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  Martedi 06 luglio 2004 S.Maria Goretti  

 
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I SUDANESI NELLE ACQUE SICILIANE

QUEI PROFUGHI BUSSANO ALLA PORTA

Giorgio Paolucci

Ci sono tragedie che, pur consumandosi a migliaia di chilometri da casa nostra, d'improvviso bussano all'uscio. E ci costringono a raccogliere sfide scomode, per rispondere alle quali si deve uscire da logiche asetticamente giuridiche. È il caso dei trentasette profughi sudanesi raccolti in mare dalla nave «Cap Anamaur» mentre andavano alla deriva su un barcone proveniente dalle coste libiche e diretto in Sicilia. Dal 25 giugno la «Cap Anamaur», appartenente all'omonima organizzazione non governativa tedesca, è costretta a starsene alla fonda nelle acque internazionali al largo di Porto Empedocle. A bordo i profughi lanciano una disperata richiesta di aiuto: è gente fuggita dalle violenze perpetrate nel Darfur - una regione del Sudan dove la popolazione è vittima delle incursioni delle truppe di Khartum -, gente intenzionata a chiedere asilo politico al nostro Paese. Finora, però, le autorità italiane non hanno neppure autorizzato la nave ad attraccare, potendo esibire come criterio di condotta il codice di navigazione internazionale in base al quale il comandante che soccorre un'imbarcazione in difficoltà è tenuto a fornire assistenza e a trasportare le persone nel porto più vicino. Si dà il caso che l'approdo più prossimo alla zona in cui avvenne il salvataggio sia Malta, e quindi a rigore di codice sono le autorità di Valletta le legittime destinatarie della domanda di asilo. Da parte italiana, dunque, non c'è alcun obbligo legale di far sbarcare i profughi. Anzi, se qualcuno deve corrispondere a un dovere è probabilmente il governo maltese.
Ma nella vicenda c'è un aspetto umanitario non irrilevante sul quale un Paese civile non può fare a meno di fissare lo sguardo: quella nave ospita un brandello di storia contemporanea. A bordo non vivono clandestini che vogliono farla franca eludendo le norme sull'immigrazione, ma persone catapultate sulle nostre coste da una violenza arcigna: sono la punta di iceberg di uno dei più sanguinosi «conflitti dimenticati» che si consumano nel mondo, uomini perseguitati dal regime di Khartum nell'ennesima campagna di islamizzazione di una regione abitata da cristiani e animisti.
Un intervento di tipo umanitario da parte delle nostre autorità - accompagnato dalle necessarie garanzie perché non si trasformi in un precedente da strumentalizzare in seguito per «forzare» la legge - contribuirebbe anche a illuminare una tragedia sulla quale i riflettori dell'opinione pubblica e dei mass media internazionali rimangono regolarmente spenti. «Salvare» quei trentasette fa parte di quella tradizione di accoglienza e di attenzione alla persona che caratterizza il comportamento del nostro popolo e che non significa, di per sé, uno schiaffo al diritto. Sarebbe, tra l'altro, una soluzione che si pone idealmente in continuità con la medaglia d'oro al merito civile che proprio ieri il presidente della Repubblica ha conferito al Comune di Lampedusa e Linosa e al Corpo delle Capitanerie di porto, per premiare la dedizione che avevano testimoniato durante le emergenze degli sbarchi clandestini tra il 2001 e il 2003. Insomma, l'odissea dei profughi sudanesi è una buona occasione per dimostrare ancora una volta che il rigore nel rispetto delle leggi può saggiamente coniugarsi con i doveri della solidarietà.

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