CAMERA DEI DEPUTATI - SENATO DELLA REPUBBLICA
XIV LEGISLATURA

Resoconto stenografico del Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'Accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione

Seduta del 30/11/2005

Audizione del professor Bruno Nascimbene, direttore dell'Istituto di diritto internazionale dell'Università degli studi di Milano.

PRESIDENTE.
L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sullo spazio Schengen nella nuova costruzione europea, l'audizione del direttore dell'Istituto di diritto internazionale dell'Università degli studi di Milano, professor Bruno Nascimbene, che, a nome del Comitato, ringrazio per aver accettato il nostro invito.
Con la presente indagine il Comitato intende fornire un quadro di riferimento attuale sull'evoluzione dell'acquis di Schengen conseguente all'allargamento. Al fine di acquisire elementi di conoscenza diretta con riferimento alla concreta applicabilità ed efficacia, nel nuovo scenario, europeo delle norme di diritto internazionale e comunitario, il Comitato ritiene l'audizione odierna di grande rilievo per l'autorevole competenza in materia dell'audito.
In tal senso, occorre muovere da un'analisi delle prospettive e delle tendenze legislative, relative alla nuova dimensione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, conseguenti all'applicazione del programma dell'Aja. In particolare, il Comitato intende sapere quali obiettivi siano stati realizzati e quali siano ancora da realizzare (ed eventualmente le azioni da adottare). Inoltre, il Comitato vorrebbe comprendere quali possano essere le conseguenze derivanti dalla mancata adozione della Costituzione europea nell'ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
In considerazione dell'allargamento dell'Unione europea e del conseguente ampliamento dello spazio Schengen, vorremo sapere quali strumenti giuridici consentano di realizzare il necessario coordinamento tra le norme di diritto comunitario e quelle di diritto nazionale volte a garantire, attraverso norme e procedure comuni, la libertà di circolazione delle persone in condizioni di sicurezza.

BRUNO NASCIMBENE, Direttore dell'Istituto di diritto internazionale dell'Università degli studi di Milano.
Ringrazio il Comitato per l'invito rivoltomi. È la seconda volta che intervengo presso questo Comitato: ho partecipato ai vostri lavori anche nel 1999, quando ci si interrogava sulle stesse funzioni del Comitato Schengen nel momento dell'entrata in vigore del trattato di Amsterdam e a seguito della “comunitarizzazione” della convenzione di Schengen e dell'accordo del 1985.
Quando si parla di Schengen, ci si riferisce ad una realizzazione avvenuta negli ultimi venti anni nei paesi membri della Comunità europea, successivamente dell'Unione europea, con il trattato di Maastricht. La dottrina e gli studiosi della cooperazione “in ambito Schengen” considerano questa realizzazione un laboratorio di sperimentazione e di cooperazione rafforzata. In effetti, Schengen rappresenta una felice convivenza tra aspetti di diritto internazionale classico, ad esempio la convenzione internazionale tra i paesi europei, e strumenti del diritto comunitario vero e proprio.
L'indagine reca il titolo: “Lo spazio Schengen nella nuova costruzione europea”. A mio avviso, l'utilizzo dell'espressione “costruzione europea” si attaglia efficacemente a ciò che Schengen e il suo acquis rappresentano nei rapporti internazionali e comunitari dei paesi membri. Si tratta di un fenomeno evolutivo di grande interesse, non semplicemente inquadrabile in termini di studio, ma con implicazioni di carattere anche politico, nei rapporti fra i paesi membri (e non solo): l'accordo è stato allargato difatti a paesi terzi come l'Islanda e la Norvegia e, nel 2004, alla Svizzera.
Negli ultimi anni abbiamo assistito alla “comunitarizzazione” di Schengen e del trattato di Maastricht, in materia di cooperazione giudiziaria, civile e di visti, di immigrazione e frontiere. In base alla costruzione a pilastri che caratterizza i trattati della CE e dell'UE, la materia attinente a libertà di circolazione di persone, visti, immigrazione e frontiere è passata da un pilastro all'altro, mentre la materia della cooperazione intergovernativa fra gli Stati è rimasta nell'ambito del terzo pilastro, quello della cooperazione giudiziaria penale e di polizia.
Oggi siamo di fronte ad una scissione tra le materie e le cosiddette “basi” giuridiche. Una base giuridica è rappresentata dal trattato dell'Unione europea, in materia di cooperazione giudiziaria penale e di polizia; un'altra è rappresentata dal trattato CE, che si occupa di visti, immigrazione, asilo e cooperazione giudiziaria civile. Tuttavia, pur essendo dinanzi a pilastri o a basi giuridiche diverse, la considerazione dei profili UE e CE, che ritroviamo nel trattato di Amsterdam e nei suoi sviluppi, nelle conclusioni del consiglio di Tampere, nel programma dell'Aja e - proiettandoci verso il futuro - nella Costituzione europea, prevede una connotazione comune individuabile nella definizione di uno spazio giuridico, giudiziario, di libertà, di sicurezza e giustizia. Lo stesso concetto di spazio viene definito una “costruzione”, in quanto esso si realizza in modo progressivo.
L'accordo di Schengen e la relativa convenzione cooperano per una migliore, e forse anche più rapida, realizzazione del processo di integrazione europea, posto alla base degli accordi stessi, che mira all'effettiva costruzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Si tratta di affermazioni che ritroviamo sia nel trattato di Amsterdam sia nel Protocollo n. 2 allegato al Trattato stesso, quello che comunitarizza in senso proprio gli accordi di Schengen, sia - ed è importante sottolinearlo - nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che si è occupata, non frequentemente ma in modo significativo, della convenzione di Schengen e del principio del ne bis in idem. Nel 2003 e nel 2005, in una causa conseguente al rinvio pregiudiziale di un giudice italiano, la Corte di giustizia ha “consacrato” nelle sue sentenze le caratteristiche dell'accordo di Schengen come “intimamente connesse al processo di integrazione europea”.
Un altro profilo da evidenziare riguarda la tutela dei diritti fondamentali della persona: si tratta di uno dei principi basilari del diritto comunitario, garantito nelle tradizioni costituzionali comuni, nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo ed in due articoli di estrema importanza del Trattato, gli articoli 6 e 7. Esso è parte integrante della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. In alcune disposizioni, e nella stessa Costituzione europea, si fa presente che senza la tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona non si può realizzare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Al tema della tutela dei diritti fondamentali della persona è legato quello delle garanzie giurisdizionali. Al punto 5 del documento riguardante l'indagine in corso si propone di individuare le istituzioni comunitarie e quelle nazionali con riferimento alle garanzie giurisdizionali connesse alla libertà di circolazione e all'applicazione dell'acquis di Schengen. La costruzione di Schengen, cioè la sua realizzazione ed applicazione, non prevede soltanto profili sostanziali, come la tutela di determinati diritti e la previsione di determinate norme, ma comprende anche il delicato aspetto della tutela giurisdizionale, ovvero il riconoscimento effettivo del diritto alla tutela delle posizioni giuridiche dei singoli dinanzi ad organi di giustizia comunitaria (Tribunale di primo grado e Corte di giustizia) e nazionale. A questo riguardo, illustrerò alcuni riferimenti che mostrano la rilevanza della tutela in via giurisdizionale dei diritti e i suoi limiti innanzi al giudice nazionale.
Si è fatto riferimento al programma dell'Aja, che consiste in un documento adottato dal Consiglio europeo di Bruxelles il 4 e 5 novembre 2004, recante il titolo “Rafforzamento della libertà, della sicurezza e della giustizia”. Lo scorso giugno è stato adottato un piano di azione che definisce le date e gli atti da adottare per l'attuazione del programma. Al momento siamo in una fase recente di attuazione, che potrebbe essere definita “post-Tampere”. Del resto, lo stesso programma dell'Aja è stato chiamato “Tampere II” o “Tampere-bis”. Il programma ha una durata di cinque anni, forse perché la stessa era prevista per il periodo transitorio di applicazione delle norme del trattato di Amsterdam per quanto riguarda la realizzazione della politica in materia di visti, immigrazione e controllo delle frontiere.
Dalla lettura, possibilmente congiunta, del programma e del piano di azione se ne individuano da subito i quattro punti fondamentali: il primo attiene alla libertà, il secondo alla sicurezza, il terzo alla giustizia e il quarto, invece, ha una funzione trasversale. Il programma dell'Aja sottolinea che ciascuno dei profili di libertà, sicurezza e giustizia non può realizzarsi correttamente se non nell'ambito di una dimensione coerente o di una strategia complessiva per la politica estera. La dimensione dell'estero viene specificata nel programma come la necessità di varie forme di partenariato con i paesi terzi, quale elemento collante, comune e trasversale ai tre profili di libertà, sicurezza e giustizia.
Inoltre, dalla lettura emerge una domanda, che può ricorrere più di una volta, determinata dalla visione del programma e del piano di azione in funzione dell'adozione della Costituzione europea. Certamente, se avessimo letto il programma subito dopo la sua adozione, nel novembre 2004, avrebbe avuto un senso parlare di tempi e di finalità, in quanto la Costituzione europea avrebbe dovuto essere approvata ed entrare in vigore il 1o novembre 2006. A distanza di tempo, e soprattutto in seguito ai due referendum, il cui esito è stato negativo, svoltisi in Francia e nei Paesi Bassi, credo sia legittimo dubitare che le iniziative ritenute necessarie in tema di libertà, sicurezza e giustizia, e quindi anche per la libera circolazione ed il controllo delle frontiere, possano ancora essere realizzate secondo le previsioni del programma. Difatti, la Costituzione non è entrata in vigore nel 2005, né lo sarà nel 2006. Come dico spesso, non sappiamo se e quando la Costituzione europea potrà entrare in vigore.
Al di là dell'enunciazione dei punti in cui si articola, la riflessione che scaturisce dalla lettura del programma è la seguente: il programma resta in piedi e, quindi, malgrado la sua “ambizione” - parola che ricorre almeno un paio di volte nel programma - nel ritenere di essere un'anticipazione o di essere strettamente connesso alla Costituzione europea, le finalità potranno essere perseguite, se non tutte, almeno in gran parte? In ogni caso, poiché il programma prevede un momento di riflessione annuale può essere considerato in modo flessibile? La mia risposta è positiva. Malgrado la mancata approvazione della Costituzione europea - di cui in questo periodo si parla molto meno, se si esclude un editoriale di Galli Della Loggia apparso qualche giorno fa su il Corriere della Sera - certi profili dovrebbero essere presi in considerazione dal punto di vista politico, affinché si possa mettere in cantiere qualche iniziativa almeno a partire dal nuovo semestre del 2006. A mio avviso, dunque, nonostante la stretta connessione fra il programma ed il piano rispetto alla Costituzione europea, molte iniziative possono essere realizzate a “Trattato fermo”, cioè considerando le attuali disposizioni comunitarie.
Un primo risultato è stato ottenuto subito dopo l'approvazione del programma, quando, alla fine del mese di dicembre scorso, una decisione del Consiglio ha disposto il passaggio dall'unanimità alla maggioranza qualificata per le decisioni su atti attinenti alla materia di immigrazione e asilo, salvo il caso di ingresso regolare nei paesi dell'Unione e di trasferimento all'interno degli stessi. Quindi, sulla materia dell'immigrazione regolare nei e tra i paesi membri dell'Unione europea, gli Stati hanno conservato il diritto di pronunciarsi all'unanimità, decidendo di non passare alla maggioranza qualificata. Inoltre, dal 1o gennaio di quest'anno la votazione avviene per il tramite della procedura di codecisione, che ha permesso addirittura di anticipare i tempi.
Un altro profilo discusso, e discutibile, riguarda l'articolo 67, paragrafo 2, del trattato CE, in merito al possibile conferimento alla Corte di giustizia di competenze diverse e più ampie. Ritornando al sistema giurisdizionale, attualmente la Corte di giustizia ha competenza limitata in materia di immigrazione, asilo, frontiere e libera circolazione dei cittadini in paesi terzi, in quanto la possibilità di rinvio alla Corte di giustizia da parte dei giudici nazionali è limitata ai soli giudici nazionali di ultimo grado o di ultima istanza, che in Italia sono la Corte di cassazione ed il Consiglio di Stato. La procedura ordinaria del diritto comunitario invece attribuisce ai giudici di prima e seconda istanza l'ampia possibilità di rinviare alla Corte di giustizia. L'articolo fondamentale del sistema è il 234 del Trattato CE, che consente al giudice nazionale di porre quesiti interpretativi. Questa possibilità è tuttavia limitata con riguardo all'espulsione, all'allontanamento e al divieto di ingresso di uno straniero in un paese membro: il giudice adito non può porre una questione di interpretazione alla Corte, salvo che si tratti di giudice di ultima istanza. Tuttavia, normalmente nel corso del giudizio di primo grado si prevede l'assunzione di decisioni importanti, che entrano nel merito della questione; nel secondo grado di giudizio si conoscono questioni di diritto. In Italia i processi non sono brevi, quindi prima di giungere dinanzi al giudice di secondo grado trascorre del tempo che sicuramente pregiudica la posizione giuridica del singolo. Pertanto, le possibilità di rinvio pregiudiziale e di pronuncia della Corte di giustizia possono essere rese nulle, vane o possono perdere il loro effetto. La norma prevede che le disposizioni relative alle competenze della Corte possano essere adattate, cioè ampliate e omogeneizzate, alle disposizioni di diritto comunitario (nei fatti non si è però usufruito di questa possibilità). A prescindere dalle sorti della Costituzione europea, disponiamo già degli strumenti necessari sotto questo profilo e per il passaggio - se e quando ci sarà il consenso tra gli Stati - dall'unanimità alla maggioranza qualificata in materia di ingresso regolare, cioè per motivi di lavoro.
Vorrei dare qualche indicazione sui sette punti principali del programma dell'Aja. Il primo riguarda la cittadinanza, un aspetto tradizionale dello status civitatis dei cittadini dell'Unione europea, e la libertà di circolazione dei cittadini che, pur non riguardando i paesi terzi, è importante in quanto può investire i delicati profili di riconoscimento della cittadinanza ai cittadini di paesi terzi. Il secondo è un punto di carattere generale: la politica in materia di asilo, immigrazione e frontiere; il terzo attiene specificamente all'asilo e all'istituzione di un regime europeo comune in questa materia; il quarto riguarda la migrazione legale e la lotta al lavoro illegale. Il quinto punto, di estrema delicatezza anche in considerazione dei recenti episodi verificatisi in Francia, riguarda l'integrazione dei cittadini di paesi terzi, ovvero i cittadini di paesi terzi residenti, che hanno cioè già fatto il loro ingresso nei paesi dell'Unione; il sesto punto riguarda il profilo della dimensione esterna, ossia la necessità di raggiungere forme di partenariato con i paesi terzi, in particolare con i paesi di origine dei cittadini extracomunitari e con quelli di transito, anche adottando coerenti misure in materia di rimpatrio e riammissione. Il settimo punto del programma attiene alla gestione dei flussi migratori, quindi ai controlli alla frontiera, alla lotta contro l'immigrazione clandestina, alla previsione di identificatori biometrici da integrare in documenti di viaggio, ai visti, ai passaporti e ai sistemi di informazione e adozione di una politica in materia di visti.
Alcune linee generali di azione e di comportamento emergono dal programma e dal piano: ad esempio, è il caso del miglioramento dello scambio di informazioni fra le autorità nazionali, vale a dire la cooperazione non solo fra le autorità amministrative ma anche fra le autorità di polizia e quelle giudiziarie.
Nel programma e nel piano ho trovato scarsi riferimenti all'accordo, che alcuni chiamano Schengen plus, altri Schengen III, concluso fra sette paesi dell'Unione nel maggio scorso. Si tratta di una sorta di ripetizione, dopo vent'anni, dell'accordo di Schengen; una continuità che tra l'altro viene sottolineata. Alcuni profili, a mio avviso, devono essere approfonditi, tra i quali quello del rapporto fra l'accordo di Schengen comunitarizzato, una volta concluso ed entrato in vigore, e le disposizioni del diritto comunitario. Poiché sono coinvolti 7 paesi su 25, e tra i 18 paesi esclusi rientra anche l'Italia, sarebbe interessante conoscere l'orientamento del nostro paese in ordine ad una possibile adesione all'accordo, che ovviamente è aperto a tutti i paesi dell'Unione.
Vi è poi un altro fattore di perplessità che scaturisce dalla lettura dei documenti e dal loro raffronto con l'accordo di nuova generazione. Il diritto vigente, o il diritto “futuro”, quello da adottare, previsto nelle proposte della Commissione degli ultimi mesi (in altre parole il de iure condendo ed il de iure condito), che sorte avrà rispetto a questa convenzione, che è essa pure di diritto internazionale? Ritorna la necessità di tenere per certi profili distinti, ma per altri accomunati, gli argomenti del diritto internazionale classico e quelli del diritto comunitario. L'accordo di Schengen III non riguarda il diritto comunitario: si tratta di un diritto internazionale che sarà vigente in alcuni paesi membri dell'Unione.
Un'altra riflessione, che ritengo giusta e doverosa, riguarda i nuovi paesi membri: vi è un'altra evoluzione del sistema Schengen, il SIS II, la cui necessità è essenzialmente connessa e determinata dall'allargamento...

PRESIDENTE.
Mi scusi, professor Nascimbene, ma vorrei chiederle un chiarimento: se non sbaglio, lei si riferisce ai dieci nuovi paesi e non alla Svizzera.

BRUNO NASCIMBENE, Direttore dell'Istituto di diritto internazionale dell'Università degli studi di Milano.
Non mi riferisco alla Svizzera, ma ai dieci paesi nuovi entranti e ad altri due, Romania e Bulgaria, i cui accordi di adesione in merito all'accettazione di Schengen adottano uno schema identico a quello dei dieci paesi che hanno appena aderito all'Unione europea.
L'allargamento, che risale al 1 maggio 1999, prevede periodi transitori con riguardo alla libera circolazione dei lavoratori subordinati. Il periodo transitorio di carattere generale ha una durata complessiva di sette anni. Tre paesi (Svezia, Regno Unito e Irlanda) non hanno apposto una riserva nell'applicazione dell'accesso dei lavoratori subordinati provenienti da paesi terzi. I nuovi paesi membri accettano l'accordo di Schengen, ma non sono nelle condizioni di dare a questo applicazione; l'entrata in vigore, almeno per quanto riguarda il controllo delle frontiere, è subordinata alla piena realizzazione di condizioni attinenti ad un principio generale del diritto comunitario: quello del mutuo riconoscimento o della reciproca fiducia. L'ingresso attraverso le frontiere di nuovi paesi membri deve essere garantito sotto tutti i profili: sicurezza, ordine pubblico, accesso all'attività di lavoro subordinato e autonomo, libera circolazione all'interno dei paesi. Allo stesso modo, le garanzie che si incontrano nell'attraversare la frontiera tra un paese membro originario e un altro devono essere le stesse anche quando un cittadino di un paese terzo fa il suo ingresso in un nuovo paese membro: nel momento in cui ha varcato la frontiera e si è immesso nel territorio dell'Unione europea, questi deve poter circolare liberamente e a parità di condizioni, come se fosse entrato in uno dei quindici paesi originari.
Per quanto riguarda le previsioni per il futuro, l'entrata in vigore dell'accordo SIS II è prevista per il 2007, a condizione che siano realizzati tutti i presupposti. In caso contrario, ovvero se vi sarà un ritardo nell'entrata in vigore, si adotteranno alcune misure transitorie o si attenderà che le condizioni siano soddisfatte.
L'ultimo rilievo riguarda le garanzie giurisdizionali e l'esercizio della giurisdizione sia da parte della Corte di giustizia sia da parte dei giudici nazionali. Il tema dello spazio europeo di giustizia è affermato nel programma dell'Aja, ma anche se non lo fosse - come non lo era nelle conclusioni del Consiglio di Tampere - sarebbe riconducibile all'interpretazione e all'applicazione del trattato CE e sarebbe altresì deducibile dal sistema realizzato negli ultimi anni attraverso l'integrazione comunitaria; altrettanto deducile sarebbe il tema della garanzia dei diritti della persona, con particolare riguardo ai diritti dei cittadini dei paesi terzi che chiedono asilo, fanno ingresso e si spostano nei paesi membri dell'Unione europea.
Ci si chiede spesso se le politiche comunitarie siano “giustiziabili”, ovvero se sia assicurata sempre la giustiziabilità della materia. Ci si chiede inoltre se il sistema giurisdizionale vigente a livello comunitario sia idoneo sul punto, così come ci si chiede se sia idoneo il sistema giurisdizionale approntato dai giudici nazionali. Il discorso dovrebbe allargarsi ad altri rilievi del programma: in particolare dovrebbe evidenziarsi la necessità che il diritto dell'Unione europea sia studiato maggiormente da avvocati e magistrati e che la sua conoscenza sia più diffusa. Infatti, non solo nell'ambito di queste politiche, ma anche in materia di asilo e d'immigrazione, il giudice nazionale nell'applicare il diritto comunitario, in riferimento alla circolazione delle merci, come anche in relazione a quella delle persone, assume il ruolo di giudice comunitario, in quanto amministra la giurisdizione esercitando la stessa funzione della Corte di giustizia o del tribunale di primo grado.
Questo concetto è stato espresso in modo molto deciso nella Costituzione europea: l'articolo 29 della Parte I, che contiene i principi generali, prevede che il sistema giurisdizionale comunitario - più esattamente quello dell'Unione europea - sia assicurato dal tribunale di primo grado, dalla Corte e dai tribunali specializzati che verranno istituiti, precisando che gli Stati membri ne assicurano il rispetto nell'interpretazione e nell'applicazione della Costituzione. Come la Corte e il tribunale di primo grado, anche gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari al fine di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva, nell'ambito del territorio delle relative giurisdizioni. Questo significa che, in pratica, il cittadino extracomunitario, il quale ha un problema relativo all'ingresso e al soggiorno o che chiede asilo nel nostro paese, può essere certo che il giudice civile, penale o amministrativo al quale si rivolge conosce il diritto comunitario e lo applica. Come è noto, se il giudice non è di ultimo grado non può rivolgersi alla Corte di giustizia. Quindi, a maggior ragione, il giudice unico - tribunale civile o tribunale amministrativo regionale - nell'applicare le norme del diritto comunitario sulla circolazione degli stranieri (accordo di Schengen compreso) si comporta come se fosse la Corte di giustizia. Inoltre, dinanzi a problemi di carattere interpretativo, questi agisce come qualunque altro giudice nazionale che applichi il diritto comunitario, poiché non può rinviare la questione alla Corte come può fare il giudice di ultimo grado. In definitiva, la materia relativa all'immigrazione, ai visti, all'asilo e ai controlli alle frontiere che negli anni ottanta era assolutamente estranea al diritto comunitario e al processo di integrazione europea, ne entra ora a far parte non soltanto dal punto di vista sostanziale, ma anche sotto il profilo giurisdizionale.
In conclusione, vorrei ricordare al Comitato parlamentare che nel giugno 2004 è stata sollevata una questione di costituzionalità dal tribunale amministrativo regionale della Campania, con riferimento ad una specifica norma contenuta nella legge sulla regolarizzazione degli stranieri (si tratta dell'ultima sanatoria). Tale normativa escludeva dalla stessa regolarizzazione i segnalati “in virtù di accordi internazionali”, mentre la giurisprudenza che se ne è occupata ha ricompreso tra questi l'accordo internazionale di Schengen. Quindi, entro la fine di gennaio, la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sul profilo relativo all'interpretazione della legge sulla regolarizzazione degli stranieri rispetto agli accordi di Schengen. Precisamente, nell'ordinanza di rimessione della questione del tribunale amministrativo regionale della Campania alla Corte costituzionale si è sottolineato che la segnalazione Schengen, così come intesa dai giudici nazionali, comporta un automatismo che sarebbe in contrasto con i principi fondamentali del diritto italiano, laddove si vietano valutazioni automatiche rispetto ai comportamenti delle persone. Normalmente, infatti, la segnalazione ai sensi dell'accordo Schengen non è accompagnata da alcuna motivazione, che invece si dovrebbe richiedere, in modo che il compito del giudice sia quello di valutare la motivazione della segnalazione (e quindi la pericolosità del soggetto). Il profilo sollevato dal giudice amministrativo riguarda una discriminazione conseguente a tale modo di interpretare la norma sulla regolarizzazione; infatti, a una semplice segnalazione corrisponderebbe un automatismo, che non è consentito nel nostro ordinamento. Esso consiste nel non aver regolarizzato il cittadino straniero e quindi nel porlo nelle condizioni di essere espulso, proprio perché non più in possesso del titolo di soggiorno.
A questa problematica se ne accompagna un'altra, che è conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale di quest'anno. In base a tale pronuncia la disciplina sulle regolarizzazioni è stata dichiarata incostituzionale, in quanto alla semplice denuncia dello straniero corrispondeva l'automatico diniego della regolarizzazione. Così come è incostituzionale la semplice denuncia del cittadino straniero che lo priva della regolarizzazione e lo espone all'espulsione, allo stesso modo dovrebbe essere incostituzionale la previsione che concerne la semplice segnalazione dello straniero, in virtù dell'accordo della convenzione di Schengen, e la sua automatica espulsione, successiva alla segnalazione.
In altre parole, l'accordo di Schengen sembra quasi collocato nel tempo e, forse, lasciato agli interessi di alcuni; invece esso è diritto vivente, a maggior ragione nel nostro paese, dove la specifica questione è stata posta all'attenzione della Corte costituzionale.

PRESIDENTE.
Ringrazio il professor Nascimbene per la sua completa ed esaustiva relazione. Do ora la parola all'onorevole Tidei.

PIETRO TIDEI.
Innanzitutto, vorrei unirmi ai ringraziamenti per la sua completa esposizione, con la quale peraltro lei ha già parzialmente risposto alla mia domanda.
Vorrei conoscere nel dettaglio, ove possibile, i seri problemi causati nella gestione comune delle frontiere dal recente ingresso di dieci paesi nell'Unione europea, nonché quali siano i punti deboli del sistema e gli interventi da attuare, in tempi brevi e medio-lunghi, soprattutto in ordine al nuovo spazio giuridico di libertà, sicurezza e giustizia.

BRUNO NASCIMBENE, Direttore dell'Istituto di diritto internazionale dell'Università degli studi di Milano.
Vorrei ricordare che un rapporto, presentato a settembre dall'ECAS e discusso a Bruxelles, si è occupato della valutazione degli effetti derivanti dall'ingresso dei nuovi paesi nell'Unione europea. Un primo rilievo riguarda il mancato “sconvolgimento” a seguito dell'ingresso dei nuovi paesi membri: si immaginava infatti un'invasione da parte di cittadini di determinati paesi, soprattutto di lavoratori subordinati, che invece non si è verificata, neppure nei paesi nei quali non vi era l'applicazione del periodo transitorio. Pertanto, da una prima valutazione emerge un incremento degli ingressi di persone provenienti dai nuovi paesi membri, ma senza registrare sconvolgimenti sia dal punto di vista dell'ordine pubblico sia sotto il profilo del mercato del lavoro.
Per quanto attiene al controllo delle frontiere, parlando con alcuni funzionari della Commissione, ho inteso che la questione è prevalentemente di carattere tecnico, tecnologico e finanziario. Il profilo relativo alle risorse costituisce un interrogativo per me, come per chiunque legga i programmi e i piani di azione; ovviamente, tutto ciò che si prevede di fare richiede un finanziamento e dei fondi. Lo stesso programma ne prevede alcuni, in particolare per l'ammodernamento delle frontiere, ma è pur vero che vengono richiesti notevoli adeguamenti tecnologici ed interventi per la formazione del personale addetto.
Un profilo interessante del piano e del programma riguarda la previsione di guardie di frontiera comuni: una specie di polizia di frontiera comune a tutti i paesi. Secondo il piano, qualora non si riuscisse ad attuarla nei cinque anni previsti, si dovrebbero istituire temporaneamente alcune squadre di esperti nazionali dotati di poteri esecutivi, al fine di assistere le autorità di polizia di dogana dei nuovi paesi membri. Tutto ciò però richiede quattrini: tante volte ci si innamora di determinati sogni, però quando si passa all'aspetto pratico...

PIETRO TIDEI.
È un problema di risorse.

BRUNO NASCIMBENE, Direttore dell'Istituto di diritto internazionale dell'Università degli studi di Milano.
Forse è un problema di basso profilo rispetto a tante questioni interessanti dal punto di vista del diritto, ma se non ci sono le risorse le norme non si applicano e tanto meno si realizzano le finalità che esse prevedono.

PRESIDENTE.
Il Comitato che presiedo condivide, credo nella sua interezza, le sue opinioni: da tempo bussiamo alla porta dell'Europa, chiedendo quattrini!
Lei ha fatto riferimento ad un'ipotesi di polizia di frontiera; ricordo che è stata recentemente istituita l'Agenzia delle frontiere. Certamente, si tratta di una bellissima idea; tuttavia, se penso che il presidente è un finlandese - non lo conosco e quindi non esprimo un giudizio di merito sulla sua persona - mi chiedo allora quale tipo di esperienza possa aver maturato in relazione al traffico di immigrati clandestini. Quando pensiamo ai clandestini, noi pensiamo agli esseri umani e non ai pinguini: immagino che in Finlandia possono entrare clandestinamente solo i pinguini!
Talvolta penso all'esposizione geografica e alle caratteristiche naturali di paesi come la Francia, la Spagna e l'Italia, nei quali è evidente una naturale predisposizione rispetto all'immigrazione clandestina: la Spagna, ad esempio, è divisa da Gibilterra soltanto da poche centinaia di metri. Il dato numerico relativo ai clandestini deve essere monitorato con grande attenzione, non solo dall'Italia, ma anche da tutti i paesi cosiddetti esposti. Dobbiamo considerare che l'85 per cento dei clandestini presenti in Italia non entrano più via mare. Nonostante vi siano immagini impressionanti (e che fanno sempre molta scena), le barche di clandestini che arrivano a Lampedusa rappresentano oramai soltanto il 15 per cento del complesso. La questione ora si sta spostando sui cosiddetti over stayer. Si tratta di coloro che entrano in Europa con un regolarissimo passaporto o con un regolarissimo visto di turismo e che sono provvisti dei 500 euro con i quali dimostrano di essere in grado di sostenere le spese più immediate; successivamente essi non rinnovano i documenti, diventando in sostanza clandestini.
Nella logica dell'accordo di Schengen, il clandestino che entra in Italia, in Spagna, in Francia o in altri paesi via aereo o via treno, può muoversi all'interno di tutta l'area Schengen. Se, da un lato, questo fenomeno mi spaventa, dall'altro mi rassicura circa la volontà dell'Europa di fare finalmente qualcosa di serio, prevedendo - come diceva lei - adeguate risorse.
In passato i paesi che erano lontani da una frontiera - non voglio fare nomi - si sentivano geograficamente meno esposti all'immigrazione clandestina; oggi invece lo sono anche loro e lo saranno sempre più, all'incirca come tutti i paesi. Secondo lei, questa modifica nel flusso dell'immigrazione clandestina ed il dato dell'85 per cento sui clandestini presenti in Italia - che mi dicono essere maggiore in altri paesi - costituiscono per l'Europa un elemento di pressione dal punto di vista psicologico, e non solo, che sia in grado di farle cambiare atteggiamento, portandola a fissare le risorse che anche lei ritiene necessarie?

BRUNO NASCIMBENE, Direttore dell'Istituto di diritto internazionale dell'Università degli studi di Milano.
Condivido le sue riflessioni: mi hanno fatto ricordare che qualcuno ha già criticato la maggiore attenzione che fino ad oggi è stata dedicata ai paesi dell'Est, rispetto a quelli del Mediterraneo, per i quali la nuova Agenzia delle frontiere dovrebbe fare di più.
Se posso permettermi un suggerimento al Comitato, sarebbe interessante visitare l'agenzia di nuova istituzione con sede a Varsavia. Non è operativa da molto tempo; tuttavia, proprio per il fatto di essere stata istituita di recente, attraverso il suo presidente ed il suo staff, essa permette di comprendere quali difficoltà vengono incontrate in materia. Non intendo dire che occorra una nuova agenzia “proiettata” verso i paesi del Mediterraneo, ma una sezione della stessa andrebbe collocata dove la pressione migratoria è maggiore e dove il sistema delle frontiere presenta maggiori difficoltà e possibili falle.
Nessuno ha una bacchetta magica che risolva il problema dell'immigrazione clandestina. Il Governo francese ha le sue rimostranze da fare rispetto alla Spagna e all'Italia in merito alle politiche di regolarizzazione; bisognerebbe rispondere che fino a questo momento la materia è riservata agli Stati, in quanto non esiste una normativa comunitaria per la regolarizzazione degli stranieri. Quindi, oggi potrebbe non stare bene alla Francia che l'Italia o la Spagna regolarizzino gli immigrati; viceversa, domani potrebbe non stare bene ad altri paesi che la Francia adotti determinate misure. Come giurista, ricordo che la materia trova un necessario bilanciamento tra le competenze dell'Unione e quelle degli Stati: la competenza in tema di immigrazione, asilo e frontiere non è esclusiva dell'Unione, ma è ripartita e condivisa tra gli Stati e l'Unione europea; al contrario, le materie dell'ingresso per chi ha un lavoro regolare, della cooperazione nell'ambito del diritto di famiglia o dell'integrazione dei cittadini di paesi terzi sono riservate allo Stato. Quindi, la Francia, la Spagna, l'Italia o qualsiasi altro paese dell'Unione europea possono adottare misure a seconda delle loro necessità e delle valutazioni politiche. La questione può essere opinabile, disdicevole e politicamente discutibile, ma allo stato attuale la situazione del diritto comunitario è quella delineata.

PRESIDENTE.
Ringrazio a nome di tutto il Comitato il professore Nascimbene, nonché i colleghi intervenuti.
Dichiaro conclusa l'audizione.