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Il gruppo di persone che ha promosso questo sito si propone di sollecitare il dibattito tra gli studiosi delle diverse discipline interessate alle ragioni del costituzionalismo, operando entro una prospettiva dichiarata. Il nostro "punto di vista", le specifiche ragioni di politica culturale e la professione di metodo alla base di quest'iniziativa sono rese esplicite in due editoriali Le ragioni di una rivista nuova, di Gianni Ferrara e Le ragioni di un impegno nuovo, di Gaetano Azzariti...(continua)
 
25/10/2006
Immigrazione e identità nazionale: uno sguardo oltreoceano

di Elisa Olivito

1. Premessa: per un’identità nazionale in movimento. 2. Immigrazione e assimilazione negli Stati Uniti e in Canada. 3. La sconfessione del melting pot statunitense. 4. Immigrazione e multiculturalismo in Canada. 5. Lo ‘spazio’ dei migranti.
 
1. Premessa: per un’identità nazionale in movimento. Quello del rapporto tra immigrazione e identità nazionale sembra essere un leit-motif che, sulla scia dei corsi e ricorsi storici, torna a proporre i suoi argomenti e le sue ambivalenze soprattutto nei momenti di forte crisi o instabilità; i termini in cui ai migranti viene chiesto di disporsi lungo gli spazi idealmente tracciati da quella prende in tali casi la forma di una verifica della fedeltà verso il Paese che li ospita. Gli avvenimenti dell’11 settembre e le misure anti-terrorismo adottate nel Nord America hanno riproposto sentimenti di diffidenza nei confronti degli immigrati e un deciso calo di consenso verso l’immigrazione; se durante le due guerre mondiali furono i cittadini di origine tedesca e poi giapponese a fare le spese di simili backlashes[1], la pressione degli eventi più recenti si è trasformata in un’ondata di sospetti e restrizioni nei confronti dei cittadini di (supposta) “origine araba”. In particolar modo negli Stati Uniti, proprio le leggi sull’immigrazione sono state messe al servizio di un’aggressiva lotta al terrorismo, fornendo – con estreme forzature – la base giuridica per l’arresto e la detenzione di molti immigrati senza garanzie e senza limitazioni temporali; gran parte delle restrizioni anti-terrorismo adottate nei loro confronti sono state difatti formalmente giustificate sulla base di presunte violazioni di quelle leggi[2].
Ai fini delle osservazioni che qui di seguito si intendono svolgere, l’aspetto che preme più d’ogni altro sottolineare concerne la conformazione ambigua e potenzialmente discriminatoria della distinzione noi/loro quando, attraverso la disciplina dell’immigrazione, si cerchino di delimitare i contorni dell’identità nazionale e, conseguentemente, chi è inteso farne parte; il ricorso a un’applicazione draconiana di quella disciplina, per far fronte a una situazione di emergenza avvertita come minaccia che deriva dall’esterno, si basa in verità sull’utilizzo di criteri (e stereotipi) etnici e razziali, più che sull’assunto di un diverso trattamento tra cittadini e immigrati. Basti pensare che, nel contesto nordamericano, il rischio di rimanere imbrigliati nelle maglie del c.d. racial profiling[3] – e dei provvedimenti in base ad esso adottati – dipende non semplicemente dal fatto di essere migranti, ma dalla passiva ascrizione di alcuni individui a una certa razza, etnia o religione. L’andamento asimmetrico in tal modo seguito nell’individuare coloro della cui lealtà si dubita rivela così lo strano paradosso di un’identità nazionale miope, che lascia fuori (alcuni) migranti e, insieme ad essi, i cittadini che per la loro origine etnica o razziale non lo sono ancora a pieno titolo[4].
C’è dunque molto da riflettere sulle dinamiche di quella correlazione. Il complesso di narrazioni, invenzioni e strategie di cui sono investiti l’idea di ‘nazione’ e quella di ‘identità nazionale’[5] riemerge prepotentemente ogniqualvolta i confini che si è ritenuto di potervi costruire attorno siano sentiti sotto minaccia; l’aumento dei flussi migratori, la lontananza ‘simbolica’ dei paesi di provenienza, nonché i momenti di emergenza ‘nazionale’ inevitabilmente spingono verso un ri-avvicinamento a quei concetti ma, al contempo, ne sono la premessa per una profonda messa in discussione. La loro tenuta può essere verificata assumendo il punto di vista cosmopolita e post-nazionalista di chi esalta le potenzialità dell’ibridismo culturale e rimarca le opportunità di innovazione e illimitata ri-generazione offerte dalle contaminazioni identitarie[6]; oppure, si può seguire la diversa – ma non del tutto discordante – traiettoria di chi preferisce scardinare le ambivalenze dell’identità nazionale dall’interno, ricercandone una versione dinamica, che sia agibile da parte di chi diversamente ne rimane ai margini[7]. In entrambi i casi, la presenza dei migranti, disvelata dalla comparsa di recriminazioni identitarie, fornisce lo sfondo per una prospettiva di scardinamento delle preclusioni che quel concetto sottende e del sostegno che assicura al mantenimento delle posizioni date: la posizione ‘in-between’ da cui essi si pongono, come soggetti culturalmente situati in uno spazio temporale che guarda al passato ma è altresì condizionato dalla loro dislocazione nel presente[8], rende sì manifesto il carattere parziale, performativo e negoziato dell’identità, ma dimostra che questo è un argomento in grado di reggere solo in condizioni di reprocità. Se difatti s’intende opporre alle proposte di segno multiculturalista l’accusa di produrre essenzialismo e immobilismo culturale – obiezione seria e non sottovalutabile – il ricorso all’identità nazionale come schermo contro l’eccessiva frammentazione comunitaristica, cui quelle porterebbero, rischia di incorrere nelle stesse mancanze. Nella misura in cui si ritiene opportuno non irrigidire i legami culturali in rappresentazioni statiche e semplificate di identità, discorso analogo deve valere anche per l’identità nazionale.
Ciò che invero sembra disturbare delle sollecitazioni provenienti dai gruppi minoritari è il modo in cui esse costringono a pensare alla ‘nostra’ identità, ossia come a qualcosa di altrettanto mobile e mutevole, perché coinvolta nelle trasformazioni sociali, politiche e culturali che l’immigrazione comporta. In questo senso, le discussioni sui temi del multiculturalismo e i momenti di conflittualità che seguono all’emersione di concrete istanze multiculturali sono da vedersi, innanzitutto, come strumenti attraverso cui nuove voci e nuove narrazioni entrano a far parte delle vicende dell’identità nazionale. E non è affatto detto che si tratti di apporti concilianti, rassicuranti o coerenti; più spesso si tratterà invece di voci dissenzienti, contraddittorie e incostanti. Il loro obiettivo è di portare a galla la parzialità di un’immagine di compattezza e unità, che non semplicemente appiattisce il ‘molteplice’ sull’uniforme’, ma lo fa a tutto vantaggio delle gerarchie e degli squilibri nei rapporti di forza già esistenti. Si può anche decidere di escludere queste voci, mantenendo l’idea di un’identità nazionale non estensibile ai nuovi contributi; e tuttavia - come la storia statunitense della segregazione razziale dimostra - quelle esclusioni, se pregiudizialmente fondate, non potranno che diventare esse stesse costitutive della ‘comune’ identità. Un apporto per negazione, è vero; ma pur sempre un apporto destinato a pesare nel futuro e a presentare prima o poi il conto.
 
2. Immigrazione e assimilazione negli Stati Uniti e in Canada. Le considerazioni appena svolte sembrano trovare conferma in alcuni significativi passaggi dell’esperienza statunitense e canadese sul fronte dell’immigrazione; i provvedimenti e le politiche che ne hanno accompagnato il progressivo aumento si sono, difatti, caratterizzati per una costante attenzione alle modalità secondo cui si è pensato di dover puntellare ovvero preservare certe e non altre ‘costanti’ dell’identità nazionale. La condivisione di questa preoccupazione rappresenta un elemento da non sottovalutare, poiché le differenze nella disponibilità dei due Paesi ad aprirsi all’apporto identitario dei migranti vengono troppo spesso incanalate nella distinzione tra il modello statunitense del melting pot e quello canadese dell’ethnic mosaic. Se si assume come prospettiva quella del legame tra immigrazione e identità, si ha l’impressione che - per via della crudezza delle due formule – si perda per strada più di qualche pezzo. La biforcazione non lascia trasparire i punti di contatto e le somiglianze esistenti tra le due esperienze e attinenti esattamente a quel profilo; se invero si tiene presente quanto delle disposizioni in materia di immigrazione sia stato messo al servizio della difesa identitaria, può senz’altro dirsi che gli Stati Uniti e il Canada per molto tempo hanno condiviso, quanto meno nelle intenzioni, una cammino comune[9]. È vero che, nel qualificare gli approcci dei due Paesi verso l’immigrazione, alcuni fattori hanno sin dall’inizio avuto un notevole peso; basti pensare soltanto alla presenza, rispettivamente, della minoranza afro-americana e della minoranza francofona, nonché ad alcune diversità nella tipologia e nell’entità dei flussi migratori dovute alle diverse condizioni (e relative esigenze) dello sviluppo economico. Ciò nonostante, le soluzioni approntate nel Nord America hanno visto per molto tempo il prevalere di forti spinte assimilazionaniste che, a partire dall’esplosione dell’immigrazione intorno ai primi anni del secolo scorso, sono in sostanza confluite verso un deciso “anglo-conformismo”: la matrice a partire dalla quale sono stati tracciati i tratti della ‘comunità immmaginata’ ed entro cui ai nuovi arrivati è stato chiesto di convergere non si è mai posta come culturalmente neutra, ma è stata intesa come sostitutiva dell’identità nazionale di provenienza solo per alcuni di essi[10].
Muovendo da questo fondamentale, quand’anche non esplicitato, assunto, il carattere selettivo delle disposizioni adottate in Canada e negli Stati Uniti è stato a lungo dettato dall’idea di favorire solo l’immigrazione che rientrasse nei termini di quel parametro e al tempo stesso rispondesse alle esigenze economiche che la rendevano necessaria; stereotipi culturali, aspettative economiche e sentimenti nativisti hanno pertanto portato alla classificazione degli immigrati in base a preconcette nozioni di assimilabilità e, conseguentemente, di “desiderabilità”, con relativo favor per l’immigrazione proveniente dall’Europa settentrionale e altrettanto disfavore per quella in arrivo dai paesi dell’Europa centro-meridionale e dall’Asia[11].
Non è possibile in questa sede ripercorrere nel dettaglio le tappe di questo processo; i precedenti accenni sono tuttavia utili a rammentare che nel Nord America l’apertura verso le istanze identitarie dei migranti è storia recente, che non poca fatica ha incontrato nell’emergere[12]. Al contrario, il costante riferimento a esigenze di coesione, ancor più sentite in paesi ad alto tasso di immigrazione, si è tradotto nella pretesa integrazione in un’identità nazionale non divisibile in ulteriori appartenenze comunitarie; se legami rimanevano con il paese d’origine, questi dovevano limitarsi alla sfera delle abitudini domestiche e dei rapporti familiari. Se dunque si vuole guardare al Canada e agli Stati Uniti come a due distinti modelli di pluralismo culturale – e se a quest’ultima espressione si assegna un significato non meramente descrittivo - una siffatta differenziazione può essere tracciata solo a condizione di tenere fermo un comune punto di partenza: in entrambi gli ordinamenti una maggiore considerazione delle istanze di riconoscimento identitario dei migranti si è avuta proprio quando è divenuto evidente il fallimento delle rispettive politiche assimilazioniste, in termini sia di discriminazioni e sperequazioni interetniche sia di conseguente disaffezione sociale. Le battaglie per i diritti civili avviate negli anni ’60 e il crescente impiego di ‘razza’ e ‘genere’ come fattori di mobilitazione sociale e identificazione collettiva hanno contribuito all’affioramento di un senso di disillusione e rivalsa da parte degli stessi immigrati – ironicamente, soprattutto quelli di seconda generazione[13] - trasformatosi in una ri-valutazione dei legami culturali. La rappresentazione di un’identità nazionale genericamente inclusiva, perché originata dall’abbandono delle appartenenze particolari di ciascuno, è apparsa sempre più nel suo carattere fittizio e artificiale, in quanto dimentica degli sbilanciamenti nelle relazioni di potere che hanno contribuito e ancora contribuiscono a formarla[14].
Di fronte alla sfida lanciata al mito della comune e ‘neutra’ identità nazionale, i due Paesi si sono però mossi seguendo traiettorie diverse, per via dell’intreccio tra il c.d. revival etnico, da un lato – così come definito da uno dei suoi più agguerriti detrattori[15] - e dall’altro, la storia della minoranza nera negli USA e quella della minoranza francofona nel Québec. La convergenza di questi fattori ha messo in seria difficoltà l’aspettativa di un’identità nazionale circoscrivibile entro confini certi e non modificabili; le frizioni e le tensioni riscontrate nei due diversi contesti, difatti, sono state spesso il prodotto di un vistoso misconoscimento: un tasso di immigrazione molto alto determina inevitabili movimenti nel tono e nella conformazione di quell’identità, non fosse’altro perchè la presenza dei migranti ne diventa essa stessa un aspetto ineliminabile.
 
3. La sconfessione del melting pot statunitense. Negli Stati Uniti l’idea del crogiolo di razze, ovverosia della fusione di culture, razze e tradizioni diverse in una nuova e ricomposta identità, ha dimostrato tutta la sua “parzialità” nella quasi spontanea inclinazione a favorire certi e non altri modi di vita, respingendo nella marginalità i gruppi e le culture non rispondenti al modello dominante. Risultato percepibile di un diversity-blind approach è stata l’estromissione di intere “classi” di persone dall’effettivo godimento dell’apparato di diritti fondamentali, unitamente alla etnicizzazione e alla razializzazione di povertà e discriminazione; l’esaltazione di un sistema fondato sull’autonomia e le libertà individuali e sui risultati raggiungibili attraverso l’applicazione di criteri meritrocratici ha determinato una generalizzata ostilità verso l’apprezzamento delle affiliazioni collettive, in uno con l’oscuramento delle reali dinamiche di esclusione e segregazione che alimentano il sistema[16]. In  risposta alle recriminazioni derivanti da un forte divario socio-culturale e dalle barriere che, nel mentre penalizzano i singoli individui, in verità perpetuano l’estromissione dal dominio pubblico soltanto di alcune identità di gruppo, non vi è stato un aperto accoglimento delle istanze identitarie dei migranti; le istituzioni americane hanno piuttosto preferito muoversi nel senso di un riequilibrio basato non sul conferimento di diritti o autonomie speciali ai gruppi minoritari, ma sul consolidamento di un’eguaglianza intesa come parità di chances.
L’ideale del melting pot è stato, difatti, fortemente ridimensionato, nella credibilità delle sue premesse e nel suo concreto rendimento, non da una piena sconfessione a livello istituzionale della volontà di perseguirlo, ma piuttosto dallo smascheramento politico e sociale delle perverse dinamiche di oppressione che ne sono il prodotto[17]. Gli elevati costi in termini di emarginazione per coloro che non rientrano nei suoi parametri di inclusione hanno costituito il motivo per l’attivismo e le contestazioni di gruppi che, attraverso la mobilitazione di identità collettive e l’impiego strategico delle differenze intorno ad esse costruite, hanno messo in discussione la sostenibilità di un meccanismo che mette sotto silenzio le affiliazioni particolari di alcuni e non di altri. Le contraddizioni registrabili nel trattamento della ‘diversità’ da parte degli apparati pubblici trovano forse spiegazione in un’incongruenza di fondo che, permanendo irrisolta, rende difficile un inquadramento troppo rigido del sistema; l’analisi dei canali mediante i quali le questioni dell’immigrazione finiscono per confluire nel territorio dell’identità nazionale deve, infatti, seriamente fare i conti con le peculiarità di un ordinamento, che cerca di venire a patti con le stridenti sopraffazioni prodotte dalla neutralizzazione della ‘differenza’, senza tuttavia abdicare del tutto all’idea di un’eguaglianza che guarda all’individuo nella sua astrattezza.
Non stupisce, pertanto, che lo strumento primo per allargare lo spettro di opportunità altrimenti negate e riparare gli effetti perversi di una artificiosa neutralità sia stato l’avviamento di programmi di affirmative action, indirizzati in un primo tempo a compensare la minoranza afro-americana per le le discriminazioni subite e man mano estesi, con accenti diversi, alle donne e a diversi gruppi di hyphenated Americans[18]. Solo formalmente, però, beneficiari delle misure differenziate di cui questi strumenti constano possono considerarsi i singoli individui, poichè in sostanza – e soprattutto nei casi di riserva di quote – destinatario ‘inespresso’ delle c.d. reverse discriminations è il gruppo di riferimento; a monte di tali misure vi sono comunque e sempre le appartenenze particolari e gli steccati innalzati sulla loro base che, per questa via, si pongono come motivo per l’assegnazione di un trattamento diseguale. Le azioni positive manifestano in tal modo un’implicita valenza bifronte, dal momento che, se anche si affermano come strumento utile a riparare a singole sperequazioni, si rivelano meccanismo efficace per dare spazio all’espressione di identità collettive altrimenti soffocate, consentendo tra l’altro di diversificare la composizione razziale, etnica e culturale di ambienti di lavoro, accademici e universitari tendenzialmente omogenei. Indirettamente, quindi, un meccanismo ideato nel solco dell’eguaglianza ha rappresentato il veicolo per una maggiore attenzione alle specificità culturali.
La differenza fondamentale rispetto all’approccio canadese deriva esattamente da ciò, ovverosia dall’esistenza di una politica che solo di riflesso - e in un senso contenuto - è diventata “multiculturalista”, poichè è nata innanzitutto con l’obiettivo dell’integrazione delle minoranze nella società dominante. A livello federale non esiste, infatti, una politica ufficiale in tal senso e i provvedimenti adottati a livello statale e municipale – in materia ad esempio di istruzione o lavoro – si propongono piuttosto di promuovere un’inclusione che si mantenga entro certi confini. Ma l’idea di allestire dispositivi che, seppur dirompenti, possano comunque iscriversi nel quadro di un’identità pre-definita è inficiata nelle sue premesse dalle ragioni che l’hanno determinata; essa è costretta a fare i conti con la pervicacia di affiliazioni di gruppo mobilitate inizialmente non ‘in quanto tali’, bensì a causa degli ostacoli socio-economici costruiti su di esse; la pre-esistenza di un riferimento implicito all’appartenenza minoritaria è perciò tale da scompaginare gli ambiti entro cui si vorrebbero mantenere quei rimedi, impiantando al loro interno un rimando alle identità collettive, che l’ordinamento fatica ad accettare e pur tuttavia trasforma gli obiettivi più ristretti a cui si era in un primo momento pensato.
Resta peraltro da considerare che, anche in mancanza di una politica esplicita nell’accomodare le differenze identitarie – o forse proprio in virtù di ciò – l’aspirazione dei gruppi minoritari verso forme di riconoscimento collettivo trova un frequente canale di sfogo nel richiamo alla Free Exercise Clause del I° Emendamento. Sebbene questo faccia espresso riferimento alla religione e al suo libero esercizio, nelle sue maglie sovente entrano molte delle rivendicazioni cui le minoranze attribuiscono un più ampio significato identitario; la richiesta di trattamenti differenziati in funzione dell’appartenenza di gruppo - e dei vincoli culturali che la definiscono - assume pertanto la forma di istanze individuali, che sul fattore religioso fanno perno per veder riconosciuti i legami comunitari che ne sono parte. Quell’enunciato costituisce uno degli strumenti attraverso cui viene rivendicata l’inclusione nel retaggio dell’identità nazionale di pratiche, convinzioni e modi di vita che le minoranze sentono come costitutive di altre - e altrettanto costitutive - affiliazioni; il fondamento costituzionale che la libertà religiosa conosce è dunque visto dai gruppi minoritari come un tramite potenzialmente solido su cui far confluire aspirazioni diversamente prive di forti appigli. L’intento anti-assimilazionista che spesso caratterizza le istanze fondate sulla Free Exercise Clause è del resto svelato dalla prospettazione delle questioni in chiave egalitaria; la violazione di quella libertà viene cioè denunciata in relazione all’Equal Protection Clause: gli impedimenti o i divieti che una pratica minoritaria incontra vengono giudicati lesivi della libertà religiosa perché discriminatori, ovverosia ingiustamente afflittivi se rapportati al diverso trattamento riservato alle pratiche del gruppo maggioritario. E tuttavia, all’infuori di pochi e isolati casi[19], il sostegno argomentativo che le minoranze ritengono di trovare nel I° Emendamento deve al tempo stesso fare i conti con il peso derivante dall’Establishment Clause, ossia dalla presenza nella stessa disposizione di un pricipio non facilmente conciliabile con il primo; la combinazione tra i due e le modalità secondo cui i giudici decidono di dare precedenza all’uno più che all’altro sono, in questo senso, indicative del grado e del tipo di apertura che l’ordinamento statunitense ritiene di dimostrare verso l’appartenenza ai gruppi minoritari e dei percorsi non sempre lineari attraverso cui le istanze multiculturaliste vengono costruite ovvero accolte[20].
 
4. Immigrazione e multiculturalismo in Canada. Nel rivedere le iniziali assunzioni relativamente al ‘posto’ dei nuovi arrivati nell’identità nazionale, una diversa strada è stata intrapresa dal Canada, sebbene anche in questo caso ciò sia avvenuto in seguito al fallimento del pur tentato avvio di una strategia assimilazionista. Le peculiarità della conformazione culturale canadese hanno di sicuro pesato sulla decisione di una svolta che non poteva essere più evidente; il Canada è, difatti, impegnato sui tre diversi fronti della multiculturalità, posto che in esso coesistono minoranze indigene, minoranze immigrate e una minoranza nazionale. E se può senz’altro affermarsi che il c.d. multiculturalismo ha mosso i primi passi in questo Paese, i termini entro cui se ne intendono di solito i contenuti sono in parte fuorvianti, per via di un’estensione del suo campo di operatività oltre gli ambiti realmente assegnatigli; la tendenza è invero a credere che la caratterizzazione multiculturalista dell’ordinamento canadese sia dovuta a una generalizzata propensione verso il riconoscimento di diritti culturali e/o collettivi a tutti i gruppi minoritari presenti sul territorio. In verità, le vie seguite nella valorizzazione della diversità culturale e lo spazio lasciato ai diversi grupi minoritari cambiano in modo notevole a seconda che si tratti di minoranze indigene, francofone ovvero di comunità etniche; a tal proposito l’annuncio, nel 1971, dell’avvio di una politica dichiaratamente multiculturalista ha costituito una risposta da parte del governo Trudeau alle crescenti rivendicazioni identitarie degli immigrati di seconda e terza generazione (soprattutto quelli provenienti dall’Europa centrale e meridionale), che non vedevano di buon occhio il crescente attivismo del nazionalismo franco-canadese. L’espressione ‘multiculturalismo’ è infatti nata dalla reazione di quei gruppi all’idea di poter classificare il Canada in termini meramente bi-culturali (British/French); la restrizione della molteplicità culturale esistente nel Paese al mero biculturalismo è stata percepita come una indiretta svalutazione dei cittadini aventi origini e culture diverse e come una sostanziale negazione del loro contributo alla determinazione dell’identità nazionale. Nell’intento di riequilibrare il peso accordato agli elementi distintivi dei vari gruppi, sono state così avviate nei confronti delle comunità di immigrati iniziative di sostegno ai diversi livelli di governo, ferma restando però un’importante differenza negli esiti.
Le direttrici lungo cui tale orientamento si muove seguono percorsi differenti, che si diversificano a seconda della minoranza in questione; la conformazione eterogenea dei relativi accorgimenti discende cioè da una diversa considerazione delle formazioni minoritarie implicate e trova conferma in distinti disposti costituzionali[21]. Di diritti all’identità culturale, eventualmente azionabili in sede giudiziaria, può in senso stretto parlarsi solo con riferimento alle minoranze nazionali presenti sul territorio: la comunità francofona, da un lato, le comunità indigene, dall’altro. Per l’una e per le altre la positiva valutazione dei tratti culturali che le contraddistinguono si esprime in enunciati costituzionali e traduzioni legislative puntuali, che si propongono di conferire strumenti utili al mantenimento di identità minoritarie per certi aspetti ‘distinte’[22].
Nel quadro di un federalismo asimmetrico, di un bilinguismo ufficiale e di una difesa dell’eredità indigena “blindata” nelle possibilità di modifica dei Trattati, la politica di diffuso multiculturalismo intrapresa nei riguardi delle comunità di immigrati ha preso la forma di misure ugualmente dettate dall’apprezzamento delle affiliazioni particolari, ma certamente più blande[23]. I programmi adottati in questo ambito a livello federale e provinciale rispondono a finalità che in parte si allontanano da quelle pensate per le minoranze nazionali; essi rispondono a un duplice ordine di obiettivi, strettamente collegati: a) sostegno dei gruppi etno-culturali nel mantenimento e nello svolgimento dell’identità culturale che li contraddistingue; b) realizzazione delle condizioni sostanziali per il pieno inserimento socio-culturale dei loro membri. La posizione multiculturalista canadese si concreta, dunque, in una strategia che tende a integrare una predisposizione al riconoscimento della plurima composizione culturale del Paese (art. 27 della Carta) con una contemporanea pulsione all’attuazione dell’equality provision (art. 15) - intesa nel suo significato “positivo” (eguaglianza sostanziale) oltre che “negativo” (non-discriminazione). L’intreccio di queste due sfere decisionali intende portare, da un lato, all’eliminazione delle barriere che - nei più disparati settori (lavoro, istruzione, commercio) – ostacolano l’espressione di vincoli culturali di minoranza, mentre dall’altro si prefigge il raggiungimento di una partecipazione delle comunità minoritarie che non sia solo culturale, bensì anche sociale, politica ed economica. Resta però da sottolineare che - a differenza degli enunciati riguardanti la minoranza francofona e le minoranze indigene - le suddette finalità, seppur molto ampie, sono espresse da disposti costituzionali che s’intendono programmatici; non dunque immediatamente attributivi di diritti, ma condizionati all’intervento del legislatore.
Ciò nonostante, la spinta multiculturalista verso un allargamento del tessuto identitario nazionale non è rimasta lettera morta, ma ha determinato una decisa vocazione di tutti gli apparati decisionali a considerare l’importanza che anche i migranti attribuiscono alle proprie radici culturali. La propensione a soppesare i significati ascritti all’appartenenza comunitaria e la disponibilità a impegnarsi nella ricerca di accorgimenti culturalmente orientati può a buon diritto ritenersi non soltanto una proprietà artificiosamente ricercata dall’assetto istituzionale, ma un elemento ormai entrato a far parte dell’identità collettiva dei canadesi. E difatti, proprio in virtù del differente e più marcato favor verso le comunità particolari e le loro istanze di riconoscimento, l’identità nazionale è percepita e vissuta come profondamente diversa da quella statunitense; l’intreccio di differenti affiliazioni, in cui i singoli individui si trovano coinvolti, costituisce un dato assodato che, anzichè essere negato o dissimulato, è oggetto di costante ed esplicita valutazione. Manca, pertanto, nell’identità canadese – così come si è andata costruendo in seguito alle pressioni delle minoranze nazionali prima e dei gruppi di immigrati poi – un’aspirazione di tipo universalistica e conformativa, che continua invece a riproporsi in quella americana; sembra al contrario prevalere una connotazione particolaristica di quell’identità, che la stessa Carta dei diritti, seppur con accenti e modalità differenti, lascia presupporre.
Nondimeno, l’importanza ascritta ai vincoli comunitari - e il ruolo spesso decisivo che essi giocano nella distribuzione e modulazione di risorse e beni pubblici – è anche motivo per la raffigurazione del Canada secondo l’immagine del “mosaico etnico”; ad essa si ricorre per sottolineare in negativo la connotazione articolata di un’identità nazionale, che a volte fatica ad emergere nella sua condivisione. L’immagine mette sì in evidenza la varietà di gruppi che ne compone il sostrato sociale, ma mostra altresì il pericolo di eccessiva frammentazione che deriva da un’iper-valutazione delle appartenenze lato sensu culturali. Il collante del mosaico è difatti ritenuto sotto costante rischio di disfacimento, a causa di una tensione esasperata verso la multiculturalità e di un’affermazione prescrittiva dei suoi contenuti, che possono produrre indirette torsioni isolazioniste; un’accoglimento delle istanze identitarie, che si mostri debole nelle premesse teoriche e superficiale nell’approfondimento delle loro complessive implicazioni, può in via riflessa determinare un atteggiamento di auto-referenzialità nei gruppi che se ne avvantaggiano, irrigidendone l’inclinazione alla separatezza all’esclusivismo. Non solo; la predisposizione dell’ordinamento a favorire la pluralità di vincoli che i singoli individui mantengono, se attuata in maniera indistinta e sommaria, può dimostrarsi nient’affatto ‘inclusiva’ negli esiti, perchè incapace di riconoscere le disparità e gli squilibri che contrassegnano le posizioni di partenza dei diversi gruppi. Il carattere flessibile dell’identità nazionale rischia, in tal senso, di mostrarsi non per un’effettiva inclusione al suo interno degli apporti altri, ma per una loro meno impegnativa – e forse illusoria - collocazione su un piano di mera prossimità.
 
5. Lo ‘spazio’dei migranti. L’introduzione del tema dell’identità nazionale nelle discussioni sull’immigrazione e sulle sue problematiche è operazione frequente e variamente sostenuta; essa tende a riproporsi con maggiore intensità in conseguenza dell’aumento e del cambiamento dei flussi migratori, fungendo spesso da supporto implicito ai provvedimenti che ne selezionano qualità e portata. L’idea di un rapporto inversamente proporzionale tra i due termini del discorso – nel senso che l’una (l’immigrazione) sarebbe pericolosa per l’altra (l’identità nazionale) – tende, però, spesso a rimanere sul piano delle enunciazioni apodittiche, facendo di un carattere di supposta auto-evidenza la forza di asserzioni tutt’altro che scontate. La sostenibilità di una tale correlazione - nei termini oppositivi in cui viene di norma presentata – è, al contrario, oltremodo discutibile, in considerazione sia degli squilibri e delle esclusioni che quella congettura rischia di condonare, sia delle preclusioni che, in maniera del tutto parziale, è in grado di determinare. L’accento che con insistenza viene posto sui profili dell’immigrazione legati all’identità nazionale si mostra invero ambiguo, nella misura in cui fa proprio uno standard di giudizio univoco e nient’affatto uniforme; la plausibilità degli argomenti adottati viene obliterata nel momento in cui non se ne riconoscono per intero le più ampie implicazioni, ma se ne circoscrive la validità solo alle ripercussioni che si è interessati a evidenziare. In proposito, il cammino accidentato intrapreso dagli Stati Uniti e dal Canada su questi temi e le smentite che le iniziali posizioni assimilazioniste hanno conosciuto offrono un prezioso banco di prova per quelle supposizioni, consentendo di smascherare dall’esterno i diversi interessi e le perverse convenienze che ne sono alla base.
Qualora, pertanto, si decida di approfondire la verosimiglianza di quel legame, a più complesse conclusioni sembra doversi giungere quando si sia spinti dalla suggestione - qui accolta - secondo cui nello “spazio” occupato e frequentato dai migranti vi sia un’eccedenza di significati rispetto alla mera dislocazione fisica dei loro corpi e che pertanto le problematiche riconducibili alla delimitazione di questo spazio siano molto più ampie e varie di quanto si sia portati a credere. La dimensione di tale spazio è questione non solo di estensione e quantità ma, in aggiunta, di spessore e intensità; la sua portata è rilevabile anche per una valenza ideale, che trascende la definizione di valichi “materialmente” spaziali. L’indicazione dei termini entro cui aprire all’immigrazione e dei confini entro cui mantenerla molto dipende da una serie di sottintesi, in ordine alle implicazioni che da essa derivano per l’identità nazionale e alla misura entro cui consentire alla sua trasformazione per via dell’ingresso di nuovi soggetti; un ingresso sul territorio nazionale che si pone solo quale preludio al successivo e ancor più significativo passaggio nel terreno delle deliberazioni politiche, sociali e culturali. Non bisogna, pertanto, sottovalutare che, dato un contesto nazionale, i provvedimenti presi e gli orientamenti seguiti in materia di immigrazione possono essere essi stessi determinativi di un’identità mitizzata, prim’ancora che realizzata; non è cioè da escludersi che attraverso di essi ci si proponga di disegnarne i contorni, così da lasciare fuori ciò che si ritiene pregiudizialmente inidoneo a farne parte. In tal senso, le decisioni adottate in questi ambiti non intendono porsi soltanto a difesa di un’unità che si da’ per scontata, ma aspirano nel contempo a indirizzarne gli sviluppi verso certe rotte; nella misura in cui il migrante viene percepito come portatore di un’identità altra e tanto più di questa si segnali la forza che deriva dall’essere in gruppo, conseguenza di una siffatta intuizione può essere una politica che calibra l’apertura delle fronterie sul grado di assimilabilità dei migranti e sulla tollerabilita’ dei loro apporti all’identità nazionale.
In definitiva, prim’ancora di porre l’identità nazionale come precondizione conformativa dell’immigrazione ammessa, è bene soffermarsi a riflettere sulla caratterizzazione – statica o dinamica - che di quella si pensa di assumere e, soprattutto, sulla misura entro cui onestamente si ritiene di poterla adoperare per la preservazione di confini che, se si pretendono mobili per alcuni, diventano allora mobili per tutti.
 
 
 


[1] Cfr. M. TUSHNET, Defending Korematsu?: Reflections on Civil Liberties in Wartime, in Wisconsin L. R., 2003, 273; P. O. GUDRIDGE, Remember Endo?, in Harvard L. R., 2003, 1933.

[2]  La letteratura è, al riguardo, ormai ampia; si rinvia in particolar modo a D. COLE, Enemy Aliens, in Stanford L. R., 2002, 953; H. MOTOMURA, Americans in Waiting. The Lost Story of Immigration and Citizenship in United States, Oxford, Oxford University Press, 2006, 174. Per il Canada vedi invece ROACH K., Did September 11 Change Everything? Struggling to Preserve Canadian Values in the Face of Terrorism, in McGill L. J., 2001-2002, 944.

[3] Il racial profiling consiste nell’attività di controllo, indagine ed eventuale detenzione condotta dalle autorità di pubblica sicurezza non sulla base del comportamento effettivamente tenuto dal soggetto o delle testimonianze raccolte, ma sulla base di congetture orientate dalla sua appartenenza a determinati gruppi etnici o razziali (di norma, quelli minoritari!). Sull’uso di tale prassi successivamente agli attacchi dell’11 settembre vedi D. A. HARRIS, Profiles in Injustice. Why Racial Profiling Cannot Work, New York, The New Press, 2003, 223:H. MOTOMURA, Immigration and We The People After September 11, in Alb. L. R., 2002-2003, 413; S. CHOUDHRY, K. ROACH, Racial and Ethnic Profiling: Statutory Discretion, Constitutional Remedies, and Democratic Accountability, in Osgoode Hall L. J., 2003, 1.

[4] Relativamente alle decisioni adottate dalla Corte suprema americana in merito all’uso di misure non garantiste nei confronti dei sospettati di terrorismo (rispettivamente, cittadini ameicani, cittadini stranieri e cittadini americani aventi origini portoricane) si rinvia alle seguenti sentenze: Hamdi v. Rumsfeld, 542 U.S. 507 (2004); Rasul v. Bush, 542 U.S. 466 (2004); Rumsfeld v. Padilla, 542 U.S. 426 (2004).

[5] Cfr. E. GELLNER, Nazioni e nazionalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992; H. BHABHA, Nazione e narrazione, Roma, Meltemi, 1997.

[6] Cfr. S. RUSHDIE, In Good Faith, in ID., Imaginary Homelands, London, Penguin Books, 1991, 404.

[7] Cfr. H. A. GIROUX, Insurgent Multiculturalism and the Promise of Pedagogy, in D. T. GOLDBERG (a cura di),  Multiculturalism: A Critical Reader, Cambridge, Blackwell, 1994, 325.

[8] Cfr. H. K. BHABHA, Culture’s in between,in D. Bennett (a cura di), Multicultural States, cit., 29.

[9] Cfr. H. PALMER, Mosaic versus Melting Pot?: Immigration and Ethnicity in Canada and the United States, in International J., 1976, 31, 488; S. V. LASELVA, Mosaic and Melting-Pot: The Dialectic of Pluralism and Constitutional Faith in Canada and the United States, in AA. VV., Canada: The State of the Federation 2001, a cura di M. Telford, H. Lazar, Montreal & Kingston, McGill-Queen’s University Press, 2001, 293.

[10] Per il concetto di ‘comunità immaginata’ il riferimento è naturalmente a B. ANDERSON, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 2003. Sull’angloconformismo come patto assimilatorio vedi J. STRATTON, I. ANG, Multicultural imagined comunities: cultural difference and national identities in the USA and Australia, in D. Bennett (a cura di), Multicultural States. Rethinking difference and identity, Londra, Routledge, 1998, 135; sulla non disinteressata incapacità dei WASPs (White Anglo-Saxon Protestants) a considerarsi essi stessi parte di un gruppo razializzato vedi H. J. GANS, The American Kaleidoscope, Then and Now, in T. Jacoby (a cura di), Reinventing the Melting Pot, New York, Basic Books, 42.

[11] Nella prima metà del secolo scorso l’adozione di un tale discrimen ha raggiunto ad esempio il suo apice con l’introduzione negli Stati Uniti di un sistema di quote di immigrazione divise per nazionalità; il sistema di calcolo delle quote, eliminato solo nel 1965, era teso a non alterare l’equilibrio ‘etnico’ fino a quel momento esistente, escludendo dal calcolo le ultime ondate di immigrazione provenienti dall’Europa centrale e meridionale  (Immigration Act del 1924).

[12] Si rinvia in proposito a N. GLAZER, D. P. MOYNIHAN, Beyond the melting pot : the Negroes, Puerto Ricans, Jews, Italians, and Irish of New York City, Cambridge, MIT Press, 1974;N. GLAZER, Ethnic Dilemmas: 1964/1982, Cambridge, Harvard University Press, 1983.

[13] Cfr. H. J. GANS, op. cit., 40.

[14] Cfr. H. A. GIROUX, The politics of national identity and the pedagogy of multiculturalism in the USA, in D. Bennett (a cura di), Multicultural States, cit., 188.

[15] Cfr. A. M. SCHLESINGER, The Disuniting of America, New York, Norton, 1992, 15.

[16] Cfr. N. GOTANDA, A Critique of “Our Constitution Is Color Blind”, in Stanford L. R., 1991/1992, 1; D. KENNEDY, A Cultural Pluralist Case for Affirmative Action in Legal Academia, in Duke L. J., 1990, 705.

[17] Nella vasta letteratura sull’identity politics si rinvia qui in generale a I. M. YOUNG, Justice and the Politics of Difference, Princeton, Princeton University Press, 1990.

[18] A tale formula significato in parte diverso è, ad ogni modo, attribuito da H. M. KALLEN, Culture and Democracy in the United States, New York, Arno Press, 1970, e da M. WALZER, Che cosa significa essere americani, Venezia, Marsilio, 1992.

[19] Cfr. Wisconsin v. Yoder, 406 US 205 (1972) e Santa Clara Pueblo v. Martinez, 436 US 49 (1978). Tuttavia, anche per il caso Yoder sembrano potersi avanzare dubbi sul fatto che l’accoglimento giudiziale della richiesta avanzata dalla comunità Amish (ossia l’esenzione per i suoi membri dall’obbligo scolastico al compimento del quattordicesimo anno, anzichè al sedicesimo) sia stato determinato dalla volontà di riconoscerne i particolari tratti identitari e non, piuttosto, dalla sottintesa convinzione della piena conformità dei loro ideali con quelli della cultura dominante: cfr. M. MINOW, Not Only for Myself. Identity, Politics and the Law, New York, New Press, 1997, 111.

[20] Cfr. S. VAN PRAAGH, The Education of Religious Children: Families, Communities and Constitutions, in Buffalo L. R., 1999, 1345.

[21] Vedi in particolare  artt. 23, 25 e 35 della Canadian Charter of Rights and Freedoms (1982).

[22] Per la minoranza francofona (e cattolica) del Québec, ad esempio, i mezzi accordati a partire dal British North America Act (1867) per consentire ai suoi membri di mantenere il relativo retaggio culturale insistono prevalentemente sull’elemento linguistico e sul significato culturale che in esso si rinviene; in quest’ottica, particolare attenzione è prestata al campo dell’istruzione scolastica e ai correlati aspetti che possono ritenersi rilevanti nel mantenimento e nella trasmissione della lingua materna (strutturazione del sistema scolastico, definizione dei programmi, finanziamento delle scuole confessionali minoritarie). Latitudini più estese ricoprono invece gli impianti federali e provinciali di tutela del patrimonio culturale indigeno, il cui carattere distintivo è tenuto presente sotto una prospettiva più ampia; in questo caso, l’ordinamento sembra piuttosto preoccuparsi della salvaguardia di uno stile di vita complessivamente estraneo a quello della società maggioritaria e pertanto bisognoso di accorgimenti che permettano agli appartenenti di continuare a esercitare le pratiche che lo sostanziano. In tale direzione si muovono, ad esempio, i trattati che riconoscono alle First Nations autonomia e diritti territoriali, fishing e hunting rights, nonché poteri di definizione delle regole di appartenenza alla comunità.

[23] Cfr. H. PALMER, op. cit., 516; J. E. MAGNET, What Does “Equality between Communities” Mean, in Supreme Court L. R., 2003, 277; P. RESNICK, The European Roots of Canadian Identity, Broadview Press, Peterborough, 2005, 58.






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