FULVIO VASSALLO PALEOLOGO

 

DIRITTI DEI MIGRANTI E DISCRIMINAZIONE RAZZIALE IN ITALIA

 

 

1) Introduzione

Nel suo complesso, la legge Bossi Fini ( L. 30 luglio 2002, n.189) risulta caratterizzata dalla preoccupazione di affrontare il fenomeno dell'immigrazione soprattutto come una questione di ordine pubblico, ponendo in primo luogo lesigenza di allontanare gli immigrati irregolari e di contrastare il traffico di clandestini. Tale intento emerge chiaramente dalle prime righe della relazione allegata al disegno di legge 795 del 2001, secondo la quale, davanti al pericolo di una vera invasione dellEuropa da parte di popoli che sono alla fame, in preda ad una inarrestabile disoccupazione o a condizioni di sottoccupazione bisogna affrontare il problema di fondo concernente limmigrazione clandestina.

In realt la nuova legge oltre ad inasprire lapparato sanzionatorio chiude ogni possibilit di ingresso legale per lavoro, accentuando la precariet dei lavoratori migranti, costretti di fatto allingresso clandestino o a limitate possibilit di ingresso per lavoro stagionale.

Aspetto centrale della nuova disciplina, entrata in vigore nei primi giorni di settembre del 2002, il nuovo "contratto di soggiorno", la cui concessione legata all'esistenza di un contratto di di lavoro, con la conseguenza che lo status giuridico dell'immigrato dipende dalla persistenza del rapporto di lavoro. quindi, dalla volont  del datore di lavoro. Se entro sei mesi dal licenziamento limmigrato non riesce a concludere un nuovo contratto di lavoro, scadr anche il permesso di soggiorno e la condizione di irregolarit non sar pi sanabile con la stipula di un successivo contratto di lavoro.

La riforma del mercato del lavoro introdotta con la legge Biagi nel 2003,  a partire dalla legge 30 e dal d. lgs. 276/2003, la forte differenziazione dei rapporti di lavoro che ne seguita, dalle collaborazioni ai lavori a progetto, ha accresciuto le difficolt che incontrano gli immigrati in Italia nella stipula di rapporti di lavoro che in base al T.U. sullimmigrazione 286/98 dovrebbero essere caratterizzati dalla rigidit, come nel caso del contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato, uniche possibilit di accesso al permesso di soggiorno per lavoro subordinato.

Legare la possibilit di soggiorno legale alla stipula ( ed alla permanenza) di un contratto di lavoro tanto rigido, che levoluzione del mercato tende a superare,  significa esporre gli immigrati ad ogni sorta di pressioni, che possono tradursi anche in comportamenti ricattatori a danno dei soggetti pi deboli ( come le donne o gli immigrati pi anziani). La conseguenza pi evidente che ne deriva, anche tra gli immigrati regolarmente residenti, la diffusione ulteriore delle diverse tipologie di lavoro informale, fino al vero e proprio lavoro nero.

Con le modifiche apportate alla disciplina dei rapporti di lavoro dalla legge Bossi- Fini, soprattutto per lo stretto legame tra il contratto ed il permesso di soggiorno, si introduce un principio di netta differenziazione tra i lavoratori immigrati ed i lavoratori italiani, in contrasto non solo con la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ( n. 9047 dell 11 luglio 2001), che riafferma la parit di trattamento in caso di licenziamento, ma con lart. 1 della Convenzione dellOIL n. 143/75, gi recepito dalla legge 943/86 e dalart. 2 del T.U. 286/98 che vietano la discriminazione dei lavoratori stranieri. Ai sensi di tale convenzione, la perdita del posto di lavoro non pu comportare la conseguente scadenza del permesso ( definito dalla legge Bossi Fini come contratto) di soggiorno 

La gi restrittiva disciplina degli ingressi per lavoro, dettata dallart. 22 del T.U. 286, viene ulteriormente inasprita, obbligando i futuri datori di lavoro ad assumere anche limpegno di trovare una adeguata sistemazione alloggiativa per il lavoratore, ed a corrispondere le spese per il viaggio di ritorno nel paese di provenienza.

All'inasprimento della disciplina degli ingressi corrisponde una pericolosa precarizzazione di tutti gli immigrati, anche di quelli in regola da anni nel nostro paese.

Si allontana la prospettiva della stabilizzazione dei permessi di lunga durata ( carta di soggiorno), dimezzando i tempi di durata del permesso di soggiorno dopo il primo rinnovo ( da quattro a due anni) ed allungando i tempi richiesti per conseguire la carta di soggiorno ( da cinque a sei anni) con requisiti di reddito sempre pi difficili da provare.

Gi adesso si sta tentando- in via amministrativa- il restringimento dei diritti sociali ai soli immigrati che appunto riescano a conseguire tale documento. In molti casi che in base alla normativa vigente - dovrebbero essere trattati riguardando gli immigrati regolari alla stessa stregua dei cittadini, per gli indennizzi assicurativi a carico dellINPS in caso di infortunio, ad esempio, si sta limitando, in base a disposizioni amministrative che contrastano con la legge, il diritto alla prestazione assicurativa ai pochi immigrati gi in possesso della carta di soggiorno. Nel restringere l'accesso alla carta di soggiorno, prolungando i termini a sei anni di soggiorno legale ( per ragioni che consentano un rinnovo del permesso di soggiorno a tempo indeterminato, e quindi non per studio, ad esempio), la legge Bossi Fini si sta ponendo in rotta di collisione con lo sviluppo della normativa comunitaria che riconosce il soggiorno di lunga durata dopo soli cinque anni, esattamente come previsto dalla disciplina italiana introdotta dalla legge 40 del 1998 ed adesso abrogata dalla legge Bossi-Fini..

 

 

2.     La discriminazione ai danni degli immigrati irregolari, dei richiedenti asilo e protezione umanitaria : profili generali

. Come documentato dai report delle principali agenzie umanitarie  che hanno visitato il nostro paese(consultabili sui siti internet di AMNESTY e di PICUM) la discriminazione razziale diretta ed indiretta ha come obiettivo privilegiato gli immigrati illegali, e tra questi una percentuale rilevante costituita da potenziali richiedenti asilo . Linasprimento delle norme e delle prassi amministrative contro gli immigrati privi di permesso di soggiorno sta gi comportando pesanti effetti discriminatori. Effetti discriminatori che possono verificarsi anche quando latto amministrativo appare formalmente neutrale e non si collega direttamente alla mutata disciplina legislativa..

Basti pensare alla iniziativa assunta nel 2003 dalla Prefettura di Catania che ha chiesto ai dirigenti scolastici la comunicazione di eventuali iniziative attuate mediante progetti, conferenze o convegni a favore  dei figli degli immigrati di religione diversa dalla cattolica. In conseguenza, il dirigente del provveditorato agli studi di Catania ha inviato una circolare applicativa richiedendo ai presidi delle singole scuole notizie sulle iniziative attuate a favore di alunni di religione diversa dalla cattolica. Si cos realizzato da parte della Prefettura, di un ufficio periferico del governo dunque,  un censimento di tutti gli studenti figli di immigrati di religione diversa da quella cattolica. Siccome in Italia il diritto-dovere allo studio riconosciuto anche ai figli di immigrati irregolari, una semplice verifica attraverso i sistemi informatici permetter di scoprire i figli di immigrati privi di permesso di soggiorno, con domicilio e generalit dei genitori, con il rischio di una loro espulsione e di un allontanamento degli stessi figli minori da quel percorso formativo che avevano intrapreso nel nostro paese. E questo solo perch si tratta di giovani di religioni diverse, non solo quindi di musulmani, ma anche di protestanti , o induisti.

Le conseguenze discriminatorie di una simile iniziativa sono evidenti in quanto il primo effetto immediato potrebbe consistere nel ritiro degli alunni figli di immigrati irregolari, costretti da questa iniziativa ad una nuova e pi umiliante clandestinizzazione.

 

3.     Parit di trattamento e diritti sociali nella legge sullimmigrazione del 1998.

Le previsioni contenute nel testo originario della legge 40 del 1998, poi trasfusa nel T.U. sullimmigrazione del 1998, tentavano di instaurare un governo organico delle migrazioni, anche attraverso la logica della programmazione, che mirava ad equilibrare le finalit puramente repressive dellimmigrazione clandestina con notevoli apertura nella direzione dei diritti fondamentali dei migranti.

Secondo lart. 38 del T.U. 286/98 la comunit scolastica accoglie le differenze linguistiche e culturali come valore da porre a fondamento del rispetto reciproco, dello scambio tra le culture e della tolleranza; a tale fine promuove e favorisce iniziative volte allaccoglienza, alla tutela della cultura e della lingua dorigine e alla realizzazione di attivit interculturali comuni. Lart. 40 prevede centri di accoglienza a livello comunale per gli stranieri regolari impossibilitati a provvedere autonomamente allalloggio e laccesso degli immigrati regolari alle abitazioni delledilizia popolare alle stesse condizioni previste per gli italiani, anche se la nuova legge  limita sostanzialmente tale diritto prevedendo un tetto massimo.

Lart. 42 equipara gli stranieri muniti di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata superiore ad un anno alle stesse prestazioni assistenziali e previdenziali previste per gli italiani. Ma a tale riguardo una circolare dello scorso anno ha ristretto ai soli titolari di carta di soggiorno il diritto di continuare a fruire delle pensioni di invalidit. In questo modo la maggior parte degli immigrati che avevano solo un permesso di soggiorno, dopo avere subito incidenti sul lavoro o altri infortuni, e che godevano di una pensione di invalidit, sono stati privati della pensione e in qualche caso, addirittura, costretti a restituire quanto gi ricevuto.

Lart. 42 del testo Unico prevede misure di integrazione sociale che devono essere assunte dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni per la integrazione, la formazione, linsegnamento della lingua italiana, la mediazione culturale in favore degli immigrati regolari.

In particolare lart. 42 prevedeva la istituzione di Osservatori sulle discriminazioni su base regionale, senza per chiarire le modalit di funzionamento di tali enti n un loro raccordo a livello nazionale. In molte regioni italiane queste strutture non sono state mai istituite. Continua a mancare soprattutto una collaborazione tra le associazioni e le istituzioni nel monitoraggio e nel contrasto degli atti di discriminazione, e lunico rapporto che gli apparati dello stato cercano di instaurare con le associazioni si avvia a diventare esclusivamente un rapporto di collaborazione nelle procedure di trattenimento dei richiedenti asilo, nelle more dellesame sommario della loro istanza, e nelle procedure di internamento e di allontanamento forzato degli stranieri privi di permesso di soggiorno.

La legge Turco Napolitano del 1998 comunque tracciava un ruolo importante per gli enti locali, coinvolti a pieno titolo nella gestione dei flussi migratori e nel contrasto degli atti di discriminazione razziale. In molti settori, peraltro, come la scuola o la sanit, i processi in atto di devoluzione delle competenze dallo stato alle regioni ha enormemente accresciuto la responsabilit di questi ultimi soggetti, e degli enti locali ( province e comuni) che dovrebbero diventare i gestori attivi delle politiche di integrazione.

Purtroppo tale disciplina ha trovato in Italia una applicazione molto differenziata, a seconda dellimpegno degli enti locali. In alcune regioni come la Sicilia persino mancata la capacit di realizzare una legge regionale sullimmigrazione che dotasse lente regione di competenze e mezzi finanziari in materia di immigrazione e asilo. Rimane a presidio della verifica delle politiche di integrazione, la apposita Commissione prevista dallart. 46 del T.U. 286 del 1998. Un altro organismo di verifica e di programmazione delle politiche sullimmigrazione istituito presso il CNEL ( art. 42.3). Dopo linsediamento del nuovo governo nel 2001 la attivit di questi organismi si fortemente ridotta.

 

4.   Le azioni civili contro la discriminazione razziale.

 

Gli articoli 43 e 44 del Testo Unico n.286 del 1998 concernente la disciplina dellimmigrazione e norme sulla condizione dello straniero riaffermavano il principio di non discriminazione e fornivano una definizione positiva del concetto di discriminazione, reiterando la definizione gi contenuta nella Convenzione internazionale sulleliminazione della discriminazione razziale.

La nuova normativa individua il contenuto del concetto di discriminazione razziale e introduce una azione specifica di natura inibitoria per fare cessare gli atti discriminatori, e per ottenere al contempo il risarcimento del danno anche di carattere non patrimoniale subito dalla vittima.

 

(nota)Anche la dottrina civilistica ha colto la novit delle nuove disposizioni, fornendo una ricostruzione teorica che approfondisce gli aspetti della tutela civile ma che ora va riconsiderata alla luce della direttiva 2000/43/CE e della sua controversa traduzione nel nostro ordinamento interno.

 In materia si veda MOROZZO DELLA ROCCA P., Gli atti discriminatori nel diritto civile, alla luce degli artt. 43 e 44 del T.U. sullimmigrazione, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2002, p.112, e SCARSELLI G. Appunti sulla discriminazione razziale e la sua tutela giurisdizionale, in Rivista di diritto civile, 2001, I, p.805.

Si  deve ritenere che la tutela contro atti di discriminazione razziale non possa essere limitata alla protezione dei soli residenti, ma che riguardi qualunque soggetto anche solo provvisoriamente soggiornante, od in transito nel nostro paese. Si aggiunge anche che la tutela contro le discriminazioni non pu, invero, che trascendere lambito della regolarit della presenza in Italia, perch ne evidente la connessione con la sfera dei diritti fondamentali della persona che la stessa legge in esame, allart. 2, dichiara di riconoscere a qualunque straniero comunque presente in Italia ( Morozzo della Rocca, 2002, p.125).

 

Nellaffermare il diritto della vittima del comportamento discriminatorio al risarcimento del danno, anche di carattere morale, la normativa introdotta nel 1998 dalla legge Turco Napolitano eliminava la necessit che il risarcimento del danno morale si dovesse necessariamente collegare al rilevamento di un reato, agevolando quindi la tutela della vittima della discriminazione.

Per discriminazione razziale si intende ogni comportamento che direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, lascendenza, o lorigine nazionale o etnica, le convinzioni o le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o leffetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o lesercizio, in condizione di parit, dei diritti umani e delle libert fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

Oltre alla discriminazione diretta ed individuale si prevede la nuova fattispecie della discriminazione indiretta ed istituzionale che pu derivare da atti posti in essere da pubblici ufficiali o da persone incaricate di pubblico servizio.

La novit pi importante introdotta dallart.43 del T.U.286/98 consisteva nella nuova considerazione della discriminazione razziale che non viene pi vista esclusivamente nellambito delle relazioni tra cittadini e stranieri ma viene individuata anche nei rapporti tra gli agenti istituzionali ( pubblica amministrazione, polizia, istituzioni scolastiche e sanitarie etc.) e gli immigrati.

La normativa contro la discriminazione razziale introdotta nel 1998 dalla legge Turco Napoletano, poi trasfusa nel T.U. n.286 del 1998 agli art. 43 e 44 stata utilizzata in un numero esiguo di casi, e non si sono attivati quegli osservatori regionali per il monitoraggio e linformazione, nonch lassistenza legale alle vittime delle discriminazione, che costituivano un punto saliente della disciplina contenuta nella legge 40 del 1998, e poi nel Testo Unico in materia di immigrazione e condizione giuridica dello straniero.

Il problema pi grosso rimane dunque quello della effettivit della tutela contro atti o comportamenti che magari indirettamente, e quindi in modo particolarmente subdolo, realizzino la discriminazione razziale. La discriminazione quotidiana ormai passa quasi inosservata.

 

 

Tra le ipotesi pi significative di discriminazione sanzionate dalla nuova disciplina introdotta con lart. 43 del T.U. 286 del 1998,  quella attuata da chiunque illegittimamente imponga condizioni pi svantaggiose o si rifiuti di fornire laccesso alloccupazione, allalloggio, allistruzione, alla formazione ed ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia, o nazionalit. Rimane ovviamente al giudice di stabilire quando il comportamento oltre che discriminatorio, risulti anche illegittimo.

Compie un atto discriminatorio anche il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dellart. 15 della legge 20 maggio 1970, n.300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n.903 e dalla legge 11 maggio 1990,n.108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche indirettamente i lavoratori n ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico, o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. In questo caso, si osserva che la qualifica razzista del comportamento deriva pi che dallatto in s, dalla motivazione del soggetto agente, che risulter particolarmente difficile da provare da parte della vittima.

Anche la  legge italiana ( artt. 43 e 44 T.U. 286 del 1998) riconosce - come si detto - la distinzione tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta, ma lonere della prova dellintento discriminatorio rimane affidato alla vittima e sono pochissime le sentenze di condanna, o di contenuto inibitorio, che abbiano sanzionato atti di discriminazione razziale nel nostro paese .

 

Dopo avere individuato allart. 43 del T.U. gli atti di discriminazione razziale, il successivo articolo 44 elenca i diversi rimedi che possono essere esercitati dalle vittime, ed in qualche caso dalle associazioni che difendono i diritti dei migranti.

Secondo lart. 44 del T.U. n.286 del 1998 ( che anche in questo punto ricomprende una analoga previsione contenuta nella legge Turco Napolitano n. 40, sempre del 1998), il giudice pu con il provvedimento che ritiene pi opportuno, e se occorra anche con una pronuncia inibitoria, affermare la ricorrenza di una discriminazione diretta o indiretta e  ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.

Secondo lart. 44 comma 9 il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa, o della cittadinanza, pu dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, allassegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti dellazienda interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui allart. 2729, comma 1 del codice civile. La previsione conferma che nellordinamento italiano, fino alla effettiva trasposizione della direttiva 200/43/CE, lonere probatorio del comportamento discriminatorio incombe sulla vittima, e che una presunzione si pu ricavare solo da dati di fatto forniti e provati dallattore, che ha subito il comportamento discriminatorio. In qualche modo, comunque, il ragionamento presuntivo basato anche sugli elementi statistici, dovrebbe agevolare la prova della discriminazione razziale, ma la pochezza delle applicazioni giurisprudenziali lascia presumere il contrario. Da parte della dottrina si osserva come il ricorso sia di carattere prevalentemente individuale, e questo dato espone a ritorsioni la vittima delle denunce contro atti discriminatori.

Solo lart. 44 comma 10 del T.U. n. 286 del 1998, dispone che in caso di discriminazioni verificate in occasioni di rapporti di lavoro, il ricorso possa essere presentato dalla rappresentanza sindacale.

 

5)  In particolare: la discriminazione razziale nei luoghi di lavoro

 

Nel campo dei rapporti di lavoro la tutela contro atti di discriminazione a base etnica o razziale stata assicurata pi dallintervento dei giudici ordinari che hanno applicato la normativa vigente in tema di lavoro, piuttosto che richiamarsi alla specifica normativa anti discriminazione contenuta negli artt. 43 e 44 del Testo Unico 286 del 1998 sullimmigrazione.

Cos una sentenza della Corte di Cassazione, sez lavoro, del 2.4/11.7.2001, n.9407 ( in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2001, p.1599 ha applicato il principio di parit di trattamento dei lavoratori indipendentemente dalla razza o dalla loro origine etnica.

Nella sentenza si ricorda che gi lart. 1 della legge 30 dicembre 1986 n. 943 garantisce ai lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia parit di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, in attuazione della convenzione OIL n. 143 del 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981 n.158, e che le sezioni unite di questa Corte, con la recente sentenza n. 62/2000/SU, hanno precisato che tale parit estesa alla fase anteriore alla costituzione del rapporto. Sulla base del riconosciuto carattere di stabilit del lavoratore degli immigrati, pure se titolari di un permesso di soggiorno da rinnovare ogni due anni, la corte afferma che il principio di parit di trattamento persiste anche nel caso di sopravvenuta scadenza o revoca del permesso di soggiorno, perch questi eventi non determinano necessariamente e di per se stessi una impossibilit definitiva di attuazione del rapporto. Osserva ancora la Corte come ben possibile, al contrario, che sia ripristinata, anche in tempi brevi, la possibilit di esecuzione, a seguito di eventi quali il rinnovo del permesso, la concessione di uno nuovo, lannullamento o la sospensione dellatto di revoca ecc., come del resto si verificato nel caso in esame. Ed evidente in simili casi sarebbe incongruamente penalizzante per il lavoratore straniero lautomatica e definitiva perdita del posto di lavoro, nel momento stesso della scadenza del permesso o della sua revoca.

La Corte tuttavia ammette che la revoca o la scadenza del permesso di soggiorno, oltre a costituire giusta causa di licenziamento, possano produrre non la risoluzione del rapporto ma la sua sospensione totale, con riguardo ad ogni suo effetto economico e giuridico ( ivi compresa, quindi, lesclusione della maturazione delle quote di mensilit differite, del trattamento di fine rapporto, dellanzianit, degli obblighi di contribuzione). Si ribadisce quindi che il permesso di soggiorno richiesto non ai fini della validit del contratto, ma solo ai fini della sua efficacia, affermando poi che comunque il lavoratore ha diritto alla retribuzione in caso di svolgimento di lavoro in carenza del permesso di soggiorno. La decisione particolarmente interessante perch stabilisce un principio che potrebbe essere disatteso dopo la modifica introdotta dalla recente legge Bossi Fini che trasforma il permesso di soggiorno in contratto di soggiorno, legandolo in modo ancora pi netto alla sussistenza di un valido rapporto di lavoro.

 

La materia dei rapporti di lavoro degli immigrati  presenta per molteplici aspetti. In molti casi si verificano discriminazioni insopportabili, ma queste derivano proprio dalle disposizioni legislative o regolamentari contro le quali non possibile azionare la tutela introdotta dagli artt. 43 e 44 del T.U. 286 del 1998. Cos ad esempio i titolari di un permesso di soggiorno per motivi di salute non potrebbero svolgere nel nostro paese alcuna attivit lavorativa, trovandosi quindi nella impossibilit di sostenere, o contribuire al sostentamento del proprio nucleo familiare.

Con una importante decisione del Tribunale di Firenze del 24 dicembre 2001, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2002, p168 con nota di M.Pipponzi), e con altra decisione della Corte di Appello di Firenze del 21 dicembre 2001, si afferma il principio di non discriminazione, tra chi ha il permesso di soggiorno per motivi di salute e chi invece titolare di un permesso per motivi di famiglia, che consente pacificamente la prestazione di una regolare attivit lavorativa. In entrambi i casi dunque, solo grazie allintervento della giurisprudenza viene evitata una pesante discriminazione istituzionale ai danni di immigrati in condizioni di particolare vulnerabilit, perch malati, ed al contempo responsabili del mantenimento dei propri figli. I giudici fiorentini richiamano anche la Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, resa esecutiva in Italia con la legge n.176 del 1991, dalla quale si ricava come i genitori possano adempiere ai propri doversi di assistenza nei confronti dei figli solo se sono messi nella effettiva possibilit di procurarsi i mezzi necessari prestando una attivit lavorativa

 La vicenda  che aveva preso le mosse dal diniego frapposto dalla questura di rilasciare un permesso per motivi di famiglia, in luogo del permesso per motivi di salute poi rilasciato, mette in risalto la questione della difesa legale che costituisce lunico strumento in Italia, quando possa essere effettivamente esperita, per il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali degli immigrati.

 

6. Diritti fondamentali dei richiedenti asilo e delle loro famiglie

Nel corso del 2002 le richieste di asilo In Italia sono state 9.608, mentre nel 2001 erano state 17.600 e nel 2000 pi di 18.000. Se consideriamo che la commissione centrale respinge annualmente il 90 per cento delle richieste di asilo, si pu giungere facilmente alla conclusione che lItalia non rispetta il fondamentale diritto della persona umana allasilo, e costringe decine di migliaia di richiedenti asilo alla clandestinit, determinando problemi anche agli altri paesi europei verso i quali rivolgono flussi sempre pi consistenti di potenziali richiedenti asilo respinti, espulsi o resi clandestini dal nostro paese.

Chi viene rimpatriato senza avere neppure la possibilit di presentare una domanda di asilo, pur avendo manifestato la volont di chiedere asilo in Italia, finisce per essere internato in carcere o ucciso, come si teme che sia successo gi nel caso della famiglia siriana, o di un gruppo di kurdi rimpatriati nel 2001 direttamente in Turchia, e come avviene anche per molti cingalesi disertori o tamil, riconosciuti dal console cingalese e rimpatriati con un volo charter direttamente nel paese dal quale erano fuggiti. Nel 2002 lItalia ha effettuato 5 voli charter verso lo Sri Lanka per rimpatriare persone molte delle quali, rinchiuse nei centri di detenzione pugliesi, avevano manifestato lintenzione di chiedere asilo; senza riuscire a formalizzare la domanda, in assenza di interpreti o per il giudizio sommario da parte delle autorit di polizia circa la strumentalit della richiesta. Altri voli charter sono stati eseguiti in questo primo scorcio del 2003, e molte persone che avevano richiesto asilo, dopo un esame sommario da parte di una delegazione della Commissione centrale competente al riguardo ( per loccasione trasferitisi da Roma in Puglia), e dopo un riconoscimento altrettanto sommario del console di quel paese, chiamato dalla polizia subito dopo il diniego della Commissione, sono state imbarcate su un aereo sotto scorta della polizia italiana che li ha consegnati alla polizia cingalese.

Come se la semplice proposizione della richiesta di asilo non esponesse gli immigrati a sicure ritorsioni da parte della polizia del loro paese, al momento del rimpatrio forzato.

 

In moltissimi casi i potenziali richiedenti asilo sono stati trattenuti per settimane nei centri di permanenza temporanea, o in centri di transito, comunque strutture chiuse ed inaccessibili per gli operatori delle organizzazioni non governative, senza potere presentare domanda di asilo, oppure anche dopo avere presentato domanda di asilo, prima della loro identificazione.

 

Con gli ultimi provvedimenti adottati nel settembre del 2002, nel marzo e adesso nel mese di maggio di questanno, con una ordinanza del Presidente del Consiglio, si consentito che la commissione centrale, competente a decidere sulle domande di asilo, operasse anche senza la collegialit prevista dalla legge, spostandosi nei centri di detenzione dove restavano rinchiusi molti richiedenti asilo.

Ma i rappresentanti della commissione non sono arrivati quasi mai in Sicilia. Pi spesso i richiedenti asilo sono stati deportati dalla Sicilia verso la Calabria, a Crotone, o nei centri pugliesi.  Adesso, dopo lapprovazione dei decreti di attuazione della legge Bossi-Fini n.189 del 2002, anche se non se ne conosce esattamente il contenuto, anche in Sicilia sembra prossimo lavvio dei nuovi centri di identificazione per richiedenti asilo, come il centro di Salina Grande, vicino Trapani; con il nuovo escamotage dei cd. centri a destinazione mista, gi collaudato al Regina Pacis di Lecce, dove pi facile spacciare per accoglienza quella che rimane soltanto detenzione amministrativa, spesso anche al di l dei termini e delle procedure previste dalla legge. Al riguardo autorevoli fonti ministeriali  affermavano, fino a poche settimane fa, come nei nuovi centri di identificazione i richiedenti asilo avrebbero sofferto solo di una limitazione della libert di circolazione, e non della libert personale, restando consentito in altri termini luscita giornaliera dal centro con rientro serale; nellultima versione del decreto attuativo, sembra per le pressioni della Lega nord, i centri di identificazione sono caratterizzati dal divieto assoluto di allontanamento e di uscita: si tratter dunque di veri e propri centri chiusi, che porranno delicate questioni di gestione delle strutture e di compatibilit delle prassi amministrative di trattenimento con le previsioni di legge e della Costituzione in materia di asilo e di limitazione della libert personale (art.13).

Come si vede, continua a regnare lincertezza, e non si conosce ad oggi quale sar lesatto status dei richiedenti asilo in Italia; anche se tra poco , a tale riguardo, dovr darsi attuazione alla Direttiva comunitaria n. 9 del 2003, che imporr anche allItalia la predisposizione di nuove norme che rendano uniformi gli standard europei in materia di procedure per i richiedenti asilo, garantendo soprattutto leffettivit del diritto di ricorso riconosciuto al richiedente asilo dopo il diniego della sua istanza.

La stessa direttiva comunitaria n.9 del 2003 contiene a tale riguardo previsioni che risultano in totale contrasto con quanto previsto dalla legge Bossi Fini, e ancora di pi con il nuovo regolamento di attuazione non ancora entrato in vigore, che consente laccompagnamento immediato in frontiera anche in presenza di un ricorso non ancora esaminato dal giudice.

 

7. La attuazione delle direttive comunitarie 43/2000 e 78/2000 in Italia

 

Il decreto legislativo n.215 del 2003 che recepisce la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che attua il principio di parit di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dallorigine etnica tradisce in numerosi punti le finalit e la lettera della corrispondente direttiva comunitaria.

 

Lart.1 definisce loggetto del decreto legislativo, relativo allattuazione della parit di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dallorigine etnica, disponendo le misure necessarie per impedire che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione anche in un ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini nonch dellesistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

La previsione tiene conto del 14 considerando della Direttiva 2000/43/CE, secondo cui  nell'attuazione del principio della parit di trattamento a prescindere dalla razza e dall'origine etnica la Comunit dovrebbe mirare, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, del trattato CE, ad eliminare le inuguaglianze, nonch a promuovere la parit tra uomini e donne, soprattutto in quanto le donne sono spesso vittime di numerose discriminazioni. Risulta invece innovativo, rispetto al testo della corrispondente direttiva, il richiamo alla considerazione delle forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

Lart. 2 fornisce le nozioni di discriminazione, e definisce innanzitutto i concetti di discriminazione diretta ed indiretta.

Si ha discriminazione diretta quando, per la razza o lorigine etnica, una persona trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in situazione analoga; ricorre una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono persone di una razza o di una determinata origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Le previsioni appaiono corrispondenti a quanto disposto al riguardo dalla direttiva comunitaria.

Si fa salvo il disposto dellart. 43 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 286 del 1998, comunemente inteso come Testo unico sullimmigrazione.

Si precisa inoltre che sono considerate come discriminazioni anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o leffetto di violare la dignit di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

La norma conclude infine che lordine di discriminare persone  a causa della razza o dellorigine etnica considerata come una discriminazione ai sensi del primo comma dellarticolo in esame.

 

Lart.3 ( Ambito di applicazione) delimita il campo di applicazione del decreto di attuazione e ha un contenuto corrispondente a quanto previsto dalla direttiva.

Il principio di parit di trattamento si applica a tutte le persone nei settori pubblici e privati, per quanto concerne laccesso alloccupazione, al lavoro, allorientamento ed alla formazione professionale, loccupazione e le condizioni di lavoro, le attivit nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro, la protezione sociale, lassistenza sanitaria, le prestazioni sociali, listruzione e laccesso a beni e servizi.

Si prevedono inoltre alcuni casi di differenze di trattamento che non costituiscono discriminazioni ai sensi dellart.2 : Nel rispetto del principio di proporzionalit e ragionevolezza, nellambito del rapporto di lavoro o nellesercizio dellattivit di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dellart.2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o allorigine etnica di una persona , qualora si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dellattivit lavorativa.

Ma chi stabilisce la portata effettiva questa importante fattispecie derogatoria? Probabilmente, tutto rimarr affidato al potere di organizzazione e di distribuzione del lavoro nellimpresa, proprio del datore di lavoro, e la tutela delle vittime di discriminazione razziale o etnica nei luoghi di lavoro non si potr compiutamente realizzare. Ma sotto questo profilo occorre tenere conto della coeva introduzione in Italia della normativa derivata dalla direttiva 78/2000/CE, relativa alla discriminazione nei luoghi di lavoro.

Nel decreto legislativo di recepimento sono fatte salve tutte le norme vigenti in materia di ingresso, espulsioni e accesso al lavoro ( art.3 comma 2).

 In questo modo, considerando la larga discrezionalit amministrativa esercitata in questo ambito, si apre la strada per la immunit degli agenti statali che pongono in essere comportamenti discriminatori ai danni degli immigrati per quanto riguarda la libert personale e di circolazione.

Sar infatti sufficiente invocare una norma di legge, per mettersi al riparo dalla prova, che rimane sempre in capo alla vittima, di un comportamento discriminatorio.

Si trascura peraltro di dare applicazione allart. 14 della direttiva che imponeva agli stati

membri di  adottare le misure necessarie per assicurare che tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed  amministrative contrarie al principio della parit di trattamento siano abrogate.

 

Lart. 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti.

Si ribadisce la possibilit di utilizzare la specifica azione civile contro la discriminazione razziale gi dettata dallart. 44 del T.U. n. 286 del 1998. Rimane fermo lonere della prova in capo alla vittima dellatto o della prassi discriminatoria.

Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno pu dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui allart. 2729, primo comma, del codice civile.

In questo modo si contraddice la normativa comunitaria che ne imponeva la modifica, stabilendo la inversione dellonere della prova che sarebbe dovuto toccare al convenuto e non alla vittima della discriminazione parte attrice.

Viene completamente disatteso lart. 8 della Direttiva 2000/43/CE che assegnava alla parte accusata del comportamento discriminatorio, e non alla vittima, lonere della prova.

Non vi traccia della trasposizione nel nostro ordinamento del fondamentale art. 9 della direttiva, che stabiliva la protezione delle vittime degli atti di discriminazione, imponendo agli stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere le persone da trattamenti o conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un azione volta ad ottenere il rispetto del principio della parit di trattamento

Rispetto alla normativa gi in vigore ( Testo Unico sullimmigrazione n.286 del 1998), lart. 4 comma terzo della bozza di decreto delegato non richiama il fondamentale principio dellinversione dellonere della prova ma anzi aggrava lonere probatorio che aveva inficiato la effettivit della norma gi in vigore ( art.44): si precisa anzi che, come previsto dallart. 2729 del codice civile, il ricorrente al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno pu dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti.

Lonere della prova rimane per intero a carico della vittima della discriminazione.

Esattamente lopposto di quanto intendeva la direttiva comunitaria.

Rimane a questo punto di scarso impatto la possibilit che il giudice ordini il risarcimento del danno anche non patrimoniale, oppure impartisca disposizioni per fare cessare il comportamento discriminatorio ( tutela inibitoria), oppure, ancora, ordini ladozione di un piano di rimozione degli effetti del comportamento discriminatorio, di cui tenere conto in sede di liquidazione dei danni.

Il giudice tiene conto  ai fini della liquidazione del danno che latto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attivit del soggetto volta ad ottenere il rispetto del principio di parit di trattamento.

Pu essere prevista la pubblicazione della sentenza di condanna.

 

Le norme sulla legittimazione ad agire , art. 5, e sul registro delle associazioni , art. 6 appaiono ispirate a preoccupazioni di controllo, piuttosto che alle finalit di garantire una pi ampia tutela da parte delle associazioni contro gli atti di discriminazione razziale.

Possono agire in giudizio per denunciare casi di discriminazioni razziale soltanto le associazione iscritte in un apposito elenco approvato con decreto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunit ed individuati in base delle finalit programmatiche e della continuit dazione.

In base allart. 5, in particolare, lintervento delle associazioni previsto anche in caso di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione. Nel caso di discriminazione individuale le asssociazioni possono agire in base ad una delega rilasciata dalla vittima della discriminazione, per iscritto, a pena di nullit, per atto pubblico o scrittura privata; nel caso di discriminazione collettiva, le associazioni possono agire anche in assenza di una delega perch non sono individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione.

Il successivo art. 6 precisa i requisiti che devono possedere le associazioni che intendono iscriversi nel Registro delle associazioni che intendono svolgere attivit nel campo della lotta alle discriminazioni, aggiungendo che la Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le pari opportunit, provvede annualmente allaggiornamento del registro.

 

Altra previsione in contrasto frontale con la direttiva, risulta essere lart. 7 del decreto delegato secondo il quale ҏ istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri dipartimento per le pari opportunit un Ufficio per la promozione della parit di trattamento e la rimozione delle discriminazione fondate sulla razza e sullorigine etnica, ufficio che dovrebbe fornire assistenza nei procedimento giurisdizionali o amministrativi le vittime dei comportamenti discriminatori.

Lufficio ha la facolt di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano in possesso, di fornire le informazioni e di esibire i documenti utili ai fini dellespletamento dei propri compiti.

 

La direttiva 2000/43/CE prevedeva un agenzia indipendente dal governo, mentre in Italia la normativa di attuazione stabilisce che questo ufficio che dovrebbe promuovere la parit di trattamento diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri

o da un ministro da lui delegato, e si articola secondo modalit organizzative fissate con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Tale ufficio si potr avvalere anche di personale di amministrazioni pubbliche nonch di esperti e consulenti esterni tutti rigorosamente scelti in base al metodo della cooptazione.

Insomma un vero e proprio ufficio studi al servizio del governo.

Insomma tutto il contrario di quanto previsto dalla direttiva comunitaria che prevedeva un

organismo indipendente per la promozione della parit di trattamento ( art. 13).

 

Nel decreto delegato non vi traccia del dialogo con le organizzazioni non governative

previsto dallart. 12 della Direttiva 2000/43/CE, secondo il quale gli stati membri incoraggiano il

dialogo con le competenti organizzazioni non governative che... hanno un interesse legittimo a

contribuire alla lotta contro la discriminazione fondata sulla razza e sullorigine etnica

 

Manca infine  un adeguato quadro sanzionatorio, che era invece imposto dallart. 15 della direttiva,

ed al riguardo, in particolare, non si fa alcuna menzione delle conseguenze che incombono al

soggetto autore del comportamento discriminatorio che non obbedisce allingiunzione del giudice di

astenersi da tale comportamento. Non si vede in sostanza come le sanzioni proposte dal decreto

possano risultare effettive, proporzionate e dissuasive.

 

 

 

 

 

 

8.  Modalit di attuazione della Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un un

quadro generale per la parit di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

 

Il testo di decreto delegato n.216 approvato dal Consiglio dei ministri del 3 luglio 2003, stato  pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 187 del 13 agosto 2003.

La normativa italiana di trasposizione della direttiva comunitaria, trascura innanzitutto la portata precettiva dei considerando della direttiva, a partire dal fondamentale richiamo all'articolo 6 del trattato sull'Unione europea, secondo il quale lUnione europea si fonda sui principi di libert, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libert fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri e rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti delluomo e delle libert fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario.

Rimane altres del tutto trascurato il 15 considerando della direttiva 2000/78/CE, secondo cui la valutazione dei fatti sulla base dei quali si pu argomentare che sussiste discriminazione diretta o indiretta una questione che spetta alle autorit giudiziarie nazionali o ad altre autorit competenti conformemente alle norme e alle prassi nazionali. Tali norme possono prevedere in particolare che la discriminazione indiretta sia stabilita con qualsiasi mezzo, compresa l'evidenza statistica.

Altrettanto trascurato risulta laltro principio fondamentale contenuto nel 29 considerando della direttiva, in base al quale le vittime di discriminazione a causa della religione o delle convinzioni personali, di un handicap, dell'et o delle tendenze sessuali dovrebbero disporre di mezzi adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello pi efficace di protezione, anche alle associazioni o alle persone giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalit stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative alla rappresentanza e alla difesa in giustizia Stessa sorte per il considerando n.30 secondo cui lefficace attuazione del principio di parit richiede unadeguata protezione giuridica in difesa delle vittime.

Ma la violazione pi grave perpetrata dal governo italiano ai danni della direttiva comunitaria riguarda le norme in materia di onere della prova. In base al considerando n.31 queste avrebbero dovuto essere adattate quando vi sia una  presunzione di discriminazione e, nel caso in cui tale situazione si verifichi, l'effettiva applicazione del principio della parit di trattamento richiede che l'onere della prova sia posto a carico del convenuto. Non incombe tuttavia al convenuto provare la religione di appartenenza, le convinzioni personali, la presenza di un handicap, l'et o l'orientamento sessuale dell'attore.

Altrettanto disatteso infine, come si vedr meglio dallesame del testo articolato del decreto legislativo approvato dal  governo il 3 luglio 2003, il confronto con le parti sociali. Secondo il considerando 33 della direttiva 2000/78/CE, gli Stati membri dovrebbero promuovere il dialogo fra le parti sociali e, nel quadro delle prassi nazionali, con le organizzazioni non governative ai fini della lotta contro varie forme di discriminazione sul lavoro.

 

Lart. 1 del decreto ne definisce loggetto individuato in disposizioni relative allattuazione della parit di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dallet e dagli orientamenti sessuali, per quanto concerne loccupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinch tali fattori non siano causa di discriminazione, in un ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su uomini e donne. In questo caso la previsione pi ampia del corrispondente articolo 1 della direttiva, recuperando dai considerando il richiamo al diverso impatto che i vari fattori di discriminazione possono avere tra uomini e donne.

 

Lart. 2 del decreto  ripete la medesima formulazione dellart. 2 della direttiva comunitaria 78/2000, e quindi per "principio della parit di trattamento" si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dellet o dellorientamento sessuale, fornendo quindi una definizione di discriminazione diretta ed indiretta conforme al modello comunitario. E molto importante per la previsione di un ampio regime derogatorio, che richiamato dallinciso salvo quanto disposto dallart.3, commi da 3 a 6..

Tale regime rischia di svuotare nella maggior parte dei casi la portata sostanziale della nuova normativa, e  ne analizzeremo le ragioni quando tratteremo specificamente lart.3.

Intanto si pu affermare che sussiste sussiste discriminazione diretta quando, per religione,

per convinzioni personali, per handicap, per et o per orientamento sessuale, una persona

trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata unaltra in una

situazione analoga.

Sussiste invece una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio,

una prassi , un atto, un patto, o un comportamento apparentemente neutri possono mettere

le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone

portatrici di un  handicap, le persone di una particolare et o di un orientamento sessuale,

in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Sono altres considerate come discriminazioni anche molestie ovvero quei comportamenti

indesiderati posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1 aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignit di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

Per quanto riguarda la nozione di discriminazione si pu dunque rilevare una sostanziale corrispondenza tra la direttiva comunitaria 78/2000 e la corrispondente normativa italiana che ne costituisce attuazione.

 

Anche lambito di applicazione dei decreti delegati corrisponde al campo di applicazione della direttiva 2000/78/CE.

In particolare il decreto delegato stabilisce che il principio di parit di trattamento suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme di tutela del successivo art. 4 del decreto , e qui risiede gi una potenziale delimitazione dellefficacia della direttiva rispetto alla formulazione pi ampia della direttiva secondo cui questa si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

a)      alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attivit e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonch alla promozione;

b)all'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

c) alloccupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;

d)          allaffiliazione e allattivit in unorganizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonch alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.

 

La delimitazione del campo di applicazione della direttiva appare poi in tutta la sua evidenza quando si considera la previsione del secondo comma dellart. 3, in base al quale la disciplina contenuta nel decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di:

a)     condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso alloccupazione, allassistenza e alla previdenza dei cittadini dei paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato;

b)    sicurezza e protezione sociale

c)     stato civile e prestazioni che ne derivano

d)    forze armate, limitatamente ai fattori di et e di handicap

 

La direttiva 2000/78/CE prevedeva soltanto che questa non riguardava le differenze di

trattamento basate sulla nazionalit e non pregiudica le disposizioni e le condizioni relative

all'ammissione e al soggiorno di cittadini di paesi terzi e di apolidi nel territorio degli Stati membri,

n qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini dei paesi terzi o degli

apolidi interessati. Si aggiungeva poi che la stessa direttiva non si applica ai pagamenti di

qualsiasi genere, effettuati dai regimi statali o da regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di

sicurezza sociale o di protezione sociale. Infine si conferma la previsione comunitaria secondo cui

gli Stati membri possono prevedere che la presente direttiva, nella misura in cui attiene le

discriminazioni fondate sull'handicap o sull'et, non si applichi alle forze armate.

 

 

Lart.4 della direttiva comunitaria risulta riprodotto sempre nel corpo dellart. 3 del decreto delegato al comma terzo, laddove si prevede che nel rispetto dei principi di proporzionalit e ragionevolezza, nellambito del rapporto di lavoro o nellesercizio dellattivit di impresa, non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, allhandicap, allet o allorientamento sessuale di una persona, quualora, per la natura dellattivit lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che  costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dellattivit medesima.

Il regime derogatorio introdotto dal legislatore italiano appare comunque pi ampio e maggiormente

rimesso nei fatti alla discrezionalit amministrativa, rispetto a quanto invece prevedeva la direttiva

comunitaria nelle previsioni corrispondenti.

Sar utile al riguardo confrontare le prescrizioni analitiche contenute nella direttiva con le formule

pi sfumate e volutamente generiche che caratterizzano le corrispondenti previsioni dei decreti di

attuazione.

Secondo la Direttiva 2000/78/CE , a mente dellart. 4 gli Stati membri possono mantenere nella

legislazione nazionale in vigore alla data d'adozione della presente direttiva o prevedere in una

futura legislazione che riprenda prassi nazionali vigenti alla data d'adozione della presente direttiva,

disposizioni in virt delle quali, nel caso di attivit professionali di chiese o di altre organizzazioni

pubbliche o private la cui etica fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una

differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisca

discriminazione laddove, per la natura di tali attivit, o per il contesto in cui vengono espletate, la

religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato

per lo svolgimento dell'attivit lavorativa, tenuto conto dell'etica dell'organizzazione. Tale

differenza di trattamento si applica tenuto conto delle disposizioni e dei principi costituzionali degli

Stati membri, nonch dei principi generali del diritto comunitario, e non pu giustificare una

discriminazione basata su altri motivi.

Secondo lart.3 comma 6 del decreto delegato invece  non costituiscono, comunque, atti di

discriminazione quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente

discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalit legittime perseguite attraverso mezzi

appropriati e necessari. La genericit della previsione derogatoria rischia di svuotare di ogni

contenuto operativo la stessa categoria di discriminazione indiretta, pure formalmente accolta dalla

normativa italiana di attuazione.

 

Come detto in precedenza, laspetto pi lacunoso del decreto delegato che attua in Italia la direttiva  2000/78/CE costituito dalla previsione dei mezzi di ricorso e delle procedure giurisdizionali.

Gli artt. 9 e 10 della Direttiva ne costituivano infatti gli aspetti essenziali perch miravano alla

effettiva applicazione della nuova normativa, altrimenti destinata a rimanere del tutto inattuata,

come era successo in passato ad altri interventi legislativi dei competenti organi nazionali che, come si visto nel caso degli artt. 43 e 44 del T.U. n.286 del 1998, erano rimasti privi di una applicazione  diffusa.

 

In base allart 9 della Direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto provvedere affinch tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parit di trattamento, possano accedere, anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le procedure di conciliazione finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti dalla presente direttiva. Secondo il secondo comma dello stesso art. 9 gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all'esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.

 

Secondo il successivo art. 10 della Direttiva, gli stati membri avrebbero dovuto prendere le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorch persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parit di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un'altra autorit competente, fatti dai quali si pu presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi stata violazione del principio della parit di trattamento.

La direttiva invero lasciava una via di fuga che stata prontamente sfruttata dal legislatore italiano, circa la delimitazione sostanziale del principio che stabiliva linversione dellonere della prova in danno del convenuto, lagente accusato di avere compiuto latto discriminatorio.

Nella direttiva si affermava infatti che gli Stati membri non sono tenuti ad applicare il paragrafo 1 ( che stabilisce linversione del principio dellonere della prova in capo allattore) ai procedimenti in cui spetta al giudice o all'organo competente indagare sui fatti.

E cos che il legislatore italiano, con il decreto delegato approvato dal Consiglio dei Ministri il 3 luglio scorso ha previsto che  lonere della prova incombe allattore, affermando a tale proposito che il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, pu dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dellart. 2729, primo comma, del codice civile. Come a dire che lonere della prova incombe tutto in capo allattore. In assenza di una prova convincente fornita dallattore, vittima della discriminazione, non incombe pi in capo al convenuto lonere di provare che non vi stata violazione del principio di parit di trattamento, come invece esplicitamente affermato dalla direttiva 2000/78/CE.

Il decreto delegato aggiunge poi, in corrispondenza al testo della Direttiva comunitaria, che con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dellatto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonch la rimozione degli effetti. Manca per la previsione di adeguate misure anche a carattere patrimoniale a finalit compulsive, per le ipotesi in cui malgrado lordine inibitorio del giudice, gli atti di discriminazione continuino a verificarsi.

 

Significativamente omessa, nel decreto delegato che attua in Italia la direttiva 78/2000/CE, il richiamo specifico alla tutela delle vittime. In base allart. 11 della Direttiva intitolato Protezione delle vittime, gli Stati membri avrebbero dovuto introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere i dipendenti dal licenziamento, o da altro trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro, quale reazione a un reclamo interno all'impresa o a un'azione legale volta a ottenere il rispetto del principio della parit di trattamento.

Nulla di questa previsione stato trasposto nel decreto di attuazione, forse nel convincimento che lordinamento giuridico italiano gi contenesse adeguati strumenti di tutela dei lavoratori ed a tale riguardo utile richiamare la strenua opposizione delle forze di governo, e purtroppo anche di parte dellopposizione, rispetto alla proposta di modifica dellart. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, nella parte in cui consente ancora , nelle imprese con meno di quindici dipendenti, il licenziamento individuale in assenza di giusta causa.

 

Completamente assente, nel decreto delegato approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 3 luglio, ogni previsione sulla diffusione delle informazioni pure imposta dallart. 12 della Direttiva 2000/78/CE, secondo cui gli Stati membri avrebbero dovuto assicurare che le disposizioni adottate in virt della presente direttiva, insieme alle pertinenti disposizioni gi in vigore, siano portate all'attenzione delle persone interessate con qualsiasi mezzo appropriato, per esempio sui luoghi di lavoro, in tutto il loro territorio.

Definisce il carattere autoritativo del decreto di attuazione la mancata previsione di qualunque forma di dialogo sociale, e  di confronto con le organizzazioni non governative che costituivano invece un tratto saliente proprio in conclusione della direttiva comunitaria .

 

Per quanto riguarda la legittimazione ad agire lart. 5 del decreto delegato prevede che le rappresentanze locali delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, a pena di nullit, sono legittimate ad agire ai sensi dellart. 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui riferibile il comportamento o latto discriminatorio. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altres, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.

 

FULVIO VASSALLO PALEOLOGO