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04-12-2006
Aspettando una nuova legge sull'immigrazione
Tito Boeri

Alla fine chiuderanno anche loro le frontiere ai lavoratori bulgari e rumeni. Italia e Spagna, gli ultimi due paesi chiamati a decidere il regime migratorio da tenere nei confronti dei due nuovi Stati membri si allineeranno al resto dell’Unione Europea a 15, imponendo restrizioni "transitorie" all’ingresso per motivi di lavoro. Paradossalmente, avviene proprio mentre in molti paesi (comprese Italia e Spagna) si stanno togliendo le restrizioni all’ingresso di lavoratori dal primo gruppo di nazioni dell’ex blocco sovietico (Paesi Baltici, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria). Perché allora questa schizofrenia, per cui da una parte si chiude e dall’altra si apre? Proviamo a spiegarlo cercando al contempo di trarre lezioni utili per il nostro paese, impegnato in questi mesi a rivedere le politiche dell’immigrazione.

L’esperienza del primo allargamento

In occasione del primo allargamento a Est, quasi tutti i 15 paesi dell’Unione Europea hanno introdotto un "periodo transitorio" per limitare l’accesso ai loro mercati del lavoro da parte dei lavoratori dei nuovi Stati membri. In particolare, dal primo maggio 2004, la libera circolazione di lavoratori nell’ambito dell’Unione prevista dal (primo) Trattato di Roma è stata concessa dalla sola Svezia, restrizioni all’accesso alle prestazioni sociali sono state introdotte da Regno Unito, Irlanda e Danimarca, mentre gli altri paesi dell’Unione a 15 hanno scelto di restringere gli accessi parzialmente o totalmente.
Queste asimmetrie hanno alterato profondamente la distribuzione territoriale dei flussi migratori spostandola verso i paesi che avevano aperto di più le frontiere (vedi il grafico qui sotto): la quota degli emigrati dai nuovi Stati membri arrivati nel Regno Unito è così salita dall’8 per cento di prima dell’allargamento al 35 per cento; quella della Germania (che aveva chiuso le frontiere) è diminuita dal 60 al 43 per cento.
Al tempo stesso si è ridotto fortemente il contributo che l’immigrazione può dare alla crescita economica in un’Europa stagnante. Se si paragonano i flussi dai nuovi Stati membri riscontrati dopo il maggio 2004 con quelli previsti (1) in caso di assenza di restrizioni, ci si rende conto che sono stati di circa un terzo inferiori. Per capire l’impatto che l’immigrazione ha sulla crescita, basti pensare che, secondo uno studio presentato a un convegno della Fondazione Rodolfo Debenedetti
, l’immigrazione conterebbe fino al 50 per cento della crescita del Pil in Spagna negli ultimi cinque anni, dove ha contribuito a ridurre di due punti la disoccupazione strutturale.

 

Perché allora le restrizioni?

Lo scopo delle politiche dell’immigrazione non è quello di bloccare i flussi. Sarebbe impossibile farlo, come testimoniato dal ritardo con cui i governi riescono a monitorare l’arrivo degli immigrati. La Spagna, ad esempio, con l’ultimo censimento ha scoperto di avere due milioni di cittadini in più. Le politiche dell’immigrazione servono solo ad imporre gradualità ai flussi e a modificarne la composizione, in modo tale da migliorarne l’impatto distributivo e da ridurne i costi sociali. Se infatti l’immigrazione comporta sempre un incremento nel prodotto interno lordo del paese di destinazione, flussi consistenti e concentrati in un arco di tempo ristretto possono influire negativamente sul capitale sociale di un paese, pregiudicandone il tasso di crescita in futuro. È ad esempio, documentato come il grado di fiducia negli altri e la coesione sociale siano fondamentali nella performance economica di un paese. Gli immigrati, soprattutto quelli di prima generazione, faticano a integrarsi e finiscono spesso per essere coinvolti in attività illegali. Oggi un immigrato rumeno ha 10 volte la probabilità di essere detenuto di un cittadino italiano. Questo avviene anche perché ci sono leggi troppo restrittive sull’immigrazione e perché i reati commessi da molti italiani non comportano detenzione preventiva. Ma il dato segnala un problema che non può essere ignorato, soprattutto nei paesi a piu' recente immigrazione, come l'Italia. Nei paesi con una lunga storia di flussi migratori, gli immigrati hanno, invece, un quinto della probabilita' di essere detenuti dei cittadini americani.

Un sistema a punti per l’Europa

Al di là del caso dei due allargamenti a Est, i paesi europei hanno negli ultimi quindici anni fortemente ristretto le politiche dell’immigrazione chiudendo molte strade d’ingresso legale. L’Europa potrebbe permettersi politiche dell’immigrazione meno restrittive se riuscisse a coordinare le politiche nazionali, in modo tale da evitare i fenomeni di deviazione dei flussi riscontrati in occasione del primo allargamento. Coordinarsi vuol dire però anche definire una politica comune, mentre oggi gli Stati dell’Unione regolamentano in modo molto diverso fra di loro il fenomeno.
C’è un modello, comunque, che si va affermando nel Vecchio Continente. Dopo la Svizzera, anche Danimarca e Regno Unito, a partire dal 2009, introdurranno un sistema a punti. Serve a ottenere tre risultati al tempo stesso: i) incoraggiare i flussi di lavoratori qualificati, ii) colmare buchi nell’offerta di alcuni tipi di prestazioni (come ad esempio l’assistenza agli anziani) e iii) razionalizzare e rendere più trasparenti i criteri di ingresso, inserendoli in un quadro coerente, stabilendo le esigenze prioritarie. Ad esempio, in Canada, le domande di ammissione inviate dagli immigrati prima di entrare nel paese vengono accolte in base al loro punteggio in una graduatoria che tiene conto delle loro conoscenze linguistiche, del livello di istruzione, dell’età e della precedente esperienza lavorativa. In Italia, invece, le quote degli immigrati vengono riempite in base alla data di presentazione della domanda, senza alcuna considerazione per quelle caratteristiche che incidono sul processo di integrazione degli immigrati e sul loro contributo alla crescita economica e al bilancio dello stato. I cittadini europei sono sempre più preoccupati per gli effetti dell’immigrazione sull’accesso al welfare. Un modo per rispondere a queste preoccupazioni senza cedere alle anacronistiche pressioni per chiudere del tutto le frontiere, risiede proprio nel favorire gli ingressi di coloro che hanno minori probabilità di dover ricorrere a prestazioni assistenziali e maggiori probabilità di contribuire fin da subito, trovando facilmente un lavoro, al finanziamento dei servizi pubblici.

Sponsorizzazione, ma non autosponsorizzazione

Un sistema a punti è più facile da amministrare di una normativa complessa e inutilmente vessatoria per gli immigrati e per chi offre loro lavoro, come la legge Bossi-Fini. Permette anche di responsabilizzare i datori di lavoro, così come vuole la normativa che sta per essere introdotta nel Regno Unito (vedi il saggio di Millar e Salt in allegato). Questa prevede non solo la valutazione delle domande presentate (dall’estero) dagli immigrati, ma anche la sponsorizzazione di un immigrato da parte di un datore di lavoro. La sponsorizzazione può essere un canale soprattutto per facilitare l’ingresso di lavoratori mediamente o poco qualificati, che hanno più difficoltà a integrarsi e nei cui confronti il datore di lavoro sarebbe in questo modo maggiormente responsabilizzato. Ogni impresa riceverebbe, infatti, un rating che tiene conto del modo con cui ha "seguito" in passato casi analoghi. L’idea dell’autosponsorizzazione , invece, sembra largamente manipolabile da chi organizza i flussi dei clandestini e, quindi, rischia di impedire qualsiasi controllo dei flussi. Insomma, bene la sponsorizzazione, ma non l’autosponsorizzazione.

(1)  Tito Boeri e Herbert Bruecker , Why are Europeans so tough on migrants? , Economic Policy n.44, ottobre 2005. 



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