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Diritto di cittadinanza dell’Unione europea e interpretazione estensiva del diritto di circolazione e soggiorno

di Alessandra Di Martino - dimartino@gmx.net
(dottoranda di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni Politiche Comparate presso l’Università di Roma “La Sapienza”)

Lo scorso 23 marzo 2006 la Grande Sezione della Corte di giustizia ha pronunciato sentenza in causa C-408/03 (Commissione delle Comunità Europee c. Regno del Belgio PDF, con l’intervento adesivo del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord).

In essa la Corte di Lussemburgo ha confermato, in seguito ad un ricorso per inadempimento proposto ai sensi dell’ 226 TCE, la propria giurisprudenza che negli ultimi anni, soprattutto in occasione di rinvii pregiudiziali ex art. 234 TCE, ha affermato un’interpretazione estensiva della libertà di circolazione e soggiorno tra gli stati membri, intese quali situazioni giuridiche soggettive caratterizzanti lo status di cittadino europeo (art. 18 TCE). Questa giurisprudenza è ora recepita nell’unica direttiva 2004/38 CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri, che ha abrogato le direttive settoriali preesistenti ed il cui termine finale di recepimento è il prossimo 30 aprile 2006.

Il procedimento è stato originato, nella fase precontenziosa, da una serie di denunce relative alla legislazione ed alla prassi amministrativa belghe relative alla mancata emissione di permessi di soggiorno e all’adozione di provvedimenti di espulsione rispetto a cittadini di altri stati membri dell’Unione Europea. Tra i molteplici episodi concreti, un caso in particolare viene riferito dall’Avvocato Generale Colomer nelle conclusioni, per poi essere ripreso dalla Corte nella sentenza. Esso riguarda la situazione della cittadina portoghese M., recatasi insieme ai suoi tre figli in Belgio per ricongiungersi ivi con un cittadino belga che da tempo era il suo partner. Nonostante la presentazione della necessaria dichiarazione d’ingresso e, contestualmente, di un documento con il quale il cittadino belga suo compagno si impegnava a provvedere al sostentamento della donna e dei suoi figli, le venivano notificati il rigetto della domanda ed un provvedimento di espulsione.

La Commissione pertanto ha contestato la disciplina e la prassi amministrativa belghe, instaurando un giudizio per inadempimento, con riferimento all’art. 18 TCE e ad alcune norme contenute nelle principali direttive CE attuative della libertà di circolazione delle persone.

Due sono le censure formulate dalla Commissione, relative rispettivamente alla fonte delle risorse di cui il cittadino di un altro stato membro deve disporre per poter soggiornare in Belgio, ed all’automatismo dell’eventuale provvedimento di espulsione (l’Avvocato Generale, nelle conclusioni, si serve del termine expulsion, la Corte impiega il più neutro eloignement, mentre la normativa belga concepisce il provvedimento come ordre de quitter le territoire).

Rispetto alla prima censura, si tratta di verificare la compatibilità della prassi amministrativa belga con l’art. 1 1° co. della direttiva 90/364 CE. Questa norma, nel fissare i presupposti relativi all’emissione di un permesso di soggiorno, prevede che “gli stati membri accord(i)no il diritto di soggiorno ai cittadini degli stati membri che non beneficiano di questo diritto in virtù di altre disposizioni del diritto comunitario.. a condizione che essi dispongano per sé e per i propri familiari di un’assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello stato membro ospitante e di risorse sufficienti per evitare che essi diventino durante il soggiorno un onere per l’assistenza sociale nello stato membro ospitante”. Il punto controverso è quello relativo alla provenienza delle “risorse sufficienti”, essendosi consolidata la prassi amministrativa belga nel senso che esse debbano essere “proprie”, ossia “personali”, del cittadino che intende esercitare il diritto di soggiorno, e sostenendo invece la Commissione che una tale specificazione è assente dalla lettera e dal fine della direttiva. Nel corso del procedimento il Governo belga ha parzialmente mitigato la sua posizione, ammettendo che anche i redditi provenienti da un terzo potessero concorrere a determinare la “sufficienza” delle risorse, purché questi fosse vincolato alla prestazione della somma di denaro da un obbligo giuridico- di fonte legislativa, nel caso il terzo fosse un coniuge o un figlio, o altrimenti contrattuale, ma solo nella forma di un atto pubblico nel quale fosse contenuta la clausola di assistenza.

La Corte, in linea sia con la sua giurisprudenza più risalente in tema di interpretazione estensiva della libertà di circolazione delle persone, sia con quella più recente che definisce la cittadinanza europea come “status fondamentale” del cittadino comunitario (cfr. causa C-184/99, Grzelczyk, §31), accoglie il ricorso della Commissione.

Riconoscendo, a partire dalla sentenza Baumbast (del 17 settembre 2002, C-413/99, §§ 80-84), la diretta applicabilità dell’art. 18 n. 1 TCE (diritto di circolazione e soggiorno) in quanto disposizione sufficientemente chiara e precisa, la CGCE contestualmente richiama, sempre con riferimento al diritto comunitario, limiti e condizioni ad esso opponibili. Nel caso in esame, a prevedere siffatti limiti è l’art. 1 1° co. della direttiva 90/364 CE. In essi prendono corpo i “legittimi interessi degli stati membri”, nella misura in cui “i beneficiari del diritto di soggiorno non devono costituire un onere eccessivo per le finanze pubbliche dello stato membro ospitante” (4° considerando). La CGCE invoca comunque il potere di sottoporre al proprio scrutinio l’applicazione, da parte degli stati membri, delle norme comunitarie prevedenti siffatti limiti con riferimento all’osservanza dei principi generali del diritto comunitario, ed in particolare del principio di proporzionalità (la fattispecie non presenta una costellazione tale da giustificare, da parte della giurisdizione nazionale, l’invocazione di eventuali controlimiti).

La libertà di circolazione non è solo “principio fondamentale” dell’ordinamento comunitario (§ 40), ma anche, unitamente al diritto di soggiorno, “diritto fondamentale” del cittadino europeo ai sensi dell’art. 18 n. 1 TCE (§41), non subordinato all’esercizio di un’attività economica. (cfr. causa C-456/02 del 18 dicembre 2002, Trojani, § 46). L’interpretazione dell’art. 1 1° co. della direttiva 90/364 CE offerta dalle autorità belghe, imponendo un requisito ulteriore attinente alla provenienza delle risorse, “rappresent(a) un’ingerenza sproporzionata nell’esercizio di quel diritto…in quanto eccede quanto è necessario per la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva 90/364, cioè la protezione delle finanze pubbliche dello stato membro ospitante” (§§ 41, 46). Ad analoga conclusione la Corte era giunta in una pronuncia di alcuni mesi addietro ove, con riferimento ad una minorenne in tenera età, aveva ribadito la sua piena titolarità del diritto di soggiorno, indipendentemente dal fatto che le “risorse sufficienti” di cui disponesse fossero di provenienza non propria ma dei suoi familiari (causa C-200/02 del 19 ottobre 2004, Zhu-Chen, §§ 29-33). Nel procedimento in esame la stessa valutazione viene estesa al cittadino dell’Unione che si avvale dei redditi del suo partner residente nello stato membro ospitante (§ 43).

L’interesse dei singoli stati membri a che “il diritto al libero soggiorno non si traduca in un onere supplementare per lo stato ospitante” è stato già valutato dalla stessa direttiva 90/364, il cui art. 3 condiziona la sussistenza del diritto di soggiorno alla soddisfazione delle condizioni di cui all’art. 1 1° co., consentendo allo stato membro “di agire in caso di perdita effettiva delle risorse finanziarie” (§ 48). La CGCE ricorre inoltre all’argomento secondo cui il rischio della perdita di risorse non verrebbe neutralizzato da un impegno ufficiale del terzo a sostenere finanziariamente il titolare del diritto di soggiorno (§ 47), dipendendo la realizzazione di un rischio simile “da un’evoluzione delle circostanze” non interamente prevedibile. È vero altresì che, grazie ad una recente ma non incontroversa giurisprudenza in tema di divieto di discriminazione ex art. 12 TCE, la Corte ha indirettamente favorito un’interpretazione flessibile della clausola sull’onere finanziario.

Quanto alla seconda censura, essa riguarda la disciplina belga (artt. 45, 51, 53 dell’ arrête royal dell’8 ottobre 1981 sull’accesso al territorio belga, al soggiorno, allo stabilimento e all’allontanamento degli stranieri, come modificato dall’arrête royal del 12 giugno 1998), dalla quale si deduce l’automatismo del provvedimento di espulsione nel caso di mancata produzione dei documenti richiesti per il rilascio del titolo di soggiorno entro un dato termine. Secondo la Commissione, la cui posizione è condivisa dalla Corte, la disciplina in questione contrasta con una serie di norme relative all’accertamento del diritto di soggiorno e contenute nelle direttive che implementano le norme primarie sulla libertà di circolazione (artt. 2 1° co. direttiva 90/364 CE relativa al diritto di soggiorno, art. 4 direttiva 68/360 CE relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei lavoratori degli stati membri e delle loro famiglie all’interno della comunità, art. 4 direttiva 73/148 CE relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei cittadini degli stati membri all’interno della Comunità in materia di stabilimento e di prestazione di servizi, art. 2 direttiva 93/96 CE relativa al soggiorno degli studenti, art. 2 direttiva 90/365 CE relativa al soggiorno dei lavoratori salariati e non salariati che hanno cessato la propria attività professionale). Tutte le disposizioni da ultimo citate stabiliscono che “il diritto di soggiorno è constatato mediante il rilascio di ...(una) «Carta di soggiorno di cittadino di uno stato membro della CEE»” e che “per il rilascio della carta di soggiorno... lo stato membro può soltanto esigere dal richiedente di presentare una carta di identità o un passaporto in corso di validità e di fornire la prova che egli soddisfa alle condizioni” previste da ciascuna direttiva con riferimento ai soggetti volta a volta interessati.

L’incompatibilità della disciplina belga con il diritto comunitario è ricondotta al valore meramente dichiarativo e non costitutivo del provvedimento amministrativo interno (permesso di soggiorno) ai fini dell’attribuzione del diritto di soggiorno del cittadino comunitario. Questo diritto infatti discende direttamente dal trattato istitutivo: dal già art. 48 3° co. TCE, come evidenziato dalla prima giurisprudenza in materia, dall’ art. 18 TCE, come rilevato da quella degli ultimi anni. Ne segue che il mancato rispetto delle formalità previste dallo stato membro ospitante in materia di controllo degli stranieri, non sia da solo sufficiente a giustificare un provvedimento di espulsione. Tra siffatte formalità rientra quella relativa all’obbligo, da parte del cittadino comunitario, di fornire la prova che egli soddisfa le condizioni poste dal diritto comunitario riguardo l’esercizio del diritto di soggiorno, avendo a più riprese la Corte sottolineato che per provare la propria identità, in mancanza di una carta d’identità o di un passaporto valido, potesse ricorrersi anche ad altri mezzi di prova (cfr. causa C-459/99 del 25 luglio 2002, MRAX, § 62 e causa C-215/03 del 17 febbraio 2005, Oulane, § 26).

In questo contesto, la normativa belga, che comporta l’allontanamento automatico del cittadino di uno stato membro, qualora questi non produca, entro un dato termine, i documenti giustificativi necessari al rilascio della carta di soggiorno è idonea a “pregiudica(re) la sostanza stessa del diritto di soggiorno direttamente attribuito dal diritto comunitario” (§ 68). È la natura automatica del provvedimento a renderlo sproporzionato, non consentendo che si tenga debitamente conto dei motivi per i quali l’interessato non ha adempiuto, nel corso del procedimento amministrativo, agli obblighi a suo carico. Un’espulsione viene pertanto ammessa soltanto nel caso in cui l’interessato non sia (in alcun modo) in grado di provare che ricorrono le condizioni richieste per il rilascio del permesso. Parallelamente, una consolidata giurisprudenza della Corte ribadisce che il presupposto per l’emissione di una misura di espulsione possa consistere soltanto, e restrittivamente, nell’essere l’individuo in questione una concreta minaccia posta per l’ordine pubblico (da ultimo, causa C-215/03, Oulane, § 44).

La sentenza in esame si colloca pertanto nell’alveo di quelle vieppiù numerose pronunce della Corte che colpiscono discipline e prassi nazionali le quali “possono dissuadere i cittadini dell’Unione dall’esercitare il loro diritto alla libera circolazione” (§ 70), promuovendone l’implementazione attraverso un’interpretazione estensiva dei presupposti relativi alla “residenza legale” dei cittadini di uno stato membro nel territorio di un altro stato membro. Le ricadute sono di non poco momento alla luce di un’altra, recente e parallela, seppur non del tutto pacifica, giurisprudenza della stessa Corte. Alla luce di quest’ultima, infatti, i cittadini europei legalmente residenti in uno stato membro diverso dal proprio possono invocare il diritto di parità di trattamento ex art. 12 TCE, anche con riferimento alle prestazioni sociali (causa C-85/96 del 12 maggio 1998, Martinez Sala, § 63; causa C-184/99, Grzelczyk, §46; causa C-456/02, Trojani, §46; causa C- 209/03 del 15 marzo 2005, Bidar, §63, con un temperamento per l’indennità dovuta a titolo di ricerca di prima occupazione: causa C-138/02 del 23 marzo 2004, Collins § 73 e, più incisivamente, art. 24 2° co. direttiva 2004/38 CE).

(27 aprile 2006)


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