TRIBUNALE DI ANCONA
Il Tribunale, Seconda Sezione Civile,
in persona del giudice unico dott.ssa Ruta Filomena
ha pronunciato in camera di consiglio il seguente
DECRETO
Ricorrente: Z. Lidiya, nata a Sofia (Bulgaria) il 26.10.1981
Oggetto: ricorso avverso decreto di espulsione
Sulla impugnazione proposta da Z. LIDIYA, con atto depositato il 26.08.2004, avverso il decreto di espulsione del Prefetto di Ancona, reso il 6.08.2004, notificato in pari data, osserva:
La disposizione di cui all’art. 13 Decr. Legisl. N. 286/98 prevede l’obbligo per l’autorità amministrativa di comunicare all’interessato ogni atto concernente l’espulsione, unitamente alle modalità di impuganzione e ad una traduzione in lingua a lui nota, e, ove ciò non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola. Tale obbligo viene meno quando si accerti la conoscenza della lingua italiana da parte dello straniero ad un livello che consenta effettivo esercizio del diritto di difesa (in tal senso non è sufficiente che lo straniero dichiari di “comprendere” la lingua italiana che nella sua accezione, si riferisce ad un diverso grado di conoscenza).
E ciò in aderenza alla giurisprudenza in materia della Corte Costituzionale, secondo la quale anche allo straniero irregolarmente soggiornante in Italia dev’essere riconosciuto il pieno esercizio del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e dall’art. 13 lg. N. 881/1977 di ratifica del Patto Internazionale sui diritti civili e politici stipulato a New York il 19.12.1966. In base alle quali disposizioni, il destinatario di provvedimento restrittivo della libertà di autodeterminazione deve essere messo in grado di comprenderne il contenuto e gli effetti che ne derivano.
La Cassazione ha precisato che il ricorso alle lingue alternative, francese, inglese, spagnolo, è legittimo quando, ad esempio, non si riesca a identificare la madrelingua o si tratti di lingua rarissima. E’ necessario, comunque, che nel provvedimento si faccia menzione delle ragioni che hanno determinato la scelta per le lingue alternative.
Nella fattispecie, il decreto di espulsione è redatto solo in lingua italiana, l’ordine del Questore, tradotto in lingua inglese, reca esclusivamente gli estremi della norma violata, senza nulla specificare nel merito, e così il verbale di notifica del decreto di espulsione riporta informazione sintetica.
Ebbene, la gravità degli effetti derivanti allo straniero del decreto di espulsione, sotto il profilo amministrativo e penale, in materia di diritti fondamentali dell’individuo, rende indispensabile il rispetto delle disposizioni in materia.
Peraltro, come risulta dalla data di ingresso apposta, mediante timbro sul passaporto, 04.08.04, la straniera era ancora in termini per la presentazione della richiesta di permesso, essendo stata espulsa appena due giorni dopo l’ingresso nel territorio.
Il decreto va pertanto annullato
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso proposto da Z. LIDIYA, con atto depositato il 26.08.2004, annulla il decreto di espulsione del Prefetto di Ancona reso il 6.08.2004, notificato in pari data.
Spese compensate.
Ancona 20.12.2004
Cancelliere Il Giudice
(Dott. Miriam Gugliormella) Dott.ssa Filomena Ruta
Tribunale di Ancona V° Depositato oggi in Cancelleria
Ancona 30 dic 2004
Il Cancelliere C1 (Dott. Miriam Gugliormella)
La vicenda di cui alla massima riproponeva la vexata quaestio in ordine alla necessità di tradurre il provvedimento di espulsione del cittadino straniero extracomunitario, nell’idioma del paese di provenienza e solo in eventuale subordine in una delle tre lingue (inglese, francese o spagnolo) che la legge prevede.
In buona sostanza, come nella stragrande maggioranza dei casi avviene, la Prefettura si limita ad una traduzione di routine del testo italiano, utilizzando uno dei tre idiomi sopraindicati, senza che avvenga una verifica preventiva:
della circostanza che il destinatario del grave provvedimento sia in grado di comprendere la lingua utilizzata per la traduzione;
della circostanza che sia, invece, concretamente possibile procede, in maniera rituale e tempestiva, alla traduzione nelle lingua comunemente parlata (e di origine) dello straniero.
Così facendo l’organo procedente si trova a violare l’art. 6 co. 3° lett. A) della convenzione dei diritti dell’uomo, recepita con L. 4.8.1955 n. 848 nonché l’art. 14 co. 3° lett. A) del patto internazionale relativo i diritti civili e politci recepito dalla L. 25.10.77 n. 881.
E’, infatti, assolutamente pacifico come un provvedimento particolarmente invasivo ed ablativo il diritto della persona a permanere sul territorio dello Stato, non possa tollerare una conoscenza parziale, se non, addirittura, una non-conoscenza, da parte del destinatario.
Tale premessa impone, quindi, prima facie, un preciso dovere dell’organo procedente di verificare il grado di comprensione della nostra lingua, da parte del cittadino extracomunitario. In buona sostanza, l’autorità procedente deve (o meglio dovrebbe) raggiungere la prova in ordine alla capacità dello straniero di parlare, intendere e leggere la nostra lingua.
In secondo luogo, invece, l’organo amministrativo deve valutare se l’atto possa essere tradotto nella lingua di origine in favore della persona espellenda, che non comprenda l’italiano. Solo in caso di negativa delibazione sul punto, si può accedere alla procedura coinvolgente l’inglese, il francese o lo spagnolo.
La natura di estrema ablazione del diritto del cittadino straniero, che l’espulsione riveste, e che la rende, quindi, suscettiva di impugnazione dinanzi alla giurisdizione statuale, dimostra l’evidenza della doverosa necessità che l’atto amministrativo venga appieno compreso dall’interessato.
La conseguente menomazione del diritto di difesa è elemento incidente nella diretta sfera del cittadino, il quale è portatore, in nuce, di tale condizione soggettiva.
Né si può sostenere che il diritto non sarebbe violato, ben potendo cittadino straniero possa munirsi di un difensore tecnico. Simile osservazione, se avanzata, non terrebbe conto, che la nomina del difensore è attività negoziale che attiene all’esecuzione del diritto atteso la indubbia diversità ontologica del ruolo che quest’ultimo riveste, rispetto al proprio assistito.
D’altro canto, ove si volesse aderire, ad una interpretazione estremamente restrittiva della norma in oggetto, diversamente dalla scelta del Tribunale di Ancona, che si condivide pienamente, si dovrebbe, comunque, rilevare che il principio contenuto nell’art. 13 co. 7 d.l.vo 286, per la sua portata di garanzia e natura di conformazione ad istituti di diritto internazionale, cui il nostro Stato aderisce, può e deve essere applicato in via analogica anche alla fattispecie che ci occupa.
L’atto amministrativo, quindi, siccome connotato da un preciso carattere sanzionatorio e di fortissima compressione del diritto di cui la parte è portatrice, avendo una sua complessità ed articolazione (già tutt’altro che semplice per una persona italiana) non può porsi come eccezione al principio generale di diritto internazionale, recepito perfettamente nel nostro ordinamento.
Del pari in situazioni, del tipo di quella in esame non si può, infatti, ritenere esistente, in diritto, una presunzione di conoscenza della lingua italiana in capo al cittadino straniero.
Per meglio comprendere la esatta definizione del problema, giovi ricordare che in materia penale l’art. 143 co. 1° u.pa. c.p.p., riconosce, sussistente simile presunzione solo al cittadino italiano.
Il decreto che si commenta, quindi, si pone all’interno del sentiero indicato dalla stessa Corte Costituzionale, che, investita del problema relativo all’identificazione degli atti, oggetto di traduzione, con sentenza interpretativa di rigetto (sent. 19.1.1993 n. 10) ebbe a chiarire, ormai, da tempo, inequivocabilmente che la norma citata non può essere configurata di stretta interpretazione.
Va, pertanto, affermato che la mancanza di un obbligo espresso di traduzione nella lingua nota all’interessato, non può, affatto, impedire l’espansione delle garanzie di legge, in conformità ai diritti riconosciuti dalle convenzioni internazionali, ratificate in Italia e dall’art. 24 co. 2° della Costituzione.
Il principio che, quindi, non può essere revocabile in dubbio è quello della preventiva traduzione dell’atto, destinato al cittadino straniero, in una lingua, che costui possa comprendere appieno. Esso, infatti, integra, indubitabilmente, il diritto più ampio e completo alla difesa, intendendo, come tale assunto la possibilità per la parte di recepire le scelte della P.A. e su tale abbrivio, poter contestare e contraddire le stesse.
La S.C. di Cassazione, fin dalla pronunzia dell’8.9.1999 n. 1527 ha coerentemente inteso rafforzare il principio di uguaglianza fra il cittadino italiano e lo straniero, assicurando a quest’ultimo un trattamento difensivo sostanzialmente (e non solo formalmente) uguale e di pari dignità rispetto al primo.
Simile scelta si armonizza con il principio sancito dall’art. 6 co. 3 lett. a) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sottoscritta a Roma, il 4.11.1950 e recepita nel nostro ordinamento con la L. 4.8.1955 n. 848,“..ogni accusato ha diritto a essere informato, nel più breve spazio di tempo, nella lingua che egli comprende e in maniera dettagliata, della natura e dei motivi dell’accusa a lui rivolta..” nonché con quello contenuto dall’art. 14 co. 3 lett. a) del Patto internazionale di New York del 19.12.1966, recepito nel nostro ordinamento con L. 25.10.1977 n. 881“…ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, ad essere informato sollecitamente ed in modo circostanziato, in una lingua a lui comprensibile, della natura e dei motivi dell’accusa a lui rivolta..”.
La necessità di una tutela dello straniero, rispetto all’atto amministrativo inibente la di lui presenza sul suolo statale, appare ancor più doverosa, sol che si pensi anche alle ulteriori conseguenze penali scaturenti dall’omessa osservanza del provvedimento di espulsione.
Attesa, pertanto, la prodromicità dell’atto rispetto alle eventuali successive condotte, ipoteticamente rilevanti sul piano penale, la traduzione dell’atto appare, quindi, scelta improntata a principi di prudenza e legalità.
(Altalex, 26 maggio 2005. Nota di Carlo Alberto Zaina)