Briguglio racconta al Passaporto le ipotesi di riforma della legge sull’immigrazione, le forme di ingresso per cercare lavoro già sperimentate in Italia e quelle adottate a vario titolo in altri paesi del mondo.
“Va premesso che alcune forme di ricerca lavoro già esistono: per lo studente universitario, per il familiare che si ricongiunge, per chi ha un lavoro autonomo e può cercarne uno subordinato o viceversa. Si rivolgono però a categorie che hanno già un titolo di soggiorno abbastanza stabile: ne è escluso ad esempio chi ha un permesso per turismo. Mentre fino al 25 febbraio (quando è entrato in vigore il nuovo regolamento della Bossi-Fini) si poteva ancora convertire il permesso per turismo in uno per lavoro autonomo, purché entro le quote”.
La “madre” degli esperimenti di questo genere in Italia è stata la sponsorizzazione, che fu introdotta con la Turco-Napolitano nel 1998.
Lo straniero aveva un anno di tempo per cercare lavoro (prima solo subordinato, poi fu incluso anche quello autonomo). A garantire per lui (i mezzi di sostentamento pari all’assegno sociale, la copertura sanitaria, l’alloggio) era lo “sponsor”, un cittadino italiano o un altro immigrato regolare. Quando lo straniero trovava lavoro, lo sponsor si affrancava dal proprio dovere di garanzia. Era un meccanismo molto buono, se non fosse stato guastato dal sistema delle quote: solo 15mila posti all’anno nei due anni di sperimentazione.
All’ultimo momento nel testo di legge fu introdotta un’importante modifica.
Su insistenza delle associazioni, il governo accettò di presentare un proprio emendamento. Il ragionamento era: gli stranieri non hanno abbastanza soldi per sponsorizzare i loro amici, gli italiani invece perché dovrebbero sponsorizzare qualcuno che non conoscono? Il meccanismo rischiava di restare vuoto. Così fu aggiunto un altro comma: se entro 60 giorni dalla pubblicazione delle quote restavano ancora posti vuoti, gli stranieri potevano entrare col metodo dell’autosponsorizzazione (una variante in cui l’immigrato si presta da solo le garanzie, che però erano più morbide: bastava la metà dell’assegno sociale e la semplice “indicazione” di un alloggio).
Era una buona proposta.
L’errore fu prevedere che, per usufruirne, gli stranieri dovessero essere iscritti in liste di prenotazione: lo chiedemmo per dare un criterio oggettivo, evitare scavalcamenti e corruzione. Ma le liste, che erano compito delle ambasciate, non furono mai fatte. E comunque l’autosponsorizzazione non partì mai (le quote in entrambi i casi furono esaurite ben prima di 60 giorni). Fu usata solo per qualche migliaio di lavoratori provenienti da Albania, Marocco e Tunisia. Questi paesi infatti, avendo siglato accordi di riammissione con l’Italia per il contrasto all’immigrazione clandestina, avevano quote privilegiate.
Quando la sponsorizzazione fu cancellata, qualcuno disse che era servita solo a far entrare “spacciatori e prostitute”.
Osservazioni pretestuose. Gli sponsor, nei due anni di sperimentazione, erano stati per metà stranieri e metà italiani. E’ abbastanza evidente che gli italiani erano soprattutto datori di lavoro, che hanno utilizzato questa strada per regolarizzare persone che avevano assunto in nero (una strada molto meno costosa della chiamata nominativa: il reddito richiesto a chi volesse assumere uno straniero era all’epoca sui 90 milioni di lire, quello richiesto allo sponsor era sui 10 milioni). Per gli sponsor stranieri si trattava delle cosiddette “catene migratorie”: un immigrato già inserito dà una mano a suo fratello e così via. Con la legge Bossi-Fini la sponsorizzazione fu cancellata, proprio – paradossalmente – per il sospetto destato da questo 50 per cento di stranieri.
In prospettiva, la sponsorizzazione può essere ancora uno strumento utile?
Mi pare difficile che lo sia per gli italiani (come ho detto, un italiano non sponsorizza chi non conosce). Molto utile invece per gli stranieri. E’ sciocco però legarla a delle quote, se si è certi che lo straniero non sarà un onere per le casse dello stato (ha i soldi per mantenersi, curarsi e, se serve, andarsene). La sponsorizzazione potrebbe essere ancora più utile se usata dagli enti locali, nelle aree dove serve manodopera non qualificata. Ad esempio per i raccolti agricoli, o la stagione alberghiera.
Ma quello di cui si parla di più in questi giorni è l’auto-sponsorizzazione.
Sì, di recente più nota come “permesso per ricerca di lavoro”. Se si toglie il tetto numerico, è una buona soluzione. Vanno abolite le vecchie liste di prenotazione, un meccanismo burocratico che rallenta il sistema e che diventa inutile se non ci sono quote, perché non si rischia che qualcuno rubi il posto di un altro. Per renderlo davvero efficace, si potrebbe essere più severi nella richiesta di garanzie (ad esempio chiedere più soldi, non solo metà dell’assegno sociale e l’effettiva presenza di un alloggio, non la semplice indicazione). Altri nodi fondamentali, l’assicurazione sanitaria e i soldi per il rimpatrio: se un biglietto aperto costa troppo, chiedere una somma da depositare per coprire il costo del viaggio.
Pensa che sarebbe possibile abolire del tutto le quote?
Dal punto di vista del mercato del lavoro sono un meccanismo perdente. Lo dimostro con un esempio. Il tetto di ingressi è fissato a 10mila, le richieste di assunzione sono 5mila: in questo caso il tetto è solo inutile. Viceversa, se le richieste di assunzione sono 20mila, il tetto diventa dannoso. Prima di tutto per le aziende italiane, che restano senza 10mila persone di cui hanno bisogno. Le quote hanno un senso solo per esigenze logistiche (limitate nel tempo e nello spazio): esempio, non posso fare entrare tante persone perché si creano tensioni nel mercato degli alloggi. Altrimenti sono inutili se si è certi che chi entra non peserà sulle casse dello Stato. Il rischio di concorrenza eccessiva nel mercato del lavoro è, infatti, inesistente: l’assunzione di uno straniero a parità di condizioni con un italiano non è di per sé svantaggiosa per il datore di lavoro. Se avviene è perché non c’è nessun italiano disponibile.
Come evitare che chi entra per cercare lavoro resti comunque in Italia?
In un’ipotesi del genere, non mi scandalizza che lo Stato faccia di tutto per assicurare che lo straniero, se non trova lavoro, se ne vada. Il modo più semplice è prendere le impronte digitali, fare una fotocopia del passaporto. Così se trovo un “overstayer” (uno che resta oltre la scadenza del permesso) posso identificarlo, anche se ha distrutto il passaporto, grazie alle impronte digitali e rimpatriarlo senza difficoltà: a costo zero, usando i soldi che ha depositato.
Ci sono rischi?
Il difetto maggiore di questa ipotesi è il terremoto politico che potrebbe creare: ci sarebbe una levata di scudi. Per questo potrebbe essere preferibile un’altra strada, che avrebbe effetti pratici più o meno uguali ma un impatto psicologico minore: la “conversione turismo-lavoro”.
Cioè?
Cioè chi è qui con un permesso turistico, se trova lavoro, può trattenersi. Quest’ipotesi non va contro il comune sentire. L’uomo della strada si stupisce che un irregolare, se trova lavoro, non possa regolarizzarsi. Questo ragionamento potrebbe valere a maggior ragione per i turisti, che non sono “pericolosi” secondo la comune percezione. Ogni anno vengono rilasciati permessi per turismo a circa 400mila persone. Dire che la metà di loro trova lavoro e si trattiene farebbe meno effetto che dire: facciamo entrare 200mila disoccupati. Un altro pregio della conversione turismo-lavoro è che dal punto di vista normativo non ci sarebbe nulla da inventare.
Quali sono invece i difetti?
Allo straniero si chiedono più soldi. Questo da un lato può essere un bene, nel senso che si chiedono più garanzie. Ma il vero difetto di questa ipotesi è che, in base alle regole comunitarie, un permesso turistico dura al massimo tre mesi: troppo pochi per cercare lavoro. Ma modificare questa durata creerebbe problemi di armonizzazione europea. L’altro grosso difetto è che, se chiediamo le impronte ai turisti, americani e giapponesi potrebbero non apprezzare.
Si potrebbero chiedere le impronte solo a chi pensa di voler convertire il permesso.
Si è fatta anche quest’ipotesi. Ma qualcuno ha giustamente obiettato che allora avremmo due permessi diversi in partenza: uno davvero per turismo, uno per ricerca lavoro. A questo punto tanto vale chiamarli col loro nome, anche a rischio della levata di scudi.
I tempi sono maturi per cambiare la legge?
L’ipotesi della conversione turismo-lavoro era contenuta in un emendamento alla legge sul giudice di pace, che fu presentato dal Ds Luigi Viviani (con l’appoggio di tutto il centrosinistra) nello scorso settembre. Lì per lì l’emendamento fu accantonato, ma valutato con un certo interesse da buona parte della maggioranza. Un’ipotesi simile (avanzata in sede di esame della proposta di legge Fini) era addirittura stata approvata alla Camera nella precedente legislatura, con l’appoggio anche di Forza Italia. Non arrivò mai al voto in Senato, ma entrambi questi episodi dimostrano che i tempi sono maturi.
E se passerà, sarà una soluzione funzionale?
Molto dipende dal coraggio che si avrà. Non credo che si riuscirà, almeno per ora, ad abolire del tutto le quote. La soluzione migliore potrebbe essere quella di prevedere che non si introducano di norma quote fisse, ma che il governo possa decidere all’occorrenza di imporre un tetto in caso di necessità (previa approvazione del Parlamento).
Un’altra ipotesi che ogni tanto si affaccia è quella delle agenzie per collocare immigrati.
Meccanismi efficaci quando, purtroppo, sono illegali… So di donne ucraine che scendono da un bus alla stazione Tiburtina e sanno già in che palazzo di Roma andare a fare le badanti. Quando invece questi meccanismi sono legali, sono lenti e inefficaci. Lo dimostra un esperimento dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) che certificò, ai fini degli ingressi nell’ambito delle quote privilegiate, la qualifica professionale dei lavoratori albanesi iscritti in una lista di prenotazione allestita dal ministero del Lavoro albanese. L’Oim rilasciò 5mila certificati; 1500 erano gli ingressi possibili, 60 furono gli assunti. Per un datore di lavoro un certificato rilasciato da terzi conta poco, se non vede in faccia la persona che dovrà lavorare per lui.
Ci sono altre strade per far incontrare domanda e offerta di lavoro?
Una, introdotta dalla Bossi-Fini, è la formazione all’estero: in quel caso è il datore di lavoro che va a cercarsi il lavoratore da assumere. E’ una buona opportunità se gestita direttamente dagli imprenditori (non da ong o simili) in modo da garantire una formazione qualificata. E deve avere un vero sbocco lavorativo, non finire con un pezzo di carta ma con un’assunzione.
Infine, alcuni paesi hanno le “carte verdi”.
Negli Stati Uniti questo nome indica un certo numero di ingressi per cercare lavoro, che vengono sorteggiati ogni anno fra quelli che hanno fatto richiesta. Per partecipare al sorteggio bisogna avere il diploma superiore o aver svolto un tirocinio professionale. In Germania si è parlato di carte verdi in un senso leggermente diverso: varie caratteristiche (la conoscenza della lingua, i titoli di studio) danno punti in una graduatoria che consente di entrare a cercare lavoro: un meccanismo che può funzionare, ma solo per i lavori qualificati. In Italia, lo si potrebbe affiancare all’ingresso per ricerca di lavoro: per chi rientra nella categoria di cui si desidera l’ingresso (ad esempio tecnici qualificati), il sostentamento durante la ricerca di lavoro è garantito dallo Stato o dalle Regioni, anziché dal lavoratore stesso.