attività politica svolta dai richiedenti asilo giunti in Italia, e i loro collegamenti con le associazioni che li avevano accolti ed assistiti nel nostro paese. Altissima, in questi casi, la percentuale dei dinieghi, anche nei riguardi di richiedenti asilo ai quali erano state amputati gli arti inferiori.

c) In ordine al punto 9 degli issues si osserva quanto segue.

L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione ONU del 1990 sulla protezione dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. La condizione dei migranti lavoratori in una condizione di irregolarità ( categoria specificamente prevista da quella convenzione) rimane pertanto caratterizzata dalla massima precarietà. Gli sforzi fatti da diverse associazioni per una ratifica della Convenzione sono rimasti ancora senza effetti. Sembra prevalere il timore che qualsiasi riconoscimento di diritti a migranti irregolari possa tradursi in un ostacolo per le politiche di allontanamento forzato degli immigrati irregolari.

In realtà la presenza di lavoratori clandestini sul nostro territorio è tollerata, i controlli delle autorità competenti, come gli ispettorati del lavoro , sono molto scarsi, ed il caporalato è ormai stabilmente presente tanto nelle piazze dei comuni del ricco Nord, quanto alla periferia dei centri agricoli del meridione.

La normativa nazionale contro gli atti di discriminazione razziale ha avuto una applicazione molto limitata  e dopo la attuazione delle direttive comunitarie, prima con le leggi di delega e quindi con i decreti legislativi n. 215 e 216 del 2003,  le prospettive sembrano ancora peggiori, dal momento che non si è realizzata la inversione dell’onere della prova, che incombe ancora alla vittima degli atti discriminatori, e mancano agenzie indipendenti che possano denunciare i casi di discriminazione, evitando alle vittime il rischio di una successiva ritorsione. Non sono stati neppure costituiti gli osservatori regionali contro la discriminazione razziale, previsti dalla legge 40 del 1998.

Ma l’aspetto più grave che si rileva nella trasposizione delle direttive comunitarie contro la discriminazione e la xenofobia nel nostro paese è costituito dalla clausola “omnibus”presente nei decreti di attuazione.

Secondo la normativa interna di attuazione

“Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalita' e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all'ingresso, al soggiorno, all'accesso all'occupazione, all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, ne' qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti.

Nel rispetto dei principi di proporzionalita' e ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attivita' di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all'origine etnica di una persona, qualora, per la natura di un'attivita' lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attivita' medesima.

Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalita' legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.

Mentre la Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti e il Piano di azione della Conferenza di Durban sollecitavano i diversi paesi firmatari a modificare le legislazioni interne che risultassero in contrasto con il divieto di discriminazione razziale, la clausola appena richiamata inverte quasi del tutto la situazione e afferma la intangibilità della legislazione interna in materia di condizione giuridica degli immigrati, anche quando questa risulta direttamente o indirettamente discriminatoria.

In questo modo si chiude quasi completamente la possibilità di perseguire tanto il cd. razzismo istituzionale, spesso nella forma di atti o comportamenti, posti in essere da pubblici ufficiali, riconducibili al concetto di discriminazione indiretta, quanto le sempre più diffuse discriminazioni verificate nell’ambito dei rapporti di lavoro.

 

Le forme di razzismo istituzionale sono le più diverse, e in alcune occasioni sono state avallate dall’autorità giudiziaria che è intervenuta in sede di controllo di legittimità degli atti della pubblica amministrazione.

La legge non stabilisce esplicitamente (pur non vietandolo) che al detenuto straniero debba comunque essere rilasciato o rinnovato un permesso di soggiorno. Si e’ assestata, in questi ultimi anni, una prassi (Messaggio del Ministero dell’interno alla Questura di Vercelli del 4 Settembre 2001) secondo la quale l’istanza di rinnovo del permesso non puo’ essere accolta perche’ resa superflua dal provvedimento dell’Autorita’ giudiziaria in forza del quale lo straniero e’ detenuto. Recentemente, pero’, una sentenza della Corte di Cassazione Penale (Sez. I, n. 30130/2003) ha stabilito che l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale e alle altre misure alternative extra-murarie e’ precluso allo straniero privo di permesso di soggiorno, dal momento che comporterebbe la permanenza illegale di uno straniero nel territorio dello Stato. Il mantenimento della prassi citata rischia, alla luce di questa sentenza, di rendere impraticabili i percorsi di recupero sociale del detenuto straniero.

2. Le discriminazioni nel  mercato del lavoro

a) La discriminazione nell’accesso al lavoro

La normativa attuale impone, per l’ingresso legale in Italia per motivi di lavoro, la dimostrazione di una preventiva promessa di assunzione da parte di un datore di lavoro (art. 22 T.U.). L’impossibilita’ di dar luogo a forme legali di incontro diretto tra domanda e offerta di lavoro costringe, nei fatti, i lavoratori stranieri che aspirino a migrare in Italia ad avvalersi di un periodo di soggiorno illegale che consenta loro di porre le basi per la costituzione di un rapporto di lavoro, altrimenti irrealizzabile. Questa situazione alimenta da anni il bacino di immigrazione illegale, che viene periodicamente svuotato da provvedimenti di sanatoria. Si tratta di un fenomeno tutt’altro che marginale: nel periodo 1988-2002 i permessi di soggiorno per lavoro (non stagionale) rilasciati in seguito a un ingresso formalmente successivo alla promessa di assunzione sono stati circa 285.000 (in media, circa 19.000 per anno); quelli rilasciati in seguito a provvedimenti di sanatoria, circa 1.360.000 (in media, circa 90.000 per anno). La condizione di illegalita’ forzata e’ quindi un elemento strutturale dell’immigrazione per lavoro in Italia, con le conseguenze facilmente immaginabili in termini di compressione dei diritti dei migranti.

 La materia dei rapporti di lavoro degli immigrati  presenta  molteplici aspetti di discriminazione razziale . In molti casi si verificano discriminazioni insopportabili, ma queste derivano proprio dalle disposizioni legislative o regolamentari contro le quali non è possibile azionare la tutela introdotta dagli artt. 43 e 44 del T.U. 286 del 1998. Così ad esempio i titolari di un permesso di soggiorno per motivi di salute non potrebbero svolgere nel nostro paese alcuna attività lavorativa, trovandosi quindi nella impossibilità di sostenere, o contribuire al sostentamento del proprio nucleo familiare.

Con una importante decisione del Tribunale di Firenze del 24 dicembre 2001, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2002, p168 con nota di M.Pipponzi), e con altra decisione della Corte di Appello di Firenze del 21 dicembre 2001, si afferma il principio di non discriminazione, tra chi ha il permesso di soggiorno per motivi di salute e chi invece è titolare di un permesso per motivi di famiglia, che consente pacificamente la prestazione di una regolare attività lavorativa. In entrambi i casi dunque, solo grazie all’intervento della giurisprudenza viene evitata una pesante discriminazione istituzionale ai danni di immigrati in condizioni di particolare vulnerabilità, perché malati, ed al contempo responsabili del mantenimento dei propri figli. I giudici fiorentini richiamano anche la Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, resa esecutiva in Italia con la legge n.176 del 1991, dalla quale si ricava come i genitori possano adempiere ai propri doversi di assistenza nei confronti dei figli solo se sono messi nella effettiva possibilità di procurarsi i mezzi necessari prestando una attività lavorativa

 La vicenda  che aveva preso le mosse dal diniego frapposto dalla questura di rilasciare un permesso per motivi di famiglia, in luogo del permesso per motivi di salute poi rilasciato, mette in risalto la questione della difesa legale che costituisce l’unico strumento in Italia, quando possa essere effettivamente esperita, per il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali degli immigrati.

b)Impossibilita’ di accesso a mezzi leciti di sostentamento

In diversi casi e’ previsto dalla legge che lo straniero possa soggiornare legalmente in Italia per motivi legati alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti o al rispetto di obblighi internazionali. Rientrano in quest’ambito il soggiorno per richiesta di asilo (art. 1 L. 39/1990), il soggiorno per l’esercizio del diritto di difesa (art. 17 T.U.), quello che consegue alle situazioni di inespellibilita’ della donna incinta o che abbia partorito recentemente (art. 19, co. 2 T.U.) e il soggiorno del genitore autorizzato dal Tribunale per i minorenni a tutela dello sviluppo del minore soggiornante in Italia (art. 31, co. 3). Per questi casi e’ escluso, o non e’ stabilito esplicitamente, che lo straniero ammesso al soggiorno legale possa svolgere attivita’ lavorativa, senza pero’ che siano tassativamente previste misure atte a garantire che gli siano assicurati adeguati mezzi di sostentamento.

c) Parita’ solo nominale con i lavoratori nazionali

I requisiti previsti per il rinnovo del permesso di soggiorno del lavoratore subordinato straniero (e, in base all’art. 30, co. 3 T.U., dei suoi familiari) sono molto rigidi. In particolare, e’ necessaria, ai fini del rinnovo, l’esistenza di un contratto di lavoro (art. 5, co. 5 T.U.). Una certa elasticita’ e’ prevista in caso di perdita del posto di lavoro per licenziamento o dimissioni: in questo caso, ove il permesso di soggiorno vada a scadenza prima che siano trascorsi sei mesi dalla perdita del posto, il lavoratore ottiene un limitato rinnovo mirato a consentirgli un periodo di ricerca di nuova occupazione di durata complessiva non inferiore, appunto, a sei mesi (art. 22, co. 11 T.U.). Salva questa modesta forma di tutela, quindi, la perdita dell’occupazione puo’ facilmente tradursi per il lavoratore straniero (e, conseguentemente, per i suoi familiari) nella perdita della facolta’ di soggiornare in Italia.

La condizione e’ ulteriormente aggravata per i lavoratori che abbiano stipulato un contratto a termine (invece che a tempo indeterminato). La legge italiana non consente per questo tipo di contratti licenziamenti o dimissioni, se non in casi eccezionali (art. 2119 c.c.). Non si applicano quindi le disposizioni di cui all’art. 22, co. 11 T.U.. Inoltre, la necessita’ di presentare la domanda di rinnovo almeno sessanta giorni prima della scadenza del permesso preclude la possibilita’ che a sostegno della richiesta sia esibito un nuovo contratto a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro (vietato dall’art. 5 D. Lgs. 368/2001). Stante allora la difficolta’ di reperire, a rapporto di lavoro in corso, una possibilita’ di impiego con un diverso datore di lavoro, l’unica possibilita’ per il lavoratore e’ quella di ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Si vede allora come, a dispetto del principio di parita’ di diritti tra lavoratore straniero legalmente soggiornante e lavoratore italiano, sancito dalla Convenzione OIL n. 143/1975 e dall’art. 2, co. 3 T.U., la rigidita’ delle disposizioni sul rinnovo del permesso di soggiorno finisca con l’incatenare il lavoratore al proprio posto di lavoro. La libera scelta dell’occupazione, sancita per il cittadino dall’art. 4 Cost., e’ gravemente sacrificata per il lavoratore immigrato, che perde cosi’ anche gran parte della propria forza contrattuale nei confronti del datore di lavoro.

Le modifiche apportate recentemente al T.U. dalla L. 189/2002 (Legge Bossi-Fini) hanno poi appesantito la posizione del datore di lavoro che intenda stipulare un contratto di lavoro con un lavoratore straniero: e’ previsto che il datore debba garantire il reperimento di un alloggio, per il lavoratore, che soddisfi i requisiti previsti dalle leggi regionali sull’edilizia residenziale pubblica, e che debba coprire le eventuali spese di rimpatrio per lo stesso lavoratore. Se questi requisiti aggiuntivi non contrastano con il principio di parita’ in sede di ammissione del lavoratore in Italia (non si tratta ancora di un lavoratore legalmente soggiornante), essi configurano una disciminazione inaccettabile se applicati ai contratti di lavoro che lo straniero stipuli successivamente al suo ingresso. Costituiscono infatti un deterrente per il datore di lavoro, e, di conseguenza, un fattore di esclusione del lavoratore straniero che sia rimasto privo di occupazione dalla possibilita’ di rientro nel mercato del lavoro. Tale applicazione estensiva non e’, di per se’, stabilita dalla L. 189/2002, ma e’ prevista dall’art. 32 del Regolamento di attuazione della stessa legge (art. 36-bis DPR 394/1999), approvato dal Consiglio dei Ministri e attualmente all’esame del Consiglio di Stato in vista della definitiva emanazione.

Questa forma di discriminazione rende paradossalmente improponibile, nei fatti, l’accesso del lavoratore straniero alle forme flessibili di contratto di lavoro recentemente introdotte o potenziate dalla L. 30/2003 e dal D. Lgs. 276/2003 (soprattutto la somministrazione di lavoro e il lavoro intermittente), mirate ad alleggerire gli oneri per il datore di lavoro e a diminuire cosi’ lo squilibrio esistente, nel mercato del lavoro, tra la condizione degli insider e quella degli outsider.

d) Incertezza dei tempi per rilascio e rinnovo del permesso

Benche’ la legge stabilisca, per il rilascio o il rinnovo del permesso, un termine di venti giorni dalla richiesta, la corrispondente disposizione (art. 5, co. 9 T.U.) ha un carattere meramente ordinatorio, non essendo assistita da alcuna sanzione ne’ da un principio di silenzio-assenso. In pratica, l’immigrato resta per molti mesi privo di un documento indispensabile sia per la stipula di un contratto di lavoro sia per il godimento dei diritti associati alla titolarita’ del permesso (ad esempio, a seconda dei casi, la possibilita’ di chiedere il ricongiungimento con i familiari residenti all’estero o l’iscrizione in un corso di studio o di formazione). Gli effetti negativi di questa situazione sono stati in parte ridotti stabilendo esplicitamente che e’ lecito impiegare uno straniero titolare di un permesso di soggiorno che abiliti al lavoro, per il quale sia stato chiesto nei termini di legge il rinnovo (art. 22, co. 12 T.U.); restano pero’ irrisolti i problemi relativi al godimento delle altre facolta’ e quelli connessi al ritardo nel rilascio del primo permesso di soggiorno.

e)  Ostacoli allo svolgimento di una professione

A dispetto del principio di parita’ tra lavoratore straniero legalmente soggiornante e lavoratore italiano (Convenzione OIL n. 143/1975 e art. 2, co. 3 T.U.), lo svolgimento di una professione da parte del lavoratore straniero legalmente soggiornante e in possesso dei titoli abilitanti richiesti per quella professione e’ consentito dalla legge solo entro i limiti numerici fissati annualmente dal Governo in relazione agli ingressi di nuovi immigrati in Italia per motivi di lavoro autonomo (art. 37, co. 3 T.U.). Tali limiti – comprensivi di tutte le attivita’ autonome – sono stati, in questi anni, estremamente bassi (circa tremila per anno), e senza che fosse stabilito esplicitamente un criterio di precedenza per i lavoratori gia’ legalmente soggiornanti in Italia.

f) Discriminazioni nell’assistenza sociale

L’art. 41, co. 1 T.U. sancisce formalmente la parita’ di diritti, ai fini del godimento delle misure di assistenza sociale, tra cittadino italiano e straniero legalmente soggiornante con un permesso di durata non inferiore a un anno. L’art. 80, co. 19 L. 388/2000 (legge finanziaria per il 2001) ha pero’ limitato drasticamente la portata di questa disposizione, stabilendo, per la maggior parte delle provvidenze economiche previste dalla legislazione in materia di assistenza sociale, che la parita’ riguarda i soli titolari di carta di soggiorno. Questa limitazione ha creato, in particolare, un grave circolo vizioso ai danni del lavoratore straniero per il quale sopravvenga, mentre e’ ancora titolare di un semplice permesso di soggiorno per lavoro, una condizione di invalidita’ civile (ad esempio, in seguito a un incidente stradale). Tale condizione, precludendogli la prosecuzione dell’attivita’ lavorativa, gli rende impossibile il rinnovo del permesso di soggiorno (art. 5, co. 5 T.U.). La mancanza di un reddito per se’ e per i propri familiari, poi, anche nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia gia’ maturato i sei anni di soggiorno legale in Italia, gli impedisce di ottenere la carta di soggiorno (art. 9, co. 1 T. U.). La condizione di indigenza sarebbe superabile, se solo lo straniero potesse ottenere la pensione di invalidita’, per la quale e’ certamente in possesso dei requisiti soggettivi. Ma tale pensione e’ riservata, appunto, tra gli stranieri, ai titolari di carta di soggiorno. L’acquisizione della condizione di invalidita’ diventa cosi’ motivo di perdita della facolta’ di soggiornare in Italia.

3) La discriminazione e il diritto alla famiglia ( punto 22 issues)

a) Rigidita’ del requisito di alloggio idoneo ai fini del ricongiungimento familiare

Ai fini del ricongungimento familiare, il lavoratore straniero deve dimostrare, tra le altre cose, la disponibilita’ di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalle leggi regionali per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 29, co. 3 T.U.). Allo stesso tempo, pero’, l’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e’ previsto, a parita’ di condizioni col cittadino italiano, per i soli titolari di permesso di soggiorno di durata almeno biennale e con regolari attivita’ di lavoro subordinato o autonomo in corso (art. 40, co. 6 T.U.). Sono cosi’ esclusi i lavoratori stranieri che abbiano ottenuto il permesso di soggiorno in relazione alla stipula di un contratto a termine; per costoro, infatti, la durata del permesso di soggiorno non puo’ essere superiore a un anno (art. 5, co. 3-bis T.U.). Tuttavia, questi stessi lavoratori, purche’ dotati di un contratto di durata non inferiore a un anno, possono chiedere il ricongiungimento familiare (art. 28, co. 1 T.U.). Per loro, quindi, e a dispetto dell’art. 31 Cost., i parametri fissati dalle leggi regionali a tutela del benessere delle famiglie, giocano paradossalmente il ruolo opposto di ostacoli al godimento del diritto fondamentale all’unita’ familiare.

b ) Richiedenti asilo e ricongiungimento familiare.

I richiedenti asilo prima della decisione della Commissione centrale non hanno diritto al ricongiungimento familiare, che viene negato anche ai richiedenti lo status di protezione umanitaria o temporanea. Il ritardo nella approvazione dei regolamenti di attuazione della legge Bossi- Fini, nella parte che disciplina la nuova procedura di asilo sta comportando una situazione di paralisi nelle attività amministrative che riguardano i richiedenti asilo, e da parte di questi si notano recenti processi di autoorganizzazione ( soprattutto a Roma, in Campania e in Sicilia) al fine di esprimere la propria disperazione e ottenere almeno il modesto risultato di un esame della pratica a livello locale, da parte della Commissione centrale ( prassi consentita da un decreto governativo dello scorso anno e già sperimentata in Puglia ed in Calabria).

L’Italia deve dare ancora attuazione alle direttive comunitarie sul ricongiungimento familiare, che dedica una attenzione particolare solo ai rifugiati, ma non ai richiedenti asilo, e alle altre direttive sulle procedure e sullo status di rifugiato, in corso di pubblicazione in queste settimane

( sembrerebbero già approvate definitivamente a livello di Consiglio dell’Unione Europea).

L’assenza di dati normativi certi, sia a livello nazionale che a livello comunitario, consegna i richiedenti asilo al potere discrezionale delle Questure e del Ministero degli interni, e i familiari di questi soggetti, quando giungono in Italia irregolarmente ( come avviene quasi sempre) sono spesso costretti a lunghi periodi di clandestinità, anche per la difficoltà di documentare i rapporti familiari, in caso di un successivo e separato ingresso dei diversi membri della famiglia.

4) La discriminazione con riguardo ai minori ( punto 30 issues)

a) Profili generali

Se è vero che la legge 40 del 1998 accordava ai minori figli di immigrati l’accesso al sistema della istruzione pubblica a parità di condizione con i minori italiani, anche quando si riscontrassero situazioni di irregolarità nel soggiorno, nei fatti questo diritto è fortemente compresso dal contesto ambientale in cui i minori stranieri sono costretti a vivere, contesto che è anche di forte degrado, come nel caso dei bambini Rom, la cui partecipazione alle attività scolastiche appare in costante diminuzione; anche per la maggiore mobilità alla quale sono costretti queste categorie di immigrati, per effetto delle politiche degli enti locali sempre più orientate alla loro espulsione dal territorio comunale, ed anche per effetto del rischio sempre maggiore di espulsione con accompagnamento immediato in frontiera; rischio che ha avuto come conseguenza una costante mobilità di gruppo che prima vivevano periodi più lunghi in una stessa città, e quindi potevano essere inseriti più facilmente in percorsi di integrazione, proprio a partire dalla frequenza scolastica dei minori.

Anche i figli dei richiedenti asilo vivono una condizione di particolare disagio, e non solo con riferimento al loro inserimento nelle istituzioni scolastiche. La situazione di totale precarietà dei loro genitori comporta infatti anche per loro una forte mobilità, e non si riesce mai a seguire in uno stesso luogo, salvo forse che a Roma, il percorso di integrazione di un gruppo di richiedenti asilo e delle loro famiglie, perché durante la procedura cambiano città più volte.

b) Diritto di accesso ai corsi di studio

Il diritto ad accedere ai corsi di studio e’ positivamente garantito al minore straniero, a prescindere dalla regolarita’ del suo soggiorno, dall’art. 45 DPR 394/1999. La posizione del minore straniero iscritto ad un corso di studi e’ pero’, ove egli sia figlio di genitori illegalmente soggiornanti, assolutamente precaria: benche’ sia vietata l’espulsione dei minori, salvo che per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, e’ stabilito, ovviamente, il diritto del minore di seguire il genitore o l’affidatario espulsi (art. 19, co. 2). Una forma di tutela e’ offerta dalla disposizione di cui all’art. 31, co. 3 T.U., in base alla quale il Tribunale per i minorenni puo’ autorizzare, in deroga alle altre disposizioni di legge, il soggiorno dello straniero quando questo si renda necessario per tutelare lo sviluppo psico-fisico del minore soggiornante in Italia.

In questi anni, tuttavia, l’orientamento dei Tribunali e’ stato molto disomogeneo, con incerta rilevanza della condizione di iscrizione del minore stesso ad un corso di studi ai fini dell’accoglimento dell’istanza relativa al soggiorno del genitore. Paradossalmente, quindi, e a causa della accresciuta visibilita’, l’essere iscritto a scuola puo’ tradursi, per il minore, in un maggior rischio di allontanamento dal territorio dello Stato.

Si richiama a tale riguardo la iniziativa assunta nel 2003 dalla Prefettura di Catania che ha chiesto ai dirigenti scolastici la comunicazione di eventuali iniziative attuate mediante progetti, conferenze o convegni a favore  dei figli degli immigrati di “religione diversa dalla cattolica”. In conseguenza, il dirigente del provveditorato agli studi di Catania ha inviato una circolare applicativa richiedendo ai presidi delle singole scuole notizie sulle iniziative attuate a favore di alunni di “religione diversa dalla cattolica”. Si è così realizzato da parte della Prefettura, di un ufficio periferico del governo dunque,  un censimento di tutti gli studenti figli di immigrati di religione “diversa da quella cattolica”. Siccome in Italia il diritto-dovere allo studio è riconosciuto anche ai figli di immigrati irregolari, una semplice verifica attraverso i sistemi informatici permetterà di scoprire i figli di immigrati privi di permesso di soggiorno, con domicilio e generalità dei genitori, con il rischio di una loro espulsione e di un allontanamento degli stessi figli minori da quel percorso formativo che avevano intrapreso nel nostro paese. E questo solo perché si tratta di giovani di religioni diverse, non solo quindi di musulmani, ma anche di protestanti , o induisti.

Le conseguenze discriminatorie di una simile iniziativa sono evidenti in quanto il primo effetto immediato è consistito nel ritiro degli alunni figli di immigrati irregolari, costretti da questa iniziativa ad una nuova e più umiliante clandestinizzazione.

c) Diritti dei minori ed espulsione dei genitori

Similmente, e piu’ in generale, la mancanza di una previsione automatica di protezione del minore dall’allontamento dal territorio dello Stato in seguito all’espulsione del genitore o dell’affidatario fa si’ che perfino un minore nato e vissuto per un numero rilevante di anni in Italia possa veder troncati improvvisamente tutti i propri legami sociali. La cosa assume un carattere particolarmente grave quando si tratti di minori figli di genitori che abbiano scontato una pena detentiva di notevole durata in Italia: l’espulsione che nella maggior parte dei casi accompagna la remissione in liberta’ del genitore (art. 15, co. 1 e 1-bis e art. 16, co. 5 T.U.) aggiunge un trauma grave alla condizione, gia’ fortemente provata, del minore.

d)Discriminazione ai danni del minore straniero non accompagnato

Il minore straniero non accompagnato, al pari di qualunque altro minore straniero, non è espellibile se non per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato (art. 19, co. 2 T.U.). Quando ne sia segnalata la presenza sul territorio dello Stato, pero’, si da’ luogo ad una procedura finalizzata ad accertare se sia effettuabile il suo rimpatrio in condizioni di sicurezza (art. 33, co. 2-bis T.U.). Nelle more della decisione relativa al rimpatrio, al minore per il quale non sia disposto l’affidamento e’ rilasciato un permesso di soggiorno per minore eta’ (art. 28, co. 1 DPR 394/1999). Una Circolare del Ministero dell’interno (13 Novenbre 2000) ha disposto che tale permesso non sia utilizzabile per lo svolgimento di attivita’ lavorativa. Questa disposizione, discriminando il minore straniero nelle condizioni descritte rispetto al coetaneo nazionale (ma anche rispetto al coetaneo straniero titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari o per affidamento) appare in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dalla Convenzione ONU di New York del 1989 sui diritti del fanciullo (ratificata con L. 176/1991).

Dati i tempi estremamente lunghi delle procedure di accertamento, e’ frequente il caso di titolare di permesso di soggiorno per minore eta’ che raggiunga la maggiore eta’ mentre e’ ancora in attesa della decisione relativa al rimpatrio. La Circolare del Ministero dell’interno del 13 Novenbre 2000 esclude la possibilita’ di conversione del permesso per minore eta’ in un permesso per motivi di studio o di lavoro. Anche in questo caso si configura una discriminazione ai danni del titolare di permesso per minore eta’, dal momento che e’ previsto che il minore titolare di un permesso per motivi familiari o per affidamento possa fruire invece di tale conversione (art. 30, co. 5 e art. 32, co. 1 T.U.).

5) La discriminazione e l’assistenza ai richiedenti asilo

a) Diritti fondamentali dei richiedenti asilo e delle loro famiglie

Nel corso del 2002 le richieste di asilo In Italia sono state 9.608, mentre nel 2001 erano state 17.600 e nel 2000 più di 18.000. Se consideriamo che la commissione centrale respinge annualmente il 90 per cento delle richieste di asilo, si può giungere facilmente alla conclusione che l’Italia non rispetta il fondamentale diritto della persona umana all’asilo, e costringe decine di migliaia di richiedenti asilo alla clandestinità, determinando problemi anche agli altri paesi europei verso i quali rivolgono flussi sempre più consistenti di potenziali richiedenti asilo respinti, espulsi o resi clandestini dal nostro paese.

Chi viene rimpatriato senza avere neppure la possibilità di presentare una domanda di asilo, pur avendo manifestato la volontà di chiedere asilo in Italia, finisce per essere internato in carcere o ucciso, come si teme che sia successo già nel caso della famiglia siriana, o di un gruppo di kurdi rimpatriati nel 2001 direttamente in Turchia, e come avviene anche per molti cingalesi disertori o tamil, riconosciuti dal console cingalese e rimpatriati con un volo charter direttamente nel paese dal quale erano fuggiti. Nel 2002 l’Italia ha effettuato 5 voli charter verso lo Sri Lanka per rimpatriare persone molte delle quali, rinchiuse nei centri di detenzione pugliesi, avevano manifestato l’intenzione di chiedere asilo; senza riuscire a formalizzare la domanda, in assenza di interpreti o per il giudizio sommario da parte delle autorità di polizia circa la strumentalità della richiesta. Altri voli charter sono stati eseguiti nel 2003 e in questo primo scorcio del 2004.

In moltissimi casi i potenziali richiedenti asilo sono stati trattenuti per settimane nei centri di permanenza temporanea, o in centri di transito, comunque strutture chiuse ed inaccessibili per gli operatori delle organizzazioni non governative, senza potere presentare domanda di asilo, oppure anche dopo avere presentato domanda di asilo, prima della loro identificazione.

Con i provvedimenti adottati nel settembre del 2002, nel marzo e adesso nel mese di maggio del 2003, con una ordinanza del Presidente del Consiglio, si è consentito che la commissione centrale, competente a decidere sulle domande di asilo, operasse anche senza la collegialità prevista dalla legge, spostandosi nei centri di detenzione dove restavano rinchiusi molti richiedenti asilo.

Ma i rappresentanti della commissione non sono arrivati quasi mai in Sicilia. Più spesso i richiedenti asilo sono stati deportati dalla Sicilia verso la Calabria, a Crotone, o nei centri pugliesi.  Adesso sembra prossimo l’avvio dei nuovi centri di identificazione per richiedenti asilo, come il centro di Salina Grande, vicino Trapani; con il nuovo “escamotage” dei cd. centri a destinazione mista, già collaudato al Regina Pacis di Lecce, dove è più facile spacciare per accoglienza quella che rimane soltanto detenzione amministrativa, spesso anche al di là dei termini e delle procedure previste dalla legge. Al riguardo autorevoli fonti ministeriali  affermavano, fino a poche settimane fa, come nei nuovi centri di identificazione i richiedenti asilo avrebbero sofferto solo di una limitazione della libertà di circolazione, e non della libertà personale, restando consentito in altri termini l’uscita giornaliera dal centro con rientro serale; nell’ultima versione del decreto attuativo, sembra per le pressioni della Lega nord, i centri di identificazione sono caratterizzati dal divieto assoluto di allontanamento e di uscita: si tratterà dunque di veri e propri “centri chiusi”, che porranno delicate questioni di gestione delle strutture e di compatibilità delle prassi amministrative di trattenimento con le previsioni di legge e della Costituzione in materia di asilo e di limitazione della libertà personale (art.13).

Come si vede, continua a regnare l’incertezza, e non si conosce ad oggi quale sarà l’esatto status dei richiedenti asilo in Italia; anche se tra poco , a tale riguardo, dovrà darsi attuazione alla Direttiva comunitaria n. 9 del 2003, che imporrà anche all’Italia la predisposizione di nuove norme che rendano uniformi gli standard europei in materia di procedure per i richiedenti asilo, garantendo soprattutto l’effettività del diritto di ricorso riconosciuto al richiedente asilo dopo il diniego della sua istanza.

La stessa direttiva comunitaria n.9 del 2003 contiene a tale riguardo previsioni che risultano in totale contrasto con quanto previsto dalla legge Bossi Fini, e ancora di più con il nuovo regolamento di attuazione non ancora entrato in vigore, che consente l’accompagnamento immediato in frontiera anche in presenza di un ricorso non ancora esaminato dal giudice.

b) Accoglienza ed assistenza ai richiedenti asilo

Il progetto nazionale asilo (PNA) avrebbe dovuto dare una risposta ai gravissimi problemi derivanti dalla lunghezza delle procedura e dalla quasi totale assenza di interventi pubblici di assistenza rivolti ai richiedenti asilo. Non sembra però che le recenti scelte del Governo italiano e della Commissione mista  appositamente istituita , che  hanno determinato il finanziamento di una trentina di progetti sparsi per l’Italia corrispondano alle attese.

Innanzitutto lo stanziamento complessivo è irrisorio, considerato anche il numero di richiedenti asilo ancora in attesa di una definizione della loro pratica, il numero dei posti offerti su base annua ( circa 1500) non raggiunge neppure un decimo dei soggetti che vi avrebbero diritto, e si nota una forte penalizzazione di alcune regioni che pure come la Sicilia sono uno snodo importante nell’ingresso degli immigrati richiedenti asilo in Italia.

Dopo le decisioni della commissione nazionale competente a decidere sulle richieste avanzate da parte degli enti locali e delle associazioni, solo un progetto è stato finanziato in Sicilia, sembrerebbe nella provincia di Ragusa, che, tra l’altro, riceve un numero di richiedenti asilo nettamente inferiore rispetto alle provincie della Sicilia Occidentale, come Palermo, Trapani ed Agrigento.

Queste scelte amministrative della Commissione che ha deciso sulle richieste di finanziamento del PNA ed il ridotto impegno politico finanziario sul terreno dell’accoglienza dei richiedenti asilo e protezione umanitaria  sono direttamente responsabili del fallimento di molti sforzi da parte delle associazioni umanitarie, e di un grave degrado della condizione di vita dei richiedenti asilo, o protezione umanitaria, e delle loro famiglie, spesso costrette a mendicare sulla strada, ad accettare lavori ad alto rischio, e ad abitare in strutture fatiscenti, con grave rischio anche per la salute, e la vita, dei soggetti più deboli, anziani, donne e bambini.

LA PARTE CHE SEGUE EVENTUALMENTE E’ DA TAGLIARE, MA - SE VALE IL RIFERIMENTO CRONOLOGICO- RICORDO CHE LA DELEGA CONFERITA AL GOVERNO E’ ANTERIORE DI DIVERSI MESI RISPETTO AI DECRETI DELEGATI N.215 e 216 , ANTICIPANDONE QUASI PER INTERO I CONTENUTI, E QUINDI RIENTRA NEL PERIODO DI OSSERVAZIONE AL QUALE SI RIFERISCE IL RAPPORTO (2002). 

6)La attuazione delle direttive comunitarie 43/2000/CE e 78/2000/CE

a) Il decreto legislativo n.215 del 2003 che recepisce la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che attua il principio di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica tradisce in numerosi punti le finalità e la lettera della corrispondente direttiva comunitaria.

L’art.1 definisce l’oggetto del decreto legislativo, relativo all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, disponendo le misure necessarie per impedire che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione “ anche in un ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso”.

La previsione tiene conto del 14 “considerando” della Direttiva 2000/43/CE, secondo cui “  nell'attuazione del principio della parità di trattamento a prescindere dalla razza e dall'origine etnica la Comunità dovrebbe mirare, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, del trattato CE, ad eliminare le inuguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne, soprattutto in quanto le donne sono spesso vittime di numerose discriminazioni”. Risulta invece innovativo, rispetto al testo della corrispondente direttiva, il richiamo alla considerazione delle “forme di razzismo a carattere culturale e religioso”.

L’art. 2 fornisce le nozioni di discriminazione, e definisce innanzitutto i concetti di discriminazione diretta ed indiretta.

Si ha “discriminazione diretta quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in situazione analoga”; ricorre una discriminazione indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono persone di una razza o di una determinata origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Le previsioni appaiono corrispondenti a quanto disposto al riguardo dalla direttiva comunitaria.

Si fa salvo il disposto dell’art. 43 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 286 del 1998, comunemente inteso come Testo unico sull’immigrazione.

Si precisa inoltre che sono considerate come discriminazioni anche le molestie “ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo”.

La norma conclude infine che “ l’ordine di discriminare persone  a causa della razza o dell’origine etnica è considerata come una discriminazione” ai sensi del primo comma dell’articolo in esame.

L’art.3 delimita il campo di applicazione del decreto di attuazione e ha un contenuto corrispondente a quanto previsto dalla direttiva.

Il principio di parità di trattamento si applica a tutte le persone nei settori pubblici e privati, per quanto concerne l’accesso all’occupazione, al lavoro, all’orientamento ed alla formazione professionale, l’occupazione e le condizioni di lavoro, le attività nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro, la protezione sociale, l’assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l’istruzione e l’accesso a beni e servizi.

Si prevedono inoltre alcuni casi di differenze di trattamento che non costituiscono discriminazioni ai sensi dell’art.2 : “Nel rispetto del principio di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o nell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’art.2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona , qualora si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa”.

Ma chi stabilisce la portata effettiva questa importante fattispecie derogatoria? Probabilmente, tutto rimarrà affidato al potere di organizzazione e di distribuzione del lavoro nell’impresa, proprio del datore di lavoro, e la tutela delle vittime di discriminazione razziale o etnica nei luoghi di lavoro non si potrà compiutamente realizzare. Ma sotto questo profilo occorre tenere conto della coeva introduzione in Italia della normativa derivata dalla direttiva 78/2000/CE, relativa alla discriminazione nei luoghi di lavoro.

Nel decreto legislativo di recepimento sono fatte salve tutte le norme vigenti in materia di ingresso, espulsioni e accesso al lavoro ( art.3 comma 2).

 In questo modo, considerando la larga discrezionalità amministrativa esercitata in questo ambito, si apre la strada per la immunità degli agenti statali che pongono in essere comportamenti discriminatori ai danni degli immigrati per quanto riguarda la libertà personale e di circolazione.

Sarà infatti sufficiente invocare una norma di legge, per mettersi al riparo dalla prova, che rimane sempre in capo alla vittima, di un comportamento discriminatorio.

Si trascura peraltro di dare applicazione all’art. 14 della direttiva che imponeva agli stati

membri di  adottare le misure necessarie per assicurare che “ tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed  amministrative contrarie al principio della parità di trattamento siano abrogate”.

L’art. 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti.

Si ribadisce la possibilità di utilizzare la specifica azione civile contro la discriminazione razziale già dettata dall’art. 44 del T.U. n. 286 del 1998. Rimane fermo l’onere della prova in capo alla vittima dell’atto o della prassi discriminatoria.

Il ricorrente, ”al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno può dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui all’art. 2729, primo comma, del codice civile.

In questo modo si contraddice la normativa comunitaria che ne imponeva la modifica, stabilendo la inversione dell’onere della prova che sarebbe dovuto toccare al convenuto e non alla vittima della discriminazione parte attrice.

Viene completamente disatteso l’art. 8 della Direttiva 2000/43/CE che assegnava alla parte accusata del comportamento discriminatorio, e non alla vittima, l’onere della prova.

Non vi è traccia della trasposizione nel nostro ordinamento del fondamentale art. 9 della direttiva, che stabiliva la protezione delle vittime degli atti di discriminazione, imponendo agli stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici “ le disposizioni necessarie per proteggere le persone da trattamenti o conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un azione volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento”

Rispetto alla normativa già in vigore ( Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998), l’art. 4, comma terzo, non richiama il fondamentale principio dell’inversione dell’onere della prova ma anzi aggrava l’onere probatorio che aveva inficiato la effettività della norma già in vigore ( art.44): si precisa anzi che, come previsto dall’art. 2729 del codice civile, “ il ricorrente al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno può dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti”.

L’onere della prova rimane per intero a carico della vittima della discriminazione.

Esattamente l’opposto di quanto intendeva la direttiva comunitaria.

Rimane a questo punto di scarso impatto la possibilità che il giudice ordini il risarcimento del danno anche non patrimoniale, oppure impartisca disposizioni per fare cessare il comportamento discriminatorio ( tutela inibitoria), oppure, ancora, ordini l’adozione di un piano di rimozione degli effetti del comportamento discriminatorio, di cui tenere conto in sede di liquidazione dei danni.

Il giudice tiene conto  ai fini della liquidazione del danno “ che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento”.

Può essere prevista la pubblicazione della sentenza di condanna.

Le norme sulla legittimazione ad agire , art. 5, e sul registro delle associazioni , art. 6 appaiono ispirate a preoccupazioni di controllo, piuttosto che alle finalità di garantire una più ampia tutela da parte delle associazioni contro gli atti di discriminazione razziale.

Possono agire in giudizio per denunciare casi di discriminazioni razziale soltanto le associazione iscritte “in un apposito elenco approvato con decreto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati in base delle finalità programmatiche e della continuità d’azione”.

In base all’art. 5, in particolare, l’intervento delle associazioni è previsto anche in caso di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione. Nel caso di discriminazione individuale le asssociazioni possono agire in base ad una delega rilasciata dalla vittima della discriminazione, per iscritto, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata; nel caso di discriminazione collettiva, le associazioni possono agire anche in assenza di una delega perché non sono individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione.

Il successivo art. 6 precisa i requisiti che devono possedere le associazioni che intendono iscriversi nel Registro delle associazioni che intendono svolgere attività nel campo della lotta alle discriminazioni, aggiungendo che la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità, “ provvede annualmente all’aggiornamento del registro”.

Altra previsione in contrasto frontale con la direttiva, risulta essere l’art. 7 del decreto delegato secondo il quale “è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri dipartimento per le pari opportunità” un “Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazione fondate sulla razza e sull’origine etnica”, ufficio che dovrebbe fornire assistenza nei procedimento giurisdizionali o amministrativi le vittime dei comportamenti discriminatori.

L’ufficio ha “la facoltà di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano in possesso, di fornire le informazioni e di esibire i documenti utili” ai fini dell’espletamento dei propri compiti.

La direttiva 2000/43/CE prevedeva un agenzia indipendente dal governo, mentre in Italia la normativa di attuazione stabilisce che questo ufficio che dovrebbe promuovere la parità di trattamento è “ diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri

o da un ministro da lui delegato”, e si articola secondo modalità organizzative “ fissate con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri”.

Tale ufficio si potrà avvalere anche di personale di amministrazioni pubbliche “nonché di esperti e consulenti esterni” tutti rigorosamente scelti in base al metodo della cooptazione.

Insomma un vero e proprio ufficio studi al servizio del governo.

Insomma tutto il contrario di quanto previsto dalla direttiva comunitaria che prevedeva un

organismo indipendente per la promozione della parità di trattamento ( art. 13).

VEDI ALLEGATO

Nel decreto delegato non vi è traccia del dialogo con le organizzazioni non governative previsto dall’art. 12 della Direttiva 2000/43/CE, secondo il quale gli stati membri” incoraggiano il dialogo con le competenti organizzazioni non governative che... hanno un interesse legittimo a contribuire alla lotta contro la discriminazione fondata sulla razza e sull’origine etnica”

Manca infine  un adeguato quadro sanzionatorio, che era invece imposto dall’art. 15

della direttiva,

ed al riguardo, in particolare, non si fa alcuna menzione delle conseguenze che incombono al

soggetto autore del comportamento discriminatorio che non obbedisce all’ingiunzione del giudice di astenersi da tale comportamento. Non si vede in sostanza come le sanzioni proposte dal decreto possano risultare “ effettive, proporzionate e dissuasive.

b)Il testo di decreto delegato n.216 approvato dal Consiglio dei ministri del 3 luglio 2003, è stato  pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 187 del 13 agosto 2003.

La violazione più evidente rispetto alla direttiva comunitaria riguarda le norme in materia di onere della prova. In base al considerando n.31 della Direttiva comunitaria, queste avrebbero dovuto “essere adattate quando vi sia una  presunzione di discriminazione e, nel caso in cui tale situazione si verifichi, l'effettiva applicazione del principio della parità di trattamento richiede che l'onere della prova sia posto a carico del convenuto. Non incombe tuttavia al convenuto provare la religione di appartenenza, le convinzioni personali, la presenza di un handicap, l'età o l'orientamento sessuale dell'attore”.

Altrettanto disatteso infine, come si vedrà meglio dall’esame del testo articolato del decreto legislativo approvato dal  governo il 3 luglio 2003, il confronto con le parti sociali. Secondo il considerando 33 della direttiva 2000/78/CE, “gli Stati membri dovrebbero promuovere il dialogo fra le parti sociali e, nel quadro delle prassi nazionali, con le organizzazioni non governative ai fini della lotta contro varie forme di discriminazione sul lavoro”.

L’art. 1 del decreto ne definisce l’oggetto, individuato in “ disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dagli orientamenti sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinchè tali fattori non siano causa di discriminazione, in un ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su uomini e donne. In questo caso la previsione è più ampia del corrispondente articolo 1 della direttiva, per il richiamo al diverso impatto che i vari fattori di discriminazione possono avere tra uomini e donne, frutto di un intenso impegno parlamentare di alcuni gruppi di opposizione.

L’art. 2 del decreto  ripete la medesima formulazione dell’art. 2 della direttiva comunitaria 78/2000, e quindi per "principio della parità di trattamento" si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale, fornendo quindi una definizione di discriminazione diretta ed indiretta conforme al modello comunitario. E’ molto importante però la previsione di un ampio regime derogatorio, che è richiamato dall’inciso “ salvo quanto disposto dall’art.3, commi da 3 a 6”..

Tale regime rischia di svuotare nella maggior parte dei casi la portata sostanziale della nuova normativa, e  ne analizzeremo le ragioni quando tratteremo specificamente l’art.3.

Intanto si può affermare che sussiste sussiste discriminazione diretta quando, per religione,

per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è

trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una

situazione analoga.

Sussiste invece una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio,

una prassi , un atto, un patto, o un comportamento apparentemente neutri possono mettere

le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone

portatrici di un  handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale,

in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Sono altresì considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti

indesiderati posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1 aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

Per quanto riguarda la nozione di discriminazione si può dunque rilevare una sostanziale corrispondenza tra la direttiva comunitaria 78/2000 e la corrispondente normativa italiana che ne costituisce attuazione.

Anche l’ambito di applicazione dei decreti delegati corrisponde al “campo di applicazione” della direttiva 2000/78/CE.

In particolare il decreto delegato stabilisce che il principio di parità di trattamento è suscettibile di tutela giurisdizionale “secondo le forme di tutela del successivo art. 4 del decreto” , e qui risiede già una potenziale delimitazione dell’efficacia della direttiva rispetto alla formulazione più ampia della direttiva secondo cui questa si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

a)    alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione;

b)all'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;

d)         all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonché alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.

La delimitazione del campo di applicazione della direttiva appare poi in tutta la sua evidenza quando si considera la previsione del secondo comma dell’art. 3, in base al quale la disciplina contenuta nel decreto “ fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di:

a)   condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato;

b)   sicurezza e protezione sociale

c)    stato civile e prestazioni che ne derivano

d)   forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap

La direttiva 2000/78/CE prevedeva soltanto che questa non riguardava “le differenze di

trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni e le condizioni relative

all'ammissione e al soggiorno di cittadini di paesi terzi e di apolidi nel territorio degli Stati membri,

né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini dei paesi terzi o degli

apolidi interessati”.

L’art.4 della direttiva comunitaria risulta riprodotto sempre nel corpo dell’art. 3 del decreto delegato al comma terzo, laddove si prevede che “nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o nell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione “quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, quualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che  costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima.”

Il regime derogatorio introdotto dal legislatore italiano appare comunque più ampio e maggiormente rimesso nei fatti alla discrezionalità amministrativa, rispetto a quanto invece prevedeva la direttiva comunitaria nelle previsioni corrispondenti.

Sarà utile al riguardo confrontare le prescrizioni analitiche contenute nella direttiva con le formule più sfumate e volutamente generiche che caratterizzano le corrispondenti previsioni dei decreti di attuazione.

Secondo la Direttiva 2000/78/CE , a mente dell’art. 4 “gli Stati membri possono mantenere nella legislazione nazionale in vigore alla data d'adozione della presente direttiva o prevedere in una futura legislazione che riprenda prassi nazionali vigenti alla data d'adozione della presente direttiva, disposizioni in virtù delle quali, nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisca discriminazione laddove, per la natura di tali attività, o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell'attività lavorativa, tenuto conto dell'etica dell'organizzazione. Tale differenza di trattamento si applica tenuto conto delle disposizioni e dei principi costituzionali degli Stati membri, nonché dei principi generali del diritto comunitario, e non può giustificare una discriminazione basata su altri motivi”.

Secondo l’art.3 comma 6 del decreto delegato invece  non costituiscono, comunque, atti di discriminazione “ quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giuStificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”. La genericità della previsione derogatoria rischia di svuotare di ogni contenuto operativo la stessa categoria di discriminazione indiretta, pure formalmente accolta dalla normativa italiana di attuazione.

Come detto in precedenza, l’aspetto più lacunoso del decreto delegato che attua in Italia la direttiva  2000/78/CE è costituito dalla previsione dei mezzi di ricorso e delle procedure giurisdizionali.

Gli artt. 9 e 10 della Direttiva ne costituivano infatti gli aspetti essenziali perché miravano alla

effettiva applicazione della nuova normativa, altrimenti destinata a rimanere del tutto inattuata, come era successo in passato ad altri interventi legislativi dei competenti organi nazionali che, come si è visto nel caso degli artt. 43 e 44 del T.U. n.286 del 1998, erano rimasti privi di una applicazione  diffusa.

In base all’art 9 della Direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto provvedere “affinché tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, possano accedere, anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le procedure di conciliazione finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti dalla presente direttiva”. Secondo il secondo comma dello stesso art. 9 “gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all'esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva”.

Secondo il successivo art. 10 della Direttiva, gli stati membri avrebbero dovuto prendere “le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un'altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento.

La direttiva invero lasciava una “via di fuga” che è stata prontamente sfruttata dal legislatore italiano, circa la delimitazione sostanziale del principio che stabiliva l’inversione dell’onere della prova in danno del convenuto, l’agente accusato di avere compiuto l’atto discriminatorio.

Nella direttiva si affermava infatti che “gli Stati membri non sono tenuti ad applicare il paragrafo 1 ( che stabilisce l’inversione del principio dell’onere della prova in capo all’attore) ai procedimenti in cui spetta al giudice o all'organo competente indagare sui fatti.

E così che il legislatore italiano, con il decreto delegato approvato dal Consiglio dei Ministri il 3 luglio 2003 ha previsto che  l’onere della prova incombe all’attore, affermando a tale proposito che “ il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell’art. 2729, primo comma, del codice civile”. Come a dire che l’onere della prova incombe tutto in capo all’attore. In assenza di una prova convincente fornita dall’attore, vittima della discriminazione, non incombe più in capo al convenuto l’onere di provare “ che non vi è stata violazione del principio di parità di trattamento”, come invece esplicitamente affermato dalla direttiva 2000/78/CE.

Il decreto delegato aggiunge poi, in corrispondenza al testo della Direttiva comunitaria, che “ con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti”. Manca però la previsione di adeguate misure anche a carattere patrimoniale a finalità compulsive, sul tipo delle penali, per le ipotesi in cui malgrado l’ordine inibitorio del giudice, gli atti di discriminazione continuino a verificarsi.

Significativamente omessa, nel decreto delegato che attua in Italia la direttiva 78/2000/CE, il richiamo specifico alla tutela delle vittime. In base all’art. 11 della Direttiva intitolato “ Protezione delle vittime”, gli Stati membri avrebbero dovuto introdurre “ nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere i dipendenti dal licenziamento, o da altro trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro, quale reazione a un reclamo interno all'impresa o a un'azione legale volta a ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento”.

Nulla di questa previsione è stato trasposto nel decreto di attuazione, forse nel convincimento che l’ordinamento giuridico italiano già contenesse adeguati strumenti di tutela dei lavoratori ed a tale riguardo è utile richiamare la strenua opposizione delle forze di governo, e purtroppo anche di parte dell’opposizione, rispetto alla proposta di modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, nella parte in cui consente ancora , nelle imprese con meno di quindici dipendenti, il licenziamento individuale in assenza di giusta causa.

Completamente assente, nel decreto delegato approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 3 luglio, ogni previsione sulla diffusione delle informazioni pure imposta dall’art. 12 della Direttiva 2000/78/CE, secondo cui gli Stati membri avrebbero dovuto assicurare “che le disposizioni adottate in virtù della presente direttiva, insieme alle pertinenti disposizioni già in vigore, siano portate all'attenzione delle persone interessate con qualsiasi mezzo appropriato, per esempio sui luoghi di lavoro, in tutto il loro territorio”.

Per quanto riguarda la legittimazione ad agire l’art. 5 del decreto delegato prevede che “ le rappresentanze locali delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’art. 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.

 

CONTRIBUTO ANTIGONE, Donatelli Panzieri: IMMIGRAZIONE E CARCERE

Un terzo della popolazione detenuta è di nazionalità straniera , secondo dati della fine del 2003 : 17.467 pari al 32,2% .

Per gli stranieri si registra un ricorso alla custodia cautelare proporzionalmente più ampio che per gli italiani .  Dei  detenuti  stranieri quasi il 60% ( 59,7%)  sono in attesa di giudizio , mentre per gli italiani  la percentuale è quasi del  40% (39,5%) .

Limitato è il ricorso al difensore di fiducia, di difficile accesso per motivi economici.

Le difficoltà linguistiche e di comunicazione, il ricorso a difensori d’uffici indeboliscono di fatto le garanzie di difesa in sede istruttoria e processuale.

Non disponendo di un supporto legale valido, alcune possibilità rimangono ignote.

A parità di imputazione e di condanna la permanenza in carcere dei detenuti stranieri è mediamente più lunga di quella degli italiani, sia in fase di custodia cautelare che dopo sentenza .

Questa differenza  si attribuisce  alla  difficoltà di accedere a misure alternative alla detenzione o agli arresti domiciliari  per mancanza di un domicilio certificato.

Ma  diverso  è  anche l’atteggiamento della magistratura di sorveglianza , che risulta più chiuso  rispetto alla concessione di percorsi penali alternativi al carcere per detenuti  stranieri, anche in presenza di soluzioni di alloggi temporanei offerti dalla società civile.

Il recente “ Regolamento di esecuzione” del 2000  affronta  esplicitamente il problema dell’esecuzione penale e del trattamento in carcere dei detenuti stranieri , imponendo alle istituzioni carcerarie di tenere conto delle difficoltà linguistiche e delle differenze culturali.

Si prevede la promozione di contatti con le autorità consolari dei paesi d’origine e si sollecita l’intervento di figure di mediazione culturale ( art.35 del regolamento), che consentano una tutela giuridica  e la comunicazione all’esterno della propria condizione : non semplici mediatori linguistici, ma punti di riferimento complessi.

Ma se sono ancora molto scarse le  presenze dei mediatori,  molto frequenti sono tuttora situazioni in cui i detenuti rimangono isolati,  senza possibilità di usufruire di colloqui con i familiari  , di fare telefonate nel paese d’origine a causa di  difficoltà burocratiche , quali il  reperimento dell’interprete o le difficoltà di accertare effettivi vincoli di parentela con i titolari delle utenze telefoniche indicate.

In molti istituti  si verifica che le ASL ( in assenza di regole certe di  applicazione della normativa sulla sanità in carcere) non distribuiscano  terapia metadonica a stranieri tossicodipendenti detenuti, se non erano già in carico al SERT( Servizi Territoriali Tossicdp.).

Da ricordare che la maggioranza  degli episodi di autolesionismo , che si verificano in carcere , riguardano detenuti stranieri .  Ciò a testimonianza del disagio insostenibile nel quale molti di essi versano.

Si auspica l’accelerazione dell’attuazione del Regolamento di esecuzione in particolare per gli articoli  relativi a “detenuti e internati stranieri”.

 

CONTRIBUTO MSF, Angela Oriti DIRITTO DI ASILO

La situazione dell’accoglienza in Italia

In Italia chi presenta domanda di asilo attende più di un anno per vedere esaminata la propria domanda e, durante questo periodo, non gli è consentito lavorare. Il richiedente asilo ha diritto a ricevere un contributo di circa 17 euro al giorno per quarantacinque giorni; allo stato attuale, per carenza di fondi, il contributo non viene spesso erogato.

Al richiedente asilo viene rilasciato un permesso di soggiorno rinnovabile ogni tre mesi fino al termine della procedura che termina con l’audizione davanti alla Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato.

 La Commissione, al termine dell’audizione individuale:

La situazione dell’accoglienza in Italia è piuttosto drammatica; il PNA (programma nazionale asilo), sistema decentrato per l’accoglienza e l’integrazione gestito dall’ANCI (associazione nazionale comuni italiani) copre attualmente circa il 10% delle richieste di accoglienza. Ciò vuol dire che in Italia una percentuale altissima di richiedenti asilo dorme in strada e versa in condizioni di assoluta precarietà e marginalità sociale.

Un caso emblematico è quello del cd. “Hotel Africa” un gruppo di edifici occupati (di proprietà delle FS) nei pressi della Stazione Tiburtina a Roma, dove vivono circa 500 richiedenti asilo in condizioni igienico sanitarie particolarmente drammatiche.

La normativa di riferimento

In mancanza di una legge organica sull’asilo, (il DDL è attualmente in fase di definizione) e del regolamento di attuazione della 189/2002 che contiene due articoli atti a disciplinare la procedura di asilo, la legge di riferimento rimane la 39/1990 (legge Martelli) e il relativo regolamento di attuazione DPR 15 maggio 1990.

Proposta di intervento

Appare necessaria una istituzionalizzazione del sistema dell’accoglienza in Italia, con ciò intendendosi sia una individuazione di precise responsabilità statali, sia un apposito stanziamento di fondi. La proposta di DDL 23 marzo 2004 non contiene al contrario alcun riferimento preciso al tema dell’accoglienza, fatta eccezione per il PNA, con ciò delegando all’iniziativa e alla disponibilità economica dei singoli Comuni la predisposizione di politiche di accoglienza e integrazione per i richiedenti asilo.

Temporary Detention Centre (TDC) Report

Acknowledgements

The system of TDCs has been set up in 1998 by law n.40 and confirmed by the new law on immigration n.189 in 2002. The system, as thought in 1998, has been mainly confirmed except for the detention period which has been extended from 30 to a maximum of 60 days.

The temporary detention system has been set up in order to allow Italian authorities to repatriate those foreign citizens (extra EU) caught by police forces in the state-territory because not legally present in Italy. Foreign citizens detained in such centres can spend up to 60 days in detention; such period is needed by Italian authorities to identify the person through his/her diplomatic authorities in Italy and issuing the necessary documents in order to proceed to the repatriation.

The extension of the detention period is not the only modification introduced by law n.189. In fact, under the provisions of law n.40 foreign citizens in temporary detention centres were mainly issued an invitation to leave the country within 15 days; instead, an order to leave the country was issued to a limited number of cases related to public order and state security reasons. On the other hand, under the provisions of law 189, the order to leave the country has become the main option.

General objective

MSF-Mission Italie (MI) has been monitoring the condition of assistance, reception and respect of rights in those centres territorially close to Mission Italie projects, namely Puglia and consequently Sicily. After almost three years of monitoring activity, MI felt the need to have a closer and more in-depth look at the detention system for foreigners as a whole. Therefore, Mission Italie decided, during summer 2003, to undertake an evaluation report of TDC system mainly focusing on:

The main task of the report is, therefore, to draw a picture of detention system for foreigners in Italy that could allow MSF to have a clearer view of:

MSF is the first independent organisation that was authorised, by Ministry of Interior, to enter all TDCs and undertake such a comprehensively evaluation study on the system.

General findings

The report do not aim at providing recommendations but rather conclusion that we report here below:

 

CONTRIBUTO DELLA WILPF-  ITALIA, Patrizia Sterpetti , Antonia Sani, Anita Fisicaro,  con il contributo dell’avv. Adriano Casellato: Lavoratori migranti e rifugiati

In generale si può affermare, in seguito ad osservazioni antropologiche, che la discriminazione nei confronti della popolazione straniera in Italia è connessa ad un deficit di accoglienza e di protezione. La regolamentazione governativa del fatto migratorio si basa su una formulazione giuridico-tipologica degli aspiranti immigrati ( o immigrati di fatto) che non aderisce alla complessità della realtà che questi rappresentano. Di conseguenza le procedure e i criteri legali di accesso al territorio italiano sono inadeguati e spesso incompatibili con le disponibilità di chi è concretamente interessato ad abbandonare il proprio paese per l’Italia. La primaria distinzione semplicistica tra “migranti economici” e “ migranti politici” implica una procedura differenziata per accedere al territorio italiano, che ignora tutte le situazioni intermedie, estremamente frequenti, inducendo molte persone vittime di oppressione politica a candidarsi all’immigrazione come meri migranti economici per evitare gravi conseguenze quali l’incriminazione immotivata di parenti rimasti in patria. Ciò è avvenuto, ad esempio, in Marocco, dove, qualora un individuo si manifestava come richiedente asilo all’estero, le persecuzioni erano attuate su base familiare e non solo individuale ( per esempio, arresto di un genitore).

Spesso il requisito del possesso di documenti regolari per l’espatrio quali il passaporto e il visto, hanno ignorato il potere discrezionale e coercitivo nel loro rilascio dei Ministeri dell’Interno dei paesi esportatori di immigrati.  Se l’essere privi di documenti ed autorizzazioni viene riconosciuto come condizione tipica e distintiva dei richiedenti asilo, diviene invece spunto per un’incriminazione nel caso in cui, sprovvisto di documenti e di visto d’ingresso, è un presunto “immigrato economico”. In realtà molti apparenti “immigrati economici” si sono allontanati dal loro paese in un esilio politico silenzioso, camuffato: è il caso di moltissimi marocchini sopraggiunti in Italia durante la reggenza di re Hassan II e il Ministero dell’Interno diretto da Driss Basri . Se,quindi, le statistiche hanno annoverato tassi bassissimi di richiedenti asilo di nazionalità marocchina nell’arco degli Anni Novanta ( dopo l’eliminazione della riserva geografica ai soli rifugiati di origine europea) e attualmente, ciò non significa affatto che si trattasse solo di migranti economici. Tuttavia questi casi non sono contemplati nella definizione del diritto di asilo. Gli studi qualitativi svelano, quindi, che anche la scelta di presentarsi come richiedente asilo ha implicazioni e risvolti specifici per ogni paese, quindi non è un’opzione adottata indifferentemente di fronte alle stesse minacce, perché ogni Ministero dell’Interno, nei paesi illiberali , persegue strategie e tradizioni specifiche di oppressione che invogliano o inibiscono la richiesta di asilo. Un altro fattore che ha scoraggiato persone perseguitate o perseguibili politicamente a classificarsi come richiedenti asilo e ad intraprendere l’iter per ottenerlo sono le lunghe attese e l’impossibilità di lavorare. Ne consegue che un’alta percentuale di immigrati, impossibile da stimare con precisione, è stata accolta e perseguitata in Italia come “irregolare” dalle Forze dell’ordine, quando invece, oggettivamente, aveva raggiunto l’Italia per trovare protezione ed affermazione in una democrazia europea, come peraltro prevede l’art.10 comma 3 della Costituzione italiana del 1948. Si denuncia,quindi, la mancanza di una legge del Parlamento che disciplini in concreto l’asilo politico previsto dall’art.10 della Costituzione italiana.

Può sembrare un paradosso pretendere che un pubblico ufficiale privo di istruzioni precise a questo proposito possa differenziare a seguito di un controllo amministrativo avvenuto alle frontiere dello Stato italiano o sul territorio nazionale, il trattamento di un immigrato in base alla provenienza geografica, ma è innegabile che solo una conoscenza competente e obiettiva delle situazioni politiche interne a ciascuno Stato estero esportatore di immigrati può consentire l’adeguata tutela, in Italia, di quanti decidono di immigrarvi. Allo stato attuale il funzionario della Pubblica Sicurezza che affronta l’immigrato per il controllo dei documenti non è dotato di una formazione specifica in questo senso.

L’adozione di queste categorie definitorie imprecise e le conseguenti procedure di accoglienza sul territorio italiano hanno negato il diritto ad una protezione sussidiaria (concessione di permessi di soggiorno) a tutti coloro che non possono ottenere il diritto di asilo e allo stesso tempo non possono essere rimpatriati pena la loro incolumità . Sono state così favorite molteplici discriminazioni, situazioni di disagio, ed è stato incoraggiato il ricorso ad attività illecite, come dimostra l’alta percentuale di detenuti stranieri nelle carceri italiane.

Si denuncia la mancanza di una normativa specifica sull’ effettiva protezione temporanea di chi richiede il riconoscimento dello status di rifugiato  (Convenzione di Ginevra del 1951) in attesa che siano definite tutte le fasi relative alla decisione , sia amministrativa (che termina con la decisione della Commissione ministeriale), sia giurisdizionali ( che terminano con le sentenze dei giudici sul diniego).

Si denuncia la mancanza di una distinzione, nella disciplina dell’espulsione, tra il richiedente lo status di rifugiato ( in attesa della definizione di tutte le fasi) e l’immigrato clandestino.

Si denuncia la mancanza della predisposizione di una discrezionalità dell’autorità di P.S. nell’emettere il diniego di permesso di soggiorno nei confronti del richiedente lo status di rifugiato ( che abbia avuto decisione negativa dalla Commissione ministeriale) in attesa della definizione della fase giurisdizionale : una maggiore autonomia di valutazione da parte di tale autorità consentirebbe un più articolato utilizzo dello strumento del permesso per motivi umanitari già previsto ma scarsamente applicato.

Si denuncia la mancanza di una maggiore complessità del  procedimento davanti alla Commissione ministeriale a tutela del contraddittorio e della certezza della valutazione : assistenza al richiedente in corso di audizione     (legale o esponente di una associazione competente); possibilità di approfondimenti istruttori e audizioni ulteriori dello stesso richiedente; possibilità di richiesta di riesame della decisione negativa già presa.

In proposito sarebbe opportuna una normativa che disciplini i criteri per l’inserimento di uno o più rappresentanti delle associazioni competenti nella Commissione.

A Roma, sia nel giugno 2003 che nel gennaio 2004, cittadini di nazionalità turca  di etnia curda hanno  dovuto ricorrere ad una forma di pressione estrema quale lo sciopero della fame per poter ottenere di non essere rinviati in Turchia dopo aver visto rigettata la loro richiesta di asilo politico. Solo in questo modo, sostenuti da varie associazioni della società civile, hanno ottenuto dal Ministero dell’Interno italiano un permesso di soggiorno per protezione umanitaria. Da quanto avvenuto emerge un aggiornamento discutibile da parte dei membri della Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato sulla situazione delle violazioni dei diritti umani in Turchia.

Se l’accoglienza dei richiedenti asilo teoricamente dovrebbe mirare a garantire alle persone condizioni dignitose in attesa dell’esame della richiesta di protezione,

di fatto i posti disponibili nei Centri di accoglienza di responsabilità degli Enti Locali generalmente non soddisfano minimamente le esigenze di alloggio . A Roma sono disponibili solo 530 posti in Centri Convenzionati con il Comune.

Un caso palese di mancata assistenza a cittadini stranieri richiedenti asilo o rifugiati riconosciuti è quello concernente il gruppo di persone che risiedono a Roma accampate negli ex magazzini di proprietà della società delle Ferrovie dello Stato “Grandi Stazioni”, presso la Stazione Tiburtina. Si tratta di circa 600 rifugiati di nazionalità sudanese, eritrea, somala, libica, irachena, palestinese, che con dignità si sono adattati a vivere in un posto senza riscaldamento, con scarsa illuminazione, fatto che costringe al ricorso di candele che hanno già causato un terribile incendio (il 28/1/2004 ore 23.00), scarse condutture d’acqua, irregolare raccolta delle immondizie. ( sono disponibili eventualmente foto).

Vistose carenze nel garantire il diritto ad un alloggio convenente agli immigrati sono dimostrate dal caso della baraccopoli di “ Casilino 900” ( ex “700”), situata sulla via omologa, e abitata per anni da cittadini di origine nordafricana,regolari e irregolari (Sono eventualmente disponibili foto). In seguito a due incendi nel gennaio e nel febbraio 2002, l’Assessorato agli Affari Sociali del Comune di Roma,avendo riconosciuto di non potere, secondo la legge, fornire ai residenti altro che scarsi posti letto in Centri di accoglienza ( con orari di uscita e di entrata che non ricalcano quelli di un alloggio normale), ha tentato un percorso alternativo in collaborazione con un Ente universitario per individuare uno stabile abbandonato da far ristrutturare agli stessi immigrati utilizzando le loro abilità. La collaborazione,però, dei responsabili dell’Ufficio per l’Emergenza Abitativa è stata tanto vaga che tutta l’iniziativa si è arenata nell’autunno del 2002. Nell’inverno 2002 così si sono verificati  tre decessi di cittadini marocchini nella baraccopoli: due morti per overdose, di cui uno per rifiuto di assistenza medica ospedaliera per timore di essere rimpatriato ; il terzo riguardante un cittadino pensionato con regolare permesso di soggiorno, Salah Fennah, malato di asma, morto a 58 anni qualche giorno prima dell’appuntamento con il medico che doveva visitarlo per assegnargli la pensione di invalidità. Nel mese di ottobre 2003 è avvenuto lo sgombero senza preavviso dei baraccati e la distruzione delle baracche da parte dei vigili e il trasferimento provvisorio nel Centro di accoglienza “Madre Teresa di Calcutta”.

Un altro caso da segnalare è stato lo sgombero del 10 marzo 2003 a Roma dela baraccopoli sul Lungotevere da Ponte Milvio a Tor di Quinto, abitata da 200 moldavi  e rumeni irregolari . Responsabili dell’intervento di “bonifica” sono stati la Polizia, i Carabinieri, l’AMA (società responsabile della raccolta dei rifiuti), i Vigili Urbani  (sono eventualmente disponibili foto).

E’ evidente che queste procedure di “bonifica del territorio” senza adeguata attenzione ai diritti degli immigrati adattatisi a vivere in baracche dipende dalla scarsità di fondi che i Governi italiani forniscono ai Comuni per provvedere al bisogno di alloggio di immigrati e rifugiati. Tutto ciò incoraggia le occupazioni abusive di stabili  disabitati di proprietà privata da parte di cittadini italiani e stranieri senza casa che rifiutano l’idea di abitare nelle baraccopoli.

Anche il personale educativo, gli/le assistenti sociali  scarseggiano e quindi il rapporto tra stranieri e istituzioni è sempre purtroppo in questi casi delegato alle Forze della Polizia, spesso inadeguate e sommarie nel loro intervento. 

 

 

ALLEGATI

 

 

ALLEGATO 1. TESTO DI LEGGE NATIONAL HUMAN RIGHTS INSTITUTION

 

ALLEGATO 2. RECOMMENDATION CRC COMMITTEE NATIONAL HUMAN RIGHTS INSTITUTION

GENERAL FRAMEWORK WITHIN WHICH THE COVENANT IS IMPLEMENTED

The Committee on the Rights of the Child in its Concluding observation on Italy (CRC/C/15/Add.198, 31/01/2003)expressed its concern for the fact that “ there is no central  independent mechanism to monitor the implementation of the Convention which is empowered to receive and address individual complaints of children at the regional and national levels.” Therefore the Committee recommends that “the State party complete its efforts to establish a national independent ombudsman for children –if possible part of a national independent human rights institution (See General Comment No.2 on the role on independent human rights institutions), and established in accordance with the Paris Principles relating to the status of national institutions for the promotion and protection of human rights (General Assembly resolution 48/134) to monitor and evaluate progress in the implementation of the Convention. It should be accessible to children, empowered to receive and investigate complaints of violations of child rights in a child-sensitive manner, and equipped with the means to address them effectively. The Committee further recommends that appropriate linkage between the national and regional institutions be developed.”

Nel corso dell’attuale legislatura sono stati presentati diversi disegni di legge per l’istituzione di un Garante Nazionale per l’infanzia, qui di seguito riportiamo i riferimenti dei disegni di legge (dei quali riportiamo soltanto i primi firmatari): n. 315 del  31/5/2001 dell’on. Mazzuca,  n. 3667 del 10/2/2003 dell’on. Buontempo, n.4242 del 30/7/2003 dell’on. Burani Procaccini, n. 2461 del 31/7/2003 del Sen.Gubert, n.2469 del 1/8/2003 del Sen. Rollandin); o “Difensore civico del minore” o “dell’infanzia”: n. 695 del 12/6/2001 dell’on. Turco; n. 818 del 13/6/2001 dell’on. Molinari; n. 1228 del 5/7/2001 dell’on. Pecoraro Scanio, n.1916 del 10/1/2003 del Sen. Ripamonti; o “Pubblico tutore” n. 1999 del 20/11/2001 dell’on. Pisicchio. Queste diverse definizioni sono utilizzate per definire uno stesso organismo nazionale a tutela e promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

 

ALLEGATO 3 TABELLA INSEGNAMENTO DIRITTI UMANI NEI CURRICULA UNIVERSITARI E POST UNIVERSITARI

 



[1] Vedi: Allegato A “Elenco dei procedimenti interessati dall’applicazione della Convenzione (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.210 del 10 settembre 2003, in una nota del Ministero degli Affari Esteri) alla legge 20 marzo 2003 n. 77: “Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 Gennaio 1996”pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 91 del 18 aprile 2003- Supplemento Ordinario n. 66.

Di seguito l’elenco dei procedimenti interessati che si riferiscono ai seguenti articoli del codice civile:

-        art.145 c.c. (intervento del giudice in caso di disaccordo fra i coniugi circa l’indirizzo della vita familiare ).

-        art.244 ultimo comma, c.c. (azione di disconoscimento promossa dal curatore speciale dell’ultrasedicenne).

-        art.247 ultimo comma, c.c.(legittimazione passiva nell’azione di disconoscimento, nel caso di morte del presunto padre o madre o figlio)

-        art.264 comma 2, c.c (autorizzazione del figlio ultrasedicenne ad impugnare il riconoscimento).

-        art.274 c.c. (ammissibilità dell’azione giudiziale di paternità).

-        art. 322 c.c.(annullabilità degli atti compiuti dai genitori in nome e per conto del figlio minore senza le autorizzazioni necessarie.

-        art.323 c.c. (atti vietati ai genitori).

 

[2] Vedi anche “La Costituzione della Repubblica Italiana”, Art.30, comma 3.

[3] Vedi: “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. La prospettiva del Terzo settore” – Rapporto supplementare alle Nazioni Unite del Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti del Fanciullo, Italia 2001.

[4] Articolo dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale, con sentenza n.55 del 4 luglio 1979, nella parte in cui esclude dalla categoria dei successibili, in mancanza d’altri e prima dello Stato, i fratelli e le sorelle riconosciuti o dichiarati  e con sentenza n.184 del 12 aprile 1990 nella parte in cui sono esclusi dalla categoria dei chiamati alla successione legittima, in mancanza di altri successibili all’infuori dello Stato, i fratelli e le sorelle naturali dei quali sia legalmente accertato lo status di filiazione nei confronti del comune genitore.

[5] Vedi: Legge regionale n.32/2001 “ Interventi a sostegno della famiglia”.

[6] Vedi : Regione lazio, Delibera n. 862 del 28 giugno 2002 “Art. 3, comma 3 della legge regionale 7 dicembre 2001, n. 32. Interventi a sostegno della famiglia. Individuazione degli interventi prioritari e criteri per la loro attuazione”.

[7] UNICEF, European National Committees Research on Trafficking of children and women, (in preparazione)

[8] Ibidem

 

[9] Excerpt from the Supplementary Report to the CRC Committee:  "The Rights of Children in Italy- The perspective of the third sector”, Gruppo di lavoro per la CRC, November 2001

[10] Art. 18 of the Consolidated Act of 1998 allows for the granting of a special residence permit for reasons of social protection, which is implemented whenever violent or severe exploitation situations are acknowledged to be to the detriment of a foreign person, involving serious dangers for his or her safety due to his or her attempts at abandoning criminal association environments that have exploited him or her or because the foreigner in question has disclosed important information to the Italian judicial authorities in the course of investigations. In these cases, a special residence permit is released to allow the person to escape from the violence and the exploitation by the criminal organization at the mercy of which he or she is being manipulated, and to be included in a support and social integration program.

[11] Source Censis –STOP Programme, European Commission, 2000

[12] Source Censis –STOP Programme, European Commission, 2000

[13] For a full description on national data on residence permits and on the judicial activities see “Articolo 18: tutela delle vittime del traffico di esseri umani e lotta alla crimininalità (l’Italia e gli scenari europei)”, Rapporto di Ricerca, On the Road, 2002.

[14] Excerpt from Save the Children Italy, In the net: A year in the fight against child pornography. Stop-it first annual report, November 2003

[15] Research carried out as part of the University of Cork’s (Eire) COPINE project ( which has created the largest existing database of child pornographic material used to provide the competent authorities with material useful to their enquiries) has shown that of the 150,000 photographs present in the database, over half are of young girls and boys who have been sexually abused.  That said, in recent years there has been a considerable increase in material featuring young boys aged 9-12.  See M. Taylor, E.Quayle: Child Pornography, An Internet Crime. Brunner-Routledge. East Sussex 2003

[16] Also in respect of other criminal acts introduced under Law 269/98

[17] See: Uscire dal silenzio, lo stato d’attuazione della legge 269/98 Quaderni del Centro nazionale di documentazione per l’infanzia e l’adolescenza 2003

[18] Data supplied by the Department of Penitentiary Administration  of the Ministry of Justice

[19] Source “Alunni con cittadinanza non italiana - Scuole statali e non statali - a.s. 2002/2003” MIUR.

[20] Immigrazione, Dossier Statistico 2002

[21] Excerpt from the Supplementary Report to the CRC Committee:  "The Rights of Children in Italy- The perspective of the third sector”, Gruppo di lavoro per la CRC, November 2001

[22] Save the Children Italia’s Report on Racial Discrimination in Italy.

[23] Data of the Ministry of Public Education, October 2000, in Opera Nomadi , Notes on surveys on the students coming from the Rom community.

[24] ) Art. 27 Law 118/71.

[25] The study was carried out by La Fabbrica, an institute that operated for the promotion of educational services, in Italia Oggi, 19.06.2001.