LINK UTILI
venerdì 6 maggio 2005Fusi orari nel mondo ]
Cerca con Google    [ Ricerca avanzata ]
 rss
Chi siamo | Scrivi alla redazione | Pubblicità
Un aiuto per voi
Chiama e risparmia
Per la pubblicità
Sei in: Home | Dettaglio
In coda per chiedere asilo tra indifferenza e tanta approssimazione di Chiara Righetti ROMA – Poco prima delle dieci, una mattina di qualche giorno fa. Via Guidubaldo del Monte, pieno quartiere Parioli. La Commissione centrale che riconosce lo status di rifugiato ha sede in un palazzo grigio e anonimo, il portone accanto a quello del posto di polizia. Secondo piano, una trentina di persone in fila. “Oggi sono pochi – commenta qualcuno – a volte la fila scende per tutte le scale”. Alcuni stanno sul pianerottolo, altri dentro, nella sala d’attesa, dove un vetro separa la parte dedicata al pubblico dal bancone dove siedono i funzionari di polizia. Ci sono soprattutto uomini, piuttosto giovani, molti africani: uno elegante, corporatura imponente, sfoglia il quotidiano nazionale che ha tirato fuori da una valigetta di pelle.

Qualcuno si sistema i vestiti della domenica, qualcuno ricontrolla ansiosamente i documenti spiegazzati, la fotocopia che da un anno o più è l’unico titolo per restare in Italia. Tutti quelli che sono qui hanno presentato domanda d’asilo in Italia almeno 15 mesi fa: tanto ci vuole per ottenere un appuntamento dalla Commissione centrale, quella che – fino al 21 aprile scorso - aveva potere assoluto di decidere se riconoscere o meno lo status di rifugiato. E che (anche con l’arrivo delle nuove Commissioni decentrate) continuerà a lavorare ancora a lungo, per evadere le 25mila pratiche arretrate: qualcuno parla di altri due anni.

I corridoi sono anonimi, quelli di un ufficio qualsiasi, con armadi pieni di faldoni: gli “archivi” delle pratiche d’asilo. Quando nella sala delle audizioni c’è un posto libero, una persona entra, un telefono squilla all’altra estremità del corridoio, per chiamare gli interpreti: “Serve l’albanese, serve l’inglese. Serve il rom”.

**

Il colloquio atteso da tutti per quasi due anni si sbriga in cinque minuti. Le domande sono scritte su un modulo prestampato: da dove vieni? Quando sei entrato in Italia, e da dove? Perché chiedi asilo? Cosa ti accadrebbe se tornassi nel tuo paese? Raccontano gli interpreti che spesso è quest’ultima domanda a gettare nel panico l’intervistato. Per cui dev’essere quasi sempre riformulata: “Sappiamo bene che tu non tornerai. Ma che cosa ti potrebbe accadere se per caso un giorno tu dovessi tornare?”.

I funzionari hanno davanti la richiesta d’asilo, che ogni richiedente ha scritto nella propria lingua un anno e mezzo fa. Alcune sono di poche righe: “Sono kosovaro. Sono dovuto scappare per motivi di sicurezza. Spero di ottenere asilo in Italia per potermi sentire più sicuro”. Altre sono lunghe, pagine e pagine scritte a mano, a volte sgrammaticate, col resoconto dettagliato di lutti, persecuzioni e torture. Contengono saluti, preghiere: “Do il mio abbraccio a tutto il popolo italiano” dice una. “Che Dio vi benedica tutti” conclude un’altra.

L’audizione dovrebbe avvenire davanti all’intera commissione. Ma nella sala, per fare prima, ci sono scrivanie ai quattro angoli: dietro ciascuna siede uno dei commissari, davanti il richiedente con l’interprete. (Il presidente della commissione è un prefetto, gli altri membri sono scelti tra i funzionari della Presidenza del consiglio, e dei ministeri degli Esteri e dell'Interno. C'è anche un rappresentante dell'Acnur, che però ha solo il ruolo di "osservatore"). La divisione delle pratiche avviene in modo più o meno casuale, si va alla prima scrivania libera, senza considerare le specializzazioni geopolitiche degli intervistatori. Quest’attenzione c’è solo a volte, sia pure al contrario. Quando il commissario decide ad esempio che con quelli di una certa nazionalità non vuole avere niente a che fare.

“Alcuni commissari – racconta uno degli interpreti – pretendono che sediamo dal loro lato del tavolo, per far capire subito da che parte stiamo. Ma a volte è una necessità stare accanto alla persona, per rassicurarla, consolarla, anche col contatto fisico. Un periodo avevano messo anche un vetro fra le due metà della scrivania, per dare un senso di maggiore distacco. Ma noi fingevamo di non sentire. ‘Come dici, come dici?’ cominciavamo a urlare, finché alla fine l’hanno tolto”.

**

Solo a volte il colloquio si prolunga. Con chi si dichiara di una nazionalità a rischio, si fanno domande “di controllo” per smascherare le possibili contraffazioni. Ecco allora i quesiti a trabocchetto sulla geografia del paese: nomi di città, fiumi, rilievi montuosi. Una volta da uno che si era dichiarato pescatore, un commissario ha voluto sapere che varietà di pesci era solito pescare. Ma può accadere anche il caso di una donna che si presenta con un referto medico per dimostrare di aver subito violenza, cui il commissario chiede con insistenza: “Signora, in che circostanze è stata violentata? Sa, abbiamo solo la sua parola”.

Talora all’interprete viene chiesto di dire la sua: “Riconosci il suo accento? E’ davvero dell’Angola?”. Loro coi richiedenti asilo non possono parlare. Qualcuno porta in tasca delle striscioline di carta con i nomi delle associazioni che fanno assistenza ai rifugiati, cui rivolgersi in caso di diniego. Qualcun altro confida che dopo anni di questo lavoro avrebbe voglia di raccogliere in un libro alcuni dei colloqui che ha dovuto tradurre. “Deciditi. Prima hai detto islamico, adesso dici che sei musulmano. Allora, di che religione sei?”.
O anche: “Non hai il passaporto? E perché non l’hai chiesto all’ambasciata del Kosovo?”. E ancora “Perché non state a casa vostra?”. E l’interprete, impassibile, traduce. A volte botta e risposta veri e propri: “Ma la guerra nel tuo paese è finita da un anno”. “Sì, infatti sono scappato tre anni fa. Ma l’appuntamento me l’avete dato per oggi”. Fra quelli che vengono interrogati, c’è chi non ha voglia di ricordare, chi invece vuole a ogni costo convincere, si cala i pantaloni per mostrare una ferita mentre tutti gli chiedono di fermarsi.

**

La fila oggi si smaltisce in fretta, ogni cinque-dieci minuti il telefono degli interpreti torna a squillare: avanti un altro. Ci sono 48 persone in lista ma come sempre molte non si sono presentate. In questi due anni la loro vita ha preso altre strade. Tra quelli che aspettano, c’è una giovane coppia con un bimbo. Sono curdi turchi, lui è rifugiato da otto anni. E’ venuto ad accompagnare la moglie, si preoccupa che l’interprete capisca la varietà di curdo che parlano loro.

Un ragazzo eritreo dopo qualche esitazione tira fuori un foglio e chiede di essere ricevuto: “Ma ce l’hai l’appuntamento? Nun ce l’hai? Guarda, te ne devi annà…”. L’audizione non è per lui, spiega, ma per la sua ragazza, che resta in disparte: camicetta rosa, capelli legati, occhi bassi. Il poliziotto si impietosisce e controlla sul foglio: “Seeee... ma tu hai fatto domanda a settembre! E’ impossibile che ti chiamino adesso. TE NE DEVI AN-DA-RE - sillaba - Capito? An-da-re. Non ci hai qualcosa altro da fare oggi a Roma? Che ne so, ti vai a fare un giro al Colosseo…”. “Ieri – spiega un interprete in vena di gentilezze – è venuto uno apposta da Crotone. Aveva fatto domanda da due anni e sei mesi, in questura gli hanno detto di provare a passare qui. Ma è inutile, senza appuntamento non si riceve”.

A chi ha finito, la risposta non viene comunicata subito: resta in una sigla che il commissario annota su un angolo del foglio. Insieme a una crocetta che riassume l’impressione generale sul testimone: “Molto/poco/per nulla credibile”. Alla fine della mattina tutti i commissari si riuniscono, si consultano su eventuali casi dubbi. Poi inviano i responsi alle questure, che li faranno avere ai diretti interessati.

Sul vetro della reception un cartello in più lingue indica il numero verde cui rivolgersi per informazioni. Un ragazzo se lo annota sul cellulare. Dopo un po’ la segretaria gli dice: “Guarda che quel numero l’hanno chiuso”. Fruga un po’ fra le carte sulla scrivania, tira fuori un altro cartello mai attaccato: “Il servizio informazioni è momentaneamente sospeso”.

**

C’è confusione nella sala d’attesa, un giovane rom scalpita per passare. I due poliziotti lo prendono per le spalle. “Ma tu ce l’hai appuntamento?” chiede qualcuno. “Ma che ci hanno questi – risponde l’altro - che vuoi che ci abbiano, eh?”. Richiamata dalle grida, anche la segretaria viene fuori: “Questi lo devono capire… Qui non diamo appuntamenti, CHIARO? E’ inutile perciò che ci seguite fino alla fermata dell’autobus, tanto chiamiamo subito la polizia!”. “Capito? Nun t’arrabbià” fa il poliziotto in tono conciliante al ragazzo. Che finalmente riesce a spiegare, con un lieve accento toscano, che lui l’appuntamento lo ha, per l’esattezza lo ha sua sorella, quella ragazza seduta in un angolo. Ma lui, che l’ha accompagnata, dovrebbe tornare in azienda a Firenze al più presto. Per cui se si potesse fare più in fretta…

**

Alle undici i colloqui sono finiti, il portone di legno si chiude. Fuori, sul pianerottolo, ci sono ancora quattro o cinque persone. La coppia di eritrei se n’è andata, gli altri stanno ancora aspettando. C’è un ragazzo con gli occhiali da sole, sembra Bob Marley: eritreo anche lui, racconta. E' in Italia da quindici mesi dopo il viaggio attraverso la Libia, poi su un barcone fino a Lampedusa. Vive a Milano, è a Roma da due settimane, viene alla Commissione tutte le mattine. Ha il nome di un impiegato da contattare, che dovrebbe fargli ottenere l’appuntamento: “Non vado via finché non mi ricevono”.

Un altro giovane resta in disparte. Appoggiato alla ringhiera, fruga in una cartellina. “Aiutatemi – sussurra – aiutatemi”. Viene dal Togo, la sua richiesta è stata respinta. “Ma nel mio paese ci sono ancora problemi” balbetta. “Il problema è che hanno ucciso mio marito… No, scusi... come si dice… mia moglie”. Estrae dalla cartellina foto di corpi senza vita, cadaveri di bambini coperti di sangue. “Ci sono ancora problemi, capite? Ancora non posso tornare a casa”. Tira fuori due free press della capitale, li sfoglia fino a ritrovare due notiziole di poche righe “Ancora violenze nel Togo”. Indica i titoli, sono tutte le sue prove. “Non posso tornare, capite?”. Quando ce ne andiamo lui e gli altri sono ancora lì, fuori dalla porta ben chiusa. Aspettano. (06 maggio 2005 - ore 16.20)

Cerca nella sezione
 


L’indirizzo di questa pagina è: http://www.ilpassaporto.kataweb.it/dettaglio.jsp?id=30236&s=0