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NEWSLETTER N. 1 – 12 Dicembre 2006
SOMMARIO
GIURISPRUDENZA
Stop della Corte di Cassazione all’accesso
degli stranieri non comunitari al pubblico impiego.
RAPPORTI E DOCUMENTI
1. Relazione della Commissione Europea al
Consiglio e al Parlamento Europeo
sull’applicazione della Direttiva 2000/43 in materia di parità di trattamento
indipendentemente dall’origine etnica e razziale.
2. Discriminazione in Europa. Il Rapporto
dell’EUMC (Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e di xenofobia) per
l’anno 2005.
3. La percezione e l’esperienza della
discriminazione da parte degli immigrati in Europa. Un rapporto dell’EUMC
(Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia).
APPROFONDIMENTI ED ANALISI
I.
Tutela
contro le discriminazioni e diritto alla “privacy”.
II.
I test
situazionali come strumento di prova delle discriminazioni.
SITI INTERNET
NEWSLETTER N. 1 – 12 Dicembre 2006
GIURISPRUDENZA
Stop della Corte di
Cassazione all’accesso degli stranieri non comunitari al pubblico impiego.
Gli
extracomunitari che vivono nel nostro Paese, benché provvisti di permesso di
soggiorno, non possono accedere ad impieghi pubblici. Lo ha sancito la Corte
Suprema di Cassazione
(sezione lavoro, sentenza n. 24170).
http://www.asgi.it/content/documents/dl06111600.cass.p.2006.24170.pdf
Massima della sentenza
«Il requisito del possesso della
cittadinanza italiana, richiesto per accedere al lavoro alle dipendenze delle
Pa dall’articolo 2 Dpr 487/94 norma “legificata” dall’articolo 70, comma 13,
D.Lgs 165/01 - e dal quale si prescinde, in parte, solo per gli stranieri
comunitari, nonché per casi particolari (articolo 38 D.Lgs 165/01; articolo 22
D.Lgs 286/1998), si inserisce nel complesso delle disposizioni che regolano la
materia particolare dell’impiego pubblico, materia fatta salva dal D.Lgs
286/98, che, in attuazione della convenzione Oil n. 143/75 , resa esecutiva con
legge 158/81, sancisce, in generale, parità di trattamento e piena uguaglianza
di diritti per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani; né
l’esclusione dello straniero non comunitario dall’accesso al lavoro pubblico
(al di fuori delle eccezioni espressamente previste dalla legge) è sospettabile
di illegittimità costituzionale, atteso che si esula dall’ area dei diritti
fondamentali e che la scelta del legislatore è giustificata dalle stesse norme
costituzionali (articolo 51, 97 e 98 Costituzione)».
Commento
Intervenendo su una controversia originata
dall’istanza di un cittadino albanese invalido civile, iscritto nelle liste
riservate ai disabili, per
accedere ai posti di lavoro nella Pubblica Amministrazione, la Corte di
Cassazione, con la sentenza dd. 19.10-13.11.2006 n. 24170, rovescia l’
orientamento favorevole
all’accesso degli stranieri al pubblico impiego che si era finora
tendenzialmente determinato nella giurisprudenza dei giudici di merito.[1]
La Corte di Cassazione conferma la linea di
chiusura espressa dall’autorità governativa[2]
affermando che il diritto vigente “esprime sicuramente la regola secondo cui la cittadinanza italiana
costituisce requisito per
l’accesso al lavoro pubblico in tutte le sue forme, con salvezza delle
eccezioni previste dalla legge”, in quanto la norma regolamentare di cui al dPR
487/94 risulta “legificata” dall’art. 70 del D.Lgs. 165/01. La Corte di
Cassazione respinge dunque la tesi sostenuta da una parte della dottrina,
secondo cui l’art. 2 c.3 del T.U. sull’immigrazione, prevedendo il principio
della parità di trattamento in materia di lavoro per i cittadini stranieri
regolarmente soggiornanti in Italia avrebbe abrogato le norme preesistenti, in
quanto incompatibili e di rango inferiore, dovendosi invece ritenere la
previsione di cui al D.lgs. 165/01 alla stregua di una svista del legislatore,
determinata da una riproduzione automatica ed inconsapevole di normative
preesistenti non più in vigore.[3]
Al contrario, secondo la Cassazione, la norma
di cui all’art. 70 del D.lgs. n. 165/01 è suscettibile di confermare
l’impedimento all’accesso degli stranieri non comunitari al pubblico impiego,
nel quadro di una scelta consapevole e legittima che qualifica speciale il
lavoro pubblico e lo assoggetta a regolamentazione particolare. La specialità
di tale regolamentazione, fondata sul requisito generale dello status
civitatis, non appare
arbitraria -a giudizio della Corte di Cassazione-, bensì fondata su valori e
considerazioni dotate di legittimità costituzionale, trovando copertura non
solo nell’art. 51, ma pure negli
articoli 97 e 98 della Carta Costituzionale, quest’ultimo fondante il principio
della particolare fedeltà
verso le istituzioni richiesta agli impiegati pubblici, posti “al servizio
esclusivo della Nazione”. In altri termini, quand’anche si volesse dare un’interpretazione più aperta all’art.
51 della Costituzione, nel senso che esso imporrebbe un requisito stretto di
cittadinanza per l’accesso ai soli “uffici pubblici” che implicherebbero
l’esercizio di attività autoritative, pur sempre varrebbe ancora il
ragionamento dei padri costituenti, secondo cui il requisito della cittadinanza
risulterebbe indispensabile “per
garantire che i fini pubblici della P.A. siano perseguiti e tutelati nel
migliore dei modi” ovvero “la naturale compenetrazione dei fini personali in
quelli pubblici”. Il particolare
regime per i cittadini comunitari
sarebbe così giustificato alla luce del progressivo processo
d’unificazione ed integrazione europea che renderebbe la comune cittadinanza
europea una garanzia di fedeltà e di servizio alle istituzioni, in parte
assimilabile al vincolo di
cittadinanza nazionale. Pertanto, ai comunitari possono imporsi soltanto quelle
restrizioni nell’accesso al pubblico impiego relative esclusivamente a quelle
mansioni che riflettono la tipica estrinsecazione di interessi tipicamente ed
irrinunciabilmente statali.
Il ragionamento della Cassazione può destare
perplessità perché assume come tuttora valido un orientamento che aveva certo
una sua legittimità interpretativa nel contesto in cui la Costituzione venne
formulata, in cui l’ordine internazionale era basato prevalentemente sul
sistema degli Stati nazionali e la società italiana non era ancora interessata
dai complessi fenomeni dell’integrazione di componenti migratorie, ma mal si
adatta al contesto attuale di una società che si avvia ad essere
multiculturale, e dove il rapporto di lavoro nella P.A. è sottoposto ad un
processo di sempre più intensa “privatizzazione”.
La
Corte di Cassazione respinge la possibilità interpretativa alternativa,
che era stata ancorata dalla prevalente giurisprudenza di merito al principio
di parità di trattamento di cui alla Convenzione OIL n. 143/1975. Secondo la
Cassazione il richiamo alla norma pattizia non è sufficiente, in quanto la Corte
Costituzionale, con sentenza n. 454/98, avrebbe già implicitamente consentito
la possibilità di deroghe a tale principio, se previste esplicitamente dalla
legge o da convenzioni internazionali e conformi ai principi costituzionali.
Inoltre, a detta della Cassazione, l’ordine di esecuzione impartito dalla legge
di ratifica della Convenzione OIL
non sarebbe sufficiente per un’applicazione immediata di detto principio, essendo invece necessaria “l’espressa previsione
di specifiche norme da parte dello
Stato ovvero l’intervento della contrattazione collettiva”. In questo
passaggio si intravede l’unico spiraglio offerto dalla sentenza della Corte di
Cassazione in merito alla possibilità di accesso degli stranieri non comunitari
al pubblico impiego, nella direzione in cui non apparirebbe forse indispensabile a tale fine una
modifica costituzionale, così come invece sostenuto finora da parte
governativa, bensì un semplice
intervento del legislatore ordinario. Ciò avendo anche in considerazione come
l’estensione agli stranieri comunitari dell’accesso al pubblico impiego è stata
resa possibile senza una modifica costituzionale.
A meno che non
intervengano nel frattempo pronunciamenti interpretativi/additivi della Corte
Costituzionale, si auspica, dunque, che la questione venga affrontata in sede
legislativa, facendo chiarezza sulla possibilità di una equiparazione tra
straniero e cittadino nel rapporto di pubblico impiego, estendendo l’applicabilità di quanto già previsto
per i cittadini comunitari.
Il combinarsi
dell’attuale regime discriminatorio nelle assunzioni con la progressiva
privatizzazione dei rapporti di lavoro nella pubblica amministrazione e la
carenza di personale autoctono per talune mansioni, hanno creato fenomeni di segmentazione “etnica” del
mercato del lavoro in alcuni settori dell’amministrazione pubblica, come quello
della sanità. Si pensi ad esempio alla professione infermieristica, dove il
personale extracomunitario è inserito nelle strutture sanitarie pubbliche
prevalentemente attraverso il sistema delle cooperative o delle agenzie
interinali, scontando dunque condizioni di precarietà e di disparità di trattamenti salariali e
di condizioni di lavoro rispetto al personale autoctono inserito negli organici
di ruolo. [4]
RAPPORTI E DOCUMENTI
Relazione della Commissione
Europea al Consiglio e al
Parlamento Europeo sull’applicazione della Direttiva 2000/43 in materia di
parità di trattamento indipendentemente dall’origine etnica e razziale.
http://ec.europa.eu/employment_social/fundamental_rights/pdf/legisln/racerep_it.pdf
Lo scorso 30 ottobre 2006 la Commissione
delle Comunità Europee ha trasmesso al Consiglio ed al Parlamento Europeo una
relazione sull’applicazione della direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000 che
attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente
dalla razza e dall’origine etnica.
Per mezzo di tale relazione, la Commissione
Europea ha voluto mettere in evidenza alcuni aspetti particolarmente
problematici o importanti nell’attuazione della direttiva da parte degli Stati
membri e nell’individuazione di buone prassi o azioni positive.
Riguardo all’impatto della direttiva nella
legislazione dei Paesi membri, la Commissione sottolinea che solo quattro Stati
membri (Lussemburgo, Finlandia, Austria e Germania) sono stati deferiti alla
Corte di giustizia europea, che ha ritenuto abbiano violato gli obblighi
previsti dal trattato per non aver recepito integralmente la direttiva nella
legislazione nazionale. Tra questi, due (Germania e Lussemburgo) non hanno
ancora sottoposto alla Commissione alcuna legge che recepisca la direttiva. La
Commissione sta, peraltro, esaminando i provvedimenti legislativi nazionali
notificati dagli Stati membri, tra cui l’Italia, per valutare la loro conformità alla direttiva.
La relazione della Commissione, per quanto
stringata (9 pagine), fornisce un importante chiarimento riguardo alla sfera di
applicazione della direttiva, in relazione alla questione – discussa anche in
Italia – del limite entro il quale
la normativa antidiscriminazione possa intervenire sulle libertà di decisione o
di conclusione dei contratti da parte dei privati e, quindi, di interferenza
sulla vita privata e la privacy delle persone. Sottolineando che in alcuni
Stati membri esistono problemi legati alla separazione tra la sfera pubblica e
privata, la Commissione precisa che ad ogni modo rientrano certamente nel
campo di applicazione della
direttiva quelle situazioni in cui beni, servizi o impieghi sono oggetto di
pubblicità, anche in forme semplici e minimali, come ad esempio un avviso
affisso su una finestra, e, per tale ragione sono da considerarsi a
disposizione del pubblico nei termini riferiti dalla direttiva.
Riguardo al diritto di riparazione dalla
discriminazione, la Commissione sottolinea che dalle statistiche fornite dagli
Stati membri e dagli organismi per la promozione della parità di trattamento
emerge che la maggior parte delle denunce di discriminazione presentate ai tribunali nazionali e/o agli
organismi per la parità di trattamento riguarda l’occupazione ed in secondo
luogo la fornitura di beni e servizi e gli alloggi. I Rom sono il gruppo più
rappresentato nelle denunce.
Il giudizio operato dalla Commissione è
ancora interlocutorio, in quanto il periodo trascorso dall’entrata in vigore
della direttiva (3 anni) è ancora troppo breve, così come non è ancora maturata
una giurisprudenza della Corte di Giustizia europea al riguardo. Per le medesime ragioni, la Commissione
non ha ritenuto presentare proposte volte a rivedere o aggiornare la direttiva.
DISCRIMINAZIONE IN
EUROPA. IL RAPPORTO DELL’EUMC (Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e
di xenofobia) per l’anno 2005.
L’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e di xenofobia (EUMC) ha reso
pubblico il 28 novembre 2006 il Rapporto annuale sui fenomeni di razzismo e
discriminazione negli Stati appartenenti all’Unione Europea.
Secondo l’Osservatorio, i migranti e le minoranze etniche
continuano a subire discriminazioni in tutta l’Unione europea per quanto
concerne il lavoro, la scuola e la casa.
L’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e di xenofobia (EUMC) è stato
istituito con regolamento n. 1035/97 (CE) del Consiglio nel 1997 ed ha sede a
Vienna. E' un’agenzia dell’Unione europea. Obiettivo primario dell’EUMC è
quello di formulare pareri e conclusioni rivolti agli organi decisionali, allo
scopo precipuo di sostenere l’UE ed i suoi Stati membri nel mettere in atto
misure o stabilire indirizzi idonei ad affrontare il razzismo, la xenofobia e
l’antisemitismo.
Nel dicembre 2003, i governi dell’UE hanno
esteso il mandato dell’EUMC che attualmente comprende quello dell’Agenzia dell’Unione europea
per i diritti
fondamentali.
Il rapporto può essere scaricato dal sito
internet dell’EUMC:
http://eumc.europa.eu/eumc/index.php?fuseaction=content.dsp_cat_content&catid=4491243f59ed9
La percezione e
l’esperienza della discriminazione da parte degli immigrati in Europa. Un
rapporto dell’EUMC (Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia).
Il Centro Europeo per il Monitoraggio del Razzismo e della Xenofobia, con
sede a Vienna, ha pubblicato nel
maggio 2006 il rapporto : “Migrants’ Experiences of Racisme and Xenophobia
in 12 Member States
(L’esperienza dei cittadini migranti vittime del razzismo e della xenofobia in 12 Paesi membri)”. Il rapporto è il frutto di un progetto
pilota di ricerca condotto in 12 paesi membri dell’UE, tra cui l’Italia, sulla percezione della discriminazione
da parte degli immigrati provenienti da paesi terzi.
Per quanto concerne l’Italia, il rapporto
indica che il 48% degli interessati, immigrati provenienti dal Senegal,
Marocco, Albania, Perù e Filippine, ritiene di essere stato vittima di episodi
di discriminazione nel settore delle transazioni commerciali (acquisto o
locazione di immobili, richiesta di mutui, crediti e finanziamenti da parte di
banche e assicurazioni), il 33% nei rapporti interpersonali e nei servizi
pubblici (trasporti), il 18% da
parte di pubblici ufficiali ed istituzioni ed il 12% da parte di esercizi
pubblici (negozi, bar, ristoranti,…). Dalla ricerca emerge che solo l’11% di
coloro che ritengono di aver subito una discriminazione, hanno sporto denuncia
alle autorità di polizia. Il gruppo nazionale più discriminato sarebbe quello
dei cittadini senegalesi, seguito dai marocchini.
Il rapporto può essere scaricato dal sito
internet dell’EUMC:
http://eumc.europa.eu/eumc/index.php?fuseaction=content.dsp_cat_content&catid=4520e6a4a53ec
APPROFONDIMENTI ED
ANALISI
I.
TUTELA
CONTRO LE DISCRIMINAZIONI E DIRITTO ALLA “PRIVACY”.
Fino a quali limiti della sfera privata
può spingersi la tutela contro le discriminazioni?
Un chiarimento importante viene dalla
recente relazione della Commissione Europea sull’applicazione della direttiva
2000/43.
a cura di
Walter Citti, collaboratore ASGI- Progetto LEADER-Supporto Giuridico.
Uno dei temi d’importanza strategica per la
tutela contro le discriminazioni e l’implementazione della direttiva europea n.
2000/43 è quello della libertà contrattuale e dei limiti entro cui la normativa anti-discriminazione può
intervenire sui comportamenti e le scelte dei privati cittadini, in particolare
quando essi agiscono de facto in qualità di operatori economici.
Infatti, privati cittadini possono certamente mettere in atto condotte discriminatorie sotto il
profilo sostanziale, senza che esse abbiano rilevanza legale, in quanto e purché
tali condotte restino circoscritte alla sfera privata e risultino così protette
dal diritto alla “privacy”, traducibile nella libertà delle opinioni e delle
scelte individuali.
A titolo d’esempio, è evidente che non si
potrebbe agire in giudizio con l’accusa di compiere una sorta di “boicottaggio
discriminatorio”, vietato dall’art. 2.1, lett. d) dell’art. 43 del D.lgs. n.
286/98, contro una coppia che evitasse sistematicamente di mangiare in un
ristorante cinese (anche qualora ciò avvenisse a causa di un pregiudizio verso
i cinesi in generale).
Parimenti, difficilmente
ci si potrebbe rivolgere al giudice nel caso in cui i genitori di uno
studente scegliessero di invitare per una festa a casa propria, fra i compagni
di classe del figlio, i soli alunni
di pelle bianca e di nazionalità italiana. In altri termini, vi sarebbe
dunque uno “spazio” attinente alla sfera privata, afferente al diritto di ogni
individuo di gestire come meglio crede i propri rapporti privati, nei limiti del quale la legge sceglie di
non intervenire per rispetto verso un principio di libertà personale,
fondamentale ed inviolabile. (1)
Tuttavia, l’inviolabilità dell’autonomia
della sfera privata può estendersi anche ai comportamenti in cui l’individuo
agisce come operatore economico privato e significare dunque una completa ed assoluta libertà
contrattuale? Ipotizziamo il caso
di un privato cittadino che voglia dare in locazione il suo appartamento,
evitando di rivolgersi all’intermediazione di un’agenzia immobiliare: potrebbe
egli preferire un cittadino italiano ad uno extracomunitario, o un cristiano ad
un musulmano, agendo sulla base di un suo generico pregiudizio etnico-razziale
o religioso, senza incorrere nella violazione delle norme anti-discriminazione
e dunque correre il rischio di esserne chiamato a rispondere in giudizio sulla
base delle norme in materia di azione civile contro la discriminazione, ex art.
44 del T.U.?
A titolo di premessa, una recente sentenza
della Corte di Cassazione puntualizza che, sul terreno del diritto sostanziale,
la discriminazione è comportamento illecito, che sussiste cioè quando una disposizione normativa viene
violata arbitrariamente, per ragioni inerenti all’appartenenza etnico-razziale
della vittima. Sul terreno della
tutela, l’azione civile contro la discriminazione è il necessario riflesso
della protezione accordata dal diritto sostanziale. In sostanza, affinché vi
sia discriminazione occorre che il comportamento sia illecito, cioè contrario a
disposizioni normative . (2)
Al riguardo, le prassi e le esperienze
legislative dei diversi paesi membri dell’UE risultano variegate,
ponendosi in modo e con sfumature
diverse i problemi legati alla separazione tra la sfera pubblica e quella privata, nonché alla liceità dell’interferenze nella
libertà di decisione o di conclusione dei contratti. Volgiamo uno sguardo, ad
esempio, al confronto comparativo tra la legislazione italiana e quella
francese. In quest’ultima è stata
introdotta una disposizione normativa ordinaria che vieta esplicitamente in ogni caso il
rifiuto della locazione di un alloggio in ragione dell’appartenenza etnica o
razziale del potenziale locatore: in questo senso, l’art. 158 della legge di
modernizzazione sociale del 17 gennaio 2002: “Nessuno potrà vedersi
rifiutare la locazione di un alloggio in ragione della sua origine, patronimia,
apparenza fisica, sesso,situazione familiare, stato di salute, handicap,
costumi, orientamento sessuale, opinioni politiche, attività sindacali, ovvero
appartenenza vera o presunta ad una etnia, nazione, razza o religione
determinata”. La normativa italiana
anti-discriminazione non affronta
specificatamente la
situazione della locazione
dell’alloggio, ma ha innanzitutto una portata generale e tendenzialmente
omnicomprensiva, ponendo una definizione ampia di discriminazione quale “ogni
comportamento che, direttamente o
indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza
basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni o pratiche
religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere
il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei
diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico,
sociale e culturale ed in ogni altro settore della vita pubblica” (art. 43 c. 1 d.lgs. n. 286/98).
A tale definizione ampia e omnicomprensiva di
discriminazione, è fatta seguire, nel secondo comma della medesima
disposizione, un’elencazione o tipizzazione di condotte aventi sicuramente una
valenza discriminatoria, da non considerarsi peraltro tassativa e dunque esclusiva, ma solo
esemplificativa. Alla lettera c) di tale elenco, viene affermata la proibizione
del rifiuto, motivato da mere
ragioni di appartenenza etnica o razziale, a fornire determinati beni e
servizi, tra cui l’accesso all’alloggio. Tale proibizione, tuttavia, non è
posta in termini assoluti, come invece nel punto precedente riferito ai beni e
servizi offerti al pubblico, bensì
sottoposta alla clausola d’illegittimità (3). Secondo taluni commentatori, ciò farebbe intendere che la volontà
del legislatore è stata quella di proibire il rifiuto “discriminatorio” alla locazione (o anche alla
compravendita) di un immobile solo
qualora esso venga offerto al
pubblico, mediante il conferimento
di un incarico professionale ad un mediatore immobiliare, ovvero l’utilizzo di
qualsivoglia forma pubblicitaria (annuncio sui giornali, affissione di cartelli
e volantini,…) . Ciò significherebbe che qualora il proprietario dell’immobile
intenda locarlo o venderlo usando esclusivamente i propri canali privati
(circuito di amicizie e conoscenze private), senza l’ausilio di alcuna forma di
pubblicità, potrebbe anche opporre un rifiuto “discriminatorio” a terzi che ne
verrebbero comunque a conoscenza, avvalendosi del proprio diritto alla
“privacy” e del fatto che non sarebbe
riscontrabile nella normativa italiana –al contrario di quella francese-
un norma di diritto positivo che ponga in termini “assoluti” il divieto di
discriminare nell’ambito della locazione o della compravendita di
immobili. (4)
In altri termini, si potrebbe ritenere che la tutela contro le
discriminazioni fissata dalle norme del T.U. sull’immigrazione e la normativa
di recepimento della direttiva europea n. 2000/43 non possa spingersi fino ad
interessare tali rapporti
“microeconomici” tra cittadini privati, se ristretti ad una dimensione
esclusivamente “privata”.
Le opinioni della dottrina al riguardo non
sono peraltro univoche. Alcuni autori ritengono che in tutti i rapporti tra privati che hanno
carattere economico, l’azione contro la discriminazione è giustificata quale
riflesso di una norma di diritto sostanziale riconducibile direttamente
all’art. 41 della Costituzione, che afferma il principio della libertà
d’iniziativa economica privata, indicando però che essa “non può svolgersi
in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana”. Tale disposizione costituzionale
avrebbe dunque immediata precettività, implicando un generale divieto di
volgere la propria iniziativa economica in contrasto con la dignità della
persona umana.(5)
Secondo uno dei più qualificati esperti di
diritto civile italiano che si
sono occupati della materia, il Prof. Morozzo della Rocca, docente
all’Università di Urbino, un corretto bilanciamento tra, da un lato, il diritto a non essere
discriminati, che trae origine
innanzitutto dal principio di uguaglianza e di pari dignità delle persone umane
di cui all’art. 2 della Costituzione, e, dall’altro, la libertà di scelta del contraente di cui al principio
della libertà di iniziativa economica, non assoluta, ma vincolata a finalità
sociali, deve muoversi sul piano del piano del rispetto del diritto alla
privacy. (6). Quest’ultimo, infatti, comprende il diritto di essere lasciati
liberi, nell’ambito della sfera privata, di seguire mode, scelte, valori, stili
di vita, opzioni, rapporti, senza alcuna coazione giuridica. Tuttavia, la
privacy finisce di costituire un ambito protetto, entro il quale poter operare
scelte selettive e anche discriminatorie, quando l’autore decide di
mettere il proprio bene a
disposizione del pubblico, facendo uso di mezzi di pubblicità. Al contrario, però, di quanto sembra
affermare il Prof. della Rocca, per il quale avrebbe rilevanza il fatto se il cittadino privato faccia
uso di una pubblicità in sé
discriminatoria e razzista, rinunciando alla propria sfera di riservatezza
nell’espressione dei propri pregiudizi etnici o religiosi, mediante cartelli o
annunci del tipo: “no stranieri” o “affittasi solo a italiani” (7), a mio
avviso l’elemento determinante è proprio l’uso in sé di forme di pubblicità che
vanno di conseguenza a qualificare il bene di cui sono oggetto come “offerto” o
“destinato al pubblico” e determinando, per questo solo fatto, la locazione o
compravendita come un comportamento protetto dalla normativa
anti-discriminazione. Ciò dunque a prescindere dal contenuto del messaggio
pubblicitario, che non necessariamente dovrebbe avere contenuti discriminatori,
ma potrebbe anche essere neutrale e rivolto a tutti.
Richiamando l’esempio inizialmente citato, si dovrebbe concludere che il
proprietario di un alloggio non può
rifiutare di affittarlo ad un possibile locatore in ragione della mera
appartenenza etnico-razziale o religiosa di quest’ultimo senza per questo
incorrere nella violazione delle norme antidiscriminazione, qualora egli abbia
fatto uso di pubblicità, anche solo nelle forme ad esempio di un avviso affisso
su una finestra od ad un portone condominiale. A tali conclusioni giunge, in maniera assai
significativa, la Commissione
europea nella recente relazione periodica al Consiglio e al Parlamento Europeo
sull’applicazione della direttiva 2000/43 in un passaggio che, per le importanti implicazioni
interpretative della legislazione vigente nel nostro paese, vale la pena citare integralmente: “Oltre a
coprire tutti i cittadini, la direttiva ha esteso la protezione contro la
discriminazione ben oltre il tradizionale settore dell’occupazione, coprendo
ambiti come le prestazioni sociali, la sanità, l’istruzione e, soprattutto,
l’accesso ai beni e servizi a disposizione del pubblico, tra cui gli alloggi.
In alcuni Stati membri esistono problemi legati alla separazione tra la sfera pubblica
e quella privata, nonché percezioni di interferenza nella libertà di decisione
o di conclusione dei contratti. Quando beni, servizi, o impieghi sono
oggetto di pubblicità, anche solo, ad esempio, mediante un avviso affisso su
una finestra, essi sono a disposizione del pubblico e perciò rientrano nel
campo di applicazione della direttiva” [sottolineature nostra]. (8)
Alla luce dell’opinione espressa dalla
Commissione Europea, qualora il giudice nazionale chiamato ad esprimersi
nell’ambito di un’azione civile contro la discriminazione nell’esempio citato
(rifiuto di locazione di un alloggio per motivi di discriminazione razziale da
parte di un privato), non ritenesse che già l’art. 41 della Carta
Costituzionale offra un ancoraggio diretto e d’immediata precettività per
l’applicazione in ogni caso della normativa antidiscriminazione,
dovrebbe comunque ritenere la
sussistenza della discriminazione qualora risultasse che l’alloggio sia stato
offerto al pubblico mediante l’uso di qualsiasi forma di pubblicità.
NOTE
(1) Alessandro Maiorca, Il sistema di
tutela previsto dall’ordinamento italiano contro le discriminazioni, ricerca svolta dall’ASGI
(Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) nell’ambito del
progetto Equal II – LEADER (Lavoro e Occupazione senza Discriminazioni Etniche
e Razziali), maggio 2006.
(2) Corte Suprema di
Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 19 ottobre-13 novembre 2006, n. 24170,
par. 4.3.
(3) Art. 43 del D. lgs. N. 286/98:
“2.
In ogni caso compie un atto di discriminazione:
[…]
b)
chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o
servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua
condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione,
etnia o nazionalità;
c)
chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si
rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione,
alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero
regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di
straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità;” [sottolineatura nostra]
(4) La protezione “assoluta”
dalla discriminazione sussiste invece nell’ambito del lavoro, anche nei rapporti tra cittadini privati, in
base all’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori (legge n.
300/1970 e successive modifiche). Riguardo al settore della mediazione tra
domanda ed offerta di lavoro, va altresì citato il D.lgs. 23.12.1997 n. 469 “Conferimento alle regioni e agli
enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro, a norma
dell’art. 1 della l. 15.031997, n.
59, art. 10 c. 8: “Ai sensi delle disposizioni di cui alla l. 20 maggio 1970
n. 300 […], nello svolgimento dell’attività di cui ai commi 1 a 1-ter, è
vietata ogni pratica discriminatoria basata sul sesso, sulle condizioni
familiari, sulla razza, sulla cittadinanza, sull’origine territoriale,
sull’opinione o affiliazione politica, religiosa o sindacale dei lavoratori”. Un’altra normativa di
settore che vale la pena citare è quella riferita alle televendite: “E’ vietata la televendita che offenda
la dignità umana, comporti discriminazioni di razza, sesso o nazionalità,
offenda convinzioni religiose e politiche, induca a comportamenti
pregiudizievoli per la salute o la sicurezza o la protezione dell’ambiente.
[…]” (D.lgs.
06.09.2005 n. 206: Codice del consumo, G.U. 8.10.2005, n. 235).
(5) In tale senso: P.
Bonetti, Prime note sulla tutela costituzionale contro il razzismo e la
xenofobia,
in RTDP, 1994, 65 ; ss.; P. Morozzo della Rocca, La tutela contro le
discriminazioni, in P. Morozzo della Rocca
P. Cognini, Immigrazione:
profili normativi e orientamenti giurisprudenziali, UTET, Torino, 2005, pp. 252-254.
(6) P. Morozzo della Rocca, Gli
atti discriminatori nel diritto civile, alla luce degli artt. 43 e 44 del t.u.
sull’immigrazione, in DFP, 2002, 112 ss.
(7) “Ma la privacy
finisce di costituire un ambito protetto, entro il quale poter operare scelte
selettive e anche discriminatorie, quando l’autore della scelta discriminatoria
decida lui stesso di farne partecipi altri, rinunciando alla propria sfera di
riservatezza. E’ quanto accade di fronte a cartelli nei quali sia scritto: “no
stranieri” o ad annunci sul giornale ove si legga “affittasi solo italiani, no
meridionali”
, in P. Morozzo della Rocca, La tutela contro le discriminazioni, in P. Morozzo della Rocca P. Cognini, Immigrazione: profili normativi e
orientamenti giurisprudenziali, UTET, Torino, 2005, pp. 263..
(8) Commissione delle
Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento
europeo sull’applicazione della direttiva 2000/43 del 29 giugno 2000 che attua il principio della
parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e
dall’origine etnica, Bruxelles, 30 ottobre 2006 Com (2006) 643 definitivo, pag.
3.
II.
I TEST SITUAZIONALI COME STRUMENTO DI PROVA DELLA DISCRIMINAZIONE.
A seguito della previsione di tale
strumento nella legge sull’eguaglianza di opportunità, una circolare del
Ministero della Giustizia francese precisa gli ambiti e le modalità
di applicazione del test situazionale nei procedimenti penali concernente casi
di discriminazione. Un’analisi sullo strumento dei test situazionali nella
lotta contro le discriminazioni etnico-razziali in diversi paesi europei e le
sue potenzialità nella tutela giuridica contro le discriminazioni in Italia.
a cura di
Walter Citti, collaboratore ASGI,
Progetto LEADER-Supporto giuridico.
COSA SONO I TEST SITUAZIONALI?
Il test situazionale (situation test) consiste nel ricreare una situazione
identica a quella vissuta dalla
persona che si considera vittima di una discriminazione in ragione di una sua
particolare caratteristica (ad es. l’appartenenza etnico-razziale o religiosa),
e nell’osservare se altre persone che non possiedono quella caratteristica vengono trattate diversamente. In caso
affermativo, i risultati del test sono prodotti in giudizio come fatti
probatori, il più delle volte sotto forma di testimonianza, talvolta nelle
forme di un rapporto redatto da un pubblico ufficiale che aveva osservato gli
avvenimenti.
Predisporre ed organizzare un test
situazionale significa cioè inscenare una situazione, una sorta di gioco di
ruolo, in cui una persona è messa nella situazione di commettere una discriminazione senza sospettare di essere
osservata. Di fronte alla persona interessata si presentano “candidati”
fittizi, appositamente inviati, alcuni dei quali possiedono una caratteristica
percepibile (ad es. il colore della pelle, l’appartenenza religiosa, la
condizione di straniero) che potrebbe indurre ad un comportamento
discriminatorio. Gli osservatori mirano a comparare l’attitudine della persona
interessata verso i “candidati” in possesso di tale caratteristica con quella dimostrata verso i “candidati” che
non la possiedono.
ESEMPI DI TEST SITUAZIONALI
In altri paesi europei, l’esempio meglio
conosciuto e più praticato di test situazionale è quello in cui diverse coppie
si presentano all’ingresso di un night-club: se alle coppie etnicamente miste o di origine straniera viene sistematicamente rifiutato
l’ingresso, mentre quelle
“autoctone” che giungono in precedenza o successivamente vengono ammesse senza difficoltà, si può supporre
l’esistenza di una discriminazione. Simili esperimenti sono stati compiuti con
agenzie immobiliari e datori di lavoro
sospettati di pratiche discriminatorie nell’intermediazione immobiliare
o nel reclutamento di personale. Vengono soddisfatte le condizioni per
affermare la sussistenza di una presunzione di un “comportamento
discriminatorio” quando, ad esempio, rispondendo ad un annuncio pubblicato
sulla stampa, ad una persona con una determinata caratteristica etnico-razziale
viene rifiutata la locazione di un alloggio con la giustificazione che questo
nel frattempo è stato già locato, mentre il proprietario mostra successivamente
interesse a concludere il contratto con altre persone con caratteristiche
personali e familiari simili tranne per quella considerata.
A COSA SERVONO I TEST SITUAZIONALI?
I test situazionali mirano a mettere in luce prassi in cui, in una situazione del tutto analoga, una
persona che possiede una determinata caratteristica viene trattata meno favorevolmente di un'altra persona che non possiede tale caratteristica. I
test situazionali servono a smascherare le forme di discriminazione diretta che
si celano dietro pretesti (ad esempio le affermazioni come: ci dispiace,
l’immobile è stato già affittato, quel posto di lavoro è stato già occupato,
l’ingresso è riservato ai solo soci).
ESEMPI DI TEST SITUAZIONALI AMMESSI IN
GIUDIZIO QUALI EVIDENZA PROBATORIA DI COMPORTAMENTI DISCRIMINATORI NELLA GIURISDIZIONE DI ALCUNI PAESI
EUROPEI.
Belgio
La legge belga anti-discriminazione del
25.02.2003 riconosce espressamente l’uso dei test situazionali quali mezzi di
raccolta delle evidenze fondanti la presunzione di un comportamento
discriminatorio, sebbene l’effettiva implementazione di detto strumento è
affidata ad un decreto esecutivo che non è stato ancora emanato.
La giurisprudenza belga ha peraltro già affermato con alcune importanti
decisioni la legittimità e l’ammissibilità di evidenze probatorie nelle modalità di testimonianze
rese da persone che hanno preso parte a test situazionali . In tal senso, la
Corte di Appello di Liège con sentenza datata 11 marzo 1998 ha condannato il
gestore di un caffè che si era rifiutato di servire una persona per motivi
inerenti all’origine etnica di quest’ultima, fondando la sentenza sulla testimonianza
di una terza persona che aveva assistito, su indicazione e previo accordo con
la parte lesa, ad un secondo
rifiuto opposto dal gestore. Secondo la Corte, il test organizzato dalla parte
lesa non era stato “uno
stratagemma […] avente lo scopo di provocare l’infrazione dell’imputato, ma
quello di ottenere delle prove testimoniali”.
Più recentemente, il Tribunale Civile di
prima istanza di Bruxelles, con sentenza del 31.03.2004, sulla base della
normativa anti-discriminazione, ha condannato il titolare di un’agenzia
d’intermediazione immobiliare che
si era rifiutato di prendere in considerazione una proposta per l’acquisto di
un bene immobile a causa soltanto
delle origini congolesi del
potenziale compratore. La corte ha fondato la sua decisione anche sulle
risultanze testimoniali di un test
situazionale organizzato dalla parte lesa medesima, che aveva chiesto ad un
conoscente di origini etniche belghe di contattare l’agenzia immobiliare per la
compravendita del medesimo bene, riscontrando in questo caso la piena disponibilità ed interesse del
titolare dell’agenzia a considerare l’offerta di acquisto.
Ambedue le sentenze sono reperibili sul sito del Centre pour l’égalité
des chances et la lutte contre le racisme: http://www.diversiteit.be/CNTR/FR/discrimination/jurisprudence/.
L’ultima pronuncia giurisprudenziale belga
fondata su un test situazionale risale al 3 giugno 2005, quando il tribunale di
prima istanza di Bruxelles ha condannato per violazione delle norme
anti-discriminazione, il titolare di un’agenzia immobiliare e il proprietario
di un immobile che si erano rifiutati di affittare un appartamento ad una
coppia di cittadini belgi di
origine marocchina, con il pretesto che l’appartamento sarebbe stato nel frattempo già affittato. La
coppia dunque aveva inviato un comune amico a prendere contatti con l’agenzia,
riscontrando che l’appartamento era ancora vacante. Ad un nuovo
appuntamento fissato per loro tramite da questa terza persona senza che
venisse precisata la loro appartenenza etnico-religiosa, il titolare
dell’agenzia aveva opposto un nuovo rifiuto invocando il pretesto che il
proprietario voleva affittare soltanto ad una persona anziana, circostanza mai
invocata precedentemente.
Notizie ed informazioni su questa sentenza possono essere
reperite sul sito del Mouvement contre le racism, l’antisémitisme et la
xénophobie: www.mrax.be
Francia
Con una sentenza resa il 7 giugno 2005, la
Corte di Cassazione francese ha considerato ammissibile in giudizio l’evidenza
probatoria risultante dalla
registrazione di una conversazione telefonica intervenuta ed effettuata nei locali
e su iniziativa dell’associazione SOS Racisme, tra un militante
dell’organizzazione medesima ed un agente immobiliare, durante la quale quest’ultimo ammetteva che ai
potenziali clienti veniva fatto presente che gli appartamenti erano ancora
disponibili per essere locati solo
se il loro cognome suonava “francese”.
La Corte di Cassazione ha concluso che se
tale evidenza è ammissibile e non deve essere esclusa in linea di principio, il
peso da attribuirgli è
rimesso di volta in volta alla
valutazione e all’apprezzamento del
giudice. La questione non è dunque quella dell’ ammissibilità dei test
situazionali, quanto della loro capacità di fornire evidenze probatorie in
giudizio con adeguata credibilità e verosimiglianza.
E’ la terza volta che la Corte di Cassazione
francese interviene sull’ammissibilità di evidenze probatorie risultanti
dall’uso di “test situazionali”. In precedenza, era stata ammessa in giudizio
rispettivamente la testimonianza di una persona privata ed il rapporto di un ufficiale di polizia che avevano
collaborato a test situazionali per accertare la sussistenza di discriminazioni
effettuate nell’ingresso a night-club (giugno 2000 e settembre 2002).
La sentenza della Corte di Cassazione francese è disponibile
sul sito:
http://www.legifrance.gouv.fr/WAspad/UnDocument?base=INCA&nod=IXRXCX2005X06X06X00873X054#
Ogni dubbio sull’ammissibilità dei test
situazionali come mezzo di prova della discriminazione è stato comunque risolto
con l’entrata in vigore della legge
sull’eguaglianza delle opportunità (legge n. 396/2006 del 31 marzo
2006), presentata come la risposta alle questioni sollevate dalle rivolte delle periferie
urbane del novembre 2005. Tale
legge ha introdotto esplicitamente
il test situazionale come mezzo di prova legale, in ambito penale, così
come lo strumento del CV anonimo, nell’ambito del diritto del lavoro. L’art. 45
della legge, infatti, ha introdotto nel codice penale francese l’art. 225-3-1,
con la previsione che il delitto di discriminazione è costituito anche se
commesso nei confronti di una o più persone che hanno sollecitato uno dei beni,
atti o servizi o contratti menzionati nell’art. 225-2 del codice medesimo, allo
scopo di provare l’esistenza di un comportamento discriminatorio, con la
conseguenza che la prova di tale comportamento è dimostrata. Una recente
circolare del Ministero della Giustizia – Direzione degli affari penali- del 26 giugno 2006, chiarisce le condizioni per l’esercizio del
test situazionale (o test di discriminazione) e le fattispecie nelle quali è
suscettibile di determinare il
perseguimento o la condanna di fatti o situazioni in tal modo dimostrate. La circolare precisa che il test effettuato con persone all’uopo utilizzate deve
avere l’unico scopo di dimostrare
la discriminazione, attraverso la comparazione con il gruppo di riferimento.
Tuttavia, affinché il comportamento o atto possa essere perseguito e
sanzionato, è necessario che una
persona, presentandosi con la sua effettiva identità, sia effettivamente e
non virtualmente vittima del fatto discriminatorio denunciato. In effetti,
l’assenza di una vittima cancella la realtà del reato. La circolare indica
dunque esplicitamente che il nuovo
art. 225-3-1 del codice penale non intende consacrare nel diritto penale “una
forma di test di discriminazione di natura e portata generale e statistica”.
Il testo della legge n. 396/2006 del 31
marzo 2006 sulle pari opportunità può essere consultato sul sito internet http://legifrance.gouv.fr/html/actualite/actualite_legislative/decrets_application/2006-396.htm
Il testo della circolare del Ministero
della Giustizia – Direzione degli affari penali del 26 giugno 2006 può
essere consultato sul sito
internet http://www.justice.gouv.fr/actua/bo/bo102/CRIM-j.pdf
Ungheria
L’Ufficio per la Difesa Legale delle Minoranze Etniche e Nazionali
(NEKI), una ONG di interesse pubblico, ha utilizzato in diverse occasioni la
metodologia dei test situazionali per raccogliere evidenze di discriminazioni
subite in particolare da appartenenti alla minoranza Rom.
In due occasioni, tali evidenze sono state
ammesse in giudizio in procedimenti civili contro la discriminazione. Nel 1999
i volontari del NEKI furono coinvolti nello svolgimento di un test situazionale
mirante a provare che alle persone di etnia Rom non veniva consentito
l’ingresso in un pub del villaggio di Patvarc. Questi volontari testimoniarono
in giudizio sui risultati del test corroborando la denuncia presentata da due
cittadini di etnia Rom.
Il 28 Novembre 2000 la corte locale della
città di D. ha emesso una sentenza
condannando i responsabili di un club
privato, ma che operava in realtà come un pubblico esercizio, per il
rifiuto opposto alle parti lese, persone appartenenti all’etnia Rom, di fare
ingresso nei locali. La motivazione della sentenza si è fondata sulla testimonianza resa dai volontari del
NEKI, che avevano condotto un test situazionale evidenziando la disparità di
trattamento nell’accesso ai locali a seconda dell’appartenenza o meno dei potenziali clienti all’etnia Rom.
Il resoconto sulla vicenda può essere
consultato sul sito web del NEKI: www.neki.hu (white booklet 2000). Sul sito è reperibile pure una ricerca
giuridica sull’uso dei test situazionali nella prassi nazionale ungherese ed
internazionale (“The national and international practice of situation
testing”, di Ivanyi Klara e
Muhi Erika).
Repubblica Ceca
Successivamente all’adozione delle normative
anti-discriminazione di recepimento della direttiva europea n. 43/2000, si sono registrate numerose sentenze di
condanna per avvenuti casi di discriminazione a danno perlopiù di cittadini
appartenenti all’etnia Rom basate su evidenze probatorie risultanti da test
situazionali organizzati da attivisti e volontari di ONG.
Già nel corso del 2004 la Corte Suprema ceca
aveva dichiarato ammissibile l’evidenza risultante da un test situazionale in
un caso in cui ad un gruppo di Rom non era stato consentito l’ingresso in un
locale pubblico [Jan Kovac v. AZ Alfa s.r.o. 1 Co 62/2000-63] . Nel 2004-2005 alcune sentenze di diverse corti locali hanno
seguito tale orientamento. Con due di esse, pronunciate rispettivamente dalla
Corte Municipale di Praga il 31 marzo 2004 e dalla Corte di Appello di Praga
del 22 Marzo 2005, sono stati condannati
imprenditori che si erano rifiutati di prendere in considerazione le
richieste di assunzione presentate da
candidati di etnia Rom con il pretesto che il posto di lavoro non era
più vacante. I test situazionali organizzati da volontari di ONG
anti-discriminazione avevano invece evidenziato che a candidati di etnia ceca
continuava ad essere proposto l’impiego. In un altro caso, la Corte regionale
di Ostrava, il 24 marzo 2005, ha condannato il proprietario di un bar che si
era rifiutato di servire un gruppo di persone di etnia Rom con il pretesto che
il bar era stato affittato per una festa privata, mentre solo pochi minuti dopo
un gruppo di volontari di etnia ceca appartenenti ad una ONG non incontrarono
alcuna difficoltà ad essere serviti.
Le sentenze dei tribunali cechi sono
commentate sulla seconda edizione della rivista “European Anti-Discrimination
Law Review”, disponibile all’indirizzo web: http://www.migpolgroup.com/documents/3135.html
L’AMMISSIBILITA’ IN GIUDIZIO DEI TEST
SITUAZIONALI NELL’AZIONE CIVILE CONTRO LA DISCRIMINAZIONE IN ITALIA.
Sebbene
il decreto legislativo di recepimento della direttiva europea (n. 215/2003) non
abbia introdotto il principio dello spostamento dell'onere della prova,
contenuto invece nella direttiva europea n. 2000/43, è stata comunque prevista la possibilità per la parte che si
ritiene vittima di una discriminazione di provarla in giudizio in via presuntiva, cioè sulla base di indizi o elementi di fatto indiretti,
ma gravi, precisi e
concordanti, la cui
valutazione è lasciata al “prudente apprezzamento” del giudice ai sensi
dell'art. 2729 comma 1 del c.c.. Sebbene la normativa abbia esteso espressamente soltanto ai dati statistici la
qualifica di elementi
sui quali fondare la presunzione della discriminazione, i
principi generali dell’ordinamento consentono di affermare che la testimonianza
riferita ad un avvenuto test situazionale sarebbe un mezzo di prova ammissibile.
Non
sembrano infatti riscontrabili nell’ordinamento italiano previsioni normative
su cui fondare in linea di principio l’esclusione dal giudizio di una
testimonianza riferita ad un test situazionale. Al contrario, quest’ultimo
potrebbe certamente servire al giudice
per acquisire la cognizione dei fatti rilevanti per la decisione e
valutarli in base al suo prudente apprezzamento, cioè in base a valutazioni di
attendibilità e di coerenza logica con gli altri elementi a disposizione, in
base al principio della “prova libera” di cui all’art. 116 c.p.c..
Nella giurisprudenza
si segnala finora un unico caso in cui elementi probatori sono risultati
dall’effettuazione di test situazionali. Si è trattato dell’azione civile
contro la discriminazione avviata da un gruppo di cittadini stranieri sostenuti
da due ONG contro il titolare di
un bar di Padova che praticava
prezzi maggiorati per i clienti stranieri. In tale situazione, le ONG hanno
organizzato il test mediante
l’intervento di due distinti gruppi, uno formato da cittadini italiani e
l’altro da stranieri, verificando l’applicazione di prezzi differenziati per i
medesimi prodotti. Ulteriore conferma venne apportata dall’intervento di una
troupe giornalistica televisiva, che documentò con un filmato poi trasmesso da
una rete televisiva nazionale il diverso trattamento per italiani e stranieri.
Sulla base delle norme anti-discriminazioni di cui al T.U. sull’Immigrazione,
il giudice di Padova (ordinanza 19.05.2005) ha condannato la società titolare
dell’esercizio condannata a non ripetere il comportamento riferito ai fatti di
causa, nonché al pagamento delle spese processuali e di giustizia, mentre i
cittadini stranieri che hanno
promosso la causa civile hanno ottenuto un indennizzo per i danni morali subìti.
Il testo dell’ordinanza è scaricabile
dal sito http://www.meltingpot.org/articolo6066.html
LA NECESSITA’ DI RIGORE METODOLOGICO. ALCUNE RACCOMANDAZIONI SULL’USO E
L’AZIONE DEI VOLONTARI NEI TEST SITUAZIONALI.
La metodologia usata nei test situazionali deve essere rigorosamente specificata
al fine di neutralizzare le variabili che possono falsificare l’analisi. Per
essere convincente, il test situazionale richiede il massimo grado possibile di
similitudine tra il gruppo di individui
oggetto della discriminazione ed il gruppo di controllo, che deve
assomigliare al primo sotto ogni profilo tranne per la caratteristica che deve
essere testata (ad es. l’appartenenza etnico-razziale).
Infatti se a seguito di un colloquio, la
richiesta di un immigrato di colore di prendere in affitto un appartamento
viene sbrigativamente rifiutata con il pretesto che l’appartamento non è più
disponibile, ciò non necessariamente significa che il proprietario o l’agenzia
immobiliare abbiano agito sotto la spinta di un pregiudizio etnico razziale.
Altri fattori di natura soggettiva riferiti alla persona interessata potrebbero
aver influito, quali l’età, il
modo di vestire, il taglio dei capelli, il modo di parlare e di relazionare. Talvolta può essere difficile tracciare
una linea tra i casi in cui la
situazione svantaggiosa è stata
dovuta all’appartenenza etnico-razziale del soggetto oppure al fatto che non
egli non abbia suscitato una buona impressione per altre ragioni soggettive.
Per ovviare a queste difficoltà metodologiche,
viene suggerito di compiere più test situazionali in ciascuna situazione di
potenziale discriminazione, al fine di ottenere risultati derivanti da un
campione più significativo e quindi maggiormente capace di isolare le possibili
variabili soggettive diverse da quella significativa. In una campagna contro la discriminazione
etnico-razziale nell’accesso ai locali notturni di Bruxelles condotta nel 2000
– 2001, il Movimento contro il Razzismo, l’Antisemitismo e la Xenofobia ha
fatto uso dei test situazionali facendo attenzione che le coppie di volontari
fossero abbigliate in maniera
consona, fossero della stessa classe di età, non fossero sotto l’influenza di
bevande alcoliche o sostanze stupefacenti, e adottassero
modi di comportamento cortesi e gentili.
Una ricerca condotta dall’Osservatorio sulle
discriminazioni dell’Università di Parigi I volta a misurare la portata della
discriminazione nelle procedure di reclutamento della manodopera, dalla selezione dei CV fino alla
conduzione delle interviste, ha fatto uso di CV appositamente redatti in
maniera simile con l’unica differenza delle caratteristiche da analizzare (tra
cui quella etnica), nonché di attori professionisti, al fine di neutralizzare
variabili “soggettive” di tipo comportamentale al momento delle interviste.
Il
rapporto illustrante metodologie e risultati della ricerca può essere
consultato sul sito web: http://cergors.univ-paris1.fr/observatoiredesdiscriminationsfd.htm.
Tali ricerche non sono una novità, in quanto
già durante gli anni ’90, il Dipartimento per l’Impiego dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro (I.L.O.- O.I.L.) ha sviluppato una metodologia di analisi empirica volta a
rilevare eventuali discriminazioni nell’assunzione di personale appartenente
alle minoranze immigrate rispetto ai nazionali. Tale metodologia è basata sul coinvolgimento di attori
nazionali e immigrati con identiche caratteristiche che rispondono ai medesimi annunci di lavoro,
registrando così predilezioni e idiosincrasie basate sulla nazionalità nelle
diverse fasi: nella risposta alla telefonata, quanto a disponibilità (maggiore
o minore) nel fissare un appuntamento, durante il colloquio, nella vera e
propria propensione ad assumere.
Tale metodologia è stata usata per la prima
volta in Italia da un gruppo di ricerca del Forum Internazionale ed Europeo di
Ricerche sull’Immigrazione (FIERI), in collaborazione con l’équipe stessa
dell’I.L.O., Tale ricerca
empirica ha evidenziato un tasso
di discriminazione generale nelle
procedure di assunzione del 40% verso i giovani lavoratori di nazionalità
marocchina semi-qualificati rispetto ai cittadini italiani con caratteristiche
simili, con risultati variabili a seconda del tipo di settore economico, delle
caratteristiche delle imprese e del territorio di riferimento.
Il
testo completo del rapporto con la presentazione dei risultati e delle
metodologie della ricerca può essere consultato sul sito internet
dell’Osservatorio sull’Immigrazione in Piemonte (La discriminazione dei
lavoratori immigrati nel mercato del lavoro in Italia, a cura del Gruppo di
ricerca FIERI, composto da E. Allasino, E. Reyneri, A. Venturini, G. Zincone,
edito da Employment Department, ILO-OIL Ginevra, settembre 2003): http://www.piemonteimmigrazione.it/PDF/ricerca_ILO.pdf.
Una delle critiche che vengono comunemente
mosse ai test situazionali è che violerebbero la privacy delle persone, nonché
inciterebbero indebitamente le persone a commettere un atto o un comportamento discriminatorio, di cui
magari non avrebbero avuto l’intenzione senza l’intervento
dei volontari, tanto più che quest’ultimi non
sarebbero neutrali ed imparziali tra le parti, ma appartenendo ad ONG operanti
perlopiù a favore della tutela
legale degli immigrati e del contrasto alla discriminazione, sarebbero
portati a “provocare” l’atto discriminatorio.
Tali critiche non vanno sottovalutate. Per
riaffermare la validità dei test situazionali occorre assicurare ad essi un
alto rigore metodologico attraverso un codice di comportamento dei volontari
coinvolti nei test che garantisca il loro agire in maniera neutrale durante il test, evitando qualsiasi
provocazione o atteggiamento che possa indebitamente incoraggiare l’atto
discriminatorio. Alle critiche di parzialità rivolte nei confronti dei
volontari in quanto appartenenti ad ONG di tutela degli immigrati, si può
rispondere cercando, per quanto possibile, di coinvolgere nello svolgimento dei
test anche pubblici ufficiali, quali agenti di polizia o vigili urbani, naturalmente in abiti civili. Ad ogni modo, andrebbe rigorosamente
evitata l’utilizzazione di volontari, che per motivi personali, o derivanti
dall’organizzazione di appartenenza,
siano in già in conflitto con l’ente, l’impresa o la persona (datore di lavoro,
proprietario immobiliare,…) che si vuole “testare” per questioni pre-esistenti
al caso della presunta
discriminazione. Le risultanze del test situazionale dovrebbero essere subito
messe per iscritto, con un atto o questionario debitamente compilato e
sottoscritto dai volontari coinvolti.
Anche la giurisprudenza della Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo può essere di aiuto per identificare un approccio
metodologico rigoroso per i test situazionali e distinguere tra quelli corretti che semplicemente aiutano
a rilevare e mettere in luce un
atto o comportamento discriminatorio comunque esistente, e quelli, invece,
illegittimi, in quanto
“istigatori” di un atto discriminatorio che altrimenti non
necessariamente avrebbe luogo. La Corte europea è stata chiamata in alcune sentenze a valutare
l’ammissibilità di evidenze probatorie a carico di accusati per traffico di
stupefacenti derivanti dall’uso di tecniche investigative di polizia facenti
uso di poliziotti infiltrati e di conseguenti transazioni di sostanze
stupefacenti richieste da
quest’ultimi con la scopo di smascherare i membri delle organizzazioni criminali.
Con una sentenza che ha fatto giurisprudenza, Teixeira de Castro v. Portugal
( ECHR 9 June 1998), la
Corte europea ha riconosciuto
l’ammissibilità di tali evidenze probatorie, riconducibili in ultima analisi
alle testimonianze dei poliziotti infiltrati nell’organizzazione, fintantoché l’azione
di tali “infiltrati” non “crea un intento criminale” nelle
persone imputate che altrimenti non sorgerebbe; in altre parole l’evidenza è
ammissibile finché l’azione dei poliziotti infiltrati si limita a creare le
condizioni per far emergere
un intento criminoso già
preesistente, ma non si spinge a
formarlo per incitamento.
Tali criteri di riferimento possono essere
seguiti anche nei procedimenti
civili contro la discriminazione con riferimento alla valutazione delle
evidenze raccolte attraverso il
ruolo e all’azione dei volontari nei test situazionali.
Per saperne di più:
Z. de Beijl, Documenting
discrimination against migrant workers in the labour market. A comparative
study of four European countries, OIL/ILO International Labour Organisation,
Geneva, 2000 ISBN 92-2-111387-6
Gruppo di ricerca di FIERI, La
discriminazione dei lavoratori Immigrati nel mercato del lavoro in Italia, International Migration Papers Employment
Department ILO-OIL, settembre 2003, Ginevra.
Ivanyi Klara e
Muhi Erika, The National and International Practice of Situation Testing, NEKI Legal
Defence Bureau for National and Ethnic Minorities of Republic of Hungary,
Budapest (disponibile sul sito internet: www.neki.hu)
Isabelle Rorive, Situation tests in Europe. Myths and Realities, in European
Anti-Discrimination Law Review, n. 3/2006, April 2006, pp. 31-39 (consultabile
anche in lingua francese e tedesca sul sito web: www.migpolgroup.com).
Isabelle Rorive P.A. Perrouty, Réflexions
sur les difficultés de preuve en matière de discriminations, in Revue du droit des
étrangers, Bruxelles, 2005, n.
133, pp. 161-175.
SITI
INTERNET Tutela contro le discriminazioni
European Commission’s website on non-discrimination in the European
Union
Progetto Leader
UNAR -
Ufficio Nazionale contro le discriminazioni razziali
ENAR - European
Network Agaist Racism
Stop-Discrimination -
sito promosso dalla Commissione europea contro le discriminazioni
[1] Per citare le pronunce più significative: Ordinanza Corte di Appello di Firenze 02.07.2002; Ordinanza Corte di Appello di Firenze 21.12.2005; Ordinanza Tribunale di Genova 26.06.2004; la più recente: Ordinanza Tribunale di Perugia 29.09.2006. In senso contrario, si colloca la prevalente giurisprudenza amministrativa: TAR Veneto, sez. I, 15.01.2004, n. 782; TAR Toscana, sez. II, 24.01.2003, n. 38; TAR Toscana, 14.10.2005, n. 4689; si può citare inoltre il parere del Consiglio di Stato, sez. II, 31.03.2004, n. 2592/2003; fa eccezione a questo orientamento della giustizia amministrativa, la sentenza del TAR Liguria, sez. II, 13.04.2001, favorevole invece all’accesso degli stranieri extracomunitari al pubblico impiego.
[2] La linea di chiusura da parte dell’autorità
di governo è stata ribadita dal parere/circolare della Presidenza del Consiglio
dei Ministri (Dipartimento della
Funzione Pubblica – Ufficio per il personale delle pubbliche amministrazioni)
datato 28.09.2004 e, più recentemente, dalla nota del Ministero del Lavoro n. 3253 del 7
settembre 2006, che, con
riferimento all’assunzione di infermieri professionali, afferma che personale
extracomunitario può essere assunto direttamente dalle strutture pubbliche con contratto di lavoro
subordinato esclusivamente a tempo
determinato (quindi fuori dai ruoli in organico).
[3] In questo senso: Marco Paggi, Discriminazione e accesso al
pubblico impiego, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, Franco Angeli, Milano, n. 2/2004, pagg. 83 e
ss.
[4] Maria Adriana Bernadotti, Sindacati e
discriminazione razziale nella Sanità Italia: il caso degli infermieri, in Agostino Megale, M.A. Bernadotti
Giovanni Mottura, Immigrazione e Sindacato. Stesse opportunità, stessi
diritti. IV Rapporto, Ediesse,
Roma, 2006, pp.61-189.