1)   Premessa

 

a) Nel suo complesso, la legge Bossi Fini ( L. 30 luglio 2002, n.189) risulta caratterizzata dalla preoccupazione di affrontare il fenomeno dell'immigrazione soprattutto come una questione di ordine pubblico, ponendo in primo luogo lesigenza di allontanare gli immigrati irregolari e di contrastare il traffico di clandestini. Tale intento emergeva chiaramente dalle prime righe della relazione allegata al disegno di legge 795 del 2001, secondo la quale, davanti al pericolo di una vera invasione dellEuropa da parte di popoli che sono alla fame, in preda ad una inarrestabile disoccupazione o a condizioni di sottoccupazione bisogna affrontare il problema di fondo concernente limmigrazione clandestina.

In realt la nuova legge oltre ad inasprire lapparato sanzionatorio chiude ogni possibilit di ingresso legale per lavoro, accentuando la precariet dei lavoratori migranti, costretti di fatto allingresso clandestino o a limitate possibilit di ingresso per lavoro stagionale.

Aspetto centrale della nuova disciplina, entrata in vigore nei primi giorni di settembre del 2002, il nuovo "contratto di soggiorno", la cui concessione legata all'esistenza di un contratto di di lavoro, con la conseguenza che lo status giuridico dell'immigrato dipende dalla persistenza del rapporto di lavoro. quindi, dalla volont  del datore di lavoro. Se entro sei mesi dal licenziamento limmigrato non riesce a concludere un nuovo contratto di lavoro, scadr anche il permesso di soggiorno e la condizione di irregolarit non sar pi sanabile con la stipula di un successivo contratto di lavoro.

La riforma del mercato del lavoro introdotta con la legge Biagi nel 2003,  a partire dalla legge 30 e dal d. lgs. 276/2003, con la forte differenziazione dei rapporti di lavoro che ne seguita, dalle collaborazioni ai lavori a progetto, ha accresciuto le difficolt che incontrano gli immigrati in Italia nella stipula di rapporti di lavoro che in base al T.U. sullimmigrazione 286/98 dovrebbero essere caratterizzati dalla rigidit, come nel caso del contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato, uniche possibilit di accesso al permesso di soggiorno per lavoro subordinato.

Legare la possibilit di soggiorno legale alla stipula ( ed alla permanenza) di un contratto di lavoro tanto rigido, che levoluzione del mercato tende a superare,  significa esporre gli immigrati ad ogni sorta di pressioni, che possono tradursi anche in comportamenti ricattatori a danno dei soggetti pi deboli ( come le donne o gli immigrati pi anziani). La conseguenza pi evidente che ne deriva, anche tra gli immigrati regolarmente residenti, la diffusione ulteriore delle diverse tipologie di lavoro informale, fino al vero e proprio lavoro nero.

Con le modifiche apportate alla disciplina dei rapporti di lavoro dalla legge Bossi- Fini, soprattutto per lo stretto legame tra il contratto ed il permesso di soggiorno, si introduce un principio di netta differenziazione tra i lavoratori immigrati ed i lavoratori italiani, in contrasto non solo con la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ( n. 9047 dell 11 luglio 2001), che riafferma la parit di trattamento in caso di licenziamento, ma con lart. 1 della Convenzione dellOIL n. 143/75, gi recepito dalla legge 943/86 e dalart. 2 del T.U. 286/98 che vietano la discriminazione dei lavoratori stranieri. Ai sensi di tale convenzione, la perdita del posto di lavoro non pu comportare la conseguente scadenza del permesso ( definito dalla legge Bossi Fini come contratto) di soggiorno 

La gi restrittiva disciplina degli ingressi per lavoro, dettata dallart. 22 del T.U. 286 del 1998, viene ulteriormente inasprita, obbligando i futuri datori di lavoro ad assumere anche limpegno di trovare una adeguata sistemazione alloggiativa per il lavoratore, ed a corrispondere le spese per il viaggio di ritorno nel paese di provenienza.

All'inasprimento della disciplina degli ingressi corrisponde una pericolosa precarizzazione di tutti gli immigrati, anche di quelli in regola da anni nel nostro paese.

Si allontana la prospettiva della stabilizzazione dei permessi di lunga durata ( carta di soggiorno), dimezzando i tempi di durata del permesso di soggiorno dopo il primo rinnovo ( da quattro a due anni) ed allungando i tempi richiesti per conseguire la carta di soggiorno ( da cinque a sei anni) con requisiti di reddito sempre pi difficili da provare.

 

b) Alla luce del contesto normativo e delle prassi amministrative attuali, non facile rispondere a tutte le domande proposte dal questionario UNHCHR perch in Italia non ci sono  osservatori indipendenti, e dunque mancano dati attendibili sulla discriminazione razziale e sulla xenofobia, n programmi nazionali coerenti con le raccomandazioni della Dichiarazione di Vienna e del programma di azione, per non parlare di Durban, che per evidenti ragioni politiche sembra finito proprio nel dimenticatoio.

 

Non si riscontrano neppure istituzioni pubbliche effettivamente operanti sul terreno del contrasto alla discriminazione razziale ed alla xenofobia, a parte il nuovo comitato istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Anche a livello locale la situazione non migliore ed un bilancio degli organismi preposti ad affrontare le problematiche dellintegrazione degli immigrati nel nostro paese appare decisamente sconfortante.

Molti Consigli territoriali sullimmigrazione non si riuniscono da tempo, la Commissione per le politiche di integrazione ( art. 46 T.U.286/98) sembrerebbe ormai estinta, i nuovi comitati interministeriali, come quello previsto dallart. 2 bis del T.U. modificato dalla Bossi Fini si limitano a concertare le misure di espulsione e di contrasto dellimmigrazione clandestina, ma non si occupano di integrazione, n rendono pubblici i loro lavori.

 

Manca in questa situazione una casistica rilevante della discriminazione razziale e della xenofobia, e le ricerche empiriche al riguardo segnalano soltanto i casi che vengono censiti dalla stampa, con notizie occasionali su singoli episodi.

Anche il dossier della Caritas e le pubblicazioni delle associazioni consultate nella stesura del rapporto, come ASGI, ICS, ARCI, Casa dei diritti sociali, CISS  danno un quadro molto limitato della discriminazione razziale e della xenofobia in Italia.

 

Appare comunque evidente  la condizione di particolare svantaggio dei richiedenti asilo, nel periodo spesso molto lungo ( fino a due anni) di attesa per la decisione sulla richiesta di asilo. Di recente a Roma, nel quartiere Tiburtino, a Caserta ed a Palermo esploso il disagio di questa categoria di migranti costretta di fatto alla pi totale precariet a causa dei ritardi della Commissione centrale che ha accumulato un arretrato di oltre 17.000 istanze ( circa diciotto mesi), e della totale mancanza di assistenza pubblica.

 Come noto, infatti, la legge italiana proibisce la stipula di un contratto di lavoro ed il ricongiungimento familiare per quei richiedenti asilo che sono ancora in attesa di conoscere la decisione della Commissione centrale, con la conseguenza che la maggior parte di loro, spesso isolata dal contesto familiare di provenienza, rimane totalmente priva di un contributo pubblico di assistenza, ed costretta al lavoro nero ed a subire ogni tipo di ricatti per ottenere beni primari come il cibo o lalloggio.

 

Esemplare a tale riguardo la vicenda dei profughi sudanesi giunti a Lampedusa, a partire dal 2001, immediatamente destinatari ad Agrigento di provvedimenti di espulsione o di trasferimenti forzati in altre parti di Italia, come a Crotone in strutture di detenzione amministrativa, e poi abbandonati al loro destino nelle campagne di Caserta, nelle citt siciliane, o costretti a spostarsi a Roma, nella speranza di un esame pi rapido delle loro istanze di asilo. Soltanto adesso i media cominciano a parlare di genocidio nel Darfur, ma non sembra che i componenti della Commissione centrale, che ha respinto numerose istanze presentate da questi asilanti, diano rilievo a questi fatti ormai evidenti. In alcune interviste da parte della Commissione, durate appena pochi minuti, ha assunto maggior rilievo la attivit politica svolta dai richiedenti asilo giunti in Italia, e i loro collegamenti con le associazioni che li avevano accolti ed assistiti nel nostro paese. Altissima, in questi casi, la percentuale dei dinieghi, anche nei riguardi di richiedenti asilo ai quali erano state amputati gli arti inferiori.

 

 

 

c) In ordine al punto 9 degli issues si osserva quanto segue.

 

LItalia non ha ancora ratificato la Convenzione ONU del 1990 sulla protezione dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. La condizione dei migranti lavoratori in una condizione di irregolarit ( categoria specificamente prevista da quella convenzione) rimane pertanto caratterizzata dalla massima precariet. Gli sforzi fatti da diverse associazioni per una ratifica della Convenzione sono rimasti ancora senza effetti. Sembra prevalere il timore che qualsiasi riconoscimento di diritti a migranti irregolari possa tradursi in un ostacolo per le politiche espulsive praticate dal nostro governo. In realt la presenza di lavoratori clandestini sul nostro territorio tollerata, i controlli delle autorit competenti, come gli ispettorati del lavoro , sono molto scarsi, ed il caporalato ormai stabilmente presente tanto nelle piazze dei comuni del ricco Nord, quanto alla periferia dei centri agricoli del meridione.

 

La normativa nazionale contro gli atti di discriminazione razziale ha avuto una applicazione molto limitata  e dopo la attuazione delle direttive comunitarie con i decreti legislativi n. 215 e 216 del 2003  le prospettive sembrano ancora peggiori, dal momento che non si realizzata la inversione dellonere della prova, che incombe ancora alla vittima degli atti discriminatori, e mancano agenzie indipendenti che possano denunciare i casi di discriminazione, evitando alle vittime il rischio di una successiva ritorsione.

 

Ma laspetto pi grave che si rileva nella trasposizione delle direttive comunitarie contro la discriminazione e la xenofobia nel nostro paese costituito dalla clausola omnibuspresente nei decreti di attuazione.

Secondo la normativa interna di attuazione

 

Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalita' e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all'ingresso, al soggiorno, all'accesso all'occupazione, all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, ne' qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti.

Nel rispetto dei principi di proporzionalita' e ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attivita' di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all'origine etnica di una persona, qualora, per la natura di un'attivita' lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attivita' medesima.

Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalita' legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.

Mentre la Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti e il Piano di azione della Conferenza di Durban sollecitavano i diversi paesi firmatari a modificare le legislazioni interne che risultassero in contrasto con il divieto di discriminazione razziale, la clausola appena richiamata inverte quasi del tutto la situazione e afferma la intangibilit della legislazione interna in materia di condizione giuridica degli immigrati, anche quando questa risulta direttamente o indirettamente discriminatoria.

In questo modo si chiude quasi completamente la possibilit di perseguire tanto il cd. razzismo istituzionale, spesso nella forma di atti o comportamenti, posti in essere da pubblici ufficiali, riconducibili al concetto di discriminazione indiretta, quanto le sempre pi diffuse discriminazioni verificate nellambito dei rapporti di lavoro.

 

Le forme di razzismo istituzionale sono le pi diverse, e in alcune occasioni sono state avallate dallautorit giudiziaria che intervenuta in sede di controllo di legittimit degli atti della pubblica amministrazione.

La legge non stabilisce esplicitamente (pur non vietandolo) che al detenuto straniero debba comunque essere rilasciato o rinnovato un permesso di soggiorno. Si e assestata, in questi ultimi anni, una prassi (Messaggio del Ministero dellinterno alla Questura di Vercelli del 4 Settembre 2001) secondo la quale listanza di rinnovo del permesso non puo essere accolta perche resa superflua dal provvedimento dellAutorita giudiziaria in forza del quale lo straniero e detenuto. Recentemente, pero, una sentenza della Corte di Cassazione Penale (Sez. I, n. 30130/2003) ha stabilito che laccesso allaffidamento in prova al servizio sociale e alle altre misure alternative extra-murarie e precluso allo straniero privo di permesso di soggiorno, dal momento che comporterebbe la permanenza illegale di uno straniero nel territorio dello Stato. Il mantenimento della prassi citata rischia, alla luce di questa sentenza, di rendere impraticabili i percorsi di recupero sociale del detenuto straniero.

 

 

 

 

 

2. Le discriminazioni nel  mercato del lavoro

 

a) La discriminazione nellaccesso al lavoro

 

La normativa attuale impone, per lingresso legale in Italia per motivi di lavoro, la dimostrazione di una preventiva promessa di assunzione da parte di un datore di lavoro (art. 22 T.U.). Limpossibilita di dar luogo a forme legali di incontro diretto tra domanda e offerta di lavoro costringe, nei fatti, i lavoratori stranieri che aspirino a migrare in Italia ad avvalersi di un periodo di soggiorno illegale che consenta loro di porre le basi per la costituzione di un rapporto di lavoro, altrimenti irrealizzabile. Questa situazione alimenta da anni il bacino di immigrazione illegale, che viene periodicamente svuotato da provvedimenti di sanatoria. Si tratta di un fenomeno tuttaltro che marginale: nel periodo 1988-2002 i permessi di soggiorno per lavoro (non stagionale) rilasciati in seguito a un ingresso formalmente successivo alla promessa di assunzione sono stati circa 285.000 (in media, circa 19.000 per anno); quelli rilasciati in seguito a provvedimenti di sanatoria, circa 1.360.000 (in media, circa 90.000 per anno). La condizione di illegalita forzata e quindi un elemento strutturale dellimmigrazione per lavoro in Italia, con le conseguenze facilmente immaginabili in termini di compressione dei diritti dei migranti.

 La materia dei rapporti di lavoro degli immigrati  presenta  molteplici aspetti di discriminazione razziale . In molti casi si verificano discriminazioni insopportabili, ma queste derivano proprio dalle disposizioni legislative o regolamentari contro le quali non possibile azionare la tutela introdotta dagli artt. 43 e 44 del T.U. 286 del 1998. Cos ad esempio i titolari di un permesso di soggiorno per motivi di salute non potrebbero svolgere nel nostro paese alcuna attivit lavorativa, trovandosi quindi nella impossibilit di sostenere, o contribuire al sostentamento del proprio nucleo familiare.

Con una importante decisione del Tribunale di Firenze del 24 dicembre 2001, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2002, p168 con nota di M.Pipponzi), e con altra decisione della Corte di Appello di Firenze del 21 dicembre 2001, si afferma il principio di non discriminazione, tra chi ha il permesso di soggiorno per motivi di salute e chi invece titolare di un permesso per motivi di famiglia, che consente pacificamente la prestazione di una regolare attivit lavorativa. In entrambi i casi dunque, solo grazie allintervento della giurisprudenza viene evitata una pesante discriminazione istituzionale ai danni di immigrati in condizioni di particolare vulnerabilit, perch malati, ed al contempo responsabili del mantenimento dei propri figli. I giudici fiorentini richiamano anche la Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, resa esecutiva in Italia con la legge n.176 del 1991, dalla quale si ricava come i genitori possano adempiere ai propri doversi di assistenza nei confronti dei figli solo se sono messi nella effettiva possibilit di procurarsi i mezzi necessari prestando una attivit lavorativa

 La vicenda  che aveva preso le mosse dal diniego frapposto dalla questura di rilasciare un permesso per motivi di famiglia, in luogo del permesso per motivi di salute poi rilasciato, mette in risalto la questione della difesa legale che costituisce lunico strumento in Italia, quando possa essere effettivamente esperita, per il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali degli immigrati.

 

 

 

b)Impossibilita di accesso a mezzi leciti di sostentamento

 

In diversi casi e previsto dalla legge che lo straniero possa soggiornare legalmente in Italia per motivi legati alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti o al rispetto di obblighi internazionali. Rientrano in questambito il soggiorno per richiesta di asilo (art. 1 L. 39/1990), il soggiorno per lesercizio del diritto di difesa (art. 17 T.U.), quello che consegue alle situazioni di inespellibilita della donna incinta o che abbia partorito recentemente (art. 19, co. 2 T.U.) e il soggiorno del genitore autorizzato dal Tribunale per i minorenni a tutela dello sviluppo del minore soggiornante in Italia (art. 31, co. 3). Per questi casi e escluso, o non e stabilito esplicitamente, che lo straniero ammesso al soggiorno legale possa svolgere attivita lavorativa, senza pero che siano tassativamente previste misure atte a garantire che gli siano assicurati adeguati mezzi di sostentamento.

 

 

 

 

c) Parita solo nominale con i lavoratori nazionali

 

I requisiti previsti per il rinnovo del permesso di soggiorno del lavoratore subordinato straniero (e, in base allart. 30, co. 3 T.U., dei suoi familiari) sono molto rigidi. In particolare, e necessaria, ai fini del rinnovo, lesistenza di un contratto di lavoro (art. 5, co. 5 T.U.). Una certa elasticita e prevista in caso di perdita del posto di lavoro per licenziamento o dimissioni: in questo caso, ove il permesso di soggiorno vada a scadenza prima che siano trascorsi sei mesi dalla perdita del posto, il lavoratore ottiene un limitato rinnovo mirato a consentirgli un periodo di ricerca di nuova occupazione di durata complessiva non inferiore, appunto, a sei mesi (art. 22, co. 11 T.U.). Salva questa modesta forma di tutela, quindi, la perdita delloccupazione puo facilmente tradursi per il lavoratore straniero (e, conseguentemente, per i suoi familiari) nella perdita della facolta di soggiornare in Italia.

 

La condizione e ulteriormente aggravata per i lavoratori che abbiano stipulato un contratto a termine (invece che a tempo indeterminato). La legge italiana non consente per questo tipo di contratti licenziamenti o dimissioni, se non in casi eccezionali (art. 2119 c.c.). Non si applicano quindi le disposizioni di cui allart. 22, co. 11 T.U.. Inoltre, la necessita di presentare la domanda di rinnovo almeno sessanta giorni prima della scadenza del permesso preclude la possibilita che a sostegno della richiesta sia esibito un nuovo contratto a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro (vietato dallart. 5 D. Lgs. 368/2001). Stante allora la difficolta di reperire, a rapporto di lavoro in corso, una possibilita di impiego con un diverso datore di lavoro, lunica possibilita per il lavoratore e quella di ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

 

Si vede allora come, a dispetto del principio di parita di diritti tra lavoratore straniero legalmente soggiornante e lavoratore italiano, sancito dalla Convenzione OIL n. 143/1975 e dallart. 2, co. 3 T.U., la rigidita delle disposizioni sul rinnovo del permesso di soggiorno finisca con lincatenare il lavoratore al proprio posto di lavoro. La libera scelta delloccupazione, sancita per il cittadino dallart. 4 Cost., e gravemente sacrificata per il lavoratore immigrato, che perde cosi anche gran parte della propria forza contrattuale nei confronti del datore di lavoro.

 

Le modifiche apportate recentemente al T.U. dalla L. 189/2002 (Legge Bossi-Fini) hanno poi appesantito la posizione del datore di lavoro che intenda stipulare un contratto di lavoro con un lavoratore straniero: e previsto che il datore debba garantire il reperimento di un alloggio, per il lavoratore, che soddisfi i requisiti previsti dalle leggi regionali sulledilizia residenziale pubblica, e che debba coprire le eventuali spese di rimpatrio per lo stesso lavoratore. Se questi requisiti aggiuntivi non contrastano con il principio di parita in sede di ammissione del lavoratore in Italia (non si tratta ancora di un lavoratore legalmente soggiornante), essi configurano una disciminazione inaccettabile se applicati ai contratti di lavoro che lo straniero stipuli successivamente al suo ingresso. Costituiscono infatti un deterrente per il datore di lavoro, e, di conseguenza, un fattore di esclusione del lavoratore straniero che sia rimasto privo di occupazione dalla possibilita di rientro nel mercato del lavoro. Tale applicazione estensiva non e, di per se, stabilita dalla L. 189/2002, ma e prevista dallart. 32 del Regolamento di attuazione della stessa legge (art. 36-bis DPR 394/1999), approvato dal Consiglio dei Ministri e attualmente allesame del Consiglio di Stato in vista della definitiva emanazione.

 

Questa forma di discriminazione rende paradossalmente improponibile, nei fatti, laccesso del lavoratore straniero alle forme flessibili di contratto di lavoro recentemente introdotte o potenziate dalla L. 30/2003 e dal D. Lgs. 276/2003 (soprattutto la somministrazione di lavoro e il lavoro intermittente), mirate ad alleggerire gli oneri per il datore di lavoro e a diminuire cosi lo squilibrio esistente, nel mercato del lavoro, tra la condizione degli insider e quella degli outsider.

 

 

d) Incertezza dei tempi per rilascio e rinnovo del permesso

 

Benche la legge stabilisca, per il rilascio o il rinnovo del permesso, un termine di venti giorni dalla richiesta, la corrispondente disposizione (art. 5, co. 9 T.U.) ha un carattere meramente ordinatorio, non essendo assistita da alcuna sanzione ne da un principio di silenzio-assenso. In pratica, limmigrato resta per molti mesi privo di un documento indispensabile sia per la stipula di un contratto di lavoro sia per il godimento dei diritti associati alla titolarita del permesso (ad esempio, a seconda dei casi, la possibilita di chiedere il ricongiungimento con i familiari residenti allestero o liscrizione in un corso di studio o di formazione). Gli effetti negativi di questa situazione sono stati in parte ridotti stabilendo esplicitamente che e lecito impiegare uno straniero titolare di un permesso di soggiorno che abiliti al lavoro, per il quale sia stato chiesto nei termini di legge il rinnovo (art. 22, co. 12 T.U.); restano pero irrisolti i problemi relativi al godimento delle altre facolta e quelli connessi al ritardo nel rilascio del primo permesso di soggiorno.

 

e)  Ostacoli allo svolgimento di una professione

 

A dispetto del principio di parita tra lavoratore straniero legalmente soggiornante e lavoratore italiano (Convenzione OIL n. 143/1975 e art. 2, co. 3 T.U.), lo svolgimento di una professione da parte del lavoratore straniero legalmente soggiornante e in possesso dei titoli abilitanti richiesti per quella professione e consentito dalla legge solo entro i limiti numerici fissati annualmente dal Governo in relazione agli ingressi di nuovi immigrati in Italia per motivi di lavoro autonomo (art. 37, co. 3 T.U.). Tali limiti comprensivi di tutte le attivita autonome sono stati, in questi anni, estremamente bassi (circa tremila per anno), e senza che fosse stabilito esplicitamente un criterio di precedenza per i lavoratori gia legalmente soggiornanti in Italia.

 

f) Discriminazioni nellassistenza sociale

 

Lart. 41, co. 1 T.U. sancisce formalmente la parita di diritti, ai fini del godimento delle misure di assistenza sociale, tra cittadino italiano e straniero legalmente soggiornante con un permesso di durata non inferiore a un anno. Lart. 80, co. 19 L. 388/2000 (legge finanziaria per il 2001) ha pero limitato drasticamente la portata di questa disposizione, stabilendo, per la maggior parte delle provvidenze economiche previste dalla legislazione in materia di assistenza sociale, che la parita riguarda i soli titolari di carta di soggiorno. Questa limitazione ha creato, in particolare, un grave circolo vizioso ai danni del lavoratore straniero per il quale sopravvenga, mentre e ancora titolare di un semplice permesso di soggiorno per lavoro, una condizione di invalidita civile (ad esempio, in seguito a un incidente stradale). Tale condizione, precludendogli la prosecuzione dellattivita lavorativa, gli rende impossibile il rinnovo del permesso di soggiorno (art. 5, co. 5 T.U.). La mancanza di un reddito per se e per i propri familiari, poi, anche nellipotesi in cui il lavoratore abbia gia maturato i sei anni di soggiorno legale in Italia, gli impedisce di ottenere la carta di soggiorno (art. 9, co. 1 T. U.). La condizione di indigenza sarebbe superabile, se solo lo straniero potesse ottenere la pensione di invalidita, per la quale e certamente in possesso dei requisiti soggettivi. Ma tale pensione e riservata, appunto, tra gli stranieri, ai titolari di carta di soggiorno. Lacquisizione della condizione di invalidita diventa cosi motivo di perdita della facolta di soggiornare in Italia.

 

 

 

 

 

 

3) La discriminazione e il diritto alla famiglia ( punto 22 issues)

 

a) Rigidita del requisito di alloggio idoneo ai fini del ricongiungimento familiare

 

Ai fini del ricongungimento familiare, il lavoratore straniero deve dimostrare, tra le altre cose, la disponibilita di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalle leggi regionali per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 29, co. 3 T.U.). Allo stesso tempo, pero, laccesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e previsto, a parita di condizioni col cittadino italiano, per i soli titolari di permesso di soggiorno di durata almeno biennale e con regolari attivita di lavoro subordinato o autonomo in corso (art. 40, co. 6 T.U.). Sono cosi esclusi i lavoratori stranieri che abbiano ottenuto il permesso di soggiorno in relazione alla stipula di un contratto a termine; per costoro, infatti, la durata del permesso di soggiorno non puo essere superiore a un anno (art. 5, co. 3-bis T.U.). Tuttavia, questi stessi lavoratori, purche dotati di un contratto di durata non inferiore a un anno, possono chiedere il ricongiungimento familiare (art. 28, co. 1 T.U.). Per loro, quindi, e a dispetto dellart. 31 Cost., i parametri fissati dalle leggi regionali a tutela del benessere delle famiglie, giocano paradossalmente il ruolo opposto di ostacoli al godimento del diritto fondamentale allunita familiare.

 

 

 

b ) Richiedenti asilo e ricongiungimento familiare.

 

I richiedenti asilo prima della decisione della Commissione centrale non hanno diritto al ricongiungimento familiare, che viene negato anche ai richiedenti lo status di protezione umanitaria o temporanea. Il ritardo nella approvazione dei regolamenti di attuazione della legge Bossi- Fini, nella parte che disciplina la nuova procedura di asilo sta comportando una situazione di paralisi nelle attivit amministrative che riguardano i richiedenti asilo, e da parte di questi si notano recenti processi di autoorganizzazione ( soprattutto a Roma, in Campania e in Sicilia) al fine di esprimere la propria disperazione e ottenere almeno il modesto risultato di un esame della pratica a livello locale, da parte della Commissione centrale ( prassi consentita da un decreto governativo dello scorso anno e gi sperimentata in Puglia ed in Calabria).

LItalia deve dare ancora attuazione alle direttive comunitarie sul ricongiungimento familiare, che dedica una attenzione particolare solo ai rifugiati, ma non ai richiedenti asilo, e alle altre direttive sulle procedure e sullo status di rifugiato, in corso di pubblicazione in queste settimane

( sembrerebbero gi approvate definitivamente a livello di Consiglio dellUnione Europea).

Lassenza di dati normativi certi, sia a livello nazionale che a livello comunitario, consegna i richiedenti asilo al potere discrezionale delle Questure e del Ministero degli interni, e i familiari di questi soggetti, quando giungono in Italia irregolarmente ( come avviene quasi sempre) sono spesso costretti a lunghi periodi di clandestinit, anche per la difficolt di documentare i rapporti familiari, in caso di un successivo e separato ingresso dei diversi membri della famiglia.

 

 

 

4) La discriminazione con riguardo ai minori ( punto 30 issues)

 

a) Profili generali

Se vero che la legge 40 del 1998 accordava ai minori figli di immigrati laccesso al sistema della istruzione pubblica a parit di condizione con i minori italiani, anche quando si riscontrassero situazioni di irregolarit nel soggiorno, nei fatti questo diritto fortemente compresso dal contesto ambientale in cui i minori stranieri sono costretti a vivere, contesto che anche di forte degrado, come nel caso dei bambini Rom, la cui partecipazione alle attivit scolastiche appare in costante diminuzione; anche per la maggiore mobilit alla quale sono costretti queste categorie di immigrati, per effetto delle politiche degli enti locali sempre pi orientate alla loro espulsione dal territorio comunale, ed anche per effetto del rischio sempre maggiore di espulsione con accompagnamento immediato in frontiera; rischio che ha avuto come conseguenza una costante mobilit di gruppo che prima vivevano periodi pi lunghi in una stessa citt, e quindi potevano essere inseriti pi facilmente in percorsi di integrazione, proprio a partire dalla frequenza scolastica dei minori.

 

Anche i figli dei richiedenti asilo vivono una condizione di particolare disagio, e non solo con riferimento al loro inserimento nelle istituzioni scolastiche. La situazione di totale precariet dei loro genitori comporta infatti anche per loro una forte mobilit, e non si riesce mai a seguire in uno stesso luogo, salvo forse che a Roma, il percorso di integrazione di un gruppo di richiedenti asilo e delle loro famiglie, perch durante la procedura cambiano citt pi volte.

 

b) Diritto di accesso ai corsi di studio

 

Il diritto ad accedere ai corsi di studio e positivamente garantito al minore straniero, a prescindere dalla regolarita del suo soggiorno, dallart. 45 DPR 394/1999. La posizione del minore straniero iscritto ad un corso di studi e pero, ove egli sia figlio di genitori illegalmente soggiornanti, assolutamente precaria: benche sia vietata lespulsione dei minori, salvo che per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, e stabilito, ovviamente, il diritto del minore di seguire il genitore o laffidatario espulsi (art. 19, co. 2). Una forma di tutela e offerta dalla disposizione di cui allart. 31, co. 3 T.U., in base alla quale il Tribunale per i minorenni puo autorizzare, in deroga alle altre disposizioni di legge, il soggiorno dello straniero quando questo si renda necessario per tutelare lo sviluppo psico-fisico del minore soggiornante in Italia.

In questi anni, tuttavia, lorientamento dei Tribunali e stato molto disomogeneo, con incerta rilevanza della condizione di iscrizione del minore stesso ad un corso di studi ai fini dellaccoglimento dellistanza relativa al soggiorno del genitore. Paradossalmente, quindi, e a causa della accresciuta visibilita, lessere iscritto a scuola puo tradursi, per il minore, in un maggior rischio di allontanamento dal territorio dello Stato.

Si richiama a tale riguardo la iniziativa assunta nel 2003 dalla Prefettura di Catania che ha chiesto ai dirigenti scolastici la comunicazione di eventuali iniziative attuate mediante progetti, conferenze o convegni a favore  dei figli degli immigrati di religione diversa dalla cattolica. In conseguenza, il dirigente del provveditorato agli studi di Catania ha inviato una circolare applicativa richiedendo ai presidi delle singole scuole notizie sulle iniziative attuate a favore di alunni di religione diversa dalla cattolica. Si cos realizzato da parte della Prefettura, di un ufficio periferico del governo dunque,  un censimento di tutti gli studenti figli di immigrati di religione diversa da quella cattolica. Siccome in Italia il diritto-dovere allo studio riconosciuto anche ai figli di immigrati irregolari, una semplice verifica attraverso i sistemi informatici permetter di scoprire i figli di immigrati privi di permesso di soggiorno, con domicilio e generalit dei genitori, con il rischio di una loro espulsione e di un allontanamento degli stessi figli minori da quel percorso formativo che avevano intrapreso nel nostro paese. E questo solo perch si tratta di giovani di religioni diverse, non solo quindi di musulmani, ma anche di protestanti , o induisti.

Le conseguenze discriminatorie di una simile iniziativa sono evidenti in quanto il primo effetto immediato consistito nel ritiro degli alunni figli di immigrati irregolari, costretti da questa iniziativa ad una nuova e pi umiliante clandestinizzazione.

 

 

c) Diritti dei minori ed espulsione dei genitori

Similmente, e piu in generale, la mancanza di una previsione automatica di protezione del minore dallallontamento dal territorio dello Stato in seguito allespulsione del genitore o dellaffidatario fa si che perfino un minore nato e vissuto per un numero rilevante di anni in Italia possa veder troncati improvvisamente tutti i propri legami sociali. La cosa assume un carattere particolarmente grave quando si tratti di minori figli di genitori che abbiano scontato una pena detentiva di notevole durata in Italia: lespulsione che nella maggior parte dei casi accompagna la remissione in liberta del genitore (art. 15, co. 1 e 1-bis e art. 16, co. 5 T.U.) aggiunge un trauma grave alla condizione, gia fortemente provata, del minore.

 

 

d)Discriminazione ai danni del minore straniero non accompagnato

 

Il minore straniero non accompagnato, al pari di qualunque altro minore straniero, non espellibile se non per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato (art. 19, co. 2 T.U.). Quando ne sia segnalata la presenza sul territorio dello Stato, pero, si da luogo ad una procedura finalizzata ad accertare se sia effettuabile il suo rimpatrio in condizioni di sicurezza (art. 33, co. 2-bis T.U.). Nelle more della decisione relativa al rimpatrio, al minore per il quale non sia disposto laffidamento e rilasciato un permesso di soggiorno per minore eta (art. 28, co. 1 DPR 394/1999). Una Circolare del Ministero dellinterno (13 Novenbre 2000) ha disposto che tale permesso non sia utilizzabile per lo svolgimento di attivita lavorativa. Questa disposizione, discriminando il minore straniero nelle condizioni descritte rispetto al coetaneo nazionale (ma anche rispetto al coetaneo straniero titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari o per affidamento) appare in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dalla Convenzione ONU di New York del 1989 sui diritti del fanciullo (ratificata con L. 176/1991).

 

Dati i tempi estremamente lunghi delle procedure di accertamento, e frequente il caso di titolare di permesso di soggiorno per minore eta che raggiunga la maggiore eta mentre e ancora in attesa della decisione relativa al rimpatrio. La Circolare del Ministero dellinterno del 13 Novenbre 2000 esclude la possibilita di conversione del permesso per minore eta in un permesso per motivi di studio o di lavoro. Anche in questo caso si configura una discriminazione ai danni del titolare di permesso per minore eta, dal momento che e previsto che il minore titolare di un permesso per motivi familiari o per affidamento possa fruire invece di tale conversione (art. 30, co. 5 e art. 32, co. 1 T.U.).

 

 

 

 

5) La discriminazione e lassistenza ai richiedenti asilo

a) Diritti fondamentali dei richiedenti asilo e delle loro famiglie

Nel corso del 2002 le richieste di asilo In Italia sono state 9.608, mentre nel 2001 erano state 17.600 e nel 2000 pi di 18.000. Se consideriamo che la commissione centrale respinge annualmente il 90 per cento delle richieste di asilo, si pu giungere facilmente alla conclusione che lItalia non rispetta il fondamentale diritto della persona umana allasilo, e costringe decine di migliaia di richiedenti asilo alla clandestinit, determinando problemi anche agli altri paesi europei verso i quali rivolgono flussi sempre pi consistenti di potenziali richiedenti asilo respinti, espulsi o resi clandestini dal nostro paese.

Chi viene rimpatriato senza avere neppure la possibilit di presentare una domanda di asilo, pur avendo manifestato la volont di chiedere asilo in Italia, finisce per essere internato in carcere o ucciso, come si teme che sia successo gi nel caso della famiglia siriana, o di un gruppo di kurdi rimpatriati nel 2001 direttamente in Turchia, e come avviene anche per molti cingalesi disertori o tamil, riconosciuti dal console cingalese e rimpatriati con un volo charter direttamente nel paese dal quale erano fuggiti. Nel 2002 lItalia ha effettuato 5 voli charter verso lo Sri Lanka per rimpatriare persone molte delle quali, rinchiuse nei centri di detenzione pugliesi, avevano manifestato lintenzione di chiedere asilo; senza riuscire a formalizzare la domanda, in assenza di interpreti o per il giudizio sommario da parte delle autorit di polizia circa la strumentalit della richiesta. Altri voli charter sono stati eseguiti nel 2003 e in questo primo scorcio del 2004.

 

In moltissimi casi i potenziali richiedenti asilo sono stati trattenuti per settimane nei centri di permanenza temporanea, o in centri di transito, comunque strutture chiuse ed inaccessibili per gli operatori delle organizzazioni non governative, senza potere presentare domanda di asilo, oppure anche dopo avere presentato domanda di asilo, prima della loro identificazione.

 

Con i provvedimenti adottati nel settembre del 2002, nel marzo e adesso nel mese di maggio del 2003, con una ordinanza del Presidente del Consiglio, si consentito che la commissione centrale, competente a decidere sulle domande di asilo, operasse anche senza la collegialit prevista dalla legge, spostandosi nei centri di detenzione dove restavano rinchiusi molti richiedenti asilo.

Ma i rappresentanti della commissione non sono arrivati quasi mai in Sicilia. Pi spesso i richiedenti asilo sono stati deportati dalla Sicilia verso la Calabria, a Crotone, o nei centri pugliesi.  Adesso sembra prossimo lavvio dei nuovi centri di identificazione per richiedenti asilo, come il centro di Salina Grande, vicino Trapani; con il nuovo escamotage dei cd. centri a destinazione mista, gi collaudato al Regina Pacis di Lecce, dove pi facile spacciare per accoglienza quella che rimane soltanto detenzione amministrativa, spesso anche al di l dei termini e delle procedure previste dalla legge. Al riguardo autorevoli fonti ministeriali  affermavano, fino a poche settimane fa, come nei nuovi centri di identificazione i richiedenti asilo avrebbero sofferto solo di una limitazione della libert di circolazione, e non della libert personale, restando consentito in altri termini luscita giornaliera dal centro con rientro serale; nellultima versione del decreto attuativo, sembra per le pressioni della Lega nord, i centri di identificazione sono caratterizzati dal divieto assoluto di allontanamento e di uscita: si tratter dunque di veri e propri centri chiusi, che porranno delicate questioni di gestione delle strutture e di compatibilit delle prassi amministrative di trattenimento con le previsioni di legge e della Costituzione in materia di asilo e di limitazione della libert personale (art.13).

Come si vede, continua a regnare lincertezza, e non si conosce ad oggi quale sar lesatto status dei richiedenti asilo in Italia; anche se tra poco , a tale riguardo, dovr darsi attuazione alla Direttiva comunitaria n. 9 del 2003, che imporr anche allItalia la predisposizione di nuove norme che rendano uniformi gli standard europei in materia di procedure per i richiedenti asilo, garantendo soprattutto leffettivit del diritto di ricorso riconosciuto al richiedente asilo dopo il diniego della sua istanza.

La stessa direttiva comunitaria n.9 del 2003 contiene a tale riguardo previsioni che risultano in totale contrasto con quanto previsto dalla legge Bossi Fini, e ancora di pi con il nuovo regolamento di attuazione non ancora entrato in vigore, che consente laccompagnamento immediato in frontiera anche in presenza di un ricorso non ancora esaminato dal giudice.

 

b) Accoglienza ed assistenza ai richiedenti asilo

Il progetto nazionale asilo (PNA) avrebbe dovuto dare una risposta ai gravissimi problemi derivanti dalla lunghezza delle procedura e dalla quasi totale assenza di interventi pubblici di assistenza rivolti ai richiedenti asilo. Non sembra per che le recenti scelte del Governo italiano e della Commissione mista  appositamente istituita , che  hanno determinato il finanziamento di una trentina di progetti sparsi per lItalia corrispondano alle attese.

Innanzitutto lo stanziamento complessivo irrisorio, considerato anche il numero di richiedenti asilo ancora in attesa di una definizione della loro pratica, il numero dei posti offerti su base annua ( circa 1500) non raggiunge neppure un decimo dei soggetti che vi avrebbero diritto, e si nota una forte penalizzazione di alcune regioni che pure come la Sicilia sono uno snodo importante nellingresso degli immigrati richiedenti asilo in Italia.

Dopo le decisioni della commissione nazionale competente a decidere sulle richieste avanzate da parte degli enti locali e delle associazioni, solo un progetto stato finanziato in Sicilia, sembrerebbe nella provincia di Ragusa, che, tra laltro, riceve un numero di richiedenti asilo nettamente inferiore rispetto alle provincie della Sicilia Occidentale, come Palermo, Trapani ed Agrigento.

 

Queste scelte amministrative della Commissione che ha deciso sulle richieste di finanziamento del PNA ed il ridotto impegno politico finanziario del governo sul terreno dellaccoglienza dei richiedenti asilo e protezione umanitaria ma si sa tutte le risorse destinate allimmigrazione sono impegnate per i rimpatri con accompagnamento immediato e per i centri di detenzione, adesso anche per i richiedenti asilo- sono direttamente responsabili del fallimento di molti sforzi da parte delle associazioni umanitarie, e di un grave degrado della condizione di vita dei richiedenti asilo, o protezione umanitaria, e delle loro famiglie, spesso costrette a mendicare sulla strada, ad accettare lavori ad alto rischio, e ad abitare in strutture fatiscenti, con grave rischio anche per la salute, e la vita, dei soggetti pi deboli, anziani, donne e bambini.

 

 

 

 

6)La attuazione delle direttive comunitarie 43/2000/CE e 78/2000/CE

 

a) Il decreto legislativo n.215 del 2003 che recepisce la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che attua il principio di parit di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dallorigine etnica tradisce in numerosi punti le finalit e la lettera della corrispondente direttiva comunitaria.

 

Lart.1 definisce loggetto del decreto legislativo, relativo allattuazione della parit di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dallorigine etnica, disponendo le misure necessarie per impedire che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione anche in un ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini nonch dellesistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

La previsione tiene conto del 14 considerando della Direttiva 2000/43/CE, secondo cui   nell'attuazione del principio della parit di trattamento a prescindere dalla razza e dall'origine etnica la Comunit dovrebbe mirare, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, del trattato CE, ad eliminare le inuguaglianze, nonch a promuovere la parit tra uomini e donne, soprattutto in quanto le donne sono spesso vittime di numerose discriminazioni. Risulta invece innovativo, rispetto al testo della corrispondente direttiva, il richiamo alla considerazione delle forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

Lart. 2 fornisce le nozioni di discriminazione, e definisce innanzitutto i concetti di discriminazione diretta ed indiretta.

Si ha discriminazione diretta quando, per la razza o lorigine etnica, una persona trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in situazione analoga; ricorre una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono persone di una razza o di una determinata origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Le previsioni appaiono corrispondenti a quanto disposto al riguardo dalla direttiva comunitaria.

Si fa salvo il disposto dellart. 43 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 286 del 1998, comunemente inteso come Testo unico sullimmigrazione.

Si precisa inoltre che sono considerate come discriminazioni anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o leffetto di violare la dignit di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

La norma conclude infine che lordine di discriminare persone  a causa della razza o dellorigine etnica considerata come una discriminazione ai sensi del primo comma dellarticolo in esame.

 

Lart.3 delimita il campo di applicazione del decreto di attuazione e ha un contenuto corrispondente a quanto previsto dalla direttiva.

Il principio di parit di trattamento si applica a tutte le persone nei settori pubblici e privati, per quanto concerne laccesso alloccupazione, al lavoro, allorientamento ed alla formazione professionale, loccupazione e le condizioni di lavoro, le attivit nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro, la protezione sociale, lassistenza sanitaria, le prestazioni sociali, listruzione e laccesso a beni e servizi.

Si prevedono inoltre alcuni casi di differenze di trattamento che non costituiscono discriminazioni ai sensi dellart.2 : Nel rispetto del principio di proporzionalit e ragionevolezza, nellambito del rapporto di lavoro o nellesercizio dellattivit di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dellart.2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o allorigine etnica di una persona , qualora si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dellattivit lavorativa.

Ma chi stabilisce la portata effettiva questa importante fattispecie derogatoria? Probabilmente, tutto rimarr affidato al potere di organizzazione e di distribuzione del lavoro nellimpresa, proprio del datore di lavoro, e la tutela delle vittime di discriminazione razziale o etnica nei luoghi di lavoro non si potr compiutamente realizzare. Ma sotto questo profilo occorre tenere conto della coeva introduzione in Italia della normativa derivata dalla direttiva 78/2000/CE, relativa alla discriminazione nei luoghi di lavoro.

Nel decreto legislativo di recepimento sono fatte salve tutte le norme vigenti in materia di ingresso, espulsioni e accesso al lavoro ( art.3 comma 2).

 In questo modo, considerando la larga discrezionalit amministrativa esercitata in questo ambito, si apre la strada per la immunit degli agenti statali che pongono in essere comportamenti discriminatori ai danni degli immigrati per quanto riguarda la libert personale e di circolazione.

Sar infatti sufficiente invocare una norma di legge, per mettersi al riparo dalla prova, che rimane sempre in capo alla vittima, di un comportamento discriminatorio.

Si trascura peraltro di dare applicazione allart. 14 della direttiva che imponeva agli stati

membri di  adottare le misure necessarie per assicurare che tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed  amministrative contrarie al principio della parit di trattamento siano abrogate.

 

Lart. 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti.

Si ribadisce la possibilit di utilizzare la specifica azione civile contro la discriminazione razziale gi dettata dallart. 44 del T.U. n. 286 del 1998. Rimane fermo lonere della prova in capo alla vittima dellatto o della prassi discriminatoria.

Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno pu dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui allart. 2729, primo comma, del codice civile.

In questo modo si contraddice la normativa comunitaria che ne imponeva la modifica, stabilendo la inversione dellonere della prova che sarebbe dovuto toccare al convenuto e non alla vittima della discriminazione parte attrice.

Viene completamente disatteso lart. 8 della Direttiva 2000/43/CE che assegnava alla parte accusata del comportamento discriminatorio, e non alla vittima, lonere della prova.

Non vi traccia della trasposizione nel nostro ordinamento del fondamentale art. 9 della direttiva, che stabiliva la protezione delle vittime degli atti di discriminazione, imponendo agli stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere le persone da trattamenti o conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un azione volta ad ottenere il rispetto del principio della parit di trattamento

Rispetto alla normativa gi in vigore ( Testo Unico sullimmigrazione n.286 del 1998), lart. 4, comma terzo, non richiama il fondamentale principio dellinversione dellonere della prova ma anzi aggrava lonere probatorio che aveva inficiato la effettivit della norma gi in vigore ( art.44): si precisa anzi che, come previsto dallart. 2729 del codice civile, il ricorrente al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno pu dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti.

Lonere della prova rimane per intero a carico della vittima della discriminazione.

Esattamente lopposto di quanto intendeva la direttiva comunitaria.

Rimane a questo punto di scarso impatto la possibilit che il giudice ordini il risarcimento del danno anche non patrimoniale, oppure impartisca disposizioni per fare cessare il comportamento discriminatorio ( tutela inibitoria), oppure, ancora, ordini ladozione di un piano di rimozione degli effetti del comportamento discriminatorio, di cui tenere conto in sede di liquidazione dei danni.

Il giudice tiene conto  ai fini della liquidazione del danno che latto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attivit del soggetto volta ad ottenere il rispetto del principio di parit di trattamento.

Pu essere prevista la pubblicazione della sentenza di condanna.

 

Le norme sulla legittimazione ad agire , art. 5, e sul registro delle associazioni , art. 6 appaiono ispirate a preoccupazioni di controllo, piuttosto che alle finalit di garantire una pi ampia tutela da parte delle associazioni contro gli atti di discriminazione razziale.

Possono agire in giudizio per denunciare casi di discriminazioni razziale soltanto le associazione iscritte in un apposito elenco approvato con decreto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunit ed individuati in base delle finalit programmatiche e della continuit dazione.

In base allart. 5, in particolare, lintervento delle associazioni previsto anche in caso di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione. Nel caso di discriminazione individuale le asssociazioni possono agire in base ad una delega rilasciata dalla vittima della discriminazione, per iscritto, a pena di nullit, per atto pubblico o scrittura privata; nel caso di discriminazione collettiva, le associazioni possono agire anche in assenza di una delega perch non sono individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione.

Il successivo art. 6 precisa i requisiti che devono possedere le associazioni che intendono iscriversi nel Registro delle associazioni che intendono svolgere attivit nel campo della lotta alle discriminazioni, aggiungendo che la Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le pari opportunit, provvede annualmente allaggiornamento del registro.

 

Altra previsione in contrasto frontale con la direttiva, risulta essere lart. 7 del decreto delegato secondo il quale ҏ istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri dipartimento per le pari opportunit un Ufficio per la promozione della parit di trattamento e la rimozione delle discriminazione fondate sulla razza e sullorigine etnica, ufficio che dovrebbe fornire assistenza nei procedimento giurisdizionali o amministrativi le vittime dei comportamenti discriminatori.

Lufficio ha la facolt di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano in possesso, di fornire le informazioni e di esibire i documenti utili ai fini dellespletamento dei propri compiti.

 

La direttiva 2000/43/CE prevedeva un agenzia indipendente dal governo, mentre in Italia la normativa di attuazione stabilisce che questo ufficio che dovrebbe promuovere la parit di trattamento diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri

o da un ministro da lui delegato, e si articola secondo modalit organizzative fissate con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Tale ufficio si potr avvalere anche di personale di amministrazioni pubbliche nonch di esperti e consulenti esterni tutti rigorosamente scelti in base al metodo della cooptazione.

Insomma un vero e proprio ufficio studi al servizio del governo.

Insomma tutto il contrario di quanto previsto dalla direttiva comunitaria che prevedeva un

organismo indipendente per la promozione della parit di trattamento ( art. 13).

 

Nel decreto delegato non vi traccia del dialogo con le organizzazioni non governative

previsto dallart. 12 della Direttiva 2000/43/CE, secondo il quale gli stati membri incoraggiano il

dialogo con le competenti organizzazioni non governative che... hanno un interesse legittimo a

contribuire alla lotta contro la discriminazione fondata sulla razza e sullorigine etnica

 

Manca infine  un adeguato quadro sanzionatorio, che era invece imposto dallart. 15

della direttiva,

ed al riguardo, in particolare, non si fa alcuna menzione delle conseguenze che incombono al

soggetto autore del comportamento discriminatorio che non obbedisce allingiunzione del giudice di

astenersi da tale comportamento. Non si vede in sostanza come le sanzioni proposte dal decreto

possano risultare effettive, proporzionate e dissuasive.

 

 

b)Il testo di decreto delegato n.216 approvato dal Consiglio dei ministri del 3 luglio 2003, stato  pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 187 del 13 agosto 2003.

 

Rimane innanzitutto trascurato il  considerando n.15 della direttiva 2000/78/CE, secondo cui la valutazione dei fatti sulla base dei quali si pu argomentare che sussiste discriminazione diretta o indiretta una questione che spetta alle autorit giudiziarie nazionali o ad altre autorit competenti conformemente alle norme e alle prassi nazionali. Tali norme possono prevedere in particolare che la discriminazione indiretta sia stabilita con qualsiasi mezzo, compresa l'evidenza statistica.

Altrettanto trascurato risulta laltro principio fondamentale contenuto nel considerando n.29della direttiva, in base al quale le vittime di discriminazione a causa della religione o delle convinzioni personali, di un handicap, dell'et o delle tendenze sessuali dovrebbero disporre di mezzi adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello pi efficace di protezione, anche alle associazioni o alle persone giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalit stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative alla rappresentanza e alla difesa in giustizia Stessa sorte per il considerando n.30 secondo cui lefficace attuazione del principio di parit richiede unadeguata protezione giuridica in difesa delle vittime.

Ma la violazione pi grave perpetrata dal governo italiano ai danni della direttiva comunitaria riguarda le norme in materia di onere della prova. In base al considerando n.31 della Direttiva comunitaria, queste avrebbero dovuto essere adattate quando vi sia una  presunzione di discriminazione e, nel caso in cui tale situazione si verifichi, l'effettiva applicazione del principio della parit di trattamento richiede che l'onere della prova sia posto a carico del convenuto. Non incombe tuttavia al convenuto provare la religione di appartenenza, le convinzioni personali, la presenza di un handicap, l'et o l'orientamento sessuale dell'attore.

Altrettanto disatteso infine, come si vedr meglio dallesame del testo articolato del decreto legislativo approvato dal  governo il 3 luglio 2003, il confronto con le parti sociali. Secondo il considerando 33 della direttiva 2000/78/CE, gli Stati membri dovrebbero promuovere il dialogo fra le parti sociali e, nel quadro delle prassi nazionali, con le organizzazioni non governative ai fini della lotta contro varie forme di discriminazione sul lavoro.

 

Lart. 1 del decreto ne definisce loggetto individuato in disposizioni relative allattuazione della parit di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dallet e dagli orientamenti sessuali, per quanto concerne loccupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinch tali fattori non siano causa di discriminazione, in un ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su uomini e donne. In questo caso la previsione pi ampia del corrispondente articolo 1 della direttiva, per il richiamo al diverso impatto che i vari fattori di discriminazione possono avere tra uomini e donne, frutto di un intenso impegno parlamentare di alcuni gruppi di opposizione.

 

Lart. 2 del decreto  ripete la medesima formulazione dellart. 2 della direttiva comunitaria 78/2000, e quindi per "principio della parit di trattamento" si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dellet o dellorientamento sessuale, fornendo quindi una definizione di discriminazione diretta ed indiretta conforme al modello comunitario. E molto importante per la previsione di un ampio regime derogatorio, che richiamato dallinciso salvo quanto disposto dallart.3, commi da 3 a 6..

Tale regime rischia di svuotare nella maggior parte dei casi la portata sostanziale della nuova normativa, e  ne analizzeremo le ragioni quando tratteremo specificamente lart.3.

Intanto si pu affermare che sussiste sussiste discriminazione diretta quando, per religione,

per convinzioni personali, per handicap, per et o per orientamento sessuale, una persona

trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata unaltra in una

situazione analoga.

Sussiste invece una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio,

una prassi , un atto, un patto, o un comportamento apparentemente neutri possono mettere

le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone

portatrici di un  handicap, le persone di una particolare et o di un orientamento sessuale,

in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Sono altres considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti

indesiderati posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1 aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignit di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

Per quanto riguarda la nozione di discriminazione si pu dunque rilevare una sostanziale corrispondenza tra la direttiva comunitaria 78/2000 e la corrispondente normativa italiana che ne costituisce attuazione.

 

Anche lambito di applicazione dei decreti delegati corrisponde al campo di applicazione della direttiva 2000/78/CE.

In particolare il decreto delegato stabilisce che il principio di parit di trattamento suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme di tutela del successivo art. 4 del decreto , e qui risiede gi una potenziale delimitazione dellefficacia della direttiva rispetto alla formulazione pi ampia della direttiva secondo cui questa si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

a)      alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attivit e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonch alla promozione;

b)all'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

c) alloccupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;

d)          allaffiliazione e allattivit in unorganizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonch alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.

 

La delimitazione del campo di applicazione della direttiva appare poi in tutta la sua evidenza quando si considera la previsione del secondo comma dellart. 3, in base al quale la disciplina contenuta nel decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di:

a)    condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso alloccupazione, allassistenza e alla previdenza dei cittadini dei paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato;

b)    sicurezza e protezione sociale

c)     stato civile e prestazioni che ne derivano

d)    forze armate, limitatamente ai fattori di et e di handicap

 

La direttiva 2000/78/CE prevedeva soltanto che questa non riguardava le differenze di

trattamento basate sulla nazionalit e non pregiudica le disposizioni e le condizioni relative

all'ammissione e al soggiorno di cittadini di paesi terzi e di apolidi nel territorio degli Stati membri,

n qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini dei paesi terzi o degli

apolidi interessati. Si aggiungeva poi che la stessa direttiva non si applica ai pagamenti di

qualsiasi genere, effettuati dai regimi statali o da regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di

sicurezza sociale o di protezione sociale. Infine si conferma la previsione comunitaria secondo cui

gli Stati membri possono prevedere che la presente direttiva, nella misura in cui attiene le

discriminazioni fondate sull'handicap o sull'et, non si applichi alle forze armate.

 

Lart.4 della direttiva comunitaria risulta riprodotto sempre nel corpo dellart. 3 del decreto delegato al comma terzo, laddove si prevede che nel rispetto dei principi di proporzionalit e ragionevolezza, nellambito del rapporto di lavoro o nellesercizio dellattivit di impresa, non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, allhandicap, allet o allorientamento sessuale di una persona, quualora, per la natura dellattivit lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che  costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dellattivit medesima.

Il regime derogatorio introdotto dal legislatore italiano appare comunque pi ampio e maggiormente

rimesso nei fatti alla discrezionalit amministrativa, rispetto a quanto invece prevedeva la direttiva

comunitaria nelle previsioni corrispondenti.

Sar utile al riguardo confrontare le prescrizioni analitiche contenute nella direttiva con le formule

pi sfumate e volutamente generiche che caratterizzano le corrispondenti previsioni dei decreti di

attuazione.

Secondo la Direttiva 2000/78/CE , a mente dellart. 4 gli Stati membri possono mantenere nella

legislazione nazionale in vigore alla data d'adozione della presente direttiva o prevedere in una

futura legislazione che riprenda prassi nazionali vigenti alla data d'adozione della presente direttiva,

disposizioni in virt delle quali, nel caso di attivit professionali di chiese o di altre organizzazioni

pubbliche o private la cui etica fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una

differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisca

discriminazione laddove, per la natura di tali attivit, o per il contesto in cui vengono espletate, la

religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato

per lo svolgimento dell'attivit lavorativa, tenuto conto dell'etica dell'organizzazione. Tale

differenza di trattamento si applica tenuto conto delle disposizioni e dei principi costituzionali degli

Stati membri, nonch dei principi generali del diritto comunitario, e non pu giustificare una

discriminazione basata su altri motivi.

Secondo lart.3 comma 6 del decreto delegato invece  non costituiscono, comunque, atti di

discriminazione quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente

discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalit legittime perseguite attraverso mezzi

appropriati e necessari. La genericit della previsione derogatoria rischia di svuotare di ogni

contenuto operativo la stessa categoria di discriminazione indiretta, pure formalmente accolta dalla normativa italiana di attuazione.

 

Come detto in precedenza, laspetto pi lacunoso del decreto delegato che attua in Italia la direttiva  2000/78/CE costituito dalla previsione dei mezzi di ricorso e delle procedure giurisdizionali.

Gli artt. 9 e 10 della Direttiva ne costituivano infatti gli aspetti essenziali perch miravano alla

effettiva applicazione della nuova normativa, altrimenti destinata a rimanere del tutto inattuata,

come era successo in passato ad altri interventi legislativi dei competenti organi nazionali che, come si visto nel caso degli artt. 43 e 44 del T.U. n.286 del 1998, erano rimasti privi di una applicazione  diffusa.

 

In base allart 9 della Direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto provvedere affinch tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parit di trattamento, possano accedere, anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le procedure di conciliazione finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti dalla presente direttiva. Secondo il secondo comma dello stesso art. 9 gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all'esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.

 

Secondo il successivo art. 10 della Direttiva, gli stati membri avrebbero dovuto prendere le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorch persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parit di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un'altra autorit competente, fatti dai quali si pu presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi stata violazione del principio della parit di trattamento.

La direttiva invero lasciava una via di fuga che stata prontamente sfruttata dal legislatore italiano, circa la delimitazione sostanziale del principio che stabiliva linversione dellonere della prova in danno del convenuto, lagente accusato di avere compiuto latto discriminatorio.

Nella direttiva si affermava infatti che gli Stati membri non sono tenuti ad applicare il paragrafo 1 ( che stabilisce linversione del principio dellonere della prova in capo allattore) ai procedimenti in cui spetta al giudice o all'organo competente indagare sui fatti.

E cos che il legislatore italiano, con il decreto delegato approvato dal Consiglio dei Ministri il 3 luglio 2003 ha previsto che  lonere della prova incombe allattore, affermando a tale proposito che il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, pu dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dellart. 2729, primo comma, del codice civile. Come a dire che lonere della prova incombe tutto in capo allattore. In assenza di una prova convincente fornita dallattore, vittima della discriminazione, non incombe pi in capo al convenuto lonere di provare che non vi stata violazione del principio di parit di trattamento, come invece esplicitamente affermato dalla direttiva 2000/78/CE.

Il decreto delegato aggiunge poi, in corrispondenza al testo della Direttiva comunitaria, che con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dellatto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonch la rimozione degli effetti. Manca per la previsione di adeguate misure anche a carattere patrimoniale a finalit compulsive, sul tipo delle penali, per le ipotesi in cui malgrado lordine inibitorio del giudice, gli atti di discriminazione continuino a verificarsi.

 

Significativamente omessa, nel decreto delegato che attua in Italia la direttiva 78/2000/CE, il richiamo specifico alla tutela delle vittime. In base allart. 11 della Direttiva intitolato Protezione delle vittime, gli Stati membri avrebbero dovuto introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere i dipendenti dal licenziamento, o da altro trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro, quale reazione a un reclamo interno all'impresa o a un'azione legale volta a ottenere il rispetto del principio della parit di trattamento.

Nulla di questa previsione stato trasposto nel decreto di attuazione, forse nel convincimento che lordinamento giuridico italiano gi contenesse adeguati strumenti di tutela dei lavoratori ed a tale riguardo utile richiamare la strenua opposizione delle forze di governo, e purtroppo anche di parte dellopposizione, rispetto alla proposta di modifica dellart. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, nella parte in cui consente ancora , nelle imprese con meno di quindici dipendenti, il licenziamento individuale in assenza di giusta causa.

Completamente assente, nel decreto delegato approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 3 luglio, ogni previsione sulla diffusione delle informazioni pure imposta dallart. 12 della Direttiva 2000/78/CE, secondo cui gli Stati membri avrebbero dovuto assicurare che le disposizioni adottate in virt della presente direttiva, insieme alle pertinenti disposizioni gi in vigore, siano portate all'attenzione delle persone interessate con qualsiasi mezzo appropriato, per esempio sui luoghi di lavoro, in tutto il loro territorio.

Per quanto riguarda la legittimazione ad agire lart. 5 del decreto delegato prevede che le rappresentanze locali delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, a pena di nullit, sono legittimate ad agire ai sensi dellart. 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui riferibile il comportamento o latto discriminatorio. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altres, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.

 

FULVIO VASSALLO PALEOLOGO