NEWSLETTER N. 2
12 GENNAIO 2007

 

SERVIZIO DI SUPPORTO GIURIDICO

 

 

SOMMARIO

 

 

GIURISPRUDENZA

 

 

1. IL REATO PENALE DI COMPIMENTO DI ATTI DI DISCRIMINAZIONE.

 

Due sentenze della Corte di Cassazione confermano che la condotta del gestore di un esercizio pubblico, che si rifiuti di servire, all’interno del locale, clienti stranieri in quanto cittadini extracomunitari, integra il delitto di compimento di atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici, previsto dall’art. 3, comma 1, L. 25 giugno 1993 n. 205.

 

2. DISCRIMINAZIONE ED ACCESSO AL PUBBLICO IMPIEGO.

 

a) Nonostante la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione contraria all’accesso degli stranieri non comunitari al Pubblico Impiego, il Tribunale di Perugia si pronuncia favorevolmente all’accesso di una cittadina iraniana ad un concorso indetto dall’ASL di Perugia per l’esercizio di una professione sanitaria.

b) Nella Regione Friuli-Venezia Giulia, la legge regionale sull’immigrazione sancisce il diritto dei cittadini non comunitari regolarmente residenti all’accesso ai posti pubblici regionali senza discriminazioni.

 

 

 

RAPPORTI E DOCUMENTI

 

1. L’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia (EUMC) pubblica un rapporto sul fenomeno

dell’islamofobia nell’Unione Europea e della discriminazione cui sono oggetto persone di religione

musulmana.

 

 

RASSEGNA STAMPA

 

 

 

SITI INTERNET


GIURISPRUDENZA

 

 

1.    IL REATO PENALE DI COMPIMENTO DI ATTI DI DISCRIMINAZIONE.

 

Suprema Corte di Cassazione, Sez. III – Penale, n. 37733, depositata il 16.11.2006

Suprema Corte di Cassazione, Sez. III – Penale, n. 46783, depositata il 21.12.2005

 

Integra il delitto di compimento di atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici, previsto dall’art. 3, comma 1, L. 25 giugno 1993 n. 205, la condotta del gestore di un esercizio pubblico che si rifiuti di servire, all’interno del locale, clienti stranieri in quanto cittadini extracomunitari, anche se tale condotta sia sporadica e non abituale. Non vale ad escludere l’elemento psicologico del reato l’aver agito per ovviare ad una situazione di pericolo riferita in modo aprioristico e generalizzato ad una categoria di persone qualificata dal fatto di essere “nordafricana” e perciò clandestina, nullafacente e senza fissa dimora. Nella condotta è configurabile il suindicato delitto e non la violazione amministrativa di cui all’art. 187 T.U.L.P.S., in quanto essa non si sostanzia nel mancato esercizio dell’attività commerciale ad personam, ma è qualificata dall’aspetto discriminatorio.

 

Con la sentenza n. 37733 depositata in data 16 novembre 2006, la Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Venezia, che aveva confermato la condanna pronunciata nel primo grado di giudizio dal Tribunale di Verona nei confronti di una cittadina italiana di Verona, titolare di un bar, per aver commesso atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici in violazione dell’art. 3 c. 1 lett. a) della legge n. 205/1993 (meglio conosciuta come “legge Mancino”), rifiutandosi di servire alcuni cittadini extracomunitari nordafricani a causa unicamente della loro appartenenza etnico-razziale.

 

La citata sentenza segue ad una analoga, pronunciata dalla medesima Corte di Cassazione in data 21.12.2005 (n. 46783, sez. III- penale), che ha reso definitiva la condanna pronunciata dal Tribunale di Verona nei confronti questa volta del fratello dell’imputata, gestore dell’esercizio, in relazione ai medesimi fatti.

 

Le due sentenze della Corte di Cassazione sono rilevanti non solo perché attengono ad una fattispecie penale – il compimento di atti di discriminazione etnico-razziale di cui all’art. 3 c. 1 lett. a) della l. 205/1993 - che ha trovato sinora rarissima applicazione nel nostro paese, ma anche perché offrono interessanti chiarimenti e considerazioni attinenti alle questioni del rapporto tra la citata normativa penale in materia di contrasto alle discriminazioni razziali e quella civile contenuta nella normativa sull’immigrazione (artt.43 e 44 d.lgs. n. 286/98), poi arricchita dalle norme attuative della direttiva europea in materia (d.lgs. n. 215/2003).

 

Nel ricorso presentato dal gestore del bar, questi aveva dedotto che la compresenza nell’ordinamento delle norme sull’azione civile contro la discriminazione di cui al T.U. sull’immigrazione con quelle penali volti a reprimere chi commetta atti di discriminazione per motivi etnici o razziali (art. 3 c. 1 lett. a della l. 654/1975 così come modificato dalla l. 205/93 e più recentemente dalla legge n. 85/2006), dovrebbe far ritenere che non tutti gli atti di discriminazione debbano necessariamente integrare gli estremi del delitto previsto dalla fattispecie penale, per la sussistenza del quale è necessario provare l’elemento aggiuntivo psicologico e, dunque, soggettivo del reato, cioè il dolo specifico, che sarebbe ravvisabile esclusivamente nell’odio razziale. Quest’ultimo, a detta di entrambi i ricorrenti, sarebbe mancato, in quanto il comportamento di rifiuto a servire i cittadini nordafricani non sarebbe stato dettato dall’elemento ideologico dell’odio razziale, bensì dalla paura nei loro confronti, in ragione di asseriti episodi di disordine che si sarebbero verificati in alcuni bar delle vicinanze per l’abuso nel bere da parte di taluni nord-africani e che avrebbero determinato la chiusura dei locali.

Nel dirimere la questione, il giudice delle leggi afferma innanzitutto che tra le norme di cui alla legge n. 205/93 e quelle del T.U. sull’immigrazione (artt. 43 e 44) non sussiste alcun rapporto di specialità. In altri termini, il legislatore, prevedendo l’azione civile contro la discriminazione, non ha inteso assorbirvi e dunque eliminare le eventuali conseguenze penali dell’atto compiuto previste dalla normativa penale, che può quindi dare origine ad un separato procedimento, sebbene in relazione ad un medesimo fatto.

Il Giudice delle leggi, nel negare un rapporto di specialità, rileva il carattere distinto dei beni giuridici tutelati dalle rispettive norme: quelle penali miranti ad assicurare pari dignità sociale ai cittadini di ogni Stato ed a reprimere penalmente i comportamenti che costituiscono espressione di discriminazione razziale o etnica, quelle civili miranti ad assicurare un meccanismo giurisdizionale idoneo a far cessare in tempi rapidi comportamenti discriminatori e a consentire la possibilità del risarcimento dei conseguenti danni anche non patrimoniali.

Il rapporto tra i due complessi normativi sussiste solo in quanto la normativa civile, ponendo con l’art. 43 T.U. e con il d.lgs. n. 215/03 la nozione di discriminazione etnico-razziale, viene così a definire l’elemento oggettivo della fattispecie del reato di compimento di atti di discriminazione; reato, che potrà tuttavia configurarsi solo se al fatto discriminatorio in sé si accompagnerà il dolo specifico da parte di colui che lo commette, cioè la coscienza e volontà soggettiva di offendere l’altrui dignità umana in considerazione della razza, dell’etnia o della religione dei soggetti nei cui confronti la condotta viene posta in essere (Cassazione sez. III pen., 10.01.2002, n. 7421).

La distinzione è importante, in quanto il legislatore nel T.U. sull’immigrazione, riprendendo quanto contenuto nella Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite del 1966, ha definito la discriminazione come “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, colore, ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento , il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali […]” [sottolineatura nostra].

La menzione dello “scopo o dell’effetto” contribuisce a ricomprendere nella definizione in esame non solo le condotte attuate con la specifica intenzione di nuocere, ma anche quelle che, prive di intento lesivo, comportino comunque un effetto pregiudizievole. In questi casi, la presenza di un’oggettiva discriminazione legittimerà comunque un’azione civile per la cessazione della medesima ed il risarcimento del danno anche non patrimoniale, ma l’assenza di intento lesivo e di dolo non renderà perseguibile penalmente colui che l’abbia commessa. In merito, per un interessante caso di giurisprudenza, si segnala la pronuncia del Tribunale di Bologna, ord. 22.02.2001, che con riferimento all’omessa schermatura sul viso della persona di pelle nera in una fotografia non autorizzata pubblicata su un periodico, al contrario di quanto effettuato sul viso della persona di pelle bianca, ha ritenuto irrilevante la circostanza, adotta dalla parte che aveva posto in essere il comportamento, che ciò fosse da attribuirsi ad un errore tecnico di valutazione del grafico che aveva il compito di impostare la pagina, concludendo per l’avvenuta discriminazione ai sensi dell’art. 43 del T.U. in relazione all’avvenuta lesione del diritto all’immagine e all’identità personale.

E’ dunque corretto che non tutti gli atti di discriminazione integrano gli estremi del delitto di compimento di atti di discriminazione di cui all’art. 3 l. 654/75 e successive modificazioni, per la sussistenza del quale occorre l’ulteriore prova dell’esistenza del dolo, ma è certamente discutibile quanto asserito dal ricorrente che il dolo possa sussistere solo in presenza di una motivazione ideologica dettata da odio razziale. In una precedente pronuncia la Corte di Cassazione ha analizzato il significato del termine “odio”, definendolo come un “sentimento estremo di avversione implicante il desiderio del maggior male possibile per chi ne forma oggetto” e muovendo da tale assunto aveva dedotto che non si debbano qualificare automaticamente come odio nel senso anzidetto tutti i generici sentimenti o manifestazioni di antipatia, insofferenza, rifiuto, quand’anche essi siano riconducibili a motivazioni di tipo razziale, etnico, religioso o nazionale (Cass. n. 44295/05). Nelle sentenze qui in esame, la Cassazione non si è soffermata più di tanto sull’argomento sollevato dai ricorrenti, respingendolo più in linea di fatto che di diritto, in ragione della presenza di evidenze di una condotta tenuta dagli imputati atta a comprovare che l’atto discriminatorio rivolto nei confronti dei cittadini africani non era affatto determinato da ragioni di sicurezza e di paura, bensì proprio da odio razziale. Purtuttavia, la Corte di Cassazione nella più recente sentenza, ha la premura di rilevare che l’argomento della ricorrente, secondo la quale ella non era mossa da odio razziale, bensì da sentimenti di insicurezza e paura proiettati sui clienti nord-africani nella loro generalità, senza distinzione tra le singole situazioni individuali, appare infondato proprio perché “l’aver riferito la situazione di pericolo, in modo aprioristico e generalizzato, ad una determinata categoria di persone, significa qualificare in termini di discriminazione razziale il comportamento espressione di quel timore”. Quindi, ci sembra di poter affermare che quand’anche non fosse riscontrabile un sentimento negativo di grado così estremo tale da essere definito quale odio razziale, il reato di compimento di atti di discriminazione razziale sussisterebbe ugualmente nel caso in cui venisse provata la consapevolezza e volontà di discriminare e conseguentemente di ledere la dignità altrui, per effetto di pregiudizi o stereotipi etnico-razziali che portino ad estendere ad un’intera categoria di persone tratti e comportamenti negativi che eventualmente possono appartenere solo ad alcuni membri di un gruppo, con ciò violando il diritto di ogni persona di essere considerata nella sua individualità.

 

Le sentenze della Cassazione infine affermano la distinzione tra il reato penale contestato di compimento di atti di discriminazione e l’illecito amministrativo ex art. 187 del TULPS “che sancisce il divieto per l’esercente di rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo”. In caso di condotte come quella in oggetto, è la norma penale a dover essere applicata in quanto, al contrario dell’altra, essa sanziona non un mero rifiuto di prestazioni richieste, ma un rifiuto qualificato dall’aspetto discriminatorio che lo caratterizza in maniera specifica.

 

 

Consulta le sentenze:

 

La sentenza della Corte di Cassazione n. 37733 dd. 16.11.2006

 

La sentenza della Corte di Cassazione n. 46783 dd. 21.12.2005

 

 

 

2. DISCRIMINAZIONE ED ACCESSO AL PUBBLICO IMPIEGO.

a) Nonostante la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione contraria

all’accesso degli stranieri non comunitari al Pubblico Impiego, il Tribunale di

Perugia si pronuncia favorevolmente all’accesso di una cittadina iraniana ad un

concorso indetto dall’ASL di Perugia per l’esercizio di una professione sanitaria.

b) Nella Regione Friuli-Venezia Giulia, la legge regionale sull’immigrazione sancisce

il diritto dei cittadini non comunitari regolarmente residenti all’accesso ai posti

pubblici regionali senza discriminazioni.

 

 

a) In tema di discriminazione ed accesso degli stranieri non comunitari al pubblico impiego, il Tribunale di Perugia con ordinanza dd. 6 dicembre 2006, in accoglimento di un ricorso presentato dall’avv. Francesco Di Pietro di Perugia, ha ordinato l’Azienda Sanitaria Locale ASL di Perugia di inserire la ricorrente, cittadina iraniana, nelle graduatorie di due concorsi, per soli titoli, a dirigente di anestesista. La pronuncia del Tribunale di Perugia è significativa per due aspetti:

i) innanzitutto è successiva alla sentenza della Corte di Cassazione n. 24170 /2006 che si era espressa per l’esclusione degli stranieri non comunitari dal pubblico impiego (sul punto vedasi il n. 1 della presente Newsletter, nonché per approfondimenti si segnala: Francesco Di Pietro, “Pubblico Impiego solo per i cittadini UE”, in “D&G – Diritto e Giustizia”, n. 44/2006, p. 19).

ii) è la prima ordinanza riguardante concorsi per soli titoli. Nella pronuncia del tribunale di Perugia, il giudice ordina all’ente di inserire la ricorrente nelle graduatorie già formate, e quindi di “aggiornarle”. Le precedenti pronunce dei tribunali civili favorevoli ai ricorrenti cittadini stranieri riguardavano concorsi per titoli ed esami, ed il giudice ordinava di permettere la partecipazione dei ricorrenti alle prove concorsuali.

 

Consulta l’Ordinanza del Tribunale di Perugia

 

b) La Regione Friuli-Venezia Giulia ha emanato nel dicembre scorso quattro bandi di concorso pubblico per titoli ed esami per l’accesso a quattro distinti posti di lavoro (specialista amministrativo-economico, specialista tecnico-psicologo, specialista turistico-culturale, assistente tecnico televisivo), con assunzione a tempo indeterminato (B.U.R. n. 50 del 13 dicembre 2006), ammettendo alla partecipazione ai relativi concorsi anche i cittadini stranieri immigrati, legalmente soggiornanti.

L’ammissione dei cittadini stranieri di Paesi terzi al pubblico impiego, sebbene soltanto nell’ambito dell’ordinamento regionale del F.V.G., costituisce senza dubbio una positiva novità e si inserisce nel dibattito e nel confronto sulla questione che ha visto sinora orientamenti giurisprudenziali differenziati accompagnati da una sostanziale chiusura espressa in proposito dal governo centrale. L’atteggiamento di apertura della Regione Friuli-Venezia Giulia trae le sue origini dalla norma introdotta nella legge regionale 4 marzo 2005, n. 5 (“Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati”) e specificamente l’art. 27 della medesima: “In conformità ai principi di cui all’art. 2, commi 2 e 3, del decreto legislativo 286/98, è riconosciuto alle cittadine e ai cittadini stranieri immigrati, legalmente soggiornanti, il diritto di partecipare a concorsi per l’accesso al pubblico impiego, indetti nell’ambito dell’ordinamento regionale, che per esplicita previsione normativa non siano riservati in via esclusiva ai cittadini italiani” (Bollettino Ufficiale della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Supplemento straordinario al n. 10 dd. 09.03.2005)

L’orientamento e l’approccio normativo della Regione Friuli-Venezia Giulia vanno certo annoverati come una buona prassi in materia di parità di trattamento e non discriminazione, ma una soluzione definitiva della questione potrà giungere soltanto da una riforma normativa a livello nazionale, di cui si auspicherebbe la realizzazione nell’ambito della prospettata iniziativa di riforma della legge sull’immigrazione.

 

 

 

RAPPORTI E DOCUMENTI

 

 

1. L’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia (EUMC) pubblica un rapporto sul fenomeno dell’islamofobia nell’Unione Europea e della discriminazione cui sono oggetto persone di religione musulmana.

 

Il rapporto “Muslims in the European Union: Discrimination and Islamophobia” (I musulmani nell’Unione Europea: discriminazione e islamofobia), pubblicato dall’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia (EUMC), presenta i dati disponibili sulla discriminazione cui sono soggetti persone di religione musulmana sul mercato del lavoro, nel campo dell’istruzione e nella ricerca di un’abitazione. La ricerca illustra numerosi episodi improntati all’islamofobia registrati nei diversi paesi dell’Unione Europea: dalle offese verbali, alle aggressioni fisiche fino al danneggiamento di beni ed istituzioni. L’Osservatorio rileva peraltro come la carenza di dati renda difficile quantificare la natura esatta e le dimensioni del fenomeno. A tale riguardo, sottolinea che solo un Stato membro, ossia il Regno Unito, pubblica dati specifici riguardanti i reati di odio ai danni dei musulmani.

Nel rapporto, l’Osservatorio riporta una rassegna di esempi di buone prassi, provenienti da enti di governo nazionale o locale, da ONG ed altri, riscontrate in diversi Stati membri, proponendo inoltre una serie di soluzioni pratiche. Contemporaneamente al rapporto, l’EUMC ha pubblicato inoltre uno studio incentrato sulla percezione della discriminazione religiosa e dell’islamofobia (Perceptions of Discrimination and Islamophobia). Tale studio è basato su colloqui approfonditi tenuti con i membri di organizzazioni musulmane e gruppi giovanili musulmani in dieci Stati membri dell’UE. Queste interviste rappresentano un’istantanea delle opinioni, delle sensazioni, dei timori, delle frustrazioni come pure delle speranze che pesano sul futuro di molti musulmani nell’Unione Europea.

 

Consulta i rapporti:

 

Muslims in the European Union: Discrimination and Islamophobia

 

Perceptions of Discriminations and Islamophobia

 

http://eumc.europa.eu

 

 

L’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e di xenofobia (EUMC) è stato istituito con regolamento n. 1035/97 (CE) del Consiglio nel 1997 ed ha sede a Vienna. L’Osservatorio è un’agenzia dell’Unione Europea con lo scopo di raccogliere dati e formulare pareri e proposte al fine di sostenere gli sforzi dell’Unione Europea nella lotta contro il razzismo, la xenofobia e l’antisemitismo. A partire dal 2007, l’EUMC diverrà l’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali.

 

 

 

 

 

 

 

RASSEGNA STAMPA

 

I.               CIVITANOVA MARCHE – GIOVANE DI COLORE ACCUSA: “LICENZIATO PER RAZZISMO”. La storia di un commesso francese – “Il Resto del Carlino” – 6 gennaio 2007.

 

Nelle pagine di cronaca del quotidiano “Il Resto del Carlino” (edizione del 6 gennaio 2007) viene pubblicato un articolo sulla vicenda di un cittadino francese di colore, il quale dopo essere stato assunto come commesso in un negozio di moda di Civitanova Marche, viene improvvisamente licenziato dopo alcuni giorni con il pretesto di non saper piegare le maglie. L’interessato spiega di non credere alla veridicità di tale motivazione, avendo avuto esperienza professionale nel campo della moda e avendo già lavorato in boutique di alta moda a Parigi, ma ritiene che dietro al comportamento dei titolari dell’esercizio vi possano essere state considerazioni di carattere discriminatorio, ovvero il timore che un commesso di colore potesse allontanare i clienti.

 

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II.   AOSTA – “SEI DI COLORE, IN SALA NON VAI BENE”- Ristoratore rifiuta di

assumere una ragazza – “La Repubblica”- 4 gennaio 2007.

 

Nelle pagine di cronaca del quotidiano “La Repubblica” (edizione del 4 gennaio 2007), viene riportata la vicenda di una ragazza italiana di colore, nata in Zaire, adottata da una coppia di sardi, la quale recatasi a lavorare come cameriera stagionale in una pizzeria di Derby, provincia di Aosta, a seguito dell’annuncio pubblicato su un giornale sardo e di conseguenti accordi presi per via telefonica con i titolari dell’esercizio, pure loro di origine sarda, si è vista rifiutare l’assunzione non appena i titolari si rendevano conto del suo colore della pelle.

A seguito della vicenda e del successivo intervento a sostegno della ragazza da parte dell’Associazione degli Albergatori della Valle d’Aosta e dal Presidente della Regione, alla ragazza è stata offerta una possibilità alternativa di lavoro presso un albergo nei pressi di Aosta ( ”La Repubblica” 11 gennaio 2007).

 

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III.            TREVISO – “INSULTI PER IL VELO: PROCESSO PER RAZZISMO”. Marocchina aggredita in banca è assistita da un’associazione del governo [l’UNAR sic]. La giovane donna è stata ingiuriata da una trevigiana che le ha gridato “sporca assassina, siete tutti delinquenti”. Lei l’ha denunciata. – “La Tribuna” – 16 dicembre 2006.

 

Nelle pagine di cronaca del quotidiano locale di Treviso “La Tribuna” (gruppo editoriale L’Espresso), nell’edizione del 16 dicembre 2006, viene riportata la vicenda dell’aggressione verbale e delle ingiurie subite da una donna marocchina da parte di una cittadina trevigiana all’ingresso di un istituto bancario. Stando alla ricostruzione dei fatti riportata dal giornale, la donna marocchina, indossante il velo islamico, uscendo da un istituto bancario cittadino, si trova dinanzi a sé una donna, mai vista prima, che si appresta ad entrare nell’edificio. Quest’ultima, dopo averla fissata per un istante, la apostrofa in malo modo inveendole contro frasi ingiuriose. A seguito della denuncia della vittima e dell’identificazione compiuta dalla polizia della persona rea, quest’ultima viene rinviata a giudizio dinanzi al giudice di pace per il reato di ingiuria, ma senza l’aggravante della finalità della discriminazione o dell’odio etnico o religioso di cui all’art. 3 della legge n. 205/1993. Solo a seguito dell’intervento dell’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni Razziali presso il Ministero delle Pari Opportunità), e dietro apposita istanza dell’avvocato della parte lesa, la Procura sarà chiamata a considerare la revisione del capo di imputazione con la conseguente contestazione del reato di ingiuria aggravata dalla motivazione dell’odio razziale o religioso.

 

NOTA DEL REDATTORE:

La vicenda è esemplare perché dimostra l’insufficiente conoscenza da parte delle forze dell’ordine della normativa penale di contrasto al razzismo e alle discriminazioni razziali e religiose ( legge n. 205/1993 meglio conosciuta come “legge Mancino”) la quale prevede una circostanza aggravante per tutti i reati punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi con finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, comportante non solo un aumento di pena fino alla metà (art. 3), ma soprattutto la procedibilità d’ufficio e non a querela di parte (art. 6 comma 1). Ciò vale dunque anche per i reati di ingiuria a sfondo razziale o religioso, quanto mai diffusi nel nostro paese, come l’episodio di Treviso sembra dimostrare.

 

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SITI INTERNET

 

Autorità Nazionali contro le discriminazioni razziali e giurisprudenza straniera

 

FRANCIA

Haute Autorité de Lutte contre les Discriminations et pour l’Egalité (HALDE)

www.halde.fr

 

Recenti sviluppi giurisprudenziali

 

i)                Il tribunale di Parigi ha condannato in data 16 novembre 2006 il proprietario di un alloggio al pagamento di un ammenda pari a 3000 euro in ragione del rifiuto discriminatorio da lui opposto ad un cittadino straniero alla locazione dell’immobile. Il tribunale aveva accertato che il rifiuto era stato determinato unicamente dallo status di straniero della persona lesa, con ciò determinando la commissione di un reato di discriminazione in base all’art. 225 – 1 del codice penale francese. Tribunale di Parigi n° 0527808779 .

 

Consulta iI testo della sentenza

 

 

ii)               In data 8 novembre 2006, la Corte Suprema di Cassazione ha confermato l’annullamento di un licenziamento per colpa grave di cui era stato oggetto un lavoratore che aveva fatto presente al proprio superiore i propositi razzisti di un collega responsabile del personale. La Corte ha concluso che tale comunicazione aveva avuto un carattere confidenziale ed uno scopo compatibile con le funzioni dell’istante, il quale in quanto membro del comitato di direzione dell’impresa, aveva l’obbligo di assicurare il rispetto dell’etica. Il datore di lavoro aveva rimproverato al lavoratore una diffamazione nei confronti del collega, in quanto non avrebbe apportato prove a sostegno delle sue affermazioni. La Corte di Cassazione sottolinea che, in presenza di dubbi sulla verità dei fatti, il beneficio del dubbio deve andare a vantaggio dell’istante, fintantoché non sia possibile provare la sua cattiva fede. Cass. N.° 05-41504 – 08/11/2006

 

Consulta il testo della sentenza

 

 

 

BELGIO

Centre pour l'égalité des chances et la lutte contre le racisme (Centro per le Pari Opportunità e la lotta contro il razzismo)

www.diversite.be

 

Recenti sviluppi giurisprudenziali

 

i)                La Corte di Maaseik ha ritenuto conforme alla legge il provvedimento assunto dall’autorità cittadina di proibire il burqa o niqab in quanto pericoloso per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico.

ii)               Un uomo è stato condannato a 4 mesi di detenzione e al pagamento di una somma di 1,650 euro a titolo di rimborso del danno morale per il reato di incitamento alla discriminazione razziale per aver insultato un uomo di colore all’interno di un fast food (maggio 2006).

iii)              Il 21 giugno scorso i gestori di un sito web sono stati condannati a dieci mesi di prigione e al pagamento di una multa parti a 15,000 euro per atti di antisemitismo, negazione dell’Olocausto e incitamento all’odio razziale.

iv)             Il 7 giugno scorso, i leader di un partito di estrema destra “Mouvement pour la Nation” sono stati condannati a pene varianti da 6 a 10 mesi di detenzione con l’applicazione della condizionale per la distribuzione di materiale contenente incitamento all’odio etnico e razziale.

 

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SUCARDROM

Istituto di Cultura Sinta

Ente Morale Opera Nomadi Sezione di Mantova

 

http://www.sucardrom.eu