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Il gruppo di persone che ha promosso questo sito si propone di sollecitare il dibattito tra gli studiosi delle diverse discipline interessate alle ragioni del costituzionalismo, operando entro una prospettiva dichiarata. Il nostro "punto di vista", le specifiche ragioni di politica culturale e la professione di metodo alla base di quest'iniziativa sono rese esplicite in due editoriali Le ragioni di una rivista nuova, di Gianni Ferrara e Le ragioni di un impegno nuovo, di Gaetano Azzariti...(continua)
 
13/11/2006
Può la rieducazione assumere connotati “nazionalistici”? Appunti sulla condizione giuridica del detenuto privo di permesso di soggiorno.

di Marco Ruotolo


1.              La condizione dello straniero detenuto nelle carceri italiane: il dato quantitativo e i suoi riflessi sul piano del trattamento penitenziario.
Per anni si è discusso del problema del sovraffollamento delle carceri, sottolineando la notevole incidenza della presenza degli stranieri sul dato complessivo della popolazione detenuta.
In effetti, al 30 giugno 2006, su 61264 detenuti, ben 20221 erano stranieri, di cui 8066 europei (con una netta prevalenza di albanesi e rumeni, per un numero complessivo di 4969), 9748 africani (con una prevalenza di marocchini: 4311), 962 asiatici e 1410 americani (con una prevalenza di sudamericani: 1092). Dai dati messi a disposizione dal DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), aggiornati al 30 giugno 2006, emergeva, dunque, un quadro preoccupante, con una popolazione carceraria eccedente la capienza degli istituti (61264 detenuti a fronte di una capienza “regolamentare” di 43219) e formata per circa 1/3 da stranieri.
A seguito dell’entrata in vigore della legge 31 luglio 2006, n. 241, recante “Concessione di indulto”, il numero complessivo di detenuti è sceso a 38847, di cui 12280 stranieri (dato DAP del 31 agosto 2006). Tra gli stranieri attualmente detenuti vi sono in prevalenza albanesi (2014), marocchini (2246), rumeni (1488) e tunisini (1067). In sostanza, come è facile desumere dai dati sopra riportati, a fronte di una forte riduzione della popolazione carceraria, il rapporto stranieri-italiani non si è sostanzialmente modificato in termini percentuali (dal 33% al 31% circa).
Il dato quantitativo assume rilievo fondamentale per una riflessione sui diritti dei detenuti e in particolare sulla situazione dei ristretti stranieri. Non v’è dubbio, infatti, che il problema del sovraffollamento abbia messo in discussione non solo la tutela effettiva ma anche, alla radice, la stessa possibilità di esercizio di diritti pur in astratto riconosciuti ai detenuti dalla normativa penitenziaria, contribuendo a determinare quel notevole divario “tra la legge scritta e le sue possibilità di concreta attuazione sul terreno delle strutture, dell’organizzazione, del personale” rilevato dalla dottrina più attenta [V. Grevi (a cura di), L’ordinamento penitenziario dopo la riforma, Padova, 1988, 4]. Divario che può essere riscontrato addirittura con riferimento alla effettiva realizzazione delle linee portanti della riforma penitenziaria operata con la legge n. 354 del 26 luglio 1975 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), a partire dall’idea base di un trattamento penitenziario individualizzato, modellato sulle specifiche condizioni del detenuto e in grado di rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto (artt. 1, 6° comma, e 13, 1° comma, ord. penit.). Trattamento che, ai sensi della legge appena richiamata, deve essere “conforme ad umanità”,  assicurare il “rispetto della dignità della persona” (art. 1, 1° comma, ord. penit.) e improntarsi ad “assoluta imparzialità senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose” (art. 1, 2° comma, ord. penit.). Esso deve tendere, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale dei detenuti (art. 1, 6° comma, ord. penit.) e va attuato “avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive” (art. 15, 1° comma, ord. penit.).
È fin troppo scontato rilevare che in una situazione di sovraffollamento venga revocata in dubbio la concreta efficacia (se non la stessa possibilità di progettazione) di un trattamento penitenziario informato ai principi di cui sopra. Le opportunità trattamentali si riducono drasticamente e di solito non vengono colte dai detenuti stranieri, con inevitabili ripercussioni sul processo di risocializzazione, stante anche l’incidenza della valutazione della positiva partecipazione alle attività di cui il trattamento si compone ai fini della concessione di una serie di provvedimenti “di avvicinamento” alla condizione di completa libertà (permessi premio, licenze, ecc.). In siffatta situazione si può dire che il trattamento penitenziario, per come configurato dalla legge del 1975, non venga nei fatti garantito al detenuto straniero; il che vuol dire, stando a quanto affermato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, che non viene garantito un diritto, aspetto del più generale “diritto alla rieducazione”, cui corrisponde “un obbligo di fare per l’amministrazione penitenziaria” (Corte di Cassazione, sent. 24 marzo 1982, in Rass. pen. crim., 1983, 872; nonché Corte di Cassazione, sez. I, sent. 29 marzo 1985, in Cass. pen., 1986, 1178 ss.).
Ora che, nei termini sopra descritti, il problema del sovraffollamento appare superato, sembra aprirsi la strada per una politica penitenziaria effettivamente mirata ai bisogni, peraltro assai diversificati, della popolazione detenuta straniera. Tenendo conto effettivamente, come richiesto dall’art. 35 del Regolamento penitenziario (d.P.R. n. 230 del 30 giugno 2000), delle “loro difficoltà linguistiche” e delle “differenze culturali”, nonché favorendo, tra l’altro, l’“intervento di operatori di mediazione culturale”.
Più in generale, anche al fine di evitare che il problema del sovraffollamento si riproponga nella sua drammaticità, con le descritte, specifiche, ripercussioni sulla posizione del detenuto straniero, è da auspicare un significativo mutamento delle politiche penali che privilegi il ricorso, nella misura più ampia possibile, a sanzioni non detentive, le quali, però, vanno rese effettive e proporzionate al reato commesso. Ciò non significa contraddire l’equazione hegeliana per cui il delitto nega il diritto, la pena nega il delitto, la pena afferma il diritto. Significa, piuttosto, negare la presunta equazione pena = carcere, che sembra ancora viva in una larga parte dell’opinione pubblica, convinta, in un’ottica esclusivamente repressiva, che il carcere sia l’unico strumento adatto a ripristinare la legalità violata. Sarebbe auspicabile, finalmente, un mutamento del modello di riferimento delle politiche penali da identificare nella “sicurezza dei diritti” piuttosto che nel “diritto alla sicurezza”, ovvero in una “politica integrale di protezione e soddisfazione dei diritti umani e fondamentali” che vede il diritto penale e gli indirizzi rivolti alla prevenzione dei delitti come elementi non già ad essa sostitutivi ma sussidiari. Lo aveva ben sottolineato Baratta, quando rilevava che, se si volesse affermare la primazia della “sicurezza”, in quanto bisogno umano, dovrebbe poi ammettersi che l’esigenza ad essa sottesa abbraccia un campo ben più ampio di quello della lotta contro la criminalità, comprendendo anche e soprattutto la lotta contro l’emarginazione e l’esclusione per la realizzazione di una società che consenta l’espressione delle potenzialità di sviluppo degli individui [A. Baratta, Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti?, in  S. Anastasia – M. Palma (a cura di), La bilancia e la misura, Milano, 2001, 23]. È evidente in queste riflessioni l’influsso dell’insegnamento di Bricola relativo alla “sussidiarietà” del diritto penale. Insegnamento chiaramente ispirato ad un approccio ove la Costituzione, anziché mero limite, viene intesa come fondamento della pena e del diritto penale, che trova espressione nel principio del diritto penale come extrema ratio. In base a questo principio, come è noto, il legislatore sarebbe tenuto a predisporre verifiche di tutela extrapenale o comunque a saggiare l’impossibilità del ricorso a tecniche di tutela extrapenale prima di introdurre nuove incriminazioni (mi limito a richiamare l’ormai classico studio di F. Bricola, Teoria generale del reato, in Novissimo Digesto Italiano, XIV, Torino, 1973, 7 ss.).
 
2. L’esecuzione della pena nei confronti dello straniero: aspetti peculiari. A) La possibilità del trasferimento nello Stato di provenienza.
In linea di principio la posizione giuridica del detenuto straniero dovrebbe essere assimilabile a quella del recluso italiano, specialmente sul piano dei diritti che la normativa penitenziaria riconosce al detenuto in quanto tale. È per questa ragione che, anziché proporre nuovamente un quadro delle situazioni giuridiche soggettive di cui sono (o possono essere) titolari i detenuti (v. il mio Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002), saranno direttamente illustrati due aspetti peculiari che riguardano l'esecuzione della pena nei confronti del detenuto straniero: A) la possibilità del trasferimento nello Stato di provenienza; B) il problema della applicabilità delle misure alternative nei confronti dello straniero privo di permesso di soggiorno. Con l'obiettivo di sviluppare qualche riflessione sull'applicazione del concetto di "rieducazione" del condannato con particolare riferimento alla situazione del detenuto straniero che non abbia legittimo titolo di permanenza in Italia.
A tale fine deve essere subito sottolineato che la persona detenuta in uno Stato diverso da quello di cui sia cittadina può chiedere di espiare la pena nello Stato di provenienza. In base alla Convenzione per il trasferimento delle persone condannate (adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 e ratificata con l. 25 luglio 1988, n. 334), una persona condannata può essere trasferita se ricorrono le seguenti condizioni: a) la persona condannata è cittadino dello Stato in cui la persona condannata può essere, o è già stata trasferita, per scontare la pena; b) la sentenza è definitiva; c) la durata della pena che la persona condannata deve ancora scontare è di almeno sei mesi alla data di ricevimento della richiesta di trasferimento, o indeterminata; d) la persona condannata - o, allorquando in considerazione della sua età o delle sue condizioni fisiche o mentali uno dei due Stati lo ritenga necessario, il suo rappresentante legale - acconsente al trasferimento; e) gli atti o le omissioni per i quali è stata inflitta la condanna costituiscano reato ai sensi della legge dello Stato di provenienza o costituirebbero reato se fossero commessi sul suo territorio; f) lo Stato di condanna e lo Stato di provenienza sono d'accordo sul trasferimento.
In casi eccezionali, le Parti possono concordare il trasferimento anche se la durata della pena che la persona condannata deve ancora scontare è inferiore a quella indicata supra sub c).
Particolare rilievo è da attribuire alla previsione dell’assenso al trasferimento da parte del condannato, la quale andrebbe letta come rivolta a favorire nella misura più ampia possibile il reinserimento sociale del detenuto nel Paese di provenienza, impedendo che la Convenzione venga utilizzata a fini esclusivamente repressivi (così A. Peccioli, Il ruolo dell’intervento giurisdizionale nel trasferimento all’estero dell’esecuzione della pena, in Diritto penale e processo, n. 10/1999, 1273). Non a caso, l’art. 742 cod. proc. pen. prevede che l’esecuzione all’estero della sentenza di condanna può essere domandata o concessa se “idonea a favorire .. il reinserimento sociale” del detenuto. La richiesta di esecuzione all’estero della condanna deve essere effettuata dal Ministro della giustizia, previa deliberazione favorevole della Corte d’appello, ricorribile per Cassazione. Come sottolineato dalla Cassazione, alla Corte d’appello compete soltanto l’accertamento delle condizioni che rendono legittimo il trasferimento all’estero della persona condannata, mentre l’accordo di cooperazione in materia penale con lo Stato estero rientra nella competenza esclusiva del Ministro della giustizia (Cass. Pen., sez. IV, 1° febbraio 1999, Van Dijk, in Diritto penale e processo, n.10/1999, 1271 ss.). Peraltro, fermo il divieto di applicare una misura più grave per natura o durata della sanzione imposta nello Stato di condanna o comunque eccedente il massimo previsto dalla legge dello Stato di esecuzione, non esiste divieto di imporre una pena in misura meno grave rispetto a quella dello Stato di provenienza. Avvenuto il trasferimento, lo Stato di condanna mantiene la competenza soltanto in ordine ad un eventuale giudizio di revisione della sentenza e per la concessione della grazia, dell’amnistia o della commutazione della pena (in questi casi la competenza è concorrente con quella dello Stato estero in cui viene eseguita la pena).
Dalle sommarie indicazioni fin qui fornite emerge con chiarezza che lo spirito del trasferimento nello Stato di provenienza è quello di favorire il reinserimento sociale del condannato, diversamente da quanto accade, ad esempio, con riferimento all’istituto dell’estradizione, che risponde ad esigenze di tipo repressivo, o come vedremo tra poco, con riguardo all’espulsione.
 
3. B) L’applicazione delle misure alternative alla detenzione nei confronti dello straniero che non abbia legittimo titolo di permanenza in Italia.
Come è noto, le misure alternative alla detenzione sono finalizzate alla risocializzazione del condannato, a favorire il suo reingresso nel tessuto sociale, “senza distinzione tra società italiana ed estera, dato che la risocializzazione non può assumere connotati nazionalistici, ma va rapportata alla collaborazione fra gli Stati nel settore della giurisdizione” (Cass. Pen., Sez. I, 31 gennaio 1985, n. 315, Ortiz). Esse possono pertanto essere disposte, ove ricorrano le condizioni previste dalla legge, anche nei confronti dello straniero.
Misure alternative (in senso proprio) alla detenzione sono l’affidamento in prova al servizio sociale e la liberazione condizionale. Ove siano rispettate le prescrizioni che ne condizionano la concessione, l’effetto dell’esecuzione di siffatte misure sarà l’estinzione della pena. Da queste misure si differenziano la detenzione domiciliare e il regime di semilibertà, che costituiscono, propriamente, strumenti “modificativi delle modalità di esecuzione delle pene detentive, le quali restano in vita, se pure in forma attenuata” (ovvero “strumenti di diversificazione non alternativa dell’esecuzione delle sanzioni penali”: M. Canepa – S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, VII ed., Milano, 2004, 235).
Ora, rispetto all’applicazione delle misure alternative alla detenzione problemi particolari si pongono con riferimento allo straniero “irregolare”, privo di legittimo titolo di permanenza in Italia.
Anzitutto, appare problematica la qualificazione della figura, introdotta dalla c.d. legge Bossi - Fini, della espulsione come “sanzione alternativa alla detenzione” (v. art. 16, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189). Per come disciplinata – in specie per l’automatismo nella sua applicazione – non sembrerebbe trattarsi di misura alternativa alla detenzione. In effetti l’art. 16, 5° comma, D.lgs. n. 286 del 1998, nella sua attuale formulazione, prescrive che “è disposta l’espulsione” nei confronti dello straniero, identificato, detenuto, che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, 2°comma (espulsione amministrativa), che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni. L’espulsione non può essere disposta nei casi in cui la condanna riguardi delitti di particolare gravità (previsti dall’articolo 407, 2° comma, lett. a, cod. proc. pen., nonché dal Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione).
In base a questa disciplina, l’espulsione, che presuppone l’esistenza di una sentenza di condanna, prescinde del tutto dalla verifica del percorso rieducativo del soggetto e dalla valutazione in ordine alla utilità della misura ai fini della risocializzazione. Ove ricorrano le condizioni indicate, lo straniero che non abbia legittimo titolo di permanenza in Italia deve essere automaticamente espulso. Proprio l’assenza di qualsivoglia contenuto rieducativo della misura induce a propendere per la estraneità della stessa al genus misure alternative, tra le quali tuttavia è annoverata dalla Corte di cassazione (Sez. I, 12 dicembre 2003, n. 518, Reda), che la considera come “misura alternativa alla detenzione prevista allo scopo di ridurre la popolazione carceraria”. Di diverso avviso la Corte costituzionale, che l’ha qualificata - in analogia a quanto già affermato rispetto all’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva disciplinata dal comma 1 dell’art. 16 d.lgs. n. 286 del 1998  (ord. n. 369 del 1999) – come misura a carattere amministrativo, posto che “è subordinata alla condizione che lo straniero si trovi in taluna delle situazioni che costituiscono il presupposto dell’espulsione amministrativa disciplinata dall’art. 13, alla quale si dovrebbe comunque e certamente dare corso al termine dell’esecuzione della pena detentiva, cosicché, nella sostanza, viene solo ad essere anticipato un provvedimento di cui già sussistono le condizioni” (Corte cost., ord., n. 226 del 2004). In questo modo, la Corte costituzionale giunge a dichiarare manifestamente infondata la questione prospettatale, anche con riferimento all’art. 27 Cost., non potendosi applicare ad una misura amministrativa i principi costituzionali in tema di pena. Il che, però, come è stato detto, equivale, nella sostanza, “a dire che la rieducazione non è obbiettivo indefettibile nei confronti degli stranieri” (M. Canepa – S. Merlo, op. cit., 361). Al punto che, come diremo meglio in seguito, lo Stato piuttosto che impegnarsi nella “rieducazione” del condannato clandestino, preferisce rinunciare alla pretesa punitiva pur in presenza di una sentenza di condanna.
Peraltro, secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale, l’espulsione è divenuta di fatto l’unica possibile misura alternativa – ammesso che tale qualificazione sia nella specie corretta – applicabile allo straniero extracomunitario che si trovi in Italia in condizioni di clandestinità. In questo senso può leggersi la sentenza della Cassazione, Sez. I, 17 luglio 2003, Calderon (in Diritto penale e processo, 2003, 1246), ove si afferma la “ontologica incompatibilità tra misure alternative extramurarie ed esecuzione della pena nei confronti dello straniero clandestino”, che troverebbe conferma nell’art. 16 d.lgs. n. 286 del 1998, il quale, in relazione all’espiazione di pene brevi prevede come unica sanzione sostitutiva alla detenzione l’espulsione, cioè una misura che comporta l’allontanamento coattivo del condannato, escludendo la sua permanenza nel territorio dello Stato. Peraltro – si legge ancora nella citata sentenza – “la disparità di trattamento riservato ai cittadini e agli stranieri regolarmente presenti nel territorio dello Stato rispetto ai clandestini trova giustificazione nella differenza delle situazioni giuridiche che ad essi fanno capo”. Il succo del ragionamento della Cassazione è il seguente: l’esecuzione della pena nei confronti del clandestino non può avvenire con modalità tali da comportare violazione o elusione delle norme che configurano detta illegalità; lo status di clandestino, anche se non preclusivo sotto il profilo soggettivo, è oggettivamente ostativo alla applicazione di misure alternative extramurarie, per la radicale incompatibilità con l’osservanza delle norme che disciplinano l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dallo Stato di cittadini appartenenti a Paesi extracomunitari. La menzionata decisione è stata criticata dalla dottrina sotto molteplici aspetti. Alla obiezione, in punto di diritto, secondo la quale “l’applicazione di misure alternative al condannato irregolare non costituisce elusione delle norme sulla permanenza sul territorio dello Stato più di quanto non lo costituisca la pena detentiva”, si accompagna significativamente, in punto di fatto, quella costituita dalla difficoltà (se non impossibilità) di concreta attuazione dei provvedimenti di espulsione, rilievo che si traduce nel “carcere senza alternativa per tutti i soggetti nelle condizioni teoriche di essere espulsi e per i quali tale espulsione non sia attuabile (per mancata cooperazione delle autorità consolari, e simili)” (M. Canepa – S. Merlo, op. cit., 361).
L’indirizzo appena richiamato, che ha trovato conferme nella giurisprudenza successiva, è stato di recente superato da una condivisibile pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (28 marzo 2006, Alloussi, in Guida dir., fasc. 22, 2006, 50 ss.), che ha enunciato il seguente principio di diritto: “In materia di esecuzione della pena detentiva, le misure alternative alla detenzione in carcere (nella specie, l’affidamento in prova al servizio sociale), sempre che ne sussistano i presupposti stabiliti dall’ordinamento penitenziario, possono essere applicate anche allo straniero extracomunitario che sia entrato illegalmente nel territorio dello Stato e sia privo del permesso di soggiorno”. Le Sezioni unite partono dalla considerazione della preminenza dei valori costituzionali della uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, 3° comma, Cost.), alla luce dei quali devono essere lette le disposizioni dell’ordinamento penitenziario sulle misure alternative. Su queste basi, si arriva ad affermare che il giudizio prognostico richiesto per la applicazione delle misure alternative, “attinente alla rieducazione, al recupero e al reinserimento sociale del condannato e alla prevenzione del pericolo di reiterazione di reati, non può considerarsi precluso sulla base di una sorta di presunzione assoluta di inidoneità delle stesse per un’intera categoria di persone, gli stranieri extracomunitari presenti illegalmente in Italia. Tenuto conto dell’effettiva e ampia portata precettiva della funzione rieducativa della pena, la concedibilità, o non, delle misure alternative alla detenzione in carcere non può essere formulata alla stregua di astratte premesse, bensì postula la valutazione, in concreto, delle specifiche condizioni che connotano la posizione individuale dei singoli condannati e delle diverse opportunità offerte da ciascuna misura secondo il criterio della progressività trattamentale”. Come rilevato ancora dalle Sezioni Unite, il diverso orientamento giurisprudenziale, prima richiamato, finiva col negare, “in radice, ogni possibile alternativa extramuraria rispetto al binomio carcere-espulsione”, fondandosi, peraltro, sull’erroneo presupposto del carattere generalizzante ed esclusivo dell’espulsione. Al contrario, in base alla formulazione del 5° comma dell’art. 16 d.lgs.n. 286 del 1998, l’istituto dell’espulsione quale sanzione alternativa alla detenzione non può operare con riferimento a varie situazioni di fatto: nei confronti dello straniero in regime di esecuzione penale che non sia “identificato”, né “detenuto” o debba scontare una pena detentiva, anche residua, superiore a due anni (art. 16, comma 5, primo periodo), ovvero sia stato condannato per “uno o più delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p.” e per “delitti previsti dal presente testo unico” (secondo periodo). Peraltro – aggiungono ancora le Sezioni unite – “l’applicabilità della sanzione, oltre ad essere generalmente esclusa nei casi di divieto di espulsione per le ragioni lato sensu umanitarie indicate dall’art. 19 (art. 16, comma 9), ben potrebbe essere altresì paralizzata, di fatto, da particolari circostanze che ne impediscano la concreta esecuzione”. In questi casi “è proprio l’esecuzione penale, anche nelle forme alternative al regime carcerario”, a costituire il “titolo” che legittima la permanenza nel territorio dello Stato delle categorie di soggetti sopra menzionati.
Significativamente le Sezioni unite concludono che “dall’analisi logico-sistematica e da una lettura costituzionalmente orientata della normativa penitenziaria e di quella in materia di immigrazione” è lecito desumere che, “laddove il Tribunale di sorveglianza abbia accertato rigorosamente l’oggettiva sussistenza dei presupposti stabiliti per la concessione, a favore dello straniero condannato che ne abbia fatto richiesta e che ne sia ‘meritevole’, di una delle misure alternative alla detenzione in carcere previste dagli artt. 47 e segg. ord. penit., è destinata a dispiegarsi nella sua pienezza ed effettività, per il rilievo costituzionale che rivestono, la forza precettiva dei principi in materia di pari dignità della persona umana e di funzione rieducativa della pena”.
 
4. Sul significato della “rieducazione” del condannato, con particolare riferimento alla situazione del detenuto straniero privo di permesso di soggiorno.
Alla luce dei richiamati aspetti peculiari della esecuzione della pena nei confronti del detenuto straniero, è giunto il momento di sviluppare qualche riflessione sul concetto di rieducazione e sulla applicabilità dello stesso nei confronti, in particolare, del soggetto extracomunitario clandestino. Occorre prendere le mosse dall’affermazione per cui la pena, come pure le misure alternative ad essa (in quanto, comunque, forme di espiazione della pena), deve tendere alla rieducazione del condannato. L’art. 27 Cost. non prevede distinzioni di sorta, per cui non dovrebbe rilevare il fatto che il detenuto straniero, a pena espiata, debba eventualmente essere espulso in quanto privo di permesso di soggiorno. Tant’è vero che una prassi amministrativa ormai consolidata ammette che i detenuti stranieri, anche privi di permesso di soggiorno, possano essere ammessi alle misure alternative o al lavoro all’esterno ex art. 21 ord. penit. (v., in particolare, le circolari Min. lavoro, 15/3/1993, n. 27 e Min. Giustizia, 23/3/1993, n. 691858), sulla base del presupposto che proprio il provvedimento del Tribunale di sorveglianza con il quale si concede la misura sia titolo idoneo a sospendere l’esecuzione dell’espulsione amministrativa, legittimando la permanenza dello straniero nel territorio italiano. Siffatto orientamento è stato, come detto, revocato in dubbio da una certa giurisprudenza di legittimità, che, di fatto, ha optato per una lettura del concetto di rieducazione in una dimensione esclusivamente nazionale, esaltando, probabilmente, le indicazioni emergenti dall’impianto della c.d. legge Bossi-Fini tendenti a limitare l’impegno dello Stato italiano nella rieducazione dei condannati ai soli soggetti che avessero titolo di legittima permanenza nel territorio. In sostanza, come è stato detto, si è optato per un concetto di “rieducazione nazionale”, in contrapposto a quello di “rieducazione universale”, che postula, evidentemente, un impegno dello Stato italiano nella rieducazione di tutti i condannati a prescindere, dalla presenza o meno di un titolo di legittima permanenza nel territorio (M. Canepa – S. Merlo, op. cit., 360).
È costituzionalmente ammissibile siffatta opzione? Per rispondere occorre forse rispondere prima ad un’altra domanda: cosa vuol dire che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”?
Una importante risposta a quest’ultimo quesito la si rinviene nella giurisprudenza costituzionale. A seguito di una iniziale limitazione della portata stessa del finalismo rieducativo, ridotto nell’alveo del trattamento penitenziario, che concreta l’esecuzione della pena (v., ad es., sent. n. 12 del 1966), la Corte costituzionale si rende conto di aver trascurato “il novum contenuto nella solenne affermazione della finalità rieducativa”, “assunta in senso marginale o addirittura eventuale, e, comunque, ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario” (sent. n. 313 del 1990). Il ripensamento della Corte appare radicale e può essere riassunto nelle seguenti affermazioni: a) “in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stessa della pena”; b) la “tendenza” a rieducare è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”; c) il principio della rieducazione “è ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il ‘principio di proporzione’ fra qualità e quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall’altra”; d) “il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie” (sent. n. 313 del 1990). Ancor prima, la Corte costituzionale aveva avuto modo di individuare come “fine ultimo e risolutivo della pena” quello di “tendere al recupero sociale del condannato”, ritenendo, nella assai nota sent. n. 204 del 1974, che, nella specie, l’istituto della liberazione condizionale avesse assunto, con l’art. 27, 3° comma, Cost., “un peso e un valore più incisivo di quello che non avesse in origine”, rappresentando, in sostanza, “un peculiare aspetto del trattamento penale”, il cui “ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle”. È “sulla base del precetto costituzionale” che sorge “il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo” (sent. n. 204 del 1974). Si pongono così le basi per l’affermazione di un diritto alla rieducazione del detenuto che, come già affermato nella sent. n. 204 del 1974, deve trovare nella legge “una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale” e la cui fruizione, come affermato nella più recente sent. n. 376 del 1997, non può essere preclusa nemmeno ai soggetti sottoposti al trattamento differenziato di cui all’art. 41-bis, 2° comma, ord. penit. Lo stesso trattamento penitenziario viene così a configurarsi, come già rilevato con riferimento alla giurisprudenza della Cassazione, quale vero e proprio diritto per il detenuto, aspetto del più generale “diritto alla rieducazione”, cui corrisponde “un obbligo di fare per l’amministrazione penitenziaria”. Si giunge in tal modo a configurare come diritti sia la pretesa del detenuto ad essere destinatario di un “programma di trattamento”, che trova il suo fondamento legislativo nell’art. 13, 3° comma, ord. penit., sia la pretesa del detenuto a fruire delle misure alternative alla detenzione e delle misure premiali, qualora sussistano le condizioni prescritte dalle leggi.
Dall’ambigua formula per cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” (che si presta a letture molteplici che vanno dal docere al ducere) si sono dunque ricavati, nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, dei significati “positivi” e talora “propulsivi” nel processo di “giurisdizionalizzazione” della esecuzione penale, ribadendosi in più occasioni la necessità di assicurare la tutela giurisdizionale nei confronti di tutti gli atti dell’amministrazione penitenziaria (v., di recente, Corte cost., sentt. nn. 26 del 1999 e 526 del 2000).
Occorre, allora, finalmente chiedersi se lo Stato italiano possa limitare il suo impegno nella rieducazione ai soli soggetti che abbiano titolo di legittima permanenza nel territorio. Il che significherebbe negare per alcuni soggetti la possibilità stessa della fruizione di un diritto che è costituzionalmente connesso all’esecuzione della pena. La risposta da ultimo data dalla Cassazione a Sezioni unite appare, nella sua nettezza, assolutamente convincente. La funzione rieducativa e risocializzatrice è, in base alla Costituzione, propria della pena. Una differenziazione, sul punto, basata esclusivamente sulla nazionalità si porrebbe in insanabile contrasto non solo con l’art. 27, ma anche con i principi di eguaglianza e pari dignità sociale di cui agli artt. 2 e 3 Cost. La “risocializzazione” non può, per usare le parole delle Sezioni unite della Cassazione, assumere “connotati nazionalistici”.
Il punto è, però, che la legislazione più recente che ha interessato il tema qui trattato sembra essere andata proprio in una direzione opposta a quella richiesta dai richiamati principi costituzionali. In un certo senso, il principio-guida emergente dalla (e condizionante la) legislazione ordinaria è stato quello per cui le pene nei confronti dei clandestini non devono tendere alla rieducazione del condannato. A ben vedere, infatti, la negazione della funzione rieducativa si esprime già, in radice, nell’opzione generale per l’espulsione in luogo della esecuzione della pena nelle ipotesi contemplate dall’art. 16 del d.lgs. n. 286 del 1998 (come modificato dalla legge n. 189 del 2002). Pur di non impegnarsi ad offrire quelle opportunità trattamentali e no che dovrebbero agevolare il processo di risocializzazione, lo Stato preferisce rinunciare all’esercizio in concreto della potestà punitiva. Perché rieducare, se poi, al termine dell’esecuzione della pena detentiva, lo straniero dovrà essere espulso? La stessa Corte costituzionale finisce per aderire a questa logica, quando afferma che con l’espulsione ex art. 16, “nella sostanza, viene solo ad essere anticipato un provvedimento di cui già sussistono le condizioni” (ord. n. 226 del 2004). Ma, per “salvare” l’espulsione (sia a titolo di sanzione sostitutiva sia a titolo di sanzione alternativa alla detenzione), la Corte è costretta a qualificare la misura in parola come avente carattere “amministrativo”, proprio per sottrarla alla applicazione dei principi costituzionali che riguardano la pena. Diversamente, la Cassazione, come detto, aveva qualificato la misura in parola come “alternativa alla detenzione”, sia pure prevista all’esclusivo “scopo di ridurre la popolazione carceraria” (Cass., Sez. I, 12 dicembre 2003, n. 518, Reda). Ora, di là dal problema dell’ammissibilità stessa di una misura alternativa che non abbia una funzione di risocializzazione, la ratio dell’espulsione non sembra essere nella specie quella di ridurre la popolazione carceraria, essendo quest’ultimo solo uno degli effetti della sua applicazione. Non credo, in altre parole, che l’intenzione del legislatore fosse quella di contenere il sovraffollamento, quanto, come detto, di veicolare l’idea della inutilità della rieducazione del soggetto privo di legittimo titolo di permanenza nel territorio italiano. Ratio che sembra colta in quella giurisprudenza di legittimità che, proprio facendo leva sul richiamato art. 16, è giunta perfino ad affermare la “ontologica incompatibilità tra misure alternative extramurarie ed esecuzione della pena nei confronti dello straniero clandestino” (Cass., sez. I, 17 luglio 2003, Calderon). Quest’ultima interpretazione non è, a mio giudizio, che la controprova della volontà del legislatore di tradurre il principio costituzionale della rieducazione in chiave “nazionalistica” o, più precisamente, di restringerne la portata con riferimento ai soli soggetti aventi legittimo titolo di permanenza in Italia.
Può una mera legge ordinaria produrre questo effetto? È indubbio che la legislazione ordinaria, in quanto rivolta all’attuazione, allo svolgimento della Costituzione incida sulla interpretazione stessa di quest’ultima. Ma i risultati di siffatta operazione devono pur sempre essere valutati alla stregua della disposizione (o del principio) costituzionale che il legislatore ordinario si propone di svolgere. Altrimenti si giungerebbe al paradosso della prevalenza del criterio dell’interpretazione della Costituzione alla luce dello svolgimento di essa da parte del legislatore ordinario sul criterio per cui la legge deve essere interpretata in senso conforme alla Costituzione (e, ove ciò non sia possibile, deve essere considerata incostituzionale). Se la legge ordinaria fosse davvero in grado di legittimamente veicolare interpretazioni della Costituzione non conformi alla “lettera” e allo “spirito” della stessa, si arriverebbe a negare l’idea stessa della Costituzione come misura suprema della legalità. Nella specie, poiché l’art. 27 Cost. si riferisce al condannato in genere e annette alla pena in quanto tale una funzione rieducativa, non vedo quali spazi vi siano per un contenimento della portata del precetto in chiave “nazionalistica”. Se il legislatore ordinario interviene in questa direzione, il giudice, anziché interpretare la Costituzione alla luce della legge, dovrebbe sollevare questione di costituzionalità in riferimento a quest’ultima. E la Corte costituzionale, una volta verificato che l’intervento legislativo non è compatibile con la portata del precetto costituzionale di riferimento, dovrebbe in conseguenza dichiarane l’incostituzionalità. Nella specie, invece, la Corte costituzionale ha preferito qualificare diversamente l’oggetto dell’intervento legislativo, non facendolo ricadere nell’ambito di operatività del precetto costituzionale. Anziché qualificare l’espulsione come misura alternativa alla detenzione (secondo l’indirizzo seguito dalla Cassazione) o, meglio, come sanzione alternativa alla detenzione (secondo l’espressa indicazione del legislatore), il giudice delle leggi la considera come mera misura amministrativa, in quanto tale sottratta all’ambito di operatività dell’art. 27 Cost. (v. ord. n. 226 del 2004). è da presumere, dunque, che ove la qualificazione fosse stata quella indicata dalla Cassazione o data dal legislatore la norma sarebbe stata dichiarata incostituzionale. Tant’è: alla luce della interpretazione della Corte costituzionale, l’espulsione ex art. 16 è misura amministrativa che, nonostante la intervenuta sentenza di condanna, si sostituisce di fatto alla pena detentiva!
Non sarebbe stato meglio aderire alla qualificazione data alla misura dal legislatore o dalla Cassazione, dichiarando, in conseguenza, l’illegittimità costituzionale della relativa previsione normativa?
Probabilmente sì, anche se si tiene conto dei descritti effetti paradossali (e incostituzionali?) sia pure solo indirettamente prodotti dalla norma in esame e per fortuna ora contenuti dalla recente decisione delle Sezioni Unite più volte richiamata (28 marzo 2006, Alloussi): prima di quest’ultima pronuncia, lo straniero clandestino che non fosse stato espulso (perché non identificato o perché, a vario titolo, non si trovava in una delle condizioni richieste dall’art. 16) non aveva diritto a fruire di misure alternative. Siffatta impostazione, per anni seguita, non senza oscillazioni, dalla giurisprudenza di legittimità era senz’altro conforme allo spirito della legge Bossi-Fini, ma non, come detto, alla lettera e allo spirito dell’art. 27 Cost. Finalmente, oggi, il detenuto clandestino ha nuovamente la possibilità di fruire delle c.d. misure alternative. Almeno in questo ambito, il tentativo di lettura in chiave “nazionalistica” del principio della rieducazione può ritenersi fallito.




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