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Il gruppo di persone che ha promosso questo sito si propone di sollecitare il dibattito tra gli studiosi delle diverse discipline interessate alle ragioni del costituzionalismo, operando entro una prospettiva dichiarata. Il nostro "punto di vista", le specifiche ragioni di politica culturale e la professione di metodo alla base di quest'iniziativa sono rese esplicite in due editoriali Le ragioni di una rivista nuova, di Gianni Ferrara e Le ragioni di un impegno nuovo, di Gaetano Azzariti...(continua)
 
25/10/2006
Ricongiungimento familiare: si apre uno spiraglio per gli stranieri colpiti da provvedimento di espulsione

di Alessandro Di Blasi

1 – La direttiva 2003/86/CE sul diritto al ricongiungimento familiare.
La direttiva 2003/86/CE del Consiglio dell’Unione Europea[1], sulla premessa che “il ricongiungimento familiare è uno strumento necessario per permettere la vita familiare”[2], fissa le condizioni di esercizio del diritto al ricongiungimento di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri[3].
Secondo la direttiva gli Stati membri possono respingere, revocare o rifiutare di rinnovare il permesso di soggiorno di un familiare di un cittadino di un paese terzo che risiede legalmente in uno Stato membro, per un triplice ordine di ragioni:
a) di ordine pubblico;
b) di sicurezza pubblica;
c) di sanità pubblica[4].
In altre parole, il rigetto della richiesta di ricongiungimento può avvenire solo nel caso in cui l’incolumità pubblica (vuoi per ragioni di sicurezza, vuoi di sanità) possa essere messa a repentaglio dall’ingresso dello straniero nei Paesi membri. In qualsiasi altro caso, l’esigenza dell’unità familiare va salvaguardata.
Gli Stati membri avevano l’obbligo di adeguarsi alla stessa entro il 3 ottobre 2005, cosa che puntualmente l’Italia non ha fatto. Ma qual è la situazione dell’ordinamento italiano?
Se lo spirito della direttiva sembra perfettamente in sintonia con i principi espressi dagli artt. 2, 29 e 31 della Costituzione, va messo in risalto che in Italia sino ad oggi le cose sono andate ben diversamente, e ciò non solo con l’avallo esplicito della Cassazione, ma addirittura con quello implicito della Corte costituzionale.
Prima di esaminare i provvedimenti presi dal Consiglio dei Ministri negli ultimi giorni è utile considerare l’orientamento attuale delle due Corti.
 
2- La Cassazione e i limiti al ricongiungimento.
L’art. 28 del T.U. sull’immigrazione (D.lgs. 286/1998), denominato significativamente “Diritto all’unità familiare” prevede che “il diritto a mantenere o a riacquistare l'unità familiare nei confronti dei familiari stranieri è riconosciuto, alle condizioni previste dal presente testo unico, agli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi”.
Se la dizione legislativa è piuttosto chiara, l’interpretazione della giurisprudenza non manca di destare forti dubbi di legittimità costituzionale.
La Cassazione, infatti, con la sentenza 25 novembre 2005, n. 25026 ha precisato che “ai sensi dell'art. 28, comma 1, d.lg. 25 luglio 1998 n. 286 (t.u. immigrazione), il diritto al mantenimento dell'unità della propria famiglia è in via generale riconosciuto (alle condizioni sostanziali e nel rispetto delle regole procedurali previste nei successivi art. 29 e 30, i quali dettano le modalità con cui viene tutelato il diritto anzidetto) soltanto ai cittadini stranieri regolarmente presenti nel territorio dello Stato italiano, e in tale categoria non rientrano i soggetti colpiti da provvedimento di espulsione, onde l'esistenza di un nucleo familiare non è di per sé sufficiente a far ritenere legittima la permanenza in Italia di cittadini stranieri al di fuori delle regole che disciplinano il loro ingresso nel territorio dello Stato”.
In senso conforme si era già precedentemente espressa la Suprema Corte con la sentenza 20 agosto 2003. n. 12223[5]. Come si vede, la giurisprudenza della Cassazione è in palese contrasto con la direttiva comunitaria.
Infatti va ricordato che le ipotesi di espulsione nel nostro ordinamento sono più ampie di quelle previste dalla direttiva: l’art. 13 del D.lgs. 286/1998[6] aggiunge un’ipotesi di versa e lontana rispetto a quelle che la direttiva prevede per escludere il ricongiungimento, stabilendo che l’espulsione può venire disposta non solo in ipotesi riguardanti l’incolumità pubblica, ossia per motivi di ordine pubblico o di sicurezza pubblica, ma anche se lo straniero “si è trattenuto nel territorio dello stato senza aver chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto”.
Conseguentemente, stando alla giurisprudenza della Cassazione, lo straniero che ha subito nel passato un’espulsione, per qualsiasi motivo, anche per il solo fatto di non aver richiesto il permesso di soggiorno entro 8 giorni dal suo ingresso nel territorio italiano, non può ottenere il ricongiungimento con i propri familiari, nonostante il fatto che essi risiedano da anni regolarmente in Italia.
E’ pur vero che la sentenza del 2005 della Cassazione, riguarda un caso in cui uno straniero ha ottenuto il ricongiungimento familiare e una volta entrato in Italia non si è adoperato a richiedere il permesso di soggiorno, è altrettanto vero però, che la regola in questione, nella prassi, è stata generalizzata ad ogni ipotesi di precedente espulsione, investendo in altre parole tutti i soggetti che si sono trovati a permanere irregolarmente in Italia.
Tale aberrante conseguenza, che va a compromettere in modo assoluto le esigenze fatte proprie dalla direttiva comunitaria, contrasta in modo palese con i principi espressi agli art. 2 e 29 cost. che tutela il diritto all’unità familiare, quanto meno con riferimento a quella nucleare. Eppure, la giurisprudenza civile e la prassi trovano fondamento proprio nella giurisprudenza costituzionale[7].
 
3 – La giurisprudenza costituzionale in tema di ricongiungimento.
Con l’ordinanza 6 luglio 2006 n. 232 la Corte costituzionale ha rigettato la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Palermo, il quale, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 29, 30 chiedeva che venisse dichiarata l’incostituzionalità “dell'art. 19 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero coniugato e convivente con altro cittadino straniero in possesso di regolare permesso di soggiorno, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 29 e 30 della Costituzione”.
Senza affrontare la specifica problematica attinente alla fattispecie che ha originato il giudizio di costituzionalità (la quale atteneva più al divieto di espulsione di cui all’art. 19 del T.U. sull’immigrazione che al ricongiungimento familiare), va rilevato che la Corte costituzionale ha testualmente dichiarato che “l'esercizio del diritto al ricongiungimento può essere sottoposto dalla legge a condizioni volte ad assicurare "un corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale" (sentenza n. 28 del 1995), ed in particolare "alla condizione che sussista la possibilità di assicurare al familiare, con cui si opera il ricongiungimento, condizioni di vita che consentano un'esistenza libera e dignitosa" (sentenza n. 203 del 1997);
che in applicazione dei medesimi principi questa Corte ha costantemente affermato che il legislatore può legittimamente porre dei limiti all'accesso degli stranieri nel territorio nazionale effettuando un "corretto bilanciamento dei valori in gioco", esistendo in materia una ampia discrezionalità legislativa limitata soltanto dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli (cfr. sentenza n. 353 del 1997)”.
La motivazione è sicuramente infelice, racchiudendo in sé una contradictio in principiis che ha originato la successiva giurisprudenza ordinaria.
E’ opportuno metterne in risalto il contrasto logico.
La Corte costituzionale nella premessa motivazionale ammette, né poteva disconoscerlo, che il diritto al ricongiungimento ha fondamento costituzionale, concernendo il diritto all’unità familiare tutelato espressamente dal secondo comma dell’art. 29 della Costituzione e che tale diritto può essere bilanciato con altri valori dotati di tutela costituzionale. Niente di strano, essendo l’affermazione in assoluta sintonia con la consolidata giurisprudenza costituzionale in tema di bilanciamento di valori.
Non a caso la Corte costituzionale, citando la propria sentenza n. 203 del 1997, fa riferimento "alla condizione che sussista la possibilità di assicurare al familiare, con cui si opera il ricongiungimento, condizioni di vita che consentano un'esistenza libera e dignitosa”.
Sennonché, nel capoverso successivo, la sentenza afferma l’assoluta discrezionalità del legislatore in materia, con il solo limite della manifesta irragionevolezza.
Se quindi, nella parte iniziale della motivazione il giudice delle leggi pretendeva che il diritto al ricongiungimento potesse venir bilanciato esclusivamente con altri valori costituzionali e fosse compiuto solo dalla Corte, nella parte finale sembra lasciare al legislatore il bilanciamento di quelli che diventano “i valori in gioco” (e non più i valori dotati di tutela costituzionale).
Senza entrare nel merito, in questa sede, di cosa s’intenda per “valore dotato di tutela costituzionale”, e se un’esigenza tutelata a livello legislativo possa entrare nel bilanciamento dei valori costituzionali magari per effetto del criterio della ragionevolezza, va sottolineato che per effettuare il bilanciamento tra due esigenze, queste ovviamente devono essere già presenti e già tutelate dall’ordinamento.
Dunque, l’autonoma scelta legislativa di limitare un diritto costituzionalmente garantito deve trovare fondamento in un diritto già tutelato e garantito dall’ordinamento e non basarsi certo sul principio ispiratore della stessa disciplina impugnata, oggetto dell’incidente di costituzionalità.
In tal modo, infatti, viene scardinato lo stesso thema decidendum, trasformando in parametro, l’oggetto del giudizio.
Conseguentemente, se il diritto all’unità familiare viene limitato per la necessità di tutelare condizioni di vita che consentano un’esistenza libera e dignitosa o la stessa sicurezza materiale dello Stato, entrambe preesistenti alla scelta legislativa concernente i limiti al ricongiungimento, non sorgono problemi di sorta.
Se però, tra i valori in gioco da bilanciare entrano le scelte legislative, oggetto del medesimo incidente di costituzionalità, viene compromesso lo stesso giudizio costituzionale, dando al legislatore nella materia dell’immigrazione carta bianca, consentendogli di effettuare delle scelte in grado di sopprimere gli stessi diritti costituzionali.
Nella circostanza come osservato da Piccione, siamo di fronte ad un “bilanciamento apodittico della Corte che ratifica l’operato del legislatore del 1998”, con la Corte che “sembra quasi sostenere che l’operatività stessa dell’istituto escluda le ombre di lesione del diritto all’integrità della vita familiare e del rapporto genitoriale”[8].
E ciò è proprio quello che è avvenuto per effetto della suindicata decisione.
Quella che appariva semplicemente un’infelice motivazione dell’ordinanza, è invece stata utilizzata dalla Corte nella successiva giurisprudenza per contrapporre al diritto costituzionalmente garantito al ricongiungimento e all’unità familiare quello della discrezionalità del legislatore nel regolare l’accesso al territorio dello Stato.
In altre parole quello che era l’iniziale oggetto del giudizio di costituzionalità è assurto ad autonomo valore costituzionalmente garantito sulla base della contraddizione generata dalla motivazione dell’ordinanza 232/2001, tant’è che nell’ord. 464/2005 la Corte è arrivata a dichiarare, sia pure con riferimento al caso particolare della richiesta di ricongiungimento di figli maggiorenni, chel'unità familiare perde la caratteristica di diritto inviolabile costituzionalmente garantito e, contestualmente, si aprono margini che consentono al legislatore di bilanciare l'interesse all'affetto con altri interessi di rilievo, e in particolare di porre legittimamente dei limiti all'accesso degli stranieri nel territorio nazionale, poiché sussiste in materia un'ampia discrezionalità limitata solo dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli”.
Nell’ord. 158/2006[9], la Consulta ribadisce come principio generale quello secondo cui il legislatore gode in materia della più ampia discrezionalità, con la quale il diritto al riconoscimento deve essere contemperato.
Ecco, dunque, come la Corte arriva, implicitamente, ad ammettere la possibilità da parte del legislatore di limitare il diritto al ricongiungimento familiare per qualsivoglia ragione e non solo per motivi inerenti all’incolumità pubblica come viceversa prevede la direttiva comunitaria.
Di qui la prassi amministrativa assolutamente univoca nel negare automaticamente la possibilità di ricongiungimento agli stranieri precedentemente espulsi, nonostante il provvedimento non attenesse a ragioni di incolumità pubblica.
4 – Verso il ripristino della legittimità costituzionale.
Nonostante, dunque, la tutela a livello costituzionale del diritto all’unità familiare e le disposizioni della direttiva europea, in Italia si continua a negare il ricongiungimento allo straniero che sia stato espulso per qualsivoglia motivo. Sennonché è di fine luglio la notizia che il Consiglio dei Ministri ha approvato, su proposta del Ministro per le politiche europee, Emma Bonino, e del Ministro dell´interno, Giuliano Amato,  in via preliminare, due schemi di decreti legislativi (per i quali occorre acquisire il parere delle Commissioni parlamentari) concernenti l´attuazione delle direttive comunitarie 2003/86 sul diritto al ricongiungimento familiare e 2003/109 relativa allo status di cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. Con il primo schema si apportano le necessarie integrazioni al testo unico sull´immigrazione nella parte relativa ai ricongiungimenti familiari, il cui diritto, oltre a venire esteso anche ai rifugiati, viene concesso (o meglio non viene più negato automaticamente) anche agli stranieri colpiti da precedente espulsione amministrativa, tranne i casi di persone ritenute pericolose per la sicurezza. Conseguentemente viene altresì eliminato l´attuale automatismo relativo al divieto di reingresso nel territorio italiano che vige per gli stranieri espulsi, per cui da ora il ricongiungimento del familiare, già destinatario di un decreto di espulsione, non potrà essere negato solo per tale motivo. Sul punto vedasi (http://www.interno.it/news/articolo.php?idarticolo=22721 e http://www.meltingpot.org/articolo8192.html).
Sennonché, i tempi di approvazione si prospettano lunghi.
E nel frattempo?
L’unica speranza è che la Corte costituzionale, se chiamata a decidere sull’incostituzionalità della normativa in tema di ricongiungimento, o, comunque, i giudici comuni nell’applicazione della legge, vogliano rivedere la loro posizione decisamente in antitesi con i principi costituzionali e la normativa europea per dimostrare nei fatti che l’unità familiare costituzionalmente garantita non solo ai cittadini ma anche agli stranieri, trova tutela anche quando viene invocata a favore di questi ultimi.
 


[1] Vedasi http://www.interno.it/assets/files/7/2006729103621.pdf.

[2] Nelle premesse viene precisato che “esso contribuisce a creare una stabilità socioculturale che facilita l’integrazione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri, permettendo dall’altra parte di promuovere la coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità, enunciato nel trattato”.

[3] Vedasi art. 1 della direttiva.

[4] Vedasi art. 6, commi 1 e 2.

[5] Vedasi P. PASSAGLIA, in Foro it. 2004, I, 2827 e ss.

[6] L’art. 13 del T.U. sull’immigrazione prevede, infatti, che “1. Per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il Ministro dell'interno può disporre l'espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro degli affari esteri.
2. L'espulsione è disposta dal prefetto quando lo straniero:
a) è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto ai sensi dell'articolo 10;
b) si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato, ovvero è scaduto da più di sessanta giorni e non è stato chiesto il rinnovo;
c) appartiene a taluna delle categorie indicate nell'articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituto dall'articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell'articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646”.  
 

[7] Per un’analitica esposizione della giurisprudenza civile sul punto, con richiami a quella costituzionale, vedasi G. BELLAGAMBA e G. CARITI, La disciplina dell’immigrazione, Milano, Giuffrè, 2005, pagine 257-259.

[8] D. PICCIONE, Brevi note su espulsione della straniero, C.E.D.U. e principio di eguaglianza, in Giur. Cost. 2001, 2075.

[9] In D&G – Diritto e Giustizia 2006, 22, 36-38 con nota di L. BLASI.






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