(Sergio Briguglio, 30/8/2006)

 

 

RICERCA DI LAVORO SUL POSTO: COME RIFORMARE LA NORMATIVA SULLIMMIGRAZIONE

 

 

La normativa italiana sull'immigrazione per lavoro prevede, dal 1986, che l'ingresso del lavoratore straniero possa aver luogo solo a seguito della richiesta di autorizzazione presentata da un datore di lavoro mentre ancora lo straniero risiede all'estero.

 

Una modalita' alternativa e' stata consentita solo per un breve periodo (nel biennio 2000-2001) sulla base delle norme sulla sponsorizzazione e sulla cosiddetta autosponsorizzazione contenute nella legge Turco-Napolitano. Queste norme prevedevano la possibilita' di ingresso di uno straniero in cerca di lavoro per il sostentamento del quale garantisse un terzo (sponsorizzazione) o, rispettivamente, lo stesso straniero (autosponsorizzazione). La loro applicazione ha avuto un grande successo, ma e' stata relegata a dimensioni e durata di carattere puramente sperimentale.

 

Tralasciando queste ridotte eccezioni, si puo' ben dire che la normativa ha impedito l'incontro diretto tra domanda e offerta di lavoro. Il fatto, generalmente riconosciuto, che tale incontro sia indispensabile perche' si stabiliscano rapporti alle dipendenze delle famiglie o delle piccole imprese avrebbe condannato l'Italia ad una sostanziale assenza di immigrazione per lavoro se gli immigrati non avessero aggirato le disposizioni, cercando sul posto l'inserimento nel mercato del lavoro, a seguito di un ingresso clandestino o, piu' spesso, di un ingresso legale per turismo seguito da un prolungamento illegale del soggiorno. Trovato il lavoro, gli immigrati hanno potuto raggiungere la condizione di soggiorno legale sfruttando la prima sanatoria utile, ovvero grazie ad una chiamata "di lavoratore straniero residente all'estero" nell'ambito delle quote annuali, passando attraverso un temporaneo rimpatrio e un reingresso, questa volta pienamente legale, per lavoro. Non si tratta di una semplice congettura: il numero di posizioni sanate, tra gli stranieri che abbiano fatto ingresso nel periodo 1991-2002, di circa 1.140.000, con una media di 95.000 per anno; lingresso legale per lavoro subordinato non stagionale ha riguardato invece circa 246.000 immigrati (20.500 per anno). Se anche trascurassimo il fatto che la quasi totalita' di quest'ultimi ingressi corrisponde comunque - per quanto detto sopra - a rapporti di lavoro nati in condizioni illegali, troveremmo che il percorso illegale per arrivare ad un soggiorno finalmente legale e' assolutamente prevalente.

 

E' ovvio che il costringere i lavoratori immigrati ad una fase lunga (in genere, due o tre anni) di inserimento illegale ha dei costi molto elevati, per gli immigrati stessi, per la concorrenza tra le imprese, per la societa nel suo complesso.

 

Il modo piu' serio per superare questa situazione e permettere l'ingresso per ricerca di lavoro. La cosa e' stata come si e detto - sperimentata nel 2000-2001, e si tratta solo di correggere gli errori di allora.

 

Si tratta di fissare dei requisiti minimi per l'ingresso tali da evitare che lo straniero gravi sull'assistenza pubblica o si trovi nell'incapacita' di rimpatriare in caso di mancato inserimento e che, in caso di prolungamento illegale del soggiorno, il suo allontanamento rappresenti un costo rilevante per lo Stato. Requisiti adeguati potrebbero allora essere i seguenti:

      disponibilita' di mezzi di sostentamento per il periodo di soggiorno (in misura proporzionale, per esempio, all'importo dell'assegno sociale) e per la copertura delle spese di eventuale rimpatrio;

      stipula di una polizza assicurativa per la copertura delle spese sanitarie o disponibilita' delle risorse necessarie per l'iscrizione al Servizio sanitario nazionale;

      disponibilita di alloggio o di mezzi sufficienti a procurarselo;

      deposito, in sede di richiesta del visto di ingresso, delle impronte digitali.

Per esser certi che la disponibilita' di mezzi per le varie voci, dimostrata all'ingresso, si mantenga per tutto il periodo di soggiorno per ricerca di lavoro, converrebbe poi stabilire che un certo ammontare di denaro sia depositato in banca o in un apposito fondo e che possa essere ritirato dal titolare solo in rate fissate.

 

Lo straniero cosi' ammesso avrebbe facolta' di accedere pienamente al mercato del lavoro. Una volta raggiunto un inserimento relativamente stabile (come lavoratore subordinato, parasubordinato o autonomo), otterrebbe la conversione del permesso in un ordinario permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Anche in mancanza di inserimento stabile, pero', lo svolgimento di attivita' lavorative saltuarie, procurandogli ulteriori risorse economiche, gli permetterebbe di rinnovare il permesso per ricerca di lavoro. In caso di violazione delle disposizioni sul soggiorno, lo straniero potrebbe poi essere allontanato senza spese e senza necessita' di detenzione o di altre sanzioni: il deposito delle impronte digitali permetterebbe in qualunque momento di identificarlo immediatamente, e il rimpatrio sarebbe effettuato utilizzando la somma depositata a questo fine.

 

La riforma dovrebbe infine caratterizzarsi per due elementi importanti:

      il numero di ingressi per ricerca di occupazione non andrebbe, di norma, limitato numericamente, ne' lingresso stesso circoscritto ad un particolare periodo dell'anno;

      non si dovrebbe pretendere che la disponibilita' di mezzi e di alloggio per lo straniero sia garantita da un terzo, dovendosi contemplare invece la possibilita' che lo straniero sia in grado di provvedere a se stesso.

 

Il primo di questi punti - che pone l'ingresso per ricerca di occupazione alla stregua di altre forme di ingresso, quali l'ingresso per turismo o per affari - non esclude che lo Stato ponga dei limiti all'ingresso. I limiti dovrebbero, pero, essere posti non in seguito alla determinazione del fabbisogno del mercato (cosa su cui lo Stato non ha molto da dire), ma piuttosto per la necessita' - ove questa si presenti - di tutelare beni che il mercato non sa proteggere (il sistema di welfare, la pace sociale, l'identita' culturale, etc.). Questa necessita', se esiste, e' avvertita in modo molto piu' concreto a livello locale che non a livello centrale. Dovrebbero quindi essere le Regioni o gli enti locali a segnalare al Governo la necessita' di porre limiti agli ingressi, assumendosene la responsabilita' di fronte ad imprenditori e famiglie. Il Governo dovrebbe recepire queste richieste, applicando limiti alle sole Regioni o Province che hanno avanzato richiesta in tal senso.

 

Similmente, il secondo punto non esclude che possa esser fatta valere la garanzia di terzi: solo, non lo esige. In questa prospettiva potrebbe ritrovare spazio la figura dello sponsor privato (gia' sperimentata). Ma - cosa ancora piu' importante - potrebbe realizzarsi una politica attiva dell'immigrazione da parte di Regioni, enti locali, associazioni imprenditoriali. Questi soggetti potrebbero bandire un certo numero di sponsorizzazioni per stranieri in cerca di lavoro, selezionandoli, eventualmente, in base alle esigenze delle imprese e delle famiglie.

 

La combinazione di entrambi questi interventi, poi, consentirebbe alla Regione o alla Provincia in cui l'ingresso per ricerca di lavoro di uno straniero che provveda a se stesso desti allarme sociale di praticare una politica propria: un certo numero di posti con sponsorizzazione pubblica (o di terzi); richiesta di chiusura (recepita dal Governo), per il resto. E' importante pero' che il modello che va bene a una Regione o a una Provincia non sia imposto a tutte le altre, e che, di norma, non sia inutilmente ostacolato lo straniero che dimostri di sapersi mantenere nel periodo di ricerca di lavoro.

 

Resterebbe ovviamente impregiudicata la possibilita di chiamare direttamente un lavoratore dallestero, quella di formarlo nel suo paese e poi assumerlo, e cosi via. Anche queste, naturalmente sottratte, in generale, allinutile vincolo delle quote.