Annamaria Rivera

 

Nei tardi anni settanta le ragazze che eravamo dun tratto si tolsero minigonna e jeans attillati per indossare lunghe gonne fiorate. La gonna femminista dilag nelle scuole  e nelle universit e non vi fu preside o professore che riusc ad avere ragione di questo segno ostentatorio. Non tutte forse ne erano consapevoli ma quel modo di abbigliarsi cos femminile  era lesito del meccanismo che pu definirsi rovesciamento dello stigma: la trasformazione del segno di unappartenenza svalorizzata in emblema orgogliosamente ostentato,  secondo il classico modello di black is beautiful. Con un colpo di genio e dironia, la moltitudine (come si direbbe oggi) di ragazze dogni et che componevano la marea del movimento femminista risemantizz un costume che nellopinione comune poteva evocare una femminilit tradizionale e passivamente accettata. In quellabito (che in seguito, come spesso accade, divenne una moda) vera il manifesto del movimento: la critica dellemancipazionismo, il diritto di ridefinire la propria singolare appartenenza di genere. Esso era, soprattutto, simbolo ironico e potente della ribellione contro la reificazione e la mercificazione corpo femminile.

Sia chiaro: non intendo compiere alcuna assimilazione fra il foulard detto islamico e la gonna femminista. La comparazione, tuttavia, mi permette di rimarcare una banalit dimenticata nella querelle intorno alla legge francese contro il velo:  la libert femminile per riprendere una formula abusata- non si misura dai centimetri di corpo esposti allo sguardo. Di essa non vՏ negazione pi radicale delle nudit femminili quasi totali che in tivv fanno la passerella dinanzi a corpi maschili completamente vestiti che discettano di politica. E mi d lagio di sottolineare che i segni vestimentari come tutti i segni- assumono significati differenti a seconda di come sono agiti in una situazione storica data; e che non vՏ esatta corrispondenza fra i significati sedimentati in un certo costume e il senso che qui e ora gli conferisce colei/colui che lo indossa. Mia nonna non usciva di casa se non col fazzoletto in testa eppure era una donna n sottomessa n tradizionalista. Alma e Lila Lvy, giovanissime cittadine francesi espulse da un liceo di Aubervillers perch si erano rifiutate di togliere lhijab, sono ragazze indipendenti e combattive che rivendicano il diritto di autodeterminarsi. Figlie di un avvocato di sinistra, ateo di famiglia ebraica,  e di una docente di famiglia cabila e cattolica, non sono sospettabili dessere state costrette o condizionate da un padre o un fratello integralista. Il loro il caso esemplare della ricerca duna identit autonoma da quella dei genitori, duna rivolta generazionale che pu anche tingersi (dovremmo ricordarci della nostra adolescenza) di sfumature mistiche. Chi pu sostenere che il loro foulard voglia significare la sottomissione al dominio maschile?

Insomma, ogni discussione seria intorno alla controversia del velo, dovrebbe partire dal riconoscimento della polisemicit di questo significante e distinguere rigorosamente i diversi contesti storici: lhijab alla francese, indossato per lo pi da cittadine francesi, non pu essere confuso col velo delle donne saudite o sudanesi. Certo, anche nel primo caso pu essere sintomo della crescente influenza dellintegralismo ma spesso espressione di un tradizionalismo di resistenza allesclusione sociale, alla discriminazione, allinferiorizzazione di cui sono vittime le persone dorigine immigrata. Oppure segno reinventato entro un percorso di emancipazione e di modernizzazione: in tal caso ha la funzione paradossale di conferire visibilit nello spazio pubblico. O ancora lesito di una negoziazione con lambiente familiare: la possibilit dandare in giro da sole e di proseguire negli studi purch a capo coperto fa cos dellhijab la copertura di uninnovazione comportamentale. Altrettanto paradossale che siano state proprio le controversie pubbliche intorno al velo -fino sancire per legge la punizione con lespulsione dalla scuola pubblica di adolescenti che pure dai proibizionisti sono reputate vittime- che in Francia a partire dal caso di Creil del 1989 hanno reso visibile ci che prima era socialmente invisibile, e sacralizzato ci che per lo pi era banale. Ha ragione Emmanuel Terray a usare la categoria disteria politica: la crisi dellintegrazione dei cittadini dorigine immigrata e la stagnazione del processo di  egualitarizzazione fra i sessi scrive in un volume collettaneo dimminente uscita in Francia- induce la societ francese a sostituire problemi reali che non sa risolvere con un problema fittizio, immaginario, artefatto che pu essere trattato con le sole risorse del discorso e con la sola manipolazione dei simboli. La laicit diviene cos il feticcio dietro il quale nascondere una crescente esclusione sociale, unaltrettanto crescente islamofobia e forse la preoccupazione come sospetta Alain Badiou nellarticolo ironico e graffiante pubblicato dal manifesto- che le ragazze velate, allieve serie e impegnate, presto diventino le prime della classe e poi chiss. Ci che viene sbandierato contro queste allieve (curioso che il rispetto della laicit si esiga da loro piuttosto che dalla scuola pubblica, dai suoi contenuti, dai suoi insegnanti) in realt un formalismo radicale della laicit, svuotata dogni contenuto concreto. Ancora pi inquietante lacritico richiamo alluniversalismo da parte duna componente femminista che arriva a sostenere (lo ha fatto Elizabeth Badinter) che lhijab peggio della prostituzione essendo questa una manifestazione della libert di disporre del proprio corpo. Luniversalismo particolare di marca occidentale e con esso la missione civilizzatrice che imporrebbe di emancipare le nuove indigene finiscono cos per sostituire la rigorosa critica del neutro maschile universale, uno dei decisivi apporti teorici del femminismo. Si comprende allora perch in questa come in altre simili controversie la bestia nera sia il relativismo culturale, al punto che perfino gli antiproibizionisti si sentono obbligati a premettere formule del tipo senza nulla concedere al relativismo. Dietro questa retorica, che non fa alcuna distinzione fra relativismo etico e relativismo quale principio metodologico, si pu sospettare si annidi il buon vecchio etnocentrismo di stampo coloniale?