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A proposito di alcune recenti proposte di riforma in materia di immigrazione

a cura di Gianluca Bascherini – gianlucabascherini@gmail.com
(Ricercatore in Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma)

Negli ultimi mesi il governo ha adottato una serie di iniziative di riforma delle vigenti normative in materia di immigrazione e cittadinanza che nel complesso possono leggersi come una sorta di agenda delle politiche migratorie che questo esecutivo si propone di portare avanti. La natura di tali iniziative e lo stato cui queste si trovano è tale per cui ogni valutazione nel merito non potrà che essere inevitabilmente approssimativa e dunque bisognosa di verifiche successive, e a confermare la provvisorietà di tali proposte basta tenere presenti le contrastanti reazioni che queste hanno sollevato tanto tra le forze di opposizione che tra quelle di maggioranza, oltre che tra le associazioni che a vario titolo si occupano di immigrazione. Ciononostante uno sguardo di insieme a queste proposte- al loro contenuto, ai loro linguaggi ed alle visioni dell’immigrazione che queste veicolano- può essere utile al fine di cogliere alcune coordinate di fondo riguardanti gli interventi normativi che l’esecutivo in carica viene articolando in materia di immigrazione.
Tra le iniziative a riguardo vanno senz’altro ricordate: Il d.d.l. di riforma della disciplina sulla cittadinanza presentato dal ministro degli Interni Amato ed approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 agosto 2006; il d.d.l. presentato dal Guardasigilli Mastella recante “Disposizioni in materia di contrasto al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 ottobre; la bozza di riforma del testo unico dell’immigrazione presentata dal ministro Amato il 27 settembre alla Commissione Affari costituzionali del Senato.

Il d.d.l. intitolato “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza(1) punta a modificare la normativa vigente mediante una robusta iniezione di elementi di ius soli nel corpo di una disciplina che, mentre non pone limiti alla trasmissione della cittadinanza per discendenza, prevede tempi molto lunghi per la naturalizzazione di stranieri extracomunitari (10 anni, ai quali peraltro vanno ad aggiungersi i tempi lunghi della procedura, che dura mediamente tre anni e mezzo) e requisiti molto pesanti per l’acquisto della cittadinanza da parte dei figli di stranieri nati sul territorio italiano. La proposta di riforma vorrebbe dimezzare i termini necessari all’acquisto della cittadinanza (riportandoli dai dieci della legge del ’92 ai cinque già previsti dalla normativa del 1912), aprire la cittadinanza ai figli degli immigrati e rendere meno aleatorie le scansioni di tale processo di acquisizione della cittadinanza, subordinando peraltro tale acquisizione all’accertamento della integrazione socio-linguistica dello straniero.
Il d.d.l. prevede infatti che possa concedersi la cittadinanza agli stranieri legalmente residenti da almeno cinque anni ed in possesso dei requisiti reddituali necessari per l’ottenimento del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo; che i bambini nati in Italia da genitori stranieri (almeno uno residente legalmente in Italia senza interruzioni da 5 anni) potranno diventare cittadini italiani, senza dover attendere il compimento della maggiore età, quando potranno scegliere se mantenere o meno la cittadinanza italiana. Si prevede inoltre che potranno divenire cittadini italiani i figli di immigrati nati al di fuori del territorio italiano ma che abbiano trascorso in Italia anni importanti della loro formazione e del loro sviluppo. Per godere di questo diritto è necessario che tanto i genitori quanto il minore siano legalmente e ininterrottamente residenti da almeno cinque anni, che almeno uno dei genitori disponga dei requisiti reddituali su ricordati e che il minore in Italia frequenti un ciclo scolastico, un corso di formazione professionale o vi abbia lavorato regolarmente per almeno un anno; anche in questo caso alla maggiore età potrà decidersi se conservare o meno la cittadinanza italiana. Si allungano invece i tempi per l’acquisto matrimoniale della cittadinanza (da sei mesi a due anni, tre se il matrimonio è contratto all’estero) per contrastare i cd. “matrimoni di comodo”. La proposta di riforma prevede inoltre una riscrittura, affidata ad un successivo regolamento, delle modalità e dei contenuti del giuramento necessario ad ottenere la cittadinanza. Sulla scia di analoghe riforme in atto e in discussione in altri paesi europei, a tale giuramento si aggiunge, quale condizione ulteriore per l’acquisizione della cittadinanza, una “verifica della reale integrazione linguistica e sociale dello straniero nel territorio dello Stato”. Anche le modalità di tale verifica e “la documentazione da produrre ... ritenuta idonea a comprovare la sussistenza del requisito [i.e. la reale integrazione]” saranno definite successivamente in sede regolamentare. Si tratta in quest’ultimo caso di un requisito destinato ad operare in un ambito di estrema discrezionalità, in particolare per ciò che concerne la verifica dell’integrazione sociale dell’immigrato (quale “documentazione” infatti potrebbe comprovare tale integrazione?) e che potrebbe facilmente trasformarsi in un test di assimilazione, di verifica della compatibilità di una persona con un ambiente socio-culturale più che con il quadro assiologico plurale che caratterizza la nostra costituzione, un test che imponga la rinuncia a quelli che noi percepiamo come i valori di cui sarebbe fedele portatore colui o colei che viene da una determinata realtà.

Il d.d.l. recante “Disposizioni in materia di contrasto al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina(2) vorrebbe invece essere una risposta alle cd. emergenze sbarchi che periodicamente interessano le coste meridionali della penisola. Il testo prevede in sostanza: l’introduzione del reato di “trasporto di clandestini extracomunitari” (disponendo peraltro che per la contestazione del reato non sia necessario il fine di lucro, ma che sia sufficiente a questo proposito il trasporto); un inasprimento delle pene per il reato di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina (già sensibilmente aggravate con le leggi n. 189/2002 e n. 271/2004 e che, secondo dati del ministero della Giustizia, nel 2005 hanno condotto in carcere più di undicimila immigrati solo per i reati collegati all’espulsione), tempi più lunghi per le indagini preliminari riguardanti tali ipotesi di reato e l’estensione della custodia cautelare in carcere, ad oggi limitata ai casi di flagranza, a tutti i soggetti indagati per tale reato qualora ricorrano “gravi indizi di colpevolezza” (questo permetterebbe da una parte di prolungare la custodia cautelare e dall’altra dovrebbe facilitare l’attivazione di procedure di cooperazione internazionale).
Il d.d.l. punta dunque ad una ulteriore penalizzazione delle pratiche caratterizzanti l’immigrazione illegale, penalizzazione che, tuttavia, non è necessariamente detto conduca ad una effettiva riduzione degli sbarchi, data l’estrema variabilità delle rotte e delle modalità di tali “viaggi”. Il rigore contro i cd. scafisti ha infatti condotto chi organizza tali traffici ad aumentare il prezzo di questi viaggi, a servirsi di imbarcazioni più piccole- e quindi in grado di sfuggire più agevolmente ai controlli- abbandonandole peraltro in balia del mare a notevole distanza dalla costa. Infine, sempre più di frequente capita che queste imbarcazioni non siano governate da membri delle organizzazioni illegali che allestiscono questi viaggi, bensì da migranti che si fanno “scafisti di sé stessi”, che pagano cioè il loro viaggio guidando l’imbarcazione che li dovrebbe portare in Italia. Il rischio dunque è che le misure previste da tale d.d.l. non riducano i viaggi diretti verso le nostre coste, bensì conducano ad un aumento dei costi e dei rischi di questi tentativi di immigrazione, e dunque ad un aumento del già elevato numero di vittime provocate da questa chiusura delle frontiere.

Di più ampio respiro le Note di riforma del Testo unico dell’Immigrazione (3), presentate da Amato a fine settembre 2006 e che prefigurano innovazioni in vari settori delle politiche migratorie. Ci limitiamo qui ad un rapido sguardo ad alcuni degli aspetti maggiormente qualificanti tale documento.
In tema di espulsioni le Note conservano le sanzioni penali introdotte nel T.u. dalla l. n. 189/2002 (la cd. “Bossi-Fini”) in caso di inottemperanza all’ordine di allontanamento, pur riconoscendo la necessità di una loro revisione, visti i pronunciamenti a riguardo della Cassazione e della Consulta (che di quel meccanismo processuale ha riconosciuto l’inutilità oltre che l’incostituzionalità nella sent. 223/2004); si prevedono poi ipotesi di “rimpatrio volontario e assistito” per quegli stranieri che collaborino alla propria identificazione e che potrebbero prevedere riduzioni dei termini del divieto di reingresso (che oggi può arrivare fino a dieci anni). La proposta di riforma ribadisce inoltre l’irrinunciabilità dei “centri di permanenza temporanea” e dei “centri di identificazione per richiedenti asilo” (questi ultimi introdotti con la novella del 2002), limitandosi per i secondi a rinominarli “centri per richiedenti asilo” e per i primi a prevedere due regimi di trattenimento: uno di carattere più detentivo e riservato a “soggetti più inclini all’illegalità e di più elevata pericolosità” (espressioni non molto distanti dall’incostituzionale categoria dei “proclivi a delinquere”) in “Centri per l’esecuzione dell’espulsione”, ed uno meno duro, che dovrebbe svolgersi in “strutture di accoglienza” le quali dovrebbero assistere gli immigrati più bisognosi fino al loro allontanamento. Peraltro, e non è cosa da poco, questi tre regimi di trattenimento potrebbero svolgersi in diverse sezioni dello stesso “centro”. Queste prese di posizione in materia di centri paiono peraltro distanti dal “superamento” di tali strutture ventilato nel programma elettorale dell’Unione ed in anticipo sulla conclusione dei lavori della “Commissione De Mistura”, composta da personale del ministero degli Interni e da rappresentanti delle associazioni impegnate sull’immigrazione ed istituita proprio al fine di presentare al governo un rapporto che funga da base alla riforma di tali centri.
Le proposte in tema di titoli di soggiorno sembrano razionalizzare la disciplina italiana della materia e riallinearla alle indicazioni comunitarie. Sulla scia della direttiva 2003/86/CE (relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo) si riportano a cinque gli anni di regolare residenza necessari ad ottenere la “carta di soggiorno” (la l. 189/2002 aveva disposto un termine di sei anni). È prevista inoltre una estensione della durata dei permessi di soggiorno (durata sensibilmente ridotta dalla novella legislativa supra ricordata) e- come già previsto dalla l. n. 39/1990 (cd. “legge Martelli”)- si reintroduce la possibilità di raddoppiare la durata dei permessi rinnovati.Si unificano poi i termini per la richiesta di rinnovo (60 giorni) e si stabilisce infine che in pendenza di rinnovo rimane valido il vecchio permesso. Si tratta in quest’ultimo caso di una innovazione non di poco conto per gli immigrati regolarmente residenti. Questi infatti sino ad oggi vedevano la loro esistenza scandita da una rilevante limitazione delle proprie possibilità e dei propri diritti, con un sensibile degrado della qualità della vita nei periodi di rinnovo del permesso di soggiorno, pratica che può richiedere tempi molto diversi da questura a questura e durante la quale risulta estremamente difficoltoso, se non impossibile, l’esercizio di elementari diritti individuali e sociali. Per il ricongiungimento familiare dei genitori non sarà più necessario dimostrare- come previsto dalla l. 189/2002- di non aver altri figli nel paese di provenienza. La possibilità di tali ricongiungimenti resta comunque sensibilmente condizionata, dal momento che sarà comunque necessario dimostrare che i genitori nel paese di origine non dispongano di un “adeguato sostegno familiare”, formula questa che potrebbe lasciare forse un eccessiva discrezionalità alle autorità preposte alle decisioni in materia.
Se i punti fino ad ora accennati vengono trattati alquanto rapidamente nelle Note presentate dal ministro degli Interni, queste dedicano invece una maggiore attenzione all’immigrazione di lavoratori, attenzione peraltro rivolta quasi esclusivamente alle esigenze della domanda nazionale di lavoro. Ispirandosi dichiaratamente alle politiche inglesi in materia (che in Europa sono tra le più decisamente orientate verso un sistema di “brain gain” nella gestione degli ingressi di lavoratori stranieri), la bozza presentata da Amato punta a creare un meccanismo pubblico/privato di gestione dell’immigrazione per lavoro che mira ad organizzare l’incontro tra l’offerta di lavoro straniera e la domanda nazionale di lavoro già nei paesi di provenienza ed a selezionare gli immigrati sulla base della loro appetibilità nel mercato nazionale del lavoro, favorendo- con permessi “veloci” e regimi specifici di visto- l’ingresso di lavoratori occupabili in settori particolarmente qualificati ed inserendo invece i lavoratori scarsamente qualificati entro un sistema che fa perno sulla scelta di rendere triennale il decreto-flussi, e su di un ripensamento tanto delle cd. “liste di collocamento all’estero” quanto dell’istituto della “prestazione di garanzia di garanzia per l’accesso al lavoro” (il cd. “sponsor” previsto dall’art. 23 della versione originaria del T.u. ed eliminato dalla riforma del 2002).
La triennalizzazione del decreto-flussi dovrebbe accompagnarsi alla possibilità per la Presidenza del Consiglio di emanare singoli provvedimenti di adeguamento delle quote previa consultazione con il “Comitato con il coordinamento e il monitoraggio” (art. 2 bis del T.u.), oggi composto da quattro esponenti del governo e da un rappresentante della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, e che dovrebbe venire integrato con rappresentanti delle parti sociali esponenti e delle associazioni attive sul campo dell’immigrazione. A questo proposito va peraltro rilevato che la vigente normativa già prevede un documento triennale di previsione: il “documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” (art. 3 co. 1 del d.lgs. 286/1998). La scelta di intervenire per la programmazione di medio periodo sul decreto anziché sul documento, più che rendere maggiormente realistica la programmazione e facilitare agli immigrati la pianificazione del loro inserimento lavorativo, sembra originata piuttosto dall’intenzione di rendere maggiormente flessibili le quote annuali, semplificando le procedure per il loro adeguamento in progress. Le “liste di collocamento all’estero” erano già previste dalla normativa vigente (art. 21 co. 5), sebbene non abbiano ad oggi funzionato e da più parti si siano levate critiche circa la loro trasparenza. La proposta Amato mira a rendere tali liste un importante elemento di un più complessivo meccanismo di reclutamento in loco della forza lavoro necessaria all’economia nazionale. Questa infatti prevede che la graduatoria di tali liste sia definita non solo dall’anzianità di iscrizione ma anche dalla partecipazione a quei corsi di formazione organizzati nei paesi di provenienza degli immigrati da enti pubblici o privati ed introdotti dalla cd. Bossi-Fini nel T.u. Il tentativo caratterizzante tali proposte di riforma di funzionalizzare ulteriormente l’ingresso di lavoratori immigrati alla domanda nazionale emerge peraltro con particolare rilievo dalla progettata ridefinizione dell’istituto dello “sponsor”. Nelle Note infatti, diversamente da quanto prevedeva l’originaria formulazione del T.u., questa “sponsorizzazione” non potrà più essere effettuata da privati (cittadini o stranieri regolarmente residenti), ma solo da enti pubblici o privati (quali ad es. regioni, enti locali, associazioni imprenditoriali e professionali, patronati, sindacati). Laddove la precedente versione di tale istituto, pur con tutti suoi limiti, aveva potuto costituire uno strumento per consentire un regolare ingresso per ricerca di lavoro, favorendo anche lo sviluppo di reti migratorie implementate dagli stessi immigrati una volta integratisi nel tessuto socio-economico nazionale, con le modificazione previste da tale riforma tale istituto diverrebbe il principale snodo di un sistema di reclutamento in loco della forza lavoro migrante. Il nuovo sponsor dovrebbe infatti aiutare i datori di lavoro ad individuare entro le liste di collocamento estere i lavoratori che questi cercano e coadiuvarli nell’espletamento dell’iter burocratico. L’immigrato “sponsorizzato” otterrebbe dunque un “permesso di soggiorno per inserimento nel mercato del lavoro” di durata annuale e lo sponsor affiderà il lavoratore in prova al datore di lavoro. In caso positivo il permesso “per inserimento” potrà essere convertito in permesso per lavoro subordinato, in caso negativo il lavoratore tornerà sotto la tutela dello sponsor che potrà “offrirlo” ad altri datori di lavoro, magari come partecipante a corsi di formazione o a tirocini.

Il complesso di queste proposte sembra dunque confermare da una parte l’ancoraggio della condizione giuridica del migrante ad un “diritto speciale”, che non aiuta a costruire percorsi effettivamente pluralistici di integrazione e convivenza, e dall’altra la logica binaria delle politiche migratorie, inducendo al contempo una maggiore polarizzazione di tali politiche. Le riforme messe in cantiere infatti sembrano nel complesso accrescere la distanza tra le politiche di contrasto dell’immigrazione ‘irregolare’- rispetto alle quali si conferma e si estende la tendenza alla penalizzazione di pratiche caratterizzanti l’immigrazione irregolare ed al trattenimento non solo degli stranieri da allontanare, ma anche dei richiedenti asilo- e le politiche di integrazione di quella ‘regolare’, le quali tuttavia sembrano caratterizzate da un approccio eccessivamente unidirezionale, da una pretesa disciplinare che si rivela particolarmente intensa nel tentativo di introdurre, tra i requisiti per l’acquisto della cittadinanza “un test di integrazione sociale”, così come in materia di ingresso per lavoro, ove è forte la tendenza a funzionalizzare questi movimenti di persone alle più o meno contingenti esigenze della domanda nazionale di lavoro e dove si mira ancora ad un incontro a distanza tra offerta straniera e domanda nazionale di lavoro (prima cioè che i lavoratori giungano in Italia), principio questo che caratterizza sin dai suoi albori la disciplina italiana dell’immigrazione e che, a causa della sua artificialità, condanna tanta parte dei migranti all’irregolarità o comunque alla violazione delle prescrizioni di legge.

26 ottobre 2006


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