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Comunicazioni del Ministro dell'Interno Amato sugli indirizzi programmatici del suo dicastero

Intervento del Ministro

Data: 27/06/2006

Signor Presidente, da ex senatore affezionato a Palazzo Madama, mi dispiace arrivare in questo ramo del Parlamento dopo essere già stato alla Camera dei deputati, ma quest’ultima mi ha convocato per prima, per la mattina di martedì della settimana scorsa. Per di più, il pomeriggio della stessa giornata, che avevamo destinato a questo incontro, ha coinciso con il periodo immediatamente precedente il referendum e quindi abbiamo dovuto rinviare ad oggi. 
Non posso non ripetere le medesime cose che ho detto alla Camera, il che, essendo rimasto paritario il bicameralismo, è comunque dovuto.
Non posso, allora, non sottolineare anche a voi l’apprezzamento che ho immediatamente avuto modo di manifestare per l'Amministrazione che ho trovato. Un’Amministrazione all'interno della quale l’attenzione per la sicurezza, i diritti  e le libertà dei cittadini sono parimenti sviluppate.
Un’Amministrazione che rappresenta, per chi crede - come immagino tutti noi crediamo - ai valori democratici e alle  delicate linee di confine, che non si debbono sorpassare quando si esercitano compiti di sicurezza, una importante forma di garanzia, perché tutto ciò sta, al di là delle leggi, nella cultura del personale.
Ricordo che quando ero un giovane professore, negli anni ‘60, alcuni di noi venivano chiamati ad insegnare libertà e diritti civili nelle scuole dell'amministrazione, nelle quali c'era un vecchio personale formato in base a principi diversi. Nei quarant'anni che sono passati, c’è stata l'assimilazione della cultura della Costituzione: è questo un dato importante che ritengo giusto segnalare. 
Ritengo altrettanto giusto segnalare, e spero che avremo modo di lavorarci comportandoci da lobby istituzionale in relazione ai documenti finanziari, le difficoltà nelle quali questa Amministrazione, così come altre, ha finito per trovarsi. Difficoltà legate alla politica di restrizione della spesa operata negli ultimi due anni della passata legislatura e, soprattutto, alla compressione della cassa fatta dal Tesoro a prescindere dagli impegni già maturati, ai quali poi con la cassa si deve far fronte. Questo ha fatto sì che in diverse amministrazioni si sia formato debito sommerso.
Ho già detto alla Camera che, essendo stato ministro del Tesoro, sono consapevole del fatto che da Via XX Settembre si possa essere indotti a comprimere la cassa, a spingere le amministrazioni attraverso compensazioni e forme varie di restrizione, a trovare un uso più efficiente delle loro risorse per svolgere i propri compiti, evitando che si formino sacche di risorse inutilizzate quando altri settori, sotto le medesime responsabilità, rimangono all'asciutto; ma, al di là di un certo limite, non c'è compensazione che tenga.
Desta una legittima preoccupazione sentirsi dire, come mi è capitato questa mattina dal comandante dell'Arma dei carabinieri, che l'unico modo che ha trovato per fronteggiare le esigenze del servizio con le risorse disponibili è stato quello di dichiarare che la vita media delle automobili dell'Arma passa da cinque anni e mezzo a sei anni e mezzo. E che lo stesso viene fatto per gli elicotteri, con il risultato che le risorse destinate alla manutenzione bisogna utilizzarle per riparazioni di mezzi desueti.
Mi secca anche che un'Amministrazione nobile come quella dell'Interno compaia nella lista dei debitori particolarmente morosi dell'ENEL o dell'ACEA, non per ritardato, ma per mancato pagamento di bollette. Vi dico queste cose, anche se fanno parte di una gestione molto minuta. Un grande sforzo comunque è stato fatto.
Ripeto, è giusto che i ministri del Tesoro chiedano di mobilitare il più possibile le risorse disponibili da un settore all'altro. Ma questo rende affannosa a volte la vita di tante amministrazioni, dalle quali dipendono risposte importanti per i cittadini, non soltanto sulle questioni della sicurezza, ma anche su quelle che riguardano la gestione degli altri servizi. Sono rimasto sorpreso quando ho appreso che per i permessi di soggiorno e per i passaporti ci si avvale, quando c’è, di personale interinale.
E’ fondamentale in luoghi come i centri di permanenza temporanea disporre di personale specializzato, come  interpreti che siano in grado di comprendere  le lingue di coloro che sono ospitati. In primo luogo per ragioni umane, perché sono persone che arrivano in un Paese di cui non sanno nulla, portati da criminali che li hanno sbarcati (quando li hanno fatti sbarcare, perché in genere li mollano prima) sulle nostre coste. Essere capiti è il primo modo di vedere tutelata la propria dignità; ma questo è difficile se non ci si capisce, se non ci sono interpreti adeguati. Comprendere la lingua è il primo modo di acquisire le informazioni sulla nazionalità di queste persone, dato che, trattandosi di immigrati clandestini, la nostra responsabilità è quella di rimandarli al Paese di provenienza.
Proprio ieri ho appreso che la convenzione stipulata dal Dipartimento di pubblica sicurezza  per disporre di personale qualificato nel settore dell’interpretariato è scaduta nel marzo scorso e non è stata rinnovata per mancanza di risorse finanziarie. Oggi pertanto si usufruisce di  interpreti, ma probabilmente meno qualificati rispetto agli anni precedenti.
Qualche giorno fa ho ricevuto i rappresentanti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che, a nome del Consiglio d'Europa, ispezionano, in vari Paesi europei, tutti i luoghi in cui vengono trattenute persone. Da loro ho appreso che in uno dei nostri centri di permanenza temporanea una persona trattenuta ha  lamentato che gli interpreti a disposizione non traducono interamente quanto viene detto, ma solo la sintesi delle loro frasi. Ciò capita sempre quando non si comprende bene la lingua e allora si cerca di cogliere e tradurre il senso. 
Un’altra persona, poi, ha riferito che nonostante avesse fatto richiesta di asilo,è rimasta insieme a tutti gli altri perché  l’interprete non aveva tradotto tale richiesta. Ciò è molto grave perché il richiedente asilo, in quanto tale, va collocato in una posizione diversa affinché si accerti se egli ne abbia titolo.
Racconto tutto questo solo per darvi il senso delle disfunzioni che si determinano, con conseguenze delicate tanto sulla sicurezza quanto sui diritti delle persone, quando le risorse finanziarie sono insufficienti.
Voglio affrontare ora le problematiche del Corpo dei vigili del fuoco che – al pari dei Carabinieri – svolge un ruolo molto importante. Il Corpo nazionale dei vigili del fuoco è sotto organico da numerosi anni: nell'Italia centro-settentrionale riesce ad avvalersi di volontari, ma nell'Italia meridionale il problema si intreccia con quello della disoccupazione e i volontari  finiscono per diventare un problema. Questa situazione si sta trascinando da tempo, ma se si prova - chiunque sia il Ministro dell'Economia e delle Finanze - a proporre una regolarizzazione con l’immissione nei ruoli delle 2.000 persone interessate, si ricevono risposte non incoraggianti.
L’Amministrazione fa quello che in queste condizioni riesce a fare fronteggiando i grandi temi di cui ha la responsabilità istituzionale: dall'immigrazione all'ordine pubblico, dalla sicurezza alla lotta al terrorismo e alla gestione degli enti locali.
A tale riguardo - e chiudo il capitolo dell’Amministrazione dell’Interno - vorrei fosse chiaro il senso della delega conferita al ministro per gli Affari Regionali e per le Autonomie Locali e della disciplina legislativa che ha accompagnato questa delega. Ritengo sia un'esigenza giusta quella di creare un unico interlocutore che in qualche modo aiuti ad eliminare quella sorta di conflitto di interessi che si è sempre determinato tra il Ministro per le Regioni, tutore delle Regioni, e il Ministro dell’Interno, tutore degli enti locali.
Quindi, il fatto che il Ministro per le Regioni abbia anche una responsabilità, per alcune funzioni, sugli enti locali può aiutare a rendere più omogeneo il sistema.  Detto questo, però, gli enti locali rimangono sotto la responsabilità del Ministero dell’Interno, perché le funzioni conferite al Ministro per le Regioni in materia di enti locali sono soltanto tre. La prima è l'iniziativa legislativa - da esercitare nelle usuali forme di concerto con l’Amministrazione dell’Interno e nella collegialità generale - sull’allocazione delle funzioni fondamentali tra i livelli di Governo. E qui è bene creare una unicità di visione senza che vi siano posizioni differenziate tra Ministri.
La seconda è la promozione e il coordinamento dell'attuazione dell'articolo 118, commi primo e secondo, della Costituzione, che attiene all’allocazione delle funzioni tra i diversi livelli di Governo – ruolo che si esercita attraverso la Conferenza Stato-Regioni – e gli enti locali. Se c'è un Ministro neghittoso nell'adottare l’iniziativa legislativa per la parte di sua competenza, c'è un Ministro che ha la promozione e non l'iniziativa legislativa (la promozione è cosa diversa dall’esercizio dell’iniziativa).
La terza funzione riguarda l'albo dei segretari comunali con l’annessa scuola (che tuttora è più sulla carta che nella realtà) per la formazione negli enti locali.
Si tratta di un utile meccanismo di coordinamento e di unificazione dei punti di vista, che non tocca però le funzioni proprie del Ministero dell’Interno e non ne tocca il personale: noi continuiamo ad avere il nostro Dipartimento con due Sottosegretari che pro quota se ne occupano sotto la guida del Ministro. Quindi, nulla è cambiato.
Niente è cambiato in relazione al cosiddetto spacchettamento del Ministero del Welfare. Infatti, il ruolo del  ministro dell’Interno non cambia. Dal nostro punto di vista, cambia solo l'interlocutore ai fini dei flussi migratori, che nell’attuale Governo diventa il ministero di Paolo Ferrero. Comunque rimane sempre un rapporto uno ad uno e le funzioni restano esattamente le stesse.
Ciò può introdurci al tema dell'immigrazione. Non dovrebbe rappresentare un motivo di controversia tra di noi il constatare che l'immigrazione dai Paesi poveri ai Paesi ricchi è un fenomeno di rilievo del nostro tempo, che è nostro dovere saper fronteggiare. Deve essere regolato nella consapevolezza che non è possibile sbarazzarsene.
In occasione dell'incontro del G8 di Mosca della settimana scorsa ho sentito, non senza un certo disagio, i colleghi giapponesi parlare dell'immigrazione da povertà più o meno nei termini che si utilizzano quando ci si riferisce al rischio di un arrivo di terroristi nel proprio Paese. Vengono sostanzialmente considerati nella stessa ottica.
Dicevo, comunque, che l’immigrazione è un fenomeno del nostro tempo. Ci si chiede perché da un Paese più povero devono venire in Paesi più ricchi. Forse una risposta è che il mondo è fatto così e che, probabilmente, se fosse fatto meglio, ciò non accadrebbe, ma certo è una tendenza del nostro tempo che, nonostante la crescita di alcuni Paesi sottosviluppati, i dislivelli di reddito e ricchezza continuino comunque ad accrescersi.
Gli ultimi ad avere qualcosa da obiettare alle ragioni di questa tendenza sono francamente proprio gli italiani, che per ragioni storiche hanno dato tanti bisnonni, nonni, padri e zii ad altri Paesi. Si tratta di persone che hanno intrapreso cammini della speranza, a volte veri e propri oceani della speranza. Forse dovremmo chiederci perché una speranza uguale non debba essere nutrita anche da altri. È importante avere questa consapevolezza, che ogni tanto sembra perdersi tra le nebbie davanti al fastidio che può nascere dal vedere altri, diversi da noi, entrare nelle nostre comunità.
È un fastidio di cui a volte capisco le ragioni, anche se poi alcuni grandi Paesi sono nati e si sono sviluppati proprio grazie all’immigrazione. Ovviamente per un Paese come gli Stati Uniti d'America è stato più facile, per la sua storia, accettare il fenomeno dell’immigrazione. Non esistendo un tronco, il tronco è scaturito dai rami di coloro che sono entrati, alcuni dei quali in maniera più rilevante di altri. In comunità come quelle che caratterizzano gli Stati europei, fondate su un unico tronco culturale fondamentalmente cristiano – neanche bianco, considerato che anche essere ebrei negli Stati europei in molti decenni della nostra storia non è stato piacevole – mi rendo conto che l’inserimento di altri provoca delle difficoltà anche psicologiche oltre che culturali, delle quali è bene che chi governa sia consapevole.
Ciò non toglie che abbiamo il dovere di capire che di fronte a noi vi sono esseri umani che, in quanto tali, sono titolari degli stessi diritti di cui siamo titolari noi e che i trattamenti che riserviamo loro non possono discostarsi dagli standard che riteniamo appropriati per noi. Ciò non significa però negare che vi debbano essere dei flussi regolati perché lasciarli sregolati significa generare caos. Bisogna avere la consapevolezza che quando arriva un barcone di clandestini la situazione non è molto diversa da quella che si aveva quando partiva una nave dall'Italia che si avviava verso gli Stati Uniti. Le persone che muoiono oggi nel Mediterraneo non sono diverse dagli italiani che spesso morivano sulle navi prima ancora di arrivare negli Stati Uniti o in altre parti del mondo. 
In realtà, il vero problema è che la gestione dei flussi migratori oggi è principalmente nelle mani di una criminalità fortemente organizzata che strappa a questa gente risparmi di cui non dispone e che racimola vendendo poche suppellettili delle povere case in cui vivono in questo o quel Paese africano o asiatico. Una volta rimediati circa duemila euro o dollari li consegnano ai mascalzoni di turno, i quali li avviano in viaggi nel corso dei quali questi potenziali emigrati rischiano in primo luogo di lasciarci la vita ben prima di arrivare. 
I resoconti di cui disponiamo su quanto accade nel deserto lungo le rotte africane più seguite, sostanzialmente quelle che portano verso la Libia - o più esterne che, attraversando la Mauritania e il Marocco e costeggiando l'Atlantico, arrivano in Spagna - sono assolutamente agghiaccianti. Come ho già avuto modo di dire presso la Camera, e che ritengo doveroso ripetere anche in questa sede, è stato il mio predecessore che, nel passarmi le consegne, mi ha riferito che nel deserto ne sopravvive uno su cento. A me pare una cifra assolutamente enorme, ma sarebbe lo stesso se ne sopravvivessero cinquanta su cento.
La perdita di vite dietro questo cammino della speranza ha raggiunto livelli che certo l'emigrazione dell'Ottocento non conosceva. Vanno poi considerati i morti nel Mediterraneo. Questi clandestini vengono messi in barconi che spesso non hanno la possibilità di arrivare. Se non vengono raggiunti da mezzi militari o della Guardia di finanza in grado di avvistarli, rischiano di rimanere lì. 
Gestire questi flussi significa, per quanto possibile, collaborare con gli Stati dai quali si muovono e significa ricorrere - è quasi inutile dirlo per non rischiare di fare della retorica, ma nella mia posizione mi rendo conto di quanto è impellente dare a questa retorica un significato politicamente vero, concreto e realizzabile – a politiche di sviluppo, da portare avanti con questi Paesi, che seppure non eliminano il problema almeno lo riducono. 
Se oggi, ad esempio, l’Egitto subisse un ulteriore aumento demografico avrebbe migliaia e migliaia di giovani che, non trovando lavoro sul territorio nazionale, si riverserebbero in Libia, senza visto, e da lì cercherebbero di passare in Italia.
E’ necessario, quindi, trovare un giusto equilibrio nella definizione delle quote. Tutti i Paesi adottano sistemi di quote e quando io parlo con i rappresentanti dei Paesi d'origine della nostra immigrazione, mi viene risposto che se maggiore è l'immigrazione legale da noi consentita e certificata è più facile per loro collaborare per frenare l'immigrazione illegale. Su questo aspetto abbiamo bisogno di compiere un notevole lavoro e ciò va fatto individualmente da parte dello Stato italiano, ma in buona parte anche in sede europea. 
Ora stiamo lavorando – e finalmente il Consiglio europeo ci ha dato la prima testimonianza a seguito di un lavoro già iniziato dal mio predecessore – per una Conferenza Unione europea-Unione africana che, in quanto tale, non può limitarsi a parlare soltanto di quote e di controllo dei flussi, ma anche di tutto ciò che ne consegue. In realtà questo rapporto dobbiamo stringerlo. In questo senso il Presidente del Consiglio ha fatto bene a proporre una forma di cooperazione rafforzata tra i Paesi del Sud dell'Europa allo scopo di collaborare più strettamente con i Paesi situati almeno nella parte Nord del continente africano.
Sono problemi che quasi tolgono il fiato se solo si pensa alla loro dimensione, ma purtroppo è rispetto a questa dimensione che dobbiamo avere la forza e la capacità di muoverci, perché poi ciò che accade nella vita quotidiana è condizionato dalla capacità di costruire una rete. D'altra parte io ho sempre pensato che la globalizzazione è fatta da flussi di risorse umane e finanziarie che sono mosse da esseri umani e non dalla provvidenza divina o da un fato al di sopra della forza degli esseri umani.
Quindi, così come si muovono questi flussi perché ci sono degli esseri umani che li fanno muovere, sarà possibile creare un flusso orientato e plasmato in ragione di uno sforzo umano, che è lo sforzo di Governi e di tanti altri. Il mondo del volontariato ha una parte straordinaria in tutta questa vicenda, non soltanto nel portare concretamente sviluppo nei Paesi che ne hanno bisogno, ma anche nel gestire i flussi di immigrazione nei Paesi europei una volta che le persone sono arrivate.
Ed è qui che si pone la questione dei Centri di permanenza temporanea (CPT). A tutti noi piacerebbe un mondo nel quale non fosse necessaria una struttura come quella, ma non possiamo consentire alla criminalità organizzata di fare entrare indiscriminatamente e liberamente gruppi di immigrati ovunque questi vengano portati con un barcone. Questo davvero  significherebbe dare alla criminalità un incoraggiamento senza pari, attentando - mettiamocelo bene nella testa - alla vita di migliaia e migliaia di persone. Dare luce verde a questi ingressi senza una politica di respingimento di coloro che illegalmente sono stati trasportati, per straziante che a volte sia, significa rendersi corresponsabili di un fatto ancor più straziante: la morte di quelle migliaia e migliaia di persone che muoiono nel deserto e che muoiono nel Mediterraneo.
Dobbiamo riuscire a far diventare i Centri di permanenza temporanea un luogo di trattenimento di persone che noi dobbiamo solo identificare e rimandare nel Paese di provenienza. Quindi, non devono avere una funzione punitiva, ma quella di tenere nella disponibilità dell'autorità persone che sono entrate illegalmente e che devono tornare da dove provengono. Noi dobbiamo sapere da dove vengono. Per questo ho sempre pensato che dei bravi interpreti possano risparmiare il lavoro, di giorni e giorni, di identificazione degli immigrati attraverso le autorità consolari di questo o quello Stato. Comunque il tempo necessario oscilla tra i 15 e i 40 giorni.
Ciò che dovremmo fare poi è saper distinguere subito tra delinquenti e povera gente. Infatti, in questi barconi arrivano persone di tutte le risme, come si scriveva nei romanzi dell'800 con un termine, “risma”, che finisce per essere spregiativo per tutti. In realtà, c’è la madre di famiglia che ha venduto il letto e che arriva incinta o con i figli e c'è il pregiudicato che si è infilato nel gruppo. Poterli distinguere il più presto possibile permetterebbe tra l'altro di evitare anche i disordini che a volte accadono nei CPT. L'episodio di Torino fu dovuto ad individui, poi fuggiti, che erano dei pregiudicati in base alle nostre leggi e che erano lì da nove giorni.
Intendiamo cambiare diverse cose nei CPT, se riusciremo ad avere le risorse per farlo, ma la gestione deve essere più aperta. In ogni caso, abbiamo deciso di costituire una commissione di ispezione fatta in maggioranza da personale del volontariato e da personaggi illustri, che possano fare da testimoni. Ho chiesto a De Mistura di presiederla. L’ONU è un organizzazione burocratica, molto competitiva rispetto alle più pesanti burocrazie europee. Nel giro di dieci giorni abbiamo avuto il parere favorevole dell'ufficio legale delle Nazioni Unite. Ora aspetto che Kofi Annan autorizzi questa nomina. Questa commissione ispezionerà tutti i centri e ci farà proposte per migliorarne la condizione. Dico sinceramente che possiamo renderli migliori il più possibile, e sentiamo il dovere civile e umano di farlo, ma non pensiamo che si possa farne a meno.
La necessità di avere il tempo di identificare queste persone, e quindi poi di rimandarle da dove vengono, è ineludibile. Spero che nessuno pensi che sia meglio rimandarli in Libia, da dove sono venuti; allora è preferibile mandarli nel Paese di provenienza dopo averlo accertato.
L'immigrazione regolare è alla nostra attenzione per cogliere le disfunzioni delle discipline esistenti che possano essere corrette, come si suole dire, per le vie brevi e quelle che invece esigono cambiamenti legislativi. Non c'è dubbio che vi sono modifiche, di cui anche i colleghi della Camera mi hanno dato concordemente atto, che possono essere realizzate con relativa facilità, in parte con direttiva, in parte con regolamento. Far scadere un permesso di soggiorno prima che sia rinnovato, quando il rinnovo può avvenire dopo settimane e settimane per mille ragioni, ivi comprese le difficoltà di personale in cui ci troviamo, significa far piombare di fatto una persona dalla legalità all’illegalità, che viene tollerata, ma che ha dei limiti oggettivi: ad esempio, se il soggetto torna nel suo Paese perché gli si è ammalato il padre, non può rientrare perché non ha un permesso di soggiorno valido. Questo è fondamentalmente disumano e non dovrebbe accadere. Ho ipotizzato, e gli uffici mi hanno assicurato che non ci sarebbe difficoltà a farlo sic et simpliciter, che si possa far sì che il permesso venga considerato di fatto prorogato durante il tempo necessario al rinnovo e all'accertamento delle eventuali ragioni ostative.
Sappiamo tutti che gli immigrati spesso non hanno un alloggio regolare, ma sono preda dell'avidità del mercato nero delle locazioni. Tuttavia, continuiamo a chiedere che essi provino la continuità e la durata del loro soggiorno attraverso la residenza anagrafica. Quindi se uno è stato qui per cinque anni, ma per un anno ha avuto un affitto in nero, non gli riconosciamo tutti i cinque anni. Questo è semplicemente inammissibile. Anche perché siamo noi ospitanti che facciamo i contratti d'affitto in nero. E poi questo si ripercuote sugli immigrati.
Ancora: noi accettiamo che le madri di minori che si trovano in Italia possono entrare nel nostro Paese, tuttavia, pur sapendo che vengono chiamate per prendersi cura dei loro figli, non possono lavorare. Noi ammettiamo il ricongiungimento familiare, in particolare per i minori, ma impieghiamo tanto di quel tempo a fare gli accertamenti necessari che nel frattempo i minori diventano maggiorenni e non possono più entrare.
Tutto ciò accade nell'indifferenza generale. Se accadesse a noi italiani, i giornali sarebbero stracolmi di articoli. Vorrei che avessimo quel minimo di orgoglio della nostra civiltà per opporci al fatto che trattamenti del genere siano riservati a persone che hanno l'unico difetto di non essere noi.
Si pone anche la questione della cittadinanza, in merito alla quale presenteremo una proposta. Sinceramente sono tra coloro che tendono a ritenere che la cittadinanza ad un bambino nato in Italia possa essere riconosciuta anche subito se i genitori in qualche modo manifestano e dimostrano un radicamento in Italia, che dia senso alla cittadinanza italiana del figlio. Poniamo il caso di un professore che viene a lavorare in un’università italiana per tre anni, al termine dei quali intende tornare nel suo Paese e poi, al secondo anno, ha un bambino: non vedo la ragione di attribuire a questo bambino la cittadinanza italiana perché non interesserà né al bambino né ai genitori. Di sicuro, se i genitori chiedono la carta di soggiorno, vuol dire che intendono stabilirsi in Italia e intendono essere italiani. In tal caso, non capisco perché si debba aspettare che il bambino abbia 18 anni per renderlo cittadino visto che vivrà in Italia, frequenterà le scuole italiane, sarà assistito dal sistema sanitario italiano.
Non dimentichiamo che noi riconosciamo la cittadinanza italiana a pronipoti e trisnipoti di italiani emigrati che con l'Italia non hanno assolutamente più niente a che fare e - a maggior gloria del centro-sinistra di cui faccio parte, che grazie a loro ha vinto le elezioni - li facciamo votare alle nostre elezioni: benvenuto questo voto! Intendo dire, però, che non guasterebbe un po’ di equilibrio al riconoscimento della cittadinanza. 
   Si tratta di temi delicati rispetto ai quali non si può improvvisare. Non amo l'articolo 6 del vecchio testo unico, ma prendo atto del fatto che esiste il potere di annullamento straordinario del Governo su atti illegittimi degli enti locali. Ebbene, proprio in questi giorni ho firmato l'annullamento di delibere di approvazione di alcuni statuti di Comuni che prevedevano il diritto di voto per i non cittadini alle elezioni del sindaco e del consiglio comunale. Ritengo, infatti, che - come minimo - sia necessaria una legge dello Stato per dare il diritto di voto a chi non è cittadino, mentre ho fatto passare quelle relative alle elezioni circoscrizionali, considerando la circoscrizione un’articolazione del Comune. In ogni caso, uno Stato di diritto è tale se si rispettano le regole al suo interno e ciò vale anche per il terzo mandato. Detto questo, vi sono persone in Italia da anni che potrebbero essere cittadini e in quanto tali potrebbero avere quel diritto di voto che finché non sono cittadini non possono avere.
Dico sinceramente che, a mio avviso, le modifiche non potranno non investire la stessa legge Bossi-Fini. Alcune correzioni, come detto, potranno essere fatte con atto regolamentare o amministrativo, ma l'esperienza degli ultimi anni dimostra che il contratto di soggiorno è uno strumento attraverso il quale si fanno, senza dirlo, regolarizzazioni avendo dichiarato in linea di principio che si è contrari alle regolarizzazioni. Il contratto di soggiorno, infatti, è fondato sull'idea che un imprenditore o una famiglia decide di assumere una persona o un gruppo di persone che in questo momento vivono fuori d'Italia: fa per loro la domanda corredandola del contratto di lavoro e della garanzia di un alloggio; la domanda viene presentata, viene ritenuta regolare (se ha i requisiti), viene accolta e la persona, che nel frattempo è rimasta nel suo Paese, va al consolato italiano di quel Paese, si fa dare il visto di ingresso sulla base di quel contratto ed entra in Italia.
Nella realtà, però, non accade questo, non è così! Altrimenti le file che abbiamo visto alle Poste per la presentazione delle domande sarebbero state fatte da imprenditori e da signore che volevano ingaggiare una collaboratrice domestica filippina o di altro Paese. Le file per la presentazione delle domande sono state fatte dagli interessati e ciò dimostra che gli interessati sono in Italia. Quindi, una volta accolta la domanda, devono tornare nel loro Paese per fingere di essere là ed ottenere il visto consolare. Non ne faccio una questione ideologica, ma mi chiedo se ha senso una cosa del genere. Tutti abbiamo visto chi faceva le file. Ho chiesto informazioni su questo al dipartimento competente del Ministero dell'interno: mi è stato risposto che in qualche caso c'è una sorella uguale, proprio uguale, come una goccia d'acqua, che è rimasta nel proprio Paese e che, quindi, è stata assunta. Io ne prendo atto, ma non può funzionare così!
Allora, bisogna tornare a riflettere su meccanismi diversi che garantiscano comunque - lo ripeto - la connessione tra permanenza in Italia e lavoro. Non è però quello il modo di farlo. Nel merito verrò qui a discutere con voi, presenterò proposte che esamineremo insieme. Dobbiamo, però, prendere atto del fatto che quello di oggi è un modo per regolarizzare chi è già in Italia. E che probabilmente è questa la ragione per la quale sono state presentate quasi 400.000 domande quando il Governo ha emanato un decreto per i flussi 2006 per 175.000 immigrati. Era abbastanza ovvio che ciò accadesse!
A questo punto, stiamo decidendo, avvalendoci della cosiddetta legge Bossi-Fini (articolo 3), di aprire a un secondo decreto, oltre al primo, che possa coprire le domande che risultano regolari e che sono in eccesso rispetto alla quota inizialmente fissata in 175.000 domande. Tutto ciò è in applicazione della legge.  (Ovviamente utilizzeranno la quota aggiuntiva solo coloro le cui domande risulteranno regolari ai sensi della legge Bossi-Fini e questa regolarità è accertata con gli stessi criteri applicati per le domande rientrate tra le prime 175.000).
Questo mette in evidenza ciò che è peculiare di questa legge, anche se comunque rispetto sempre chi cambia opinione perché il semel, semper non è democratico.  La legge Bossi-Fini dovrebbe essere rivolta a coloro che stanno fuori, ma invece viene utilizzata da quelli che stanno dentro.
Esiste poi nella logica della legge Bossi-Fini il problema legislativo della sconnessione tra la durata del permesso e del contratto di soggiorno, un'ipotesi che si è prestata ad interpretazioni che qualunque italiano considererebbe inammissibile. Mi riferisco agli stagionali venuti in Italia per nove mesi ai quali, per il gusto del contratto precario che ormai prevale al di sopra di ogni ragionevolezza, vengono fatti uno dopo l'altro tre contratti di tre mesi ciascuno, per i quali vanno richiesti tre permessi di soggiorno distinti e ciò per corrispondere ad un aggancio rigido tra durata del permesso e durata del contratto. 
Insomma, noi adotteremo tutte le modifiche che possono essere introdotte sulla base di strumenti semplici e proporremo contestualmente anche delle modifiche alla legge, oltre alle modifiche amministrative e regolamentari del caso, in considerazione del fatto che il perno del contratto di soggiorno Italia su estero non funziona.
Inoltre la legge si dovrà far carico, meglio di quanto previsto dall'articolo 27, del personale qualificato, che va posto al di fuori di questo sistema e possibilmente incentivato a venire in Italia. È certamente vero che nella legge Bossi-Fini professori e ricercatori sono regolati diversamente, ma credo che questa parte dovrebbe essere tenuta fuori. 
Passo ora agli altri temi ai quali si finisce per dedicare sempre meno attenzione quando ci si immerge nei problemi dell'immigrazione, a partire dal tema della lotta alla criminalità. Proprio stamani ho riunito il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza nell’ambito del quale riferiscono i vari corpi e servizi. Si colgono subito due elementi. Innanzi tutto che siamo alle prese con fenomeni tra loro diversi che solo in parte si connettono tra loro. La criminalità minuta a volte è un epifenomeno marginale di criminalità organizzata; a volte va veramente per conto suo ed è rappresentato da piccoli gruppi che vanno detectati uno ad uno, come nel caso delle rapine in villa e dei cosiddetti reati predatori, frutto di una criminalità molto dispersa, rispetto ai quali si rende necessaria una fortissima presenza sul territorio di uomini e mezzi difficile da garantire.
È indiscutibile che la polizia di prossimità abbia contribuito – e i dati lo dimostrano – a ridurre i fenomeni criminali nei quartieri in cui ha operato, però è un dato di fatto che è riuscita con le risorse disponibili a toccare un numero limitato di quartieri. Fondamentalmente vi è un problema di risorse. 
Ora, le tecniche della polizia di prossimità possono essere diverse. Si va dall’esperienza recente del poliziotto di quartiere, che può anche continuare, a quella della pattuglia, anche se fondamentalmente in entrambi i casi resta un problema di mezzi. Disponendo dei mezzi l’esperienza si dimostra in qualche modo positiva e i dati sul poliziotto di quartiere, ad esempio, confermano che laddove è  presente, gli episodi di microcriminalità sono oggettivamente diminuiti. È indiscutibile.
Più complessi sono invece i fenomeni che riguardano la criminalità organizzata, come a tutti è ben noto. Questo è un buon momento in quanto, dopo l'arresto di Provenzano, si è registrato un crescendo di arresti. L'operazione Gotha, ad esempio, ha portato a buoni risultati, però il fenomeno della criminalità organizzata, a prescindere che si parli di mafia o di ‘ndrangheta, si traduce in infiltrazioni o connivenze all’interno degli apparati pubblici e resta dunque un fenomeno da decifrare permanentemente. Come nel caso delle migrazioni, si tratta di un fenomeno che deve avere qualcosa dietro di sé, vale a dire – come una volta si era soliti dire – una diffusione e un radicamento della cultura della legalità. Senza questo antidoto, che va al di là di ciò che le forze dell'ordine possono fare, risulta veramente difficile poi fronteggiare tutte le aree in cui tale criminalità riesce a penetrare.
In queste settimane ho avuto modo di esprimere la mia soddisfazione per i progressi che sono intervenuti in questi settori. Effettivamente, dall'arresto di Provenzano in poi, si è visto che si possono sradicare buona parte delle radici preesistenti. La Calabria desta tuttora forti preoccupazioni: da parte delle forze dell'ordine viene portato avanti un progetto Calabria, ma anche questa mattina sentivo dire che il fenomeno della ‘ndrangheta è uno dei fenomeni più “forti” nel tenere il controllo del territorio.
Totalmente diverso è il tema del terrorismo, sul quale l'Italia in questo momento gode di una condizione relativamente migliore rispetto ad altri. L'Italia è un Paese nel quale, almeno per ora, quei fenomeni di radicalizzazione, di estremismo di seconda e terza generazione non si manifestano: un po’ perché abbiamo meno immigrazione, un po' perché quella che abbiamo è più giovane. Fatti come quello di Londra del 7 luglio dell'anno scorso in Italia sono difficili da pensare. Allo stesso tempo, l'Italia è un paese che ha saputo sviluppare buone relazioni di scambio di informazione e di intelligence con i Paesi che la circondano.
Ho citato anche in sedi internazionali, con orgoglio di italiano, che se non abbiamo avuto gli attentati che erano stati progettati, a San Petronio a Bologna e nella metropolitana di Milano, lo dobbiamo ai rapporti informativi che sono stati instaurati con il Marocco e con altri Paesi della costa nord dell’Africa. Rapporti che ci hanno permesso di intercettare tempestivamente certe iniziative. E questo genera una lezione, ossia che per fronteggiare questi fenomeni non c'è unilateralismo possibile. Occorrono politiche di integrazione che prevengano la radicalizzazione interna. Occorre una seria rete di intelligence e di rapporti informativi. Occorre, nell'insieme, che vi sia un rapporto stretto tra i diversi livelli di Governo, perché, come dicevo alla Camera, la sicurezza, l'ordine, la lotta al terrorismo sono funzioni nazionali che generano prodotti locali. In questo senso, c'è una radice vera in chi pone il problema della sicurezza come fatto locale, perché il prodotto della sicurezza è sempre locale: è la città che deve essere sicura; è il quartiere che deve essere sicuro; è la metropolitana di Roma, di Milano o di Torino che deve essere protetta dal rischio dell'attentato terroristico.
Ma la funzione che garantisce che questo accada è una funzione nazionale, da svolgere in stretto collegamento con le autorità locali. In questo senso, c'è una lotta al degrado, c’è una lotta all'usura, sulle quali anche gli organi locali hanno una grandissima parte. Esiste un Commissario nazionale per la lotta al racket e all'usura, ma il rapporto con gli esercizi commerciali in realtà lo hanno le autorità locali. Deve esserci uno scambio continuo tra locale e nazionale. In questo senso, anche quei contratti che si fanno tra diversi livelli concorrono a realizzare un'omogeneità di fini e di momenti nell'esercizio delle funzioni che concorrono alla sicurezza.
Vorrei porre infine  anche a voi il problema che ho posto ai colleghi della Camera e che riguarda il tema delle elezioni e il desiderio di non andare a votare tutti gli anni. Un problema che in genere è più sentito da chi governa e meno da chi è all'opposizione, ma può anche capitare che la stessa opposizione preferisca caricare le batterie in più tempo al fine di una maggiore efficienza competitiva ad un appuntamento dato. Volevo capire da voi, come dalla corrispondente Commissione della Camera, se vogliamo tentare, oltre all’Election day anche gli Election year, tanto per rimanere all'inglese, cioè gli anni di elezione.
Per darvi un esempio nel 2007 avremo diverse elezioni comunali, nel 2008 avremo un numero ancor maggiore di elezioni comunali e già un’elezione regionale, nel 2009 avremo le europee, nel 2010 le regionali, nel 2011 le politiche, ovviamente se il calendario rimane quello che è. Vogliamo provare a fare qualcosa di diverso?
Il programma dell'Unione, per quanto riguarda il centro-sinistra, questo in qualche modo non lo prevede, ma lo promuove. È la classica cosa che, se si fa, si deve fare tutti d'accordo, perché non ci può essere indirizzo di maggioranza su un tema del genere. Ci deve essere un giudizio condiviso, anche perché gli strumenti giuridici per realizzare una cosa simile sono diversi. Si tratta di prorogare o di anticipare mandati: posso portare le elezioni del 2007 al 2008, ma allora prorogo il mandato di diverse amministrazioni comunali, o viceversa, se faccio il contrario, anticipo quel mandato. Francamente, su un tema del genere ritengo che se un indirizzo matura, esso debba maturare in Parlamento, perché penso che la disciplina elettorale debba nascere dai Gruppi parlamentari e dai loro rappresentanti.
Vi chiederei di tener presente il tema. Ho lasciato un appunto tecnico, fatto dagli uffici, alla Commissione della Camera, con l’indicazione di quante sono le elezioni in ciascun anno e quali misure e strumenti tecnici si potrebbero adottare per armonizzare tali scadenze. Ora lo consegno anche alla Presidenza della vostra Commissione. Sarei lieto di avere un’occasione per discuterne insieme appena possibile.