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Le assunzioni di cittadini stranieri nella Pubblica amministrazione italiana
Articolo di Aldo Niccoli 19.05.2006
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Le assunzioni di cittadini stranieri nella Pubblica amministrazione italiana

di Aldo Niccoli

Sommario: 1. Premessa - 2. L’assunzione di cittadini italiani nella pubblica amministrazione - 3. L’assunzione di cittadini comunitari - 4. L’assunzione di cittadini extracomunitari

1. Premessa

Il dibattito sulla possibilità che cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia possano partecipare a concorsi per l’assunzione presso amministrazioni pubbliche sta assumendo importanza crescente, sia per la sempre maggiore presenza nel nostro Paese di cittadini comunitari ed extracomunitari, sia per la frammentarietà del quadro normativo e delle interpretazioni date sia dalla giurisprudenza che dalla prassi delle amministrazioni pubbliche. Si tratta di una tematica a cavallo di molte discipline, in quanto partecipa di aspetti del diritto del lavoro, di quello pubblico, ma anche del diritto privato, comunitario ed internazionale.

La questione, oltre ad alimentare un serrato dibattito dottrinale, costituisce inoltre una nuova frontiera del contenzioso del lavoro. A fondamento di questo contenzioso vi sono, anzitutto, le pretese dei lavoratori stranieri che si vedano pregiudicati nelle loro aspirazioni lavorative; in effetti, vi sono non pochi punti di contatto col tema più generale degli atti discriminatori nei confronti dei lavoratori stranieri. D’altro canto, non vanno trascurate nemmeno le istanze, anche esse in crescita, avanzate da cittadini italiani o comunitari che si ritengono estromessi dall’impiego a favore di un lavoratore straniero o extracomunitario, presente nella stessa graduatoria di concorso.

L’attuale mancanza di certezza nella ricostruzione del quadro normativo e di quello giurisprudenziale, ancora in via di formazione, fa da specchio ad una prassi amministrativa priva di assetto stabile. Per questa ragione, la Presidenza del Consiglio - Dipartimento della Funzione Pubblica - Ufficio per il personale delle pubbliche amministrazioni, ha ritenuto di dover emanare un parere sul punto, il n.96 del 28/9/2004; col citato parere essa ha svolto un’attenta disamina della normativa vigente, con particolare attenzione al rapporto tra l’ordinamento generale e la normativa speciale dell’impiego nelle pubbliche amministrazioni, nonché al rapporto tra disciplina nazionale e disciplina di origine comunitaria, anche considerando che da quest’ultima emerge la tendenza a liberalizzare l’accesso al lavoro privato e autonomo, ma non al lavoro pubblico.

Maggiore chiarezza si ha nell’ambito del lavoro privato, che interessa però solo gli enti pubblici economici e non anche quelli cd. funzionali, cui si applica la disciplina del lavoro pubblico o quella del lavoro pubblico privatizzato, simile ma non identica a quella del privato. Nel citato ambito, pertanto, soprattutto di recente si assiste ad una produzione normativa volta ad emanare norme attuative, di dettaglio o anche solo puntualizzazioni e chiarimenti. Le lacune permangono, allo stato, per l’impiego pubblico, anche se, come si vedrà, negli orientamenti delle varie autorità consultive e giurisdizionali coinvolte si sta consolidando un orientamento tendenzialmente restrittivo, pur con vari distinguo.

2. L’assunzione di cittadini italiani nella pubblica amministrazione

L’analisi ha preso le mosse dall’art. 51 della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. L’intento del legislatore costituzionale fu di garantire che i fini pubblici fossero perseguiti e tutelati nel migliore dei modi, e per questo si puntò sui cittadini, nei quali si riteneva esistente un anaturale compenetrazione dei fini personali in quelli pubblici (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sent. 43/1985).

Di natura analoga sono i valori sottesi all’art.98 della Costituzione, che fa riferimento al "servizio esclusivo della nazione" richiesto ai dipendenti pubblici.

Conformemente, il D. P. R. 3/1957, cd. Testo unico degli impiegati civili dello Stato, all’art.2, pone la cittadinanza italiana fra i requisiti generali per l’ammissione agli impieghi. La norma è tuttora vigente e si applica anche al rapporto di lavoro contrattualizzato, in quanto non interessa le vicende del rapporto di lavoro dei dipendenti della pubblica amministrazione (la cui fonte di disciplina è ormai il contratto collettivo nazionale), ma è norma più generale, posta dall’ordinamento a tutela degli interessi collettivi.

Non contrasta con quanto esposto l’estensione della possibilità di accesso ai pubblici uffici fatta più di recente a favore degli italiani non appartenenti alla Repubblica; tale previsione si spiega infatti come scelta del Legislatore di introdurre una norma di parziale eccezione, ferma restando la regola, appunto, che i pubblici uffici siano riservati in linea di principio ai soli cittadini (in tal senso il parere 18/2/2004 del Comitato consultivo dell’Avvocatura generale dello Stato).


3. L’assunzione di cittadini comunitari

In merito all’accesso all’impiego pubblico da parte dei cittadini comunitari, va rilevato come l’art. 39 Trattato preveda che il principio di libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità non si applichi agli impieghi nella pubblica amministrazione; tale assunto è stato precisato dalla Corte di Giustizia Europea, con la sentenza del 17/12/1980, causa 149/79, nel senso che l’esclusione non è assoluta, ma vi rientrano i posti che implicano in maniera diretta o indiretta la partecipazione all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche, poiché tali posti presuppongono da parte dei loro titolari l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato, nonché la reciprocità di diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza. Conforme a tale previsione è l’art. 38 del D.Lgs. 165/2001 (che riprende l’art.37 del D.Lgs. 29/1993, come modificato dall’art.24 del D.Lgs. 80/1998), che rinvia ad un regolamento l’individuazione dei posti e delle funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, in quanto implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero attengono alla tutela dell’interesse nazionale. Detto regolamento è stato adottato con D.P.C.M. 174/1994.
Inoltre, va come rilevato nel citato parere 18/2/2004 del Comitato consultivo dell’Avvocatura generale dello Stato, la più recente dottrina costituzionale riconosce che per espressa disposizione dell’art. 10, comma 2, della Costituzione, la condizione giuridica dello straniero (quindi anche la capacità di essere titolare di rapporti di lavoro) è rimessa alla disciplina del legislatore ordinario in conformità alle norme ed ai trattati internazionali.
Ne deriva quindi che l’art.51 della Costituzione configura il requisito normalmente necessario per l’accesso al pubblico impiego, salvo le eccezioni che il legislatore ritenga di introdurre per particolari tipi di impiego. Coerentemente ai dettami costituzionali, la legislazione più recente, tra cui spicca l’art.38 del D.Lgs. 165/2001, ha eliminato tale restrizione all’impiego con riferimento ai cittadini comunitari. Il cittadino comunitario, infatti, non è propriamente uno straniero, per cui, in applicazione allargata del disposto costituzionale, quando in un bando viene richiesta la cittadinanza italiana ai fini dell'ammissione ad un concorso pubblico, anche costui se ne considera munito, salvo eccezioni (cfr. il citato D.P.C.M. 174/94). Tutto ciò, si è detto, si basa sul presupposto della prospettiva dell’integrazione europea, che ne costituisce fondamento ma anche limite, in quanto il mantenimento del pur parziale ostacolo all'impiego pubblico trova giustificazione nel fatto che l'integrazione non è ancora stata completata.
Tale normativa, si noti, ha carattere eccezionale e trova applicazione in capo a soggetti specifici (i cittadini dell’Unione), per cui come tale non è suscettibile di interpretazione estensiva ad altro genere di destinatari (i cittadini extracomunitari).

Interessante è certamente osservare che in una delle pagine del sito www.europa.eu.int, con riferimento alle opportunità di impiego dei cittadini europei in territorio comunitario si precisa che:

“Il principio della parità di trattamento e il divieto di ogni discriminazione basata sulla nazionalità si applicano altresì (rispetto al lavoro privato, n.d.a.) agli impieghi nel settore pubblico: imprese del settore pubblico (imprese commerciali, enti di telecomunicazioni, aziende di trasporto pubblico), organismi o enti pubblici (università, ospedali pubblici, istituti di ricerca) e pubblica amministrazione.

Gli Stati membri possono tuttavia ancora riservare taluni posti di lavoro ai propri cittadini, ma ciò è possibile soltanto per i posti del settore pubblico direttamente connessi all'esercizio dell'autorità pubblica e alla salvaguardia di interessi generali dello Stato o degli enti pubblici, ovvero delle unità amministrative più piccole dello Stato come le amministrazioni comunali, ecc. Questi criteri devono essere valutati caso per caso in funzione della natura delle mansioni e delle responsabilità implicate dal posto in questione.

Si può partire dal principio che allorché si tratta di funzioni specifiche dello Stato e di entità assimilabili, quali le forze armate, le forze di polizia e le altre forze dell'ordine, la magistratura, l’amministrazione fiscale e i corpi diplomatici, l'accesso possa essere riservato ai cittadini nazionali, escludendo gli altri cittadini dell’Unione europea. Tuttavia non tutti i posti di lavoro in tali settori (ad esempio, le mansioni amministrative, la consultazione tecnica e la manutenzione) implicano l'esercizio dell'autorità pubblica e la salvaguardia di interessi generali. Tali posti non possono pertanto essere riservati ai cittadini nazionali. La libera circolazione dei lavoratori nella pubblica amministrazione è indipendente da qualsiasi settore specifico ed è in funzione unicamente della natura del posto di lavoro”.


4. L’assunzione di cittadini extracomunitari

Quanto alle possibilità di impiego pubblico riservate dal nostro ordinamento ai lavoratori extracomunitari, la Funzione Pubblica, nel citato parere n.96/2004, ha ritenuto che erroneamente alcune amministrazioni fanno richiamo in chiave possibilista all’art. 9 comma 3 del D.L 416/1989 (convertito dalla L. 39/1990), secondo cui i cittadini extracomunitari possono essere assunti dalle pubbliche amministrazioni con le procedure dell’art. 16 della L. 56/1987 (assunzione tramite ufficio di collocamento dei lavoratori in possesso del titolo di studio equivalente alla scuola dell’obbligo italiana). Difatti, detta norma non prevede requisiti ma solo modalità di accesso all’impiego, ed è poi stata abrogata dall’art.46 della L. 40/1998.

Secondo parte della dottrina, il D.Lgs. 286/1998, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero, nel liberalizzare l’accesso al lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati e l’accesso al lavoro autonomo, avrebbe superato anche le norme che richiedono il requisito della cittadinanza per accedere ai posti di lavoro nella pubblica amministrazione. Ma ciò si scontra sia con l’art.2 del DPR 3/1957, norma parte dell’ordinamento speciale del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, sia con un principio sancito dalla Costituzione agli artt.51 e 98.

Per un’altra tesi, poi, l’art. 2 del D.Lgs. 286/1998, avendo parificato lo straniero regolarmente soggiornante in Italia al cittadino italiano, supera la necessità del requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego; a ritenere diversamente, risulterebbe violato il principio di uguaglianza sancito dall’art.3 della Costituzione, e ricorrerebbe attività discriminatoria verso lo straniero (cfr. Tribunale Genova, ord. 26/6/2004, conforme alla precedente del 19/4/2004). Inoltre, non è certo ravvisabile alcuna lesione degli interessi fondamentali ed inderogabili della collettività nazionale nel consentire a stranieri di partecipare ad un pubblico concorso per la copertura di posti non riservati in via esclusiva ai cittadini italiani.

In merito, tuttavia, la Funzione Pubblica ha richiamato la sentenza n.120/1967 della Corte Costituzionale, secondo cui il principio di uguaglianza di cui all’art.3 della Costituzione va letto in connessione con l’art.2 e con l’art.10, secondo comma, della Costituzione, "il primo dei quali riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti inviolabili dell’uomo, mentre l’altro dispone che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali".

Coerente è quanto espresso nel parere del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 2592/2003 del 31-3-2004, reso in merito ad un ricorso straordinario al Capo dello Stato; tale ricorso era stato proposto contro il provvedimento di esclusione di un cittadino extracomunitario dalle graduatorie d’istituto per il conferimento di incarichi di supplenza. Il ricorrente sosteneva la sua possibilità di accesso all’impiego pubblico proprio sulla base dell’art.2 del D.Lgs. 286/1998, ma il C.d.S., richiamando anche le sentenze di Tar Veneto, n. 782/ 2004 e Tar Toscana n. 28/ 2003, ha confermato la permanenza del requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego, solo temperato per i cittadini comunitari e per gli italiani non appartenenti alla Repubblica. Pertanto, si sostiene che in materia di rapporti con la pubblica amministrazione viene riconosciuta la parità di tutti gli aspiranti lavoratori non in termini assoluti e totali ma “nei limiti e nei modi previsti dalla legge” e ciò non comporterebbe incompatibilità con disposizioni costituzionali, perché non rientra tra i diritti fondamentali garantiti (v. Corte Cost. n. 120/1967 e n. 241/1974) quello di partecipare ad uno specifico concorso piuttosto che ad un altro.

Inoltre, nell'art. 7 della Convenzione dei diritti dell'uomo (resa esecutiva con L. 881/1977), non si rinviene in materia di lavoro alcun precetto che includa tra i diritti fondamentali la parità di trattamento di cittadini e stranieri in materia di requisiti di accesso ai pubblici impieghi. Piuttosto, la norma si limita a precludere discriminazioni tra lavoratori già assunti e già non tra concorrenti; inoltre, è stato sostenuto che il patto ratificato con la citata L. 881 si colloca al di fuori dell'art. 10 (conforme Corte Cost., 188/1980), per cui la normativa non può essere sindacata alla stregua di tale disposizione costituzionale.

Ad ulteriore conferma delle considerazioni sin qui svolte si pone proprio il testo unico approvato con D.Lgs. 286/1998; questo, infatti, ha liberalizzato l’accesso al lavoro autonomo (art. 26), ma a condizione che l’esercizio di tali attività non sia riservato dalla legge ai cittadini italiani o a cittadini di uno degli Stati membri dell’UE. In esso, che consente l’iscrizione agli Ordini o Collegi professionali o negli elenchi speciali agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia in possesso dei titoli riconosciuti, si sottolinea esplicitamente che ciò avviene in deroga al requisito della cittadinanza (art. 37, Attività professionali).

Lo stesso art.27 (Ingresso per lavoro in casi particolari), al comma 3, specifica conerentemente che "rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività".
Inoltre, l’art.37 rinvia al regolamento di attuazione la disciplina di particolari modalità per il rilascio delle autorizzazioni al lavoro, dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato per alcune categorie di lavoratori stranieri specificamente individuate, tra cui ad esempio i lettori universitari di madre lingua, che appunto vengono assunti a contratto prescindendo dal requisito della cittadinanza (sui lettori, v. anche Cass. Civ., sez. Lavoro, 16-08-2004, n. 15931 e 10-05-2005, n. 9737).

In tal senso, difatti, è ad esempio il testo del decreto rettoriale 257/2003 dell’Università di Siena, che nell’indire una selezione per la formazione di una graduatoria di aspiranti alla costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato per collaboratori ed esperti linguistici di lingua francese, richiede indefettibilmente che gli aspiranti siano di madrelingua francese, a prescindere dalla cittadinanza posseduta; viene precisato, tuttavia, che i candidati extracomunitari per poter stipulare il contratto di lavoro devono essere in regola con le norme sul permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. 286/1998 e al D.P.R. 394/1999.

Di rilievo in proposito è anche il D.M. 103/2001 dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione Generale del personale della scuola e dell’amministrazione); in questo, pur richiedendosi il possesso della cittadinanza italiana o comunitaria tra i requisiti per l’attribuzione delle supplenze temporanee al personale docente ed educativo, si ammette però una deroga per le graduatorie di conversazione in lingua estera. Difatti, «per l’insegnamento di conversazione in lingua estera, che sia lingua ufficiale esclusivamente in Paesi non comunitari, sono ammessi aspiranti anche non in possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri dell’Unione Europea», anche se poi viene precisato che «i predetti aspiranti sono, comunque, collocati in graduatoria in posizione subordinata agli eventuali aspiranti, in possesso del requisito della cittadinanza comunitaria».

Le disposizioni del citato D.Lgs. 286/1998 sono state poi integrate dalla L. 189/2002, cd. "legge Bossi-Fini", il cui art. 22, lettera r-bis, ha aggiunto alle tipologie di lavoratori già previste la categoria degli infermieri professionali, da assumersi con contratto di lavoro subordinato presso strutture sanitarie pubbliche e private. Da ciò risulta che i medesimi, se autorizzati all’esercizio della professione in Italia, possono essere assunti senza limitazioni da datori di lavoro privati con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; presso le strutture pubbliche, invece, l’assunzione è consentita solo se con rapporto di lavoro a tempo determinato. Sul punto il Ministero della Sanità (ora Ministero della Salute), con Circolare n. 1259/2000 aveva segnalato che le aziende sanitarie locali e le altre istituzioni pubbliche non potevano procedere all’assunzione in ruolo dei cittadini stranieri extracomunitari, a causa della riserva a favore dei cittadini italiani. Detta Circolare, relativa al testo del D.Lgs. 286/1998 vigente al 2000, non ha perso valore, in quanto "non sembra possibile che la disposizione introdotta dalla legge Bossi-Fini abbia potuto intervenire sui requisiti generali per l’accesso al lavoro nelle pubbliche amministrazioni". Pertanto, la modifica del Testo unico introdotta con l’art. 22 della L. 189/2002 si riferisce esclusivamente ai rapporti di lavoro a tempo determinato, che non sono considerati come parte dell’organico dell’amministrazione datrice di lavoro.

Interessante, in tema di rapporti di lavoro a termine in generale, è la sentenza 11/7/2001, n. 9407 nella quale la Cassazione (sez. Lavoro) sostiene che, ove in corso di rapporto di lavoro cessi la validità del permesso di soggiorno, tale semplice evenienza non comporta la risoluzione automatica del rapporto di lavoro in atto, ma semmai una sospensione da ogni effetto giuridico ed economico, potendo poi al più costituire giustificato motivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 della L. 604/1966.
Le varie tesi sin qui esposte hanno trovato accoglimento anche nelle valutazioni dell’Avvocatura generale dello Stato, espresse nel parere del 18/2/2004, richiesto dal Dipartimento della Funzione Pubblica in merito alla possibilità che i rifugiati accedano agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni.




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