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giovedì 18 maggio 2006 - 09:32 Scrivi alla redazione | Contatti | Pubblicità
 
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No a gesti discriminatori compiuti per offendere una cultura diversa
Reato strappare il velo a una musulmana
(Cassazione 11919/2006)
Strappare il velo ad una donna musulmana è un gesto razzista che configura una vera e propria circostanza aggravante di reato. Lo ha stabilito la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione confermando la condanna per il reato di atti osceni, aggravato dalla finalità di discriminazione razziale e religiosa, inflitta ad un trentenne di Genova che, al passaggio di due giovani musulmane, si era calato i pantaloni ed, insultandole pesantemente, aveva tentato di togliere loro il copricapo. Un simile gesto, secondo la Suprema Corte, a causa delle espressioni usate e dal contesto nel quale vengono pronunciate, manifesta una volontà lesiva dell'integrità morale di persone appartenenti ad una cultura religiosa, quella islamica, diversa da quella cattolica dominante nel nostro paese. (12 maggio 2006)
 
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza n.11919/2006 (Presidente: G. De Maio; Relatore: P. Onorato)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

III SEZIONE PENALE

SENTENZA

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con sentenza in data 12/1/05 la Corte di appello di Genova confermò la sentenza 6/10/03 del Tribunale di quella città, con la quale G.C. era stato condannato alla pena di giustizia perché riconosciuto colpevole del reato dicui agli artt. 81 co. 1- 527 c.p. e 3 DL 122/1933 [1] (perché diceva a P. N. e C. R., in presenza di entrambe e di più persone, negre di merda, musulmane di merda, sparatemi un bocchino, voi che fate bocchini agli altri, fatemene uno anche a me, e nel contempo estraeva ed esibiva il membro sulla pubblica via, con l’aggravante della recidiva e reiterata specifica nel quinquennio e di avere commesso il fatto per finalità di discriminazione ed odio razziale e religioso, essendo le persone offese musulmane e in presenza di più persone, in Genova il 4/10/1998).

Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, il quale denuncia: che la Corte di merito sarebbe incorsa in una erronea qualificazione giuridica dei fatti, supportata da una motivazione illogica e contraddittoria, in quanto dagli atti sarebbe emerso: che i fatti di cui al procedimento avrebbero dovuto essere eventualmente ricondotti alla fattispecie ex art. 726 c.p.; che la condotta del C. non era neppure supportata dall’elemento psicologico del reato; violazione dell’art. 3 DL 122/93 e insussistenza della relativa aggravante, in quanto il C., anche in considerazione dello stato di alterazione psico- fisica in cui si trovava, pur avendo proferito una frase obiettivamente oltraggiosa, certamente non si era rappresentato coscientemente quei contorni razziali di cui alla contestata aggravante.

Il ricorso va dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, dovendosi rilevare, quanto al primo motivo, che è ineccepibile la motivazione sul punto della sentenza impugnata che ha escluso la fondatezza della tesi difensiva della ravvisabilità del reato di cui all’art. 726 c.p. sulla base del rilievo che l’estrazione del pene sarebbe stata finalizzata all’azione di orinare contro il muro.

Esattamente, infatti, la sentenza impugnata ha rilevato che la tesi stessa presuppone una arbitraria scissione della condotta in fasi separate, laddove, invece, la condotta stessa risulta (proprio attraverso l’articolarsi dei gesti, posti in essere senza soluzione di continuità e accompagnato da parole che provano anche l’elemento psicologico del reato) finalisticamente unitaria e tale da connotare in termini ben precisi e definiti il reato di cui all’art. 527 c.p. (… deve aversi riguardo al complesso della condotta, caratterizzata dall’abbassamento dei calzoni, dall’esibizione dello stesso attraverso il gesto di toccare il pene, anche se coperto dalla biancheria intima, ma accompagnato da parole inequivocabilmente oscene, quali appunto l’invito al coito orale e solo al termine di ciò dalla minzione contro un muro).

Peraltro, la censura del convincimento in tal modo espresso dai giudici di merito è mancante del requisito della specificità, in quanto apodittica e meramente assertiva.

Quanto al secondo motivo, va osservato che anche su tale punto la motivazione dei giudici di merito è ineccepibile.

Essi, infatti, hanno desunto, in modo logico ed adeguato, la volontà lesiva dell’integrità morale di persone appartenenti a una cultura religiosa, quella islamica, diversa da quella cattolica dominante nel Paese, dal significato delle parole e dal contesto nel quale le stesse furono pronunciate (cioè cercando di togliere il velo che la religione musulmana impone alle credenti, che vennero apostrofate mentre si stavano recando alla moschea e aggredite al ritorno).

Peraltro, anche a tale proposito la censura risulta meramente assertiva e, quindi, mancante di specificità.

È opportuno precisare che in relazione al presente ricorso non è ravvisabile, in considerazione dei motivi dedotti, la possibilità di presentazione di motivi nuovi di cui all’art. 10 co. 5° 1.20.2.2006 n. 46.

La deduzione sub I), contenente da un punto di vista formale una censura di illogicità della motivazione, si esaurisce in realtà nella prospettazione di una violazione di legge (riferibilità del fatto al reato di cui all’art. 726 c.p., e non a quello di cui all’art. 527 c.p.).

Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente alle spese processuali, nonché (non essendo ipotizzabile un’assenza di colpa) al versamento alla cassa delle ammende della somma, equitativamente fissata, di 500,00 Euro.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di euro 500,00 alla Cassa delle ammende.

Così deliberato il 9/3/2006.

Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2006.

  
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