NEWSLETTER N. 3
10 FEBBRAIO 2007

 

SERVIZIO DI SUPPORTO GIURIDICO

 

 

SOMMARIO

 

 

GIURISPRUDENZA

 

 

1. PRESTAZIONI ASSISTENZIALI PER DISABILITA’ A FAVORE DI MINORI STRANIERI LEGALMENTE SOGGIORNANTI MA PRIVI DELLA CARTA DI SOGGIORNO. Il Tribunale di Verona si pronuncia contro la discriminazione introdotta dalla legge finanziaria 2001.

 

2. E’ ILLEGITTIMO IL PROVVEDIMENTO DEL SINDACO IL QUALE VIETI DI CIRCOLARE CON IL VOLTO COPERTO DAL VELO, IMPEDENDO PERTANTO ALLE DONNE DIFEDE ISLAMICA DI INDOSSARE I VELI TRADIZIONALI TIPICI DELLA RELIGIONE ISLAMICA . T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, sentenza 26 luglio- 16 ottobre 2006, n. 645. Uno sguardo al dibattito sul “velo islamico” e gli “indumenti e simboli religiosi” nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e di altri paesi europei.

 

 

ANALISI ED APPROFONDIMENTI

 

1. LA CLAUSOLA DI NON-DISCRIMINAZIONE NELLE ATTIVITA’ DELLE AGENZIE DI INTERMEDIAZIONE E DI SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO (AGENZIE INTERINALI)

 

 

RASSEGNA STAMPA

 

 

SITI INTERNET

 

 

SEGNALAZIONI RIVISTE


GIURISPRUDENZA

 

1. PRESTAZIONI ASSISTENZIALI PER DISABILITA’ A FAVORE DI MINORI STRANIERI LEGALMENTE SOGGIORNANTI MA PRIVI DELLA CARTA DI SOGGIORNO.

IL TRIBUNALE DI VERONA SI PRONUNCIA CONTRO LA DISCRIMINAZIONE INTRODOTTA DALLA LEGGE FINANZIARIA 2001.

 

Il Tribunale di Verona riconosce il diritto di un minore extracomunitario, cittadino marocchino, titolare del solo permesso di soggiorno in Italia, alla corresponsione dell’indennità di accompagnamento prevista per i disabili dalla legge n. 18/1980. Secondo il giudice, le previsioni dell’art. 80, comma 19 della legge n. 388/2000 non debbono essere interpretate nella direzione di riservare tali prestazioni unicamente ai soli cittadini stranieri extracomunitari che siano muniti di carta di soggiorno.

L’INPS elude l’applicazione della clausola di parità di trattamento e non-discriminazione in materia di sicurezza sociale inclusa negli accordi euromediterranei di associazione tra le Comunità Europee e gli Stati membri da un lato e l’Algeria, la Tunisia, il Marocco e la Turchia dall’altro.

 

Con sentenza dd. 22 maggio 2006 (est. Angeletti), il Tribunale di Verona ha accertato il diritto di un minore, cittadino marocchino, alla corresponsione da parte dell’INPS dell’indennità di accompagnamento prevista dall’art. 1 della legge n. 18/1980, in quanto affetto da una grave forma di disabilità che ne impedisce, senza assistenza altrui, il compimento degli atti quotidiani della vita, propri della sua età; ciò anche se il genitore non era in possesso, nel periodo corrispondente, della carta di soggiorno, bensì soltanto di un permesso di soggiorno valido per motivi di lavoro.

Il giudice di Verona è giunto a tali conclusioni propendendo per un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 80 c. 19 della l. 388/2000 (legge finanziaria 2001). In base a tale orientamento del giudice di Verona, la norma della legge finanziaria 2001 apparirebbe poco chiara sotto il profilo dell’interpretazione letterale, giustificandosi, pertanto, un’interpretazione teleologica e sistematica della medesima, avendo in considerazione dunque tanto l’intenzione del legislatore quanto la coerenza con l’impianto complessivo della normativa di settore. Ne deriverebbe che il requisito della carta di soggiorno indicato dall’art. 80, c. 19 della L. 388/2000 non potrebbe riferirsi alle prestazioni di assistenza sociale di natura essenziale riconosciute dallo Stato, tra cui si colloca anche l’indennità di accompagnamento per effetto dell’art. 22 L. 328/2000, bensì soltanto ai servizi e ai contributi di assistenza sociale gestiti localmente a livello territoriale.

In sostanza, il giudice di Verona ritiene che, interpretando la norma di cui all’art. 80 c. 19 della l. 388/2000 come affermante l’esclusione dei disabili extracomunitari legalmente residenti con il solo permesso di soggiorno dalle prestazioni essenziali in materia di assistenza sociale che costituiscono diritti soggettivi, si creerebbe un tassello normativo contraddittorio in un quadro altresì coerente che, a partire dalle norme costituzionali, non consente discriminazioni tra stranieri e cittadini, ovvero tra diverse categorie di stranieri legalmente soggiornanti a seconda del grado di consolidamento del loro soggiorno nel paese, in materia di tutela del fondamentale diritto alla salute (l’indennità di accompagnamento è definita prestazione “essenziale” dall’art. 22 L. 328/2000 – Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) e di tutela dell’infanzia.

Il giudice veronese cita la legge n. 104/92 (legge quadro in materia di handicap), la quale detta “i principi dell’ordinamento in materia di diritti, integrazione e assistenza della persona handicappata”. Orbene, all’art. 3, viene definita l’area di applicazione soggettiva della disciplina: “La presente legge si applica anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale”. La norma, dunque, pone come presupposto per l’equiparazione, nel settore delle disabilità, “cittadino-straniero”, il dato fattuale della residenza anagrafica ovvero della permanenza stabile nel territorio, senza alcuna ulteriore differenziazione all’interno della categoria degli stranieri regolarmente dimoranti. Ugualmente, viene citato il Regolamento Ce n. 859/03, che nell’estendere anche ai cittadini di paesi terzi l’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale indicate nel regolamento Ce n. 1408/71 e successive modificazioni, stabilisce come requisito “la situazione di soggiorno legale nel territorio di uno Stato membro”, senza differenziazione in base al diverso consolidamento del soggiorno dello straniero. Secondo il giudice veronese, dunque risulta evidente che la previsione della legge finanziaria 2001, se interpretata nella direzione di escludere da tali prestazioni “essenziali” di assistenza sociale i titolari del solo permesso di soggiorno, finirebbe per introdurre un tassello contraddittorio in un impianto normativo altrimenti coerente. Da ciò deriverebbe l’esigenza di un’interpretazione costituzionalmente orientata e dunque favorevole ad un’applicazione della restrizione operata dal legislatore con la legge finanziaria 2001 unicamente a quelle prestazioni facoltative demandate alla discrezionalità dei servizi sociali territoriali.

La tesi del giudice veronese è senza dubbio meritevole di considerazione, offrendo la possibilità di contrastare una normativa, quella introdotta dalla legge finanziaria 2001, che è venuta a consolidare una discriminazione istituzionale illegittima, in evidente contrasto con principi costituzionali (principio di eguaglianza e ragionevolezza, di tutela del diritto fondamentale alla salute, di tutela dell’infanzia) e con obblighi internazionali in materia di diritti umani e sociali dei lavoratori migranti e dei loro famigliari (Convenzione europea sui diritti dell’uomo, Convenzione OIL n. 143/75, Convenzione di New York sui diritti del fanciullo).

Purtuttavia, anche senza giungere a tale -per molti aspetti controversa- interpretazione della norma, la fattispecie concreta oggetto del giudizio – il diritto di un figlio minorenne di un cittadino marocchino regolarmente residente in Italia per motivi di lavoro a vedersi riconosciuta un’indennità per disabilità- avrebbe forse potuto trovare ugualmente soluzione mediante la diretta applicazione del principio di non discriminazione di cui all’Accordo euromediterraneo di Associazione tra le Comunità Europee e i suoi Stati membri da un lato, e il Regno del Marocco dall’altro. Tale accordo –così come quelli analoghi sottoscritti con l’Algeria, la Tunisia e la Turchia- contiene espressamente una clausola di parità di trattamento nella materia della “sicurezza sociale”. Recita, infatti, l’art. 65 dell’Accordo euromediterraneo con il Regno del Marocco e clausole del tutto analoghe sono contenute negli accordi con l’Algeria, Tunisia, Turchia, ma non invece in quelli sottoscritti con Egitto, Israele, Regno di Giordania, Palestina: “1.…i lavoratori di cittadinanza marocchina e i loro familiari conviventi godono, in materia di sicurezza sociale, di un regime caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali essi sono occupati. 2. Il termine “sicurezza sociale” include i settori della sicurezza sociale che concernono le prestazioni relative alla malattia e alla maternità, all’invalidità, le prestazioni di vecchiaia e per i superstiti, i benefici relativi agli infortuni sul lavoro, alle malattie professionali, al decesso, le prestazioni relative alla disoccupazione e quelle familiari”. Con il successivo art. 66 vengono esclusi dall’applicazione delle misure esclusivamente i “cittadini delle parti contraenti, i quali risiedano o siano impiegati illegalmente nel territorio del paese ospite”. Interpretandosi la norma a contrario, ne deriva che non sono ammesse discriminazioni sulla base del diverso grado di consolidamento del titolo di soggiorno all’interno della categoria dei cittadini delle parti contraenti che dimorino o lavorino regolarmente nel paese ospite. (1)

E’ opportuno ricordare al riguardo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, secondo la quale la nozione di “sicurezza sociale” contenuta nei citati Accordi euromediterranei deve essere intesa allo stesso modo dell’identica nozione contenuta nel regolamento Ce n. 1408/71. Quest’ultimo, dopo le modifiche apportate dal Regolamento del Consiglio 30/4/1992 n. 1247 (G.U. L 136), include nella nozione di “sicurezza sociale” le “prestazioni speciali a carattere non contributivo”, [incluse quelle] destinate alla tutela specifica delle persone con disabilità, […] ed elencate nell’allegato II bis”, che per quanto concerne l‘Italia menziona espressamente quelle prestazioni che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di assistenza sociale cioè la pensione sociale, le pensioni e le indennità ai mutilati ed invalidi civili, ai sordomuti, ai ciechi civili, gli assegni per assistenza ai pensionati per inabilità. (2) Per ragioni di chiarezza, vale la pena citare interamente le conclusioni tratte dalla Corte di Giustizia Europea dopo essere stata interpellata dal giudice nazionale belga in merito all’applicabilità della clausola di non-discriminazione in materia di “sicurezza sociale” prevista dal precedente accordo di cooperazione tra le Comunità Europee e l’Algeria, firmato nel 1976 e poi sostituito dall’Accordo euromediterrnaeo di Associazione, in riferimento ad una prestazione sociale non contributiva per disabilità:

 

Per quanto riguarda,.., la nozione di previdenza sociale che figura in questa disposizione, dalla citata sentenza Krid (punto 32) e, per analogia, dalle citate sentenze Kziber (punto 25), Yousfi (punto 24) e Hallouzi-Choco (punto 25) risulta che essa va intesa allo stesso modo dell’identica nozione contenuta nel regolamento n. 1408/71. Ora dopo la modifica operata dal regolamento (Cee) del Consiglio 30/04/1992 n. 1247, il regolamento n. 1408/71 menziona esplicitamente all’art. 4, n. 2 bis, lett. b ) (vedi anche l’art. 10 bis, n. 1, e l’allegato II bis di questo regolamento), le prestazioni destinate a garantire la tutela specifica dei minorati. Del resto, anche prima di questa modifica del regolamento n. 1408/71, costituiva giurisprudenza costante, sin dalla sentenza 28/5/1974, causa 187/73, Callemeyn (Racc. p. 553), che gli assegni per minorati rientravano nell’ambito di applicazione ratione materiae di questo regolamento… Di conseguenza, il principio,…, dell’accordo, che vieta qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza nel campo della previdenza sociale dei lavoratori migranti algerini e dei loro familiari con essi residenti rispetto ai cittadini degli Stati membri in cui essi sono occupati comporta che le persone cui si riferisce questa disposizione possono aver diritto agli assegni per minorati alle stesse condizioni che devono essere soddisfatte dai cittadini degli Stati membri interessati” (Corte di Giustizia europea 15/01/1998 C-113/97 caso Henia Babahenini c. Stato Belga). (3)

 

E’ pacifico il carattere direttamente vincolante nel nostro ordinamento, tanto per la Pubblica Amministrazione, in sede di applicazione delle norme, quanto per il giudice in sede di eventuale contenzioso, dell’interpretazione della normativa comunitaria da parte della Corte di Giustizia europea, come indicato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità (rispettivamente Corte Cost. n. 113/1985 e Cass. Sez. Un. 03/10/199 n. 9653).

Appare pertanto disdicevole che l’INPS e gli uffici territoriali delle strutture sanitarie nazionali abbiano sinora voluto ignorare le evidenti implicazioni giuridiche della clausola di parità di trattamento di cui agli Accordi euromediterranei in vigore con Algeria, Marocco, Tunisia, Turchia nel campo delle prestazioni assistenziali, procedendo invece ad un’indifferenziata applicazione nei confronti di tutti gli stranieri extracomunitari delle restrizioni introdotte con la legge finanziaria 2001. (4)

 

NOTE

 

[1] L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e il Regno del Marocco, dall’altra, è stato firmato il 26.02.1996 ed entrato in vigore il 01.03.2000 (Gazzetta Ufficiale CE L 70/00); L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e l’Algeria dall’altra, è stato firmato il 22.04.2002 ed entrato in vigore il 10.10.2005 (Gazzetta Ufficiale CE L 265); L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e la Tunisia dall’altra, è stato firmato il 17.07.1995 ed entrato in vigore il 01.03.1998 (Gazzetta Ufficiale CE L 97/98); L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e la Turchia dall’altra, è stato firmato il 06.03.1995 ed entrato in vigore il 31.12.1995 (Gazzetta Ufficiale CE L 35/96). Una guida ai contenuti degli accordi, suddivisi per materie, può essere scaricata dal sito web:

http://ec.europa.eu/comm/external_relations/euromed/asso_agree_guide_en.pdf

 

2 La versione consolidata dal Regolamento Ce n. 1408/71 e successive modificazioni può essere scaricata dal seguente sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/consleg/1971/R/01971R1408-20060428-it.pdf

 

3 Il testo completo in lingua italiana della sentenza della Corte di Giustizia europea può essere scaricato dal seguente sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61997J0113:IT:HTML

 

4 La tesi della diretta applicazione del principio di non discriminazione di cui agli accordi euromediterranei, letto alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia europea, anche alle prestazioni riconosciute dallo Stato italiano agli invalidi civili è sostenuta in Elisa Favè, nota a commento della sentenza del Tribunale di Verona 22 maggio 2006, in Rivista Critica di Diritto del Lavoro, n. 3/2006, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti .

 

 

PER APPROFONDIMENTI:

 

 

Tribunale di Verona, 22 maggio 2006, est. Angeletti (N. Fatima c. INPS, Ministero dell’Economia e delle Finanze e Ulss 20- Regione Veneto, sentenza pubblicata sulla Rivista Critica di Diritto del Lavoro, n. 3/2006, con nota di commento a cura di Elisa Favé. La sentenza è consultabile all’interno della rubrica Giurisprudenza su questo sito:

www.leadernodiscriminazione.it/modules/mydownloads/cache/files/37672583722216349452753377485936-cd_griurisprudenzaaggto22gen07.pdf

 

 

Walter Citti, Parità di trattamento tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini in materia di prestazioni di assistenza sociale e per disabilità. I nodi rimasti insoluti dopo la sentenza della Corte Costituzione n. 324/2006. Le possibili implicazioni della clausola di parità di trattamento contenuta negli Accordi euromediterranei tra l’Unione Europea e i paesi membri da un lato e Algeria, Marocco, Tunisia e Turchia dall’altro. Disponibile su questo sito web: www.leadernodiscriminazione.it/modules/mydownloads/cache/files/85925181962752731873438452242613-commento_corte_costituzionale_324_06_mod_def.pdf

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                             

2. E’ ILLEGITTIMO IL PROVVEDIMENTO DEL SINDACO IL QUALE VIETI DI CIRCOLARE CON IL VOLTO COPERTO DAL VELO, IMPEDENDO PERTANTO ALLE DONNE DIFEDE ISLAMICA DI INDOSSARE I VELI TRADIZIONALI TIPICI DELLA RELIGIONE ISLAMICA. Uno sguardo sulla questione del “velo islamico” e degli “indumenti e simboli religiosi” nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e di altri paesi europei.

 

T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, sentenza 26 luglio- 16 ottobre 2006, n. 645

Reperibile sul sito: www.giustizia-amministrativa.it/Sentenze/TS_200600645_SE.doc

 

 

 

La sentenza del TAR F.V.G. trae origine dall’ordinanza emanata nel 2004 dal sindaco leghista del Comune di Azzano Decimo (Pordenone), con la quale, richiamandosi all’art. 85 del TULPS e all’art. 5 della legge n. 152/1975, fondanti un divieto di mascherarsi in pubblico mediante l’uso di caschi o altri mezzi idonei a coprire il volto, si estendeva tale divieto all’uso dei “veli che coprano il volto”, notoriamente indossati in taluni casi da donne di religione islamica (il c.d. “burka” che copre l’intera parte superiore del corpo e l’intera faccia ovvero il “niqab” che copre l’intera parte superiore del corpo con l’eccezione dei soli occhi; diverso invece il caso del turban (in turco) o chador, un fazzoletto stretto che copre soltanto il collo e i capelli ma lasciando scoperto il volto).

L’ordinanza era stata annullata dal Prefetto di Pordenone, sulla base di un parere espresso dal Ministero dell’Interno. Tale decreto prefettizio era stato impugnato dinanzi all’organo di giustizia amministrativa dal Comune di Azzano Decino.

Il TAR non ha inteso affrontare la questione sotto il profilo del bilanciamento tra il diritto di libertà religiosa e altri principi costituzionalmente rilevanti quali quello della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica o dell’eguaglianza tra i sessi, limitandosi ad una mera valutazione di legittimità dell’atto in relazione alle competenze e ai poteri del sindaco quale ufficiale di Governo nelle materie di pubblica sicurezza e alla corretta interpretazione della norma.

A tale riguardo, il TAR ha sostenuto l’illegittimità dell’ordinanza comunale innanzitutto perché in materia di pubblica sicurezza, il Sindaco non ha competenze ordinarie e generali, ma solo specifiche, nei limiti in cui il Testo Unico enti locali (Tuel , vale a dire D.Lgs. 267/00) prevede la gestione da parte del Comune di servizi di competenza statale e rispetto ai quali il Sindaco agisce in funzione di ufficiale di governo, e quindi, in rapporto di subordinazione gerarchica rispetto al Prefetto. Certamente, permane in capo al Sindaco il potere di emettere ordinanze contingibili ed urgenti in materia di sicurezza pubblica, in relazione cioè ad eventi imprevisti ed imprevedibili, di carattere eccezionale che mettano a repentaglio nell’immediato l’incolumità pubblica dei cittadini, ma l’ordinanza certo non poteva riferirsi a tale situazione.

La sentenza del TAR giustamente rileva l’origine ed il contesto storico della legislazione che il Sindaco voleva porre a fondamento della sua ordinanza: il terrorismo e la violenza di matrice politica degli anni ’70, durante i quali si faceva abuso di caschi, passamontagna e simili per commettere reati. Ciò non significa che tali disposizioni debbano considerarsi desuete, in quanto al tramontare del terrorismo di matrice politica si è accompagnato pur sempre la minaccia del terrorismo internazionale di matrice religiosa, tanto è vero che le sanzioni previste sono state di recente attualizzate ed inasprite dall’art. 10 c. 4 del D.l. 144/05. Tuttavia, il TAR asserisce che l’inclusione del velo islamico tra i mezzi di travisamento del volto proibiti dalla legge, per le sue implicazioni politiche e sociali - ed io aggiungerei anche quelle giuridiche legate all’esigenze di un giusto bilanciamento tra il rispetto del diritto alla libertà religiosa e i valori e le esigenze di ordine e sicurezza pubblica, così come al rispetto del divieto di discriminazioni, anche indirette - potrebbe derivare unicamente da una scelta del legislatore atta a fornire un’interpretazione “autentica” della norma, ovvero dalla ponderata valutazione delle forze di polizia e della giustizia penale in base alle specifiche circostanze di tempo, modo e luogo. Tale interpretazione, ovviamente, è sottratta all’autorità e alle competenze del Sindaco. (1)

Ad ogni modo, vale la pena ricordare che questioni di ordine pubblico potrebbero essere sollevate solo con riferimento all’uso di veli islamici che coprano parzialmente o totalmente il volto (i sopramenzionati niqab o burka), mentre già con circolare del Ministero dell’Interno- Dipartimento di Ps 24 luglio 2000 è stato espressamente consentito l’uso di foto con chador o turban, cioè il velo islamico che lascia comunque scoperto il volto, nei documenti di riconoscimento, inclusi i permessi di soggiorno. (2)

Avendo in considerazione che la questione appare suscettibile di ripresentarsi nel dibattito politico nel nostro paese, vale la pena compiere un breve excursus sul dibattito suscitato dall’uso del velo islamico e le norme che hanno inteso disciplinarlo nei diversi paesi europei. Almeno per quanto concerne il sistema educativo, la questione è stata affrontata in maniera molto diversa, in relazione anche alle diverse tradizioni e culture politiche dei vari paesi. In Francia, ove i principi del secolarismo e della laicità sono visti come i cardini dei valori repubblicani, la legislazione del 15 marzo 2004 proibisce agli alunni delle scuole primarie e secondarie di indossare segni o indumenti che esibiscano in maniera manifesta un’affiliazione religiosa. All’altro polo, in Gran Bretagna, paese più ancorato ad un modello culturale pluralista nell’organizzazione sociale, la Commissione per l’Eguaglianza Razziale è intervenuta nel 2004 in una disputa tra una scuola privata che obbligava l’uso di un’uniforme scolastica e la famiglia di due alunne di fede islamica che volevano indossare il velo, raccomandando una soluzione di compromesso in base alla quale il velo veniva consentito purchè dello stesso colore dell’uniforme scolastica. Con un successivo provvedimento, emesso in terza istanza il 22 marzo 2006, l’House of Lord mantenne che il divieto sancito dall’autorità scolastica ad indossare lo jilbab (una lunga veste tradizionale) doveva ritenersi giustificato nelle specifiche circostanze del caso, avendo in considerazione che la famiglia aveva deciso di iscrivere la ragazza in quella scuola in particolare, pur essendo a conoscenza della politica seguita da quella istituzione in materia di uniforme scolastica, e pur essendoci altre istituzioni scolastiche statali disponibili nelle quali la ragazza avrebbe potuto indossare lo jilbab (3). In Svezia, l’Agenzia Educativa Nazionale ha emanato una direttiva nel 2003 con la quale le scuole sono state autorizzate a proibire il velo islamico, ma solo nelle forme del burka e del niqab, ma in uno spirito di dialogo con le famiglie e facendo presente i valori di uguaglianza tra i sessi ed il rispetto dei principi democratici. Con una decisione assunta nel maggio 2006, il Consiglio Nazionale Svedese per l’Istruzione ha disposto che la decisione assunta da un direttore scolastico di vietare l’uso del velo islamico da parte di un’alunna di religione musulmana era contraria al principio di “una scuola aperta a tutti” e di non discriminazione, e che la scelta di indossare il velo religioso deve essere considerata una manifestazione del principio di libertà religiosa, opponibile solo se si traduce nell’uso del burka o niqab, quando ciò costituisca fonte di disturbo all’ordine e alla quiete pubblica, o determini problemi nell’insegnamento, quali quelli derivanti da una piena identificazione degli alunni (4). In Germania, il dibattito si è concentrato sulla possibilità che le insegnanti indossino il velo islamico durante le lezioni. La Corte Costituzionale affermò con la sentenza del 24 Settembre 2003 che alle insegnanti ciò poteva venire consentito fintantoché non vi fossero disposizioni contrarie da parte dei rispettivi Lander. Ciò ha condotto alcuni Lander come la Baviera ad introdurre nel proprio ordinamento norme contro l’ostentazione di simboli religiosi da parte del personale educativo delle scuole pubbliche; tali norme di recente sono state confermate dalla Corte Costituzionale del Land della Baviera, a seguito di un ricorso inoltrato dalla Comunità Islamica Bavarese che giudicava la normativa introdotta nel 2005 in contrasto con il diritto costituzionale alla libertà religiosa.

Anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo è stata chiamata in tempi recenti a pronunciarsi sulla conformità al rispetto dei diritti umani ed in particolare al diritto di libertà religiosa, di provvedimenti restrittivi all’uso del velo islamico nelle istituzioni educative.

In Dahlab c. Svizzera (n. 42393/98 ECHR 2001), la Corte di Strasburgo venne chiamata a esprimersi sul caso di un’ insegnante di scuola elementare sottoposta a procedimento disciplinare per la sua determinazione a svolgere la sua attività indossando il velo islamico. La Corte europea rigettò il ricorso dell’insegnante sostenendo tra l’altro che indossare il velo islamico non poteva conciliarsi facilmente con il messaggio di tolleranza, rispetto per gli altri e, soprattutto, eguaglianza e laicità che tutti gli insegnanti sono tenuti a veicolare agli alunni nelle istituzioni scolastiche pubbliche, garantendo dunque a quest’ultime la salvaguardia di uno spazio di neutralità.

Risulta evidente che il divieto di esibire manifestamente la propria appartenenza religiosa potrebbe avere una sua legittima giustificazione nel caso di un insegnante in una scuola pubblica, ma non potrebbe estendersi a mansioni in relazione alle quali l’abbigliamento del lavoratore non fosse legato funzionalmente alla realizzazione dell’ interesse contrattuale. Così, in Germania il Tribunale costituzionale federale affermò il carattere illegittimo ed ingiustificato di un licenziamento operato da un grande magazzino nei confronti di una lavoratrice mussulmana, perché quest’ultima si era rifiutata di togliersi il velo durante l’attività lavorativa. (5)

 

In Leyla Sahin c. Turchia (n. 44774/98 ECHR 2005), la Corte di Strasburgo venne chiamata ad esprimersi sull’asserita lesione al diritto alla libertà religiosa portata dalla normativa in vigore in Turchia che proibisce agli studenti delle università di esibire simboli religiosi quali il portare la barba lunga per i maschi o indossare il velo islamico (turban) per le femmine. Anche in questo caso, la Corte di Strasburgo ha respinto il ricorso, sostenendo che sebbene la normativa avesse introdotto un’indubbia limitazione al diritto alla libertà di manifestazione del credo religioso, questa poteva intendersi legittima, in quanto prevista dalla legge e necessaria in una società democratica per salvaguardare gli interessi della sicurezza pubblica e la protezione dei diritti e delle libertà degli altri. La Corte, tuttavia, ha messo in dovuto rilievo che il giudizio di legittimità della previsione, cioè di una sua proporzionalità all’obiettivo di salvaguardare i principi dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale, doveva intendersi avendo in considerazione il particolare contesto istituzionale, politico e sociale della Turchia, ove il principio della secolarizzazione è uno dei cardini fondamentali su cui si regge il sistema istituzionale e ove movimenti politici estremisti d’impronta radicale islamica cercano di imporre all’intera società visioni e concezioni fondate su criteri religiosi (paragrafi 115 e 116 della sentenza). Tale motivazione è stata, peraltro, ritenuta da molti una concessione eccessiva operata dalla corte di Strasburgo alla “ragion di Stato”, con una conseguente compressione sproporzionata del principio di libertà religiosa (in questo senso, ad esempio, le convincenti affermazioni contenute nella dissenting opinion del giudice Tulkens). E’ del tutto evidente quindi che i medesimi criteri di valutazione non potrebbero essere necessariamente trasposti in un contesto diverso da quello per il quale il giudizio è stato pronunciato.

Resta però il fatto che la Corte di Strasburgo ha consolidato il punto di vista per cui in una società democratica, lo Stato può legittimamente disporre restrizioni all’uso del velo islamico se questo è incompatibile con gli obiettivi perseguiti di protezione dei diritti e delle libertà altrui, così come le esigenze di ordine e sicurezza pubbliche.

Alla luce anche dell’orientamento della Corte di Strasburgo, non apparirebbe dunque in contrasto con i diritti umani e le libertà fondamentali un’eventuale azione del parlamento italiano volta a fornire un’interpretazione autentica della norma di cui alla legge 152/1975 che estenda il divieto al travisamento del volto anche mediante l’uso dei “veli che coprano il volto”, notoriamente indossati in taluni casi , per la verità rarissimi nel nostro paese, da donne di religione islamica (il c.d burka o il niqab).

Non c’è da sottovalutare, peraltro, il fatto che in un contesto sociale di crescente islamofobia e pregiudizio nei confronti di persone, immigrati in particolare, professanti il credo religioso islamico, l’avversione all’uso del velo islamico, anche nelle forme senza dubbio lecite del turban o chador, non coprenti il viso, possa tradursi in provvedimenti e atti non aventi alcuna giustificazione e che usino soltanto come pretesto illegittimo il principio della “neutralità” delle istituzioni pubbliche, nel tentativo di celare situazioni di vera e propria discriminazione su base nazionale e/o religiosa; discriminazione proibita dalla legislazione interna ed europea (rispettivamente art. 43 TU sull’immigrazione e decreti legislativi n. 215 e 216/2003 di recepimento delle direttive europee n. 34 e 78/2000).

Si può citare, solo a titolo di esempio, quanto di recente verificatosi nella cittadina belga di Wavre, ove il locale direttore del centro di assistenza sociale ha rifiutato di sostenere il colloquio con un’immigrata straniera al fine di valutare l’istanza per un sussidio da questa inoltrata, solo perché indossava un velo che ne copriva soltanto i capelli e si era rifiutata di toglierselo per motivi religiosi. Il responsabile dell’ufficio motivò la sua decisione con l’asserita necessità di salvaguardare la “neutralità” delle istituzioni pubbliche da ogni interferenza religiosa, che potesse pregiudicarne i requisiti di imparzialità. E’ del tutto evidente che tali requisiti di “neutralità” ed “imparzialità” delle istituzioni pubbliche potrebbero certo legittimare delle restrizioni alla manifestazione del credo religioso e alla conseguente esibizione e di simboli religiosi da parte di funzionari e dipendenti pubblici, soprattutto se svolgenti funzioni per le quali è importante che tale imparzialità venga non solo praticata, ma anche percepita dai cittadini-utenti. Tuttavia, il principio di “neutralità” non può certo estendersi e venire ad imporsi ai cittadini-utenti medesimi senza tradursi nel suo esatto opposto, vale a dire in una discriminazione su base razziale o religiosa, come tale punita e proibita dalle norme interne ed europee. Di conseguenza, nel caso in questione, il Ministro belga per gli Affari sociali non ha potuto che smentire il suo funzionario richiamandosi ai valori costituzionali di uguaglianza di pari opportunità e di non discriminazione, da applicarsi in un clima costruttivo e sereno (6).

 

 

 

NOTE

 

(1) Si rammenta, peraltro, il caso di una denuncia inoltrata alla Procura della Repubblica di Treviso nei confronti di una donna che “vestiva secondo la propria tradizione religiosa” e che veniva segnalata, malgrado fosse stata ugualmente identificata, per il reato di cui all’art. 5 citato; il Giudice per le indagini preliminari ritenne che l’aver indossato il proprio abito tradizionale costituisse il “giustificato motivo” previsto dalla legge, e su conforme richiesta del P.M., archiviava il caso . I due provvedimenti sono pubblicati in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, Franco Angeli, Milano 1/2006, p. 176 e ss..

 

(2) In materia analoga, vale la pena citare la recentissima sentenza del Consiglio di Stato Conseil d’Etat francese dd. 15.12.2006 di rigetto del ricorso presentato dall’Associazione Sikh Uniti che chiedevano la sospensione della circolare del Ministero dei Trasporti datata 6 dicembre 2005, la quale ha prescritto la consegna di una foto a capo scoperto per il rilascio o rinnovo della patente di guida.

L’associazione dei Sikh residenti in Francia riteneva nel ricorso che tale provvedimento contrastava con i principi della libertà religiosa e di non discriminazione contenuti nella Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, in quanto impediva la manifestazione del loro credo religioso, che prescrive agli uomini di indossare il turbante tradizionale. La corte francese ha ritenuto che tale indubbia limitazione alla libertà religiosa è legittima in quanto adottata nell’interesse della sicurezza pubblica e della protezione dell’ordine pubblico, essendo volta a limitare i rischi di frode e falsificazione dei documenti così come a rendere possibile una più idonea identificazione delle persone. Sempre secondo il Conseil d’Etat, sebbene il provvedimento adottato è certamente limitativo della libertà religiosa, esso appare proporzionato e adeguato a realizzare gli obiettivi legittimi che si prefigge, così come non è discriminatorio, in quanto non prevede un trattamento diverso per le persone di confessione Sikh rispetto alle altre.

Il testo della sentenza può essere consultato sul sito:

http://www.legifrance.gouv.fr/WAspad/UnDocument?base=JADE&nod=JGXAX2006X12X000000289946, accessibile anche dal sito dell’HALDE: www.halde.fr/discriminations-10/acces-au-droit-11/jurisprudences-79/au-port-9811.html

 

(3) Il testo della sentenza è disponibile sul sito:

www.publications.parliament.uk/pa/ld200506/ldjudgmt/jd060322/begum-1.htm

 

(4) Sulle decisioni del Consiglio Nazionale Svedese per l’Educazione, si veda il commento pubblicato sul n. 4 della rivista European Anti-Discrimination Law Review : http://www.migpolgroup.com/documents/3615.html

 

(5) Sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale federale tedesca, cfr. Alessandra di Martino, La “decisione sul velo” del Bundesverfassungsgericht , disponibile sul sito web: http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/archivio/velo/index.html

 

(6) Sulla vicenda, l’articolo sul sito web del MRAX (Mouvement contre le racisme, l’antisémitisme et la xénofobie): www.mrax.be/article.php3?id_article=439.

Altri due significativi esempi possono essere reperiti nella recente giurisprudenza internazionale. Il primo si riferisce al provvedimento assunto l’anno scorso dall’autorità nazionale olandese contro le discriminazioni razziali (ETC) contro la decisione di un ente di formazione che aveva negato l’iscrizione ad un corso formativo per assistente educativa ad una donna di religione islamica perché quest’ultima, in osservanza ad un precetto religioso, si rifiutava di stringere la mano a persone di sesso maschile. L’autorità nazionale olandese contro le discriminazioni (ETC) ritenne che l’atteggiamento della donna doveva essere inteso come una manifestazione del suo credo religioso e come tale doveva essere rispettato, pena il compimento nei suoi confronti di una discriminazione indiretta per motivi religiosi. Un commento alla decisione dell’ECT è stato pubblicato sul n. 4 della rivista European Anti-Discrimination Law Review : http://www.migpolgroup.com/documents/3615.html;

Un altro esempio è tratto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale Federale Tedesca che ha accolto nel 2005 il ricorso di una donna di fede islamica contro un provvedimento di espulsione dall’aula giudiziaria emesso da un giudice di merito, durante un processo penale, in conseguenza del fatto che la ricorrente, dopo essere stata avvisata dell’esistenza di un divieto di indossare nell’aula di Tribunale il velo islamico, persisteva nella condotta. Nel ritenere il provvedimento di espulsione illegittimo in quanto arbitrario ed irragionevole, il Tribunale costituzionale tedesco ha precisato che il fatto di indossare il velo all’interno di un Tribunale non esprime un sentimento di avversità nei confronti di altre persone, tanto più che esso è simbolo di fede religiosa e, dunque, il fatto di indossarlo si configura come esercizio di libertà religiosa (cfr. BVefG, 677/05, commentato da Alessandra di Martino, La “decisione sul velo” del Bundesverfassungsgericht , disponibile sul sito web: http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/archivio/velo/index.html).

 

 

 

ANALISI ED APPROFONDIMENTI

 

 

1.      LA CLAUSOLA DI NON-DISCRIMINAZIONE NELLE ATTIVITA’ DELLE AGENZIE DI INTERMEDIAZIONE E DI SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO (AGENZIE INTERINALI)

 

 

L’attività delle agenzie di somministrazione di lavoro (ex agenzie interinali) è regolata dal d.lgs. 10.09.2003 n. 276 (meglio conosciuto come “decreto Biagi”).

L’art. 10 di tale d. lgs. contempla la c.d. clausola di non discriminazione, per cui “è fatto divieto alle agenzie per il lavoro e agli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di effettuare qualsivoglia indagine o comunque trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso, in base alle convinzioni personali, alla affiliazione sindacale o politica, al credo religioso, al sesso, all'orientamento sessuale, allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, alla età, all'handicap, alla razza, all'origine etnica, al colore, alla ascendenza, all'origine nazionale, al gruppo linguistico, allo stato di salute nonché ad eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro, a meno che non si tratti di caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento della attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività lavorativa. È altresì fatto divieto di trattare dati personali dei lavoratori che non siano strettamente attinenti alle loro attitudini professionali e al loro inserimento lavorativo

 

Dalla violazione di tale divieto discendono conseguenze penali, previste dal rimando effettuato dall’art. 18 c. 5 del d. lgs. alle norme dello Statuto dei Lavoratori e, specificamente, l’art. 38 l. 20.05.1970, n. 300, che prevede un’ammenda o l’arresto da 15 giorni ad un anno; nei casi più gravi l’applicazione congiunta di ammenda e arresto con facoltà del giudice di aumentare l’ammenda fino al quintuplo nel caso in cui altrimenti risultasse inefficace e di ordinare la pubblicazione della sentenza penale di condanna.

In aggiunta, l’art. 18 del “decreto Biagi” dispone nei casi più gravi di violazione della clausola di “non-discriminazione” la sospensione dell’autorizzazione a svolgere le attività ed in caso di recidiva, la revoca dell’autorizzazione.

 

Il divieto sancito dall’art. 10 si articola a due livelli:

a)    divieto di indagini e di trattamento di dati personali sensibili che non siano essenziali e determinanti allo svolgimento dell’attività lavorativa e strettamente attinenti alle attitudini professionali e all’inserimento lavorativo degli interessati;

b)    divieto di preselezione di lavoratori in base alle caratteristiche “protette” cioè quelle menzionate dalla norma, nonché dagli strumenti del diritto europeo in materia di non discriminazione (direttive n. 43/2000 e 78/2000), così come recepite nell’ordinamento interno (rispettivamente d.lgs. nn. 215 e 216/2003), tra cui l’appartenenza etnico razziale ed il credo religioso.

 

Rispetto al punto a), si determina per conseguenza il divieto per l’agenzia di somministrazione di lavoro o agenzia interinale di acquisire e trattare dati sull’appartenenza/credo religioso del lavoratore o sulla sua appartenenza etnico-nazionale. In effetti, almeno a livello teorico l’unica eccezione in cui il dato dell’appartenenza religiosa può costituire un requisito legittimo, essenziale e giustificato per l’esercizio di un’attività lavorativa riguarda quelle situazioni in cui il lavoratore venga impiegato in una c.d. “organizzazione di tendenza” (tra cui chiese o organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ex art. 4.2 direttiva europea n. 2000/78, come recepita dall’art. 3.2 d.lgs. n. 216/2003), ma soltanto quando il lavoratore medesimo sia chiamato a svolgere mansioni ideologicamente qualificate e non invece mansioni neutre rispetto alla tendenza ideologica del datore di lavoro (ad es. l’appartenenza al credo religioso cattolico ed il rispetto dei codici morali cattolici potrà essere richiesto all’ insegnante di materie umanistiche o pedagogiche in una scuola privata cattolica, pena la mancata assunzione o, in caso di assunzione già avvenuta, il licenziamento, ma non all’insegnante di educazione fisica e tanto meno al personale ausiliario, quali bidelli, personale amministrativo e addetti alle pulizie, cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 5832/1994).

Il divieto di indagini e di trattamento di dati sensibili da parte delle agenzie di somministrazione di lavoro ha una duplice finalità: preservare la dignità e la riservatezza dei lavoratori da un lato, e prevenire possibili condotte discriminatorie da parte delle agenzie  per il lavoro con il consenso o, più probabilmente, la stessa sollecitazione degli utilizzatori, cioè delle imprese (si pensi ad es. all’impresa che non desideri manodopera musulmana o per una generica avversione “ideologica” verso gli appartenenti a quel credo religioso ovvero per evitare eventuali accorgimenti e adattamenti che l’azienda dovrebbe attivare in conseguenza della loro presenza tra le maestranze (revisione ed adattamento del menù della mensa aziendale alle specifiche esigenze alimentari dei lavoratori di fede musulmana, eventuali richieste di permessi o di  rivedere i turni di lavoro per attività di preghiera in determinate occasioni e festività,…).

Il divieto dei trattamenti sensibili di cui al punto a) è dunque anche funzionale al divieto di trattamenti discriminatori che si traducano in  una preselezione dei lavoratori sulla base di una o più della caratteristiche protette dalla normativa interna ed europea, tra cui  è annoverata anche l’origine nazionale (dunque lo status di cittadino straniero).

In sostanza, proprio in virtù della funzione assegnata all’agenzie di somministrazione di lavoro di facilitare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro e dunque l’accesso al lavoro come diritto fondamentale, il d.lgs. 276/03 ha opportunamente esteso la clausola di non discriminazione  già prevista dallo Statuto dei Lavoratori (artt. 15 e 38), anticipando la tutela già alla fase della  raccolta delle candidature e della selezione dei candidati, mentre nello Statuto dei Lavoratori il principio di non-discriminazione era limitato alla fase dello svolgimento di un  rapporto di lavoro già avviato. In altre parole, per mezzo del “decreto Biagi” e per quanto riguarda l’attività delle agenzie interinali o di somministrazione di lavoro, attualmente le indagini sulle opinioni e sulle condizioni personali dei lavoratori, nonché i trattamenti discriminatori, sono vietati radicalmente anche nella fase  antecedente alla costituzione del rapporto di lavoro.

 

In sostanza , in base all’articolato normativo così sommariamente richiamato,   sarebbe certamente   vietato ed illecito il comportamento di un’agenzia di lavoro interinale o somministrato che si rifiuterebbe di inserire nel proprio database e di considerare le candidature di lavoratori extracomunitari in regola con le norme sull’ingresso e soggiorno e titolari dunque di un permesso di soggiorno avente natura multifunzionale che consenta dunque l’attività lavorativa in condizioni di parità di trattamento con i cittadini italiani in virtù di quanto previsto dall’art. 2 c. 3 del  D.lgs. n 298/98 e del rimando ivi effettuato alla Convenzione OIL n. 143/1975.

La presenza di siffatto comportamento oltre a far scattare il regime sanzionatorio previsto dalla legge n. 276/2003, potrebbe dare titolo alla vittima di azionare l’azione civile contro la discriminazione ai sensi degli artt. 43  e 44 del d.lgs. 286/98, trovandosi il fatto qui ipotizzato nella fattispecie prevista dall’art. 43 comma 2 lettera c) : “Compie in ogni caso una discriminazione: chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione,[…], allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”. Il carattere di illegittimità del comportamento o del fatto, richiamato dalla norma, sarebbe palese , anche in ragione del richiamo alla violazione delle norme citate del “decreto Biagi” che impongono la stretta adesione delle agenzie di somministrazione di lavoro al principio di non discriminazione nello svolgimento delle loro attività. L’esito favorevole dell’azione civile comporterebbe l’ordine del giudice alla cessazione del comportamento discriminatorio ed il risarcimento del danno, patrimoniale e morale, al soggetto discriminato.

Tuttavia, come dimostra l’esempio francese, la discriminazione talvolta operata dalle agenzie di lavoro interinale, spesso al fine di accondiscendere alle richieste e pressioni discriminatorie delle imprese quali soggetti utilizzatori finali della manodopera, ben di rado si avvera in modo così palese, come il rifiuto della registrazione dello straniero nel proprio database. Al contrario, molto spesso si traduce in pratiche più subdole e difficili da provare, in quanto tutte “interne” all’organizzazione del database e degli archivi informatici delle agenzie, quali l’organizzazione di schedari informatici separati per i lavoratori stranieri o di colore, l’apposizione di codici appositi per identificare rapidamente i candidati stranieri e dunque, escluderli dalla preselezione, in caso di una richiesta in questo senso avanzata da un’impresa utilizzatrice.

E’ emblematico, ad esempio, che in Francia, un procedimento giudiziario per il reato di discriminazione razziale sia stato avviato nel corso del 2001 nei confronti della società di lavoro interinale Adecco a seguito della denuncia portata da un suo dipendente, che aveva confidato all’organizzazione SOS Racisme lo svolgimento di una preselezione per addetti alla vendita da impiegare presso l’impresa Oréal Garnier volta ad escludere i candidati stranieri, come richiesto espressamente dall’impresa utilizzatrice. Ulteriori elementi probatori vennero raccolti a seguito di test situazionali compiuti da SOS Racisme, mediante l’invio all’agenzia di CV del tutto simili tranne per la variabile etnico-nazionale, con il riscontro di esiti diversi in termini di selezione, così come dalle risultanze della perquisizione e del sequestro poi ordinato dal Tribunale di Parigi, con la scoperta di una tenuta separata delle schede informatiche relative ai candidati al lavoro di cittadinanza straniera . Ciononostante, il procedimento giudiziario si è poi concluso con una sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti sia dell’Adecco che di Oréal il 1 giugno scorso (Sull’argomento: www.animafac.net/article.php3?id_article=1536). Ad ogni modo, tale procedimento giudiziario, che ha avuto una vasta eco mediatica in Francia, ha avuto effetti indubbiamente positivi nell’acquisizione di una maggiore consapevolezza da parte delle agenzie interinali e di somministrazione di lavoro sulla responsabilità sociale del proprio ruolo e della propria funzione nei confronti di una politica di pari opportunità e di integrazione della popolazione immigrata e delle minoranze razziali residenti nel paese. Ciò ha fatto sì che numerosi progetti ed iniziative siano state avviate, dall’Adecco in particolare, che maggiormente era stata colpita nella sua immagine e reputazione, per sensibilizzare il proprio personale e la propria dirigenza ad un puntuale rispetto della normativa anti-discriminazione, per definire metodi di reazione e risposta immediata da adottare nei confronti di richieste discriminatorie avanzate dalle imprese utilizzatrici e per sensibilizzare queste ultime ad adottare pratiche non discriminatorie (ad es. COPAS- Conseil en Pratiques et Analyses Sociales – EU Fond Social Européen, Impact et effects des actions de lutte contre la discrimination au sein d’Adecco. Tali materiali possono essere reperiti sul sito: www.adecco.fr/resources/copas2003_new.pdf).

 

Appare evidente che nella maggior parte dei casi, le pratiche discriminatorie eventualmente compiute da società di intermediazione di manodopera, ma anche da società di intermediazione immobiliare, vengono motivate dai diretti interessati nell’esigenza di non contrastare le idiosincrasie a sfondo razzistico dei clienti. Tale giustificazione, tuttavia, non può essere accettata dalle corti di giustizia. Emblematico, al riguardo, un caso francese, riguardante un’impresa che aveva richiesto di selezionare dei distributori di cataloghi commerciali escludendo persone di colore perché “a loro la gente apre le porte più difficilmente”. Il giudice penale francese condannò ugualmente tanto l’impresa, quanto coloro che avevano proceduto alla selezione (cit. in Paolo Morozzo della Rocca, Immigrazione: profili normativi e orientamenti giurisprudenziali, Utet, Torino, pag. 262).

 

 

 

 

 

RASSEGNA STAMPA

 

I.               TRIESTE – MOBBING IN CASERMA, MARESCIALLO CONDANNATO. Un anno e due mesi per le offese a un sottoposto di origine vietnamita – “Il Piccolo”, 21 gennaio 2007.

 

Nelle pagine di cronaca del quotidiano di Trieste ”Il Piccolo” (edizione del 21 gennaio 2007) viene pubblicato un articolo sul procedimento giudiziario conclusosi dinanzi al Tribunale militare di Padova con la condanna ad un anno e due mesi di reclusione con i doppi benefici di legge nei confronti di un maresciallo dei carabinieri in servizio a Trieste per i reati di ingiurie e diffamazione aggravata nei confronti di un collega a lui sottoposto di origini vietnamite, escludendo peraltro l’applicazione dell’aggravante della finalità di discriminazione entico-razziale. La parte lesa è un giovane carabiniere, cittadino italiano, nato in Italia da rifugiati vietnamiti giunti in Italia negli anni ’70 a seguito delle operazioni di salvataggio dei “boat-people” e dei programmi di reinsediamento, il quale, dopo aver preso servizio presso una caserma di Trieste, è rimasto vittima di un comportamento vessatorio messo in atto dal maresciallo suo superiore, che lo ha costretto a lavori umili, nonostante le qualifiche possedute, e lo ha sottoposto a ripetute e continuate nel tempo ingiurie e diffamazioni.

 

 

 

Nota di commento

Pur riservandosi un giudizio più approfondito dopo la lettura della sentenza, attualmente non disponibile, desta perplessità il fatto che il collegio del Tribunale militare di Padova abbia escluso nel caso in questione l’aggravante della finalità di discriminazione etnica e razziale e, dunque l’applicazione dell’art. 3 della legge n. 205/1993 (“legge Mancino”), nonostante le frasi ingiuriose e diffamatorie facessero direttamente ed esplicitamente riferimento alle origini etnico-nazionali e alla storia familiare della parte lesa. Dal resoconto di stampa, si evince infatti che sarebbe stato confermato in giudizio che il maresciallo dei carabinieri avrebbe proferito nei confronti del subalterno frasi del tipo: “gli americani non hanno fatto il loro dovere in Vietnam con il napalm. Te lo do io un pugno di riso”, oppure “a quel vietnamita gli do un sacco di riso e lo lascio un mese in carraia”, oppure “non ce l’ho con lui ma con gli americani che non hanno finito il lavoro, potevano affondarlo quando è venuto con la chiatta”.

Si rammenta infatti che la Corte di Cassazione ha riconosciuto che il reato di ingiuria aggravata dalla discriminazione etnico-razziale sussiste quando vengono usate locuzioni e frasi volte ad offendere e ledere l’altrui dignità affermando un disconoscimento di uguaglianza ovvero una condizione di altrui inferiorità giuridica o sociale rapportata all’identità nazionale, etnica o religiosa dell’altrui persona (n. 9381/2006- sez. V penale). In una precedente sentenza, la Corte di Cassazione ha sostenuto che l’indirizzarsi costantemente ad una persona (nel caso in questione un collega di lavoro) con il termine di “marocchino”, cioè sostantivando l’aggettivo che riflette la provenienza etnico-nazionale di una persona, anziché usando il suo nome o cognome, ed accompagnando tale appellativo con evidenti atteggiamenti o frasi di scherno e dileggio, connota il reato di ingiuria aggravata dalla finalità di discriminazione etnico-razziale (Sentenza n. 19378/2005 sez. V penale).

 

 

 

 

 

SITI INTERNET

 

Autorità Nazionali contro le discriminazioni razziali e giurisprudenza straniera

 

UNITED KINGDOM

Commission for Racial Equality

La Commissione per l’eguaglianza razziale è stata costituita a seguito dell’approvazione della legge sulle relazioni razziali del 1976. Sebbene venga finanziata dal Dipartimento per le comunità e l’autogoverno locale, agisce come agenzia indipendente dal governo.

 

http://www.cre.gov.uk/index.html

 

 

 

 

SEGNALAZIONI RIVISTE

 

1. European Anti-Discrimination Law Review

A cura dell’European Network of Legal Experts in the non-discrimination Field, edita da Human European Consultancy, Utrecht, e da Migration Policy Group, Brussels.

Disponibile on-line: http://www.migpolgroup.com/documents/3615.html

 

Sull’edizione n. 4 della rivista, disponibile on-line in lingua inglese, francese e tedesca, articoli sui seguenti argomenti:

-        la discriminazione razziale istituzionale e sistematica e l’approccio restrittivo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo;

-        lo spostamento dell’onere della prova nei casi di discriminazione razziale nella legislazione e giurisprudenza degli Stati membri dell’Unione Europea dopo l’entrata in vigore della direttiva n. 2000/43/CE;

-        attese ed aspettative per il 2007, anno europeo delle Pari Opportunità;

-        schede di aggiornamento sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e della Corte europea dei diritti umani nei casi di discriminazione;

-        Sviluppi nella giurisprudenza e nella legislazione degli Stati membri dell’Unione Europea.

 

 

 

2. DIRITTO, IMMIGRAZIONE E CITTADINANZA

 

Rivista trimestrale promossa da Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e da Magistratura Democratica (MD), Franco Angeli Editore.

Sul quarto numero della rivista per l’anno 2006, si segnalano, fra l’altro, i seguenti articoli:

 

L’elusione dei provvedimenti giudiziali antidiscriminazione, di Angela Baraldi ;

Dipendenti pubblici extracomunitari? Il no della Cassazione e il si dei giudici di merito: una questione ancora irrisolta, di Francesco Buffa (commento alla giurisprudenza);

La Corte costituzionale e le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini extracomunitari. Nota a sentenza n. 324/2006, di Marco Paggi (commento alla giurisprudenza).

http://www.francoangeli.it/riviste/sommario.asp?IDRivista=89